INDICE (FAI SCORRERE E "CLICCA" SULLE "VOCI")
- MORBI, MALATTIE: LE GRANDI MANIFESTAZIONI EPIDEMICHE [DIGITALIZZAZIONE DEL DELLA PESTILENZA DI G. B. BALIANI (BALIANO)]
-MEDICI E MEDICINA (UFFICIALE E POPOLARE)
-STRUMENTAZIONE CLINICA E CHIRUGICA [SUA EVOLUZIONE - INVENZIONE STORICA DEL MICROSCOPIO]
-VELENI E ANTIDOTI, FILTRI VARI DELLA MEDICINA POPOLARE: PATOLOGIE CRIMINALI E NON DA AVVELENAMENTO
-SVENTURE NATURALI, PERICOLI DELL'ECO-SISTEMA: CARESTIE - INCENDI
-SVENTURE NATURALI, PERICOLI DELL'ECO-SISTEMA: I GRANDI PREDATORI ANIMALI DELL'HABITAT LIGURE
-SVENTURE ESISTENZIALI: SCHIAVI E SERVI, SCHIAVI DI GUERRA-SCHIAVI DI NATURA
-"ANIMALI" NERI DI FIABE, MITI E REALTA': DAGLI ANIMALI FAVOLOSI/ANIMALI MITICI ANCORA ALL' ANTRO DELLA BESTIA E QUINDI DALL' UOMO NERO ALL'ORCO E FINALMENTE A ZOOANTROPIA E UOMINI BESTIA E QUINDI AI MOSTRI/MUTANTI
A proposito della prima, ma non unica epidemia di
PESTE BUBBONICA
quella del 1347-1348 (nel '49 a differenza che per il Piemonte non era più attestata nel Ponente ligure) la mancanza di drammatiche relazioni su documenti originali fu dovuta al fatto che le autorità, fra incomprensione e paura, non vollero sollevare il panico sulle popolazioni già depresse da gravi eventi ambientali e bellici.
Tra le varie calamità che precedettero la peste bubbonica, si menziona [dati recuperati dalla Storia di Ventimiglia di Girolamo Rossi] nel 1230 una siccità di otto mesi che rovinò i raccolti e fu causa di grave carestia: si sparse la voce, data la visione apocalittica preannunciata da tali eventi che responsabili della diffusione della malattia della peste nera potessero anche essere stati gli Ebrei al punto che per evitare loro persecuzioni e massacri dovette intervenire con una sua bolla Papa Clemente VI.
Nel 1330 si ebbero quindi piogge e alluvioni sì che molti campi furono spazzati via dalle inondazioni e le sementi andarono disperse. Nel 1339 sopraggiunse un'invasione di locuste, probabilmente giunte dalle coste africane sulla scia di una stagione ventosa.
Un certo recupero pareva avvenire se di colpo le piogge del 1345-6 non avessero aggravata la situazione.
Poco prima della peste del 1348, secondo documenti letti sempre da G. Rossi, si sarebbe manifestato per queste contrade un indecifrabile morbo epidemico che dapprima colpì i gallinacei per poi falcidiare i bambini piccoli ed i lattanti.
Esistono dati insufficienti per stabilire la correlazione dell'epidemia, forse generata da un morbo aviare trasmissibile all' uomo.
Notizie più precise riguardano la MORTE NERA o PESTE BUBBONICA di poco oltre metà '500, quella che Hecker ed Heser han dimostrato esser stata la prima manifestazione di PESTE BUBBONICA in Europa e che sarebbe stata portata dai Tartari in Crimea e successivamente dai RATTI, che infestavano le navi genovesi, nell'Occidente europeo.
Approdata a Messina la malattia si estese all' Italia (ove morì presumibilmente più di un terzo della popolazione) e quindi giunse in Francia e Provenza, donde penetrò nelle valli del Ponente ligure.
Le manifestazioni cliniche, per la CONCEZIONE che nell'epoca si aveva della MALATTIA in generale e specificatamente di questo "nuovo" terribile MORBO DELLA PESTE risultavano sconvolgenti agli occhi dei MEDICI del tempo, incapaci -ed ancora per secoli lo sarebbero stati attesi i limiti culturali e diagnostici- di qualsiasi terapia: si ricorse ai SALASSI, all'assunzione di erbe e pozioni erroneamente ritenute profilattiche , in particolare i MEDICI per non essere contagiati visitavano i malati tenendo davanti alla bocca una SPUGNA IMBEVUTA DI ACETO, espediente ritenuto, naturalmente a torto, di una qualche utilità contro le incomprensibili esalazioni pestilenziali.
Generalmente in 2 - 5 giorni sopraggiungeva in quanti eran stati contagiati, o dalle PULCI del RATTO o da individui malati per via di ectoparassiti, una febbre altissima, quasi concomitante alla comparsa di linfonodi.
La violenta reazione infiammatoria, susseguente al processo di fusione dei linfonodi, generava la formazione di un "bubbone", frequentemente localizzato in sede inguinale e capace di raggiungere la dimensione di un'arancia.
Gli appestati se per cause naturali non sopravvivevano al morbo, conseguendo poi una buona immunità, eran destinati alla morte, che giungeva dopo un periodo di gran sete e disidratazione, spesso congiunte ad uno stato stuporale o confusionale.
Le processioni, che come ovunque in Italia ed Europa caratterizzarono anche il Ponente ligure, furono un rituale religioso per nulla opportuno in quanto la concentrazione di folle favoriva il contagio.
Ma in effetti a nessuno era noto contra cosa si combattesse, se si trattasse davvero di una malattia o non piuttosto di qualche premonizione d'APOCALISSE per i peccati degli uomini od ancora dello scatenamento di forze diaboliche evocate da servi malvagi di Satana.
Convinzione meno popolare di quanto si creda e che aprì la strada, ancora molto inesplorata ma sicuramente bagnata di sangue, della CACCIA A STREGHE ED UNTORI: dai fondamentali scritti di Pietro Verri (in particolare attento a sanzionare il pericolo dei contagi determinato dalle processioni devozionali) e Alessandro Manzoni si evince finalmente tra '700 ed '800 la sostanza dei fatti e la dimensione di simile tragedia umana.
La peste del '48 doveva esser stata terribile se dopo dieci anni ancora gran parte del territorio agricolo del contado intemelio era in crisi: secondo alcuni interpreti il morbo sarebbe stato introdotto dalla Provenza mentre altri, tenendo conto dei commerci centralizzati sul porto canale di Nervia, ipotizzano un contagio portato, come nel caso di Marsiglia, da qualche nave genovese, sì da sostenere con qualche fondamento, che il Male sia risalito per le vie del Sale e la Strada del Nervia fin nel Basso Piemonte dove peraltro si manifestò un anno più tardi che nel resto d'Italia, verso il pieno '49.
Dal MARTIROLOGIO trecentesco, che il Rossi scoprì nella cattedrale ventimigliese, si apprende che l' epidemia dapprima era giunta nella valle (1347) e successivamente in Ventimiglia (20 aprile 1348) e quindi nelle sue ville, dove si sarebbe conclusa un anno dopo (1349) rispetto a Dolceacqua, Pigna ed altri borghi: in assenza di barriere sanitarie la diffusione del morbo procedeva quindi sulle linee commerciali e questa anticipazione di contagio in val Nervia sembrerebbe da collegare all'intensità di commercianti da terre lontane che vi giungevano, in numero superiore che a Ventimiglia città murata, procedendo per la via di sublitorale o risalendovi dopo esser giunti per mare all'approdo di Nervia.
Negli agri vallivi, a differenza che nella mercantile Ventimiglia e nell'area marinara di Bordighera, si viveva soprattutto di agricoltura e zootecnia; le terre inaridirono presto perché la popolazione temeva, lavorandole, di esporsi al contagio: divennero deserte anche le bandite dei pastori, si arrestò la transumanza, molti animali rimasti senza cure o morirono o, fuggendo, ritornarono allo stato selvatico.
-. La peste a Dolceacqua dovette peraltro avere esiti terrificanti: Girolamo Rossi pubblicò nel testo originale latino (Storia del Marchesato....cit, doc. XXI, originale pergamenaceo conservato in Archivio Comunale di Dolceacqua) l' unico documento davvero importante sulla peste in val Nervia: era una "Sentenza arbitrale tra Ruffino vescovo intemelio, i canonici della cattedrale e la comunità di Dolceacqua" (25 settembre 1358) motivata dalla risoluzione di controversie fiscali (il Vescovo non percepiva da anni il censo o DECIME dovute dalla comunità alla Cattedrale ed aveva INTERDETTO dal culto abitanti di Dolceacqua: questi al contrario adducevano l'impossibilità di corrispondere il dovuto per la gravissima situazione socioeconomca che persisteva ancora 10 anni dopo la fine dell' epidemia).
Il notaio Vivaldo Rubia, nel palazzo episcopale di Ventimiglia, alla presenza del Vescovo, dei Sindaci e Procuratori di Dolceacqua oltre che di testimoni di rango, redasse dopo il vespro la conclusione pacifica della vertenza.
Per descrivere la grave situazione del borgo egli annotò "...dal giorno della mortalità portata dalla peste, che devastò grandemente le terre tutte del mondo ed in particolare i luoghi di Dolceacqua nell' intiero anno 1348.....ed anche a riguardo delle guerre e delle liti che, durante il persistere della controversia (col Vescovo), sorsero tra detti uomini di Dolceacqua sì da favorire il nemici che fomentava le discordie, di modo che detti uomini diminuirono in numero ed in beni, poiché a ragione della loro miseria e povertà non furono in grado di versare il reddito dovuto (al Vescovo) né possono versarlo ora e tantomeno potranno in futuro pagare i menzionati seicento quartini di frumento, mentre gli stessi uomini di Dolceacqua, per la miseria e la mancanza di gente nei campi e per l'aridità delle terre che coltivano, le quali peraltro danno pochi frutti se non e spesso alcun frutto, a malapena sono in grado di sostenere se stessi ed il vitto dei congiunti...".
Non esiste la necessità di commentare questo quadro disastroso di MORBO e CARESTIA: lo stesso Vescovo di fronte ad inoppugnabili testimonianze dovette ridimensionare la pretesa di decime che da secoli la sua chiesa raccoglieva nel territorio dolceacquino.
Egli rinunciò ad esigere il frumento di produzione locale (300 mine) ed accettò il pagamento delle decime secondo un nuovo canone, per cui ad ogni "mina" venne dato il valore di un fiorino d' oro.
Concordate le parti in Dolceacqua fu salvato il patrimonio delle sementi (dato il rincaro del grano conveniva versare denaro liquido secondo il valore teorico che il prodotto aveva prima della pestilenza): gli abitanti del borgo poterono così rientrare nella Cristianità, essendo stato tolto l'INTERDETTO, sì da cominciare a rivivere i sacramenti e l'ordinaria vita socio-comunitaria degli Ordinamenti ecclesiastici.
I Francescani acquisirono grandi meriti pei soccorsi portati alle popolazioni derelitte sia di Ventimiglia che dei centri rurali delle ville come dell'entroterra e vennero presto gratificati di gran seguito e varie donazioni: il Rossi sostenne al riguardo che grazie a ciò essi avrebbero potuto erigere in Ventimiglia una più ampia casa conventuale (Storia della città di Ventimiglia..., p. 459) anche se a parere di ricercatori più moderni si va sostenendo che con quei donativi i Frati minori avessero semmai ristrutturata la Casa in cui già vivevano ed in cui risulterebbero ancora visibili facies di interventi architettonici di rammodernamento della II metà del XIX secolo.
La II metà del 1300, come testimonia il calo demografico e l' abbandono di alcuni siti, fu caratterizzata da altre grandi paure che condizionarono vari atteggiamenti culturali.
Al primo posto, fra i terrori estranei ai contagi ed alla lebbra, nel medioevo e nell'età intermedia si collocava il timore delle CARESTIE e della fame.
Documento utilissimo sulla CARESTIA è una pergamena contenente una sentenza di concordato fra Imperiale Doria ed i Procuratori del Comune dolceacquino del 31-V-1364 (Storia del Marchesato...cit., p.74). Oltre a varie norme conciliatrici, che permettono di intuire come 15 anni dopo la grande peste del 1348 - '49 se ne dovessero riparare i danni ambientali, si legge che il Doria era tenuto a concedere libertà di commercio ai sudditi con la sola eccezione del tempo di carestia. Per intendere giuridicamente il concetto di carestia il notaio e cancelliere Raffaele di Casanova precisò "che si giudica carestia ogni volta che una mina di grano costa in detta terra di Dolceacqua due fiorini d'oro o più di tal prezzo".
Il Signore poteva interdire le attività commerciali solo in ragione di emergenze assolute: contestualmente si nota che Dolceacqua in tempi normali produceva beni per commercio ed autoconsumo (nel documento si ricordò la consuetudine signorile di rinchiudere nei magazzeni del castello il vino e le vettovaglie in casi di assedio o carestia: fermo restando l'obbligo, finita l'emergenza, di restituire i beni ai legittimi proprietari).
E' però dal MANOSCRITTO BOREA che si raccolgono le notizie più significative sul succedersi di CARESTIE nel Ponente di Liguria; tra le annate più perniciose, anche perché spesso la CARESTIA interagiva con CONDIZIONI CLIMATICHE ESTREMAMENTE NEGATIVE, vengono citati gli ANNI 1649, 1665, 1682, 1694, 1708, 1786, 1812.
Contestualmente potevano agire negativamente sul tessuto socio-economico e produttivo, oltre che demografico, una serie di fattori la cui rilevanza nei tempi moderni può sembrare relativa: tra le emergenze negative si possono menzionare i cataclismi ambientali (come nell'occorrenza di siccità, alluvioni o manifestazioni sismiche e/o terremoti) passaggi di truppe e soldatesche varie che saccheggiavano ogni cosa (come durante la guerra di successione al trono imperiale di metà '700) le infestazioni di animali nocivi e/o parassiti (massimamente di lupi vera calamità per animali domestici, armenti e greggi), i non rari tracolli sanitari (specie per strutturale carenza igienico sanitaria e profilattica) come in occasioni di grandi forme epidemiche (in particolare di peste e colera).
E' peraltro da menzionare che un'aggravante dello stato periodico di CARESTIA era la persistenza di molteplici forme di SUPERSTIZIONE per cui sia determinati tipi di patologie erano connessi alla CREDENZA DI FORZE DEMONIACHE come nella fattispecie di PESTE ED UNTORI sia la stessa CARESTIA era collegata all'ipotesi di ARTIFICI MAGICI, delirante credenza che in Liguria occidentale si era effettivamente sostanziata nel CASO DELLE "STREGHE DI TRIORA" (ma non ridotta a tale contesto attese altre credenze e procedure avverso streghe e maghi del ponente ligure)
Dopo il "terrore di pesti e fame" veniva quella "delle malattie contagiose ed endemiche". Fra le patologie endemiche la lebbra, dovuta ad ingestione di cereali di bassa qualità ed a pessime condizioni esistenziali ed ambientali, aveva iniziato a regredire in Europa proprio da questo periodo, anche se l'esistenza a Ventimiglia di un hospitalis per leprosi intitolato a S. Lazzaro e l' ordinanza delle autorità di Dolceacqua che i lebbrosi sian separati dal popolo affermano che il vecchio terrore per il morbo fosse ancora vivissimo.
L'impaludamento del porto canale sul Nervia e sul Roia, il proliferare di canneti selvatici (come nell'area di Bordighera ma anche alle foci di Nervia e Roia, specie nel sito dei "Paschei" area dell'attuale casa comunale di Ventimiglia) l'ignoranza delle tecniche romane sulle arginature di acque fluviali avevano determinato la riproduzione della zanzara anofele. Sia la malaria maligna (terzana continua) che la benigna (duplicis o triplicis) vennero citate fra le cause di morte, anche se a volte si alluse solo ad "inspiegabili febbri": le comunità non furono tuttavia molto spaventate da questo pericolo, anche se le norme pubbliche ribadivano l'utilità di canalizzare le acque e prosciugare i luoghi paludosi.
In merito a ciò può esser utile citare una Lettera di Ser Teofrasto Mastigoforo al Sig.r Filippo Buttari da Osimo scritta nell’anno 1744 in cui si legge a giudizio dell'areale intemelio: “l’aria è pestilenziale, e non può esser di più. Se è non mi crede, vada a guardar solo in viso i grami abitatori, e si chiarirà nel suo dubbio che lo fa manifesto il lor colore che pare cera gialla di candele” quindi “è giuocoforza di soggiornare in Villa per isfuggire l’aria nocivissima e pestilenziale di Ventimiglia” (Il fascicolo è conservato in A.S.G. ms.595 [Comuni e Terre lettera “V”] n.159).
Tale considerazione induce a valutare una lettera, scoperta e studiata da Antonio Martino di Savona, del notaio originario di Sassello (SV) Gio.Batta Gavotti di Sassello operante nel 1750 la sua attività a Ventimiglia (ufficio nel quartiere dell'
Oliveto), quindi a Bussana e a Taggia (ufficio nel quartiere Pantano) .
Il 8 novembre morì sua moglie
ed egli annotò:
"è passata da questa all'altra vita la detta mia consorte con aver prima
sofferta una malattia cronica dalla metà circa d'agosto fino al giorno
della
sua morte ed il di lei cadavere si è sepellito nella chiesa de RR.PP.
della
Annunziata fuori di Ventimiglia. Fin dalli primi giorni di sua malattia
che
si trovò con grave pericolo fece atti dal Not.Simone Maria Muraglia nel
luogo di Bordighera, dove si trovammo a caso di cambiare aria, nel quale
fece legato a mio favore delle lire 300 ".
Interpretando l'espressione "cambiare aria" il Martino pensò proprio ad una forma di malaria (altresì connessa al fatto che pure tutti i figli
del notaio che videro la luce in Ventimiglia morirono in età infantile).
L'ergotismo o "fuoco di S.Antonio" nel XIII-XIV sec. risultava assai temuto: il male dipendeva da un'alimentazione di farina di segale e di sorgo contaminata dal fungo simbiante della Claviceps Purpurea. Le manifestazioni dell'ergotismo erano così gravi da sgomentare chiunque: sia nella forma convulsiva con terribili dolori che in quella cancrenosa, con necrosi di volto e arti. La presenza di monaci antoniani nell'estremo Ponente ligure coincise con l'evoluzione colturale della SEGALE (XII - XV sec.) e poi aggredita dalla parassitosi dell'ERGOT sino alla degenerazione della SEGALE CORNUTA (ma all'epoca la patologia era connessa erroneamente al RAFANO da cui il RAFANISMO): questo Ordine preposto alla cura del "male ardente" fu spesso favorito dai patrizi locali (non si dimentichi che la parrocchiale di Dolceacqua è evoluzione di una cappella feudale dedicata a S.Antonio dai Signori del luogo e che i Conti intemeli eran votati a S. Antonio ed avevano lo stemma araldico della lotta contro l'ergotismo). I frati antoniani godevano di alcuni previlegi per la loro attività terapeutica: la concessione più vistosa era la libertà di circolazione pei loro maiali, segnati con il tau antoniano o con l'orecchio mozzato. Lo sviluppo dell'allevamento dei maiali in queste terre fu collegato proprio con l'influsso locale delle precettorie antoniane: il grasso suino costituiva infatti l'elemento base di tutti gli unguenti usati contro le irritazioni erpetiche e cancrenose dell'ergotismo (anche se i religiosi di questo Ordine, a differenza d'altri monaci, caldeggiavano l'abluzione in acque terapeutiche o termali da quella celebre di Lago Pigo a Pigna in alta valle del Nervia, utile contro dermatosi e dermatiti, a quelle di altre numerosi sorgenti, compresa la fonte solforosa che sorgeva non lontano da N.S. della Rota tra Bordighera ed Ospedaletti).
Diversa la questione a riguardo delle grandi epidemie di peste bubbonica tra XVI e XVII secc. in Liguria.
Nel 1564 un TERREMOTO (citato anche dall'utile Manoscritto Borea) aveva minato Ventimiglia ed il suo territorio: e peraltro alla Sezione dell'Archivio di Stato di Ventimiglia è analizzabile un documento del 3 e 6 giugno 1566 - Capitaneato di Ventimiglia, filza 66
in cui sono descritti i danni causati da un terremoto nel castel vechio e nel castel della pena con l'indicazione degli interventi opportuni, con l'indicazione dei relativi costi.
L'analisi del sisma, che causò danni così gravi da poter esser riparati solo dopo alcuni anni, non è semplicissima ma da un'attenta RICOSTRUZIONE DEGLI EVENTI prende corpo l'idea che il ventimigliese sia stato provato da una serie di sismi anteriormente al tragico 20 luglio 1564 in cui Nizza fu gravemente colpita dal terremoto..
Poco dopo si sparse per la Liguria (come in molte altre contrade d'Italia) una grave EPIDEMIA di
PESTE BUBBONICA
tragicamente nota come
LA GRANDE MORTE NERA.
***
La pestilenza del 1579-80 nel Dominio di Genova
(la peste ed il Ponente ligure)
Con un COMUNICATO dirigistico ma non drammatico gli "Ufficiali di Sanità di Ventimiglia" iniziarono il loro oggi interessantissimo CARTEGGIO sull' EPIDEMIA DI PESTE BUBBONICA.
La pestilenza, già presente in focolai europei, comparve in Italia a Trento nel 1574, poi nel 1575 a Palermo e Messina e tra il 1576-77 in città del Settentrione per approdare in Liguria (Savignone) nel 1578.
Nel Genovesato esplose tra 1579 e 1580 decimando la popolazione della capitale ed imperversò sino al 4/XI/1580: neppure mancarono voci sulla presenza di UNTORI.
La giurisdizione di Ventimiglia non fu colpita ma ACCERCHIATA DALLA PESTE che da Albenga a Loano si era estesa a Ceriale ed oltre fino a Sanremo per comparire nel Nizzardo e da qui giungere al rastrello dei Balzi Rossi.
L' "Ufficio di Sanità" e i suoi Magistrati dirigevano un sistema di controllo, tenuto per via di "residenti" che potevano far disporre dei blocchi, tenuti da armati, appunto i RASTRELLI, controllare i viaggiatori e le loro PATENTI DI SANITA', inibire i traffici e bloccare i porti.
Ogni tutela era dettata dagli effetti di un male di alta mortalità con dolori di vario tipo, terribilmente manifesti nell'esteriorità di una febbre altissima associata a convulsioni e di rigonfiamenti o bubboni sparsi per il corpo: si vociferò che in Genova l'avesse portata, con una borsa piena di panni infetti, un misterioso viaggiatore o che ne fossero stati responsabili gli Spagnoli, reduci dalla Sicilia con Don Giovanni d'Austria, sbarcati a Voltri e con destinazione Milano attraverso la valle Polcevera (la letteratura medica del tempo non rifuggì dalle superstizioni delle perniciose combinazioni astrali, dei venti pestilenziali o dell'abnormità concettuale di DIABOLICI UNTORI).
Per il timore di essere investiti dal male, le genti del ponente ligure da un lato non mancarono di abbandonarsi ad azioni tragiche come la LAPIDAZIONE di uno sciagurato transfuga da Ceriana o l'arresto più o meno motivato di vari viaggiatori ma anche si dimostrarono solidali con la sventurata Genova minata dal morbo cui furono inviati dal Capitanato intemelio utili soccorsi.
Il CONTAGIO PESTILENZIALE del 1579 - 1580 fece solo a Genova diecine di migliaia di vittime nonostante l'opera di MEDICI che si accostavano ai malati indossando una sorta di tuta protettiva con un bizzarro casco provvisto di una sorta di filtro riempito di sostanze aromatiche, ritenuto erroneamente (secondo una seriosa sequela di specifici TRATTATI) di una qualche efficacia contro i miasmi pestilenziali e nonostante si desse gran credito ad un farmaco nuovo di origine popolare noto come ACETO DEI QUATTRO (O DEI SETTE) LADRI.
L'inspiegabilità della patogenesi connessa a parassiti dei ratti aveva finito per creare intorno alla peste un vero e proprio mito infernale: ed i passeggeri che, guardinghi, procedevano per strade deserte si soffermavano madidi di sudore al risuonare di quello che per molti era il segno del maligno, una sorta di riso sardonico che, al contrario, era la risultanza di mille rumori esasperati dalla fantasia ammalata ed impauriti, il serpeggiare dello squittire di ratti morenti ai bordi delle strade, nei rivoli maleodoranti, ai bordi delle condotte a cielo aperto in cui andavano cercando, dall'acqua, un qualche refrigerio all'arsura che li divorava.
Fatti molto tempo dopo scientificamente spiegati, come nel XIV secolo, si caricavano anche nel tardo 500 di interpretazioni magiche e non raramente venivano tirate in causa le arti stregonesche parlandosi più o meno apertamente di streghe votate allla pratica di varie forme di magia tempestaria tra cui, nel dettaglio, quella di causare malattie mortali ad uomini ed animali
La figura della strega stava però decadendo sia a fronte dell'immaginario collettivo che dell giustizia dello Stato e della Chiesa: si preferiva oramai parlare piuttosto di UNTORI.
Per ricevere i compensi di un patto diabolico (ad es. l'immortalità) gli UNTORI, come detta il loro stesso nome, avrebbero unto di sostanza propagatrice di peste, le abitazioni delle città fra XIV e XVII secolo.
Sorprendentemente, a prova delle contraddizioni epocali, mentre contro la peste ci si serviva alla luce del sole, quando possibile e quindi fra altri consimili "prodotti", di un particolare SPECIFICO [nella medicina antica un FARMACO IDONEO A CURARE UNA SPECIFICA MALATTIA], per la precisione una costosa e quantomeno discutibile combinazione alchimistica , permeata di fantasie improponibili per qualsiasi disciplina empirica, come l'Olio contravveleno, sciroppo di scorpione bollito realizzato presso l'Officina farmaceutica granducale di Firenze, al contrario parecchi innocenti e severi alchimisti, colpiti da infamanti accuse caddero vittime di superstiziose paure e cacce feroci [in nome del rigore critico v'è comunque da dire che, per quanto la credenza fosse diffusa, non si son scoperte moltissime tracce documentarie sugli Untori, un pò per la dispersione del materiale ed ancor più per l'assenza di ricerche moderne a vasto raggio].
Uno SPECIFICO ritenuto un preservativo o meglio ancora un vero e proprio antidoto alla peste, secondo la tradizione susseguente alla pestilenza in Milano del 1630, sarebbe stato composto da cera nuova once tre, olio d’oliva once due; olio di Hellera, olio di sasso, foglie di aneto, orbaghe di lauro peste, salvia, rosmarino, once mezza per ciascuno; un poco d’aceto, il tutto doveva esser bollito si da ridurlo a una pasta con la quale si sarebbero dovute ungere le narici, le tempie, i polsi e le piante dei piedi, dopo aver mangiato cipolle, aglio e bevuto aceto.
Escludendo il milanesato ove il fenomeno persecutorio fu eclatante e peraltro sancito ufficialmente dall'autorità attraverso apposite Gride [Grida] (vedi F. NICOLINI, La peste del 1629-1632, in Storia di Milano, Fondaz. Treccani degli Alfieri, Milano 1953-1966, vol.X, pp.499-564) si hanno sì indicazioni, un pò per tutto il '500, di processi e roghi contro Untori nella città e territorio di Ginevra (E.W.MONTER, Witchcraft in Geneva, 1537-1662, in "Journal of Modern History", XLIII, 1971, pp.183-184) ed ancora nella Savoia (G.PARKER, The army of Flanders and the Spanish road, 1567-1659, University Press, Cambridge, 1975, p.66) ma altrove la mappa degli untori non è facile da disegnare anche perché, di fronte a sospetti di unture o di propagazione del contagio (esulando scientemente dalle definizioni fin troppo decise ed esplicite dei testi inquisitoriali ecclesiastici) negli atti del braccio secolare non sempre venne usato questo epiteto al fine di indicare malefici avvelenatori (un poco per non seminare "panico superstizioso" e molto di più onde non cedere spazio ed azione all'invadenza del Santo Ufficio: si veda al proposito con quanta prudenza terminologica - pur alludendosi anche a veneficij compiuti per via magica [e quindi implicitamente all'opera di UNTORI] - sia stato redatto sugli "avvelenamenti" - il capo X del II libro dei genovesi Statuti Criminali di Genova.
Eppure la giustizia penale nel '500, noto col '600 come secolo dei veleni, ebbe sempre a che fare cogli "avvelenamenti" (di cui erano state escogitate varie forme e tecniche: compresa l'usanza di prezzolare la servitù corrotta di qualche nemico perché ne spalmasse le posate od i piatti con unguenti tossici) contro cui (visto il mistero che aleggiava sull'onnipotente - e probabilmente solo fantasioso - antidoto di Mitridate, il "contravveleno per eccellenza" usato dal re orientale nemico di Roma) sino all'Ottocento, tempo in cui persistevano i "fanatici" delle sostanze velenose, si usava la Triaca o più propriamente "Teriaca", antidoto classico - dalle svariate composizioni - riconosciuto ancora validissimo dalla farmacopea ufficiale francese di fine XIX sec.: una sorta, piuttosto elementare però, di Teriaca è anche quella che tra II e III sec. d.C., in un'epoca di instabilità del governo imperiale in cui i veleni servivano per risolvere certe controversie di potere, Quinto Sereno Sammonico registrò nel suo Liber medicinalis (ora edito a c. di C. Ruffato per la "Strenna '96"-U.T.E.T.-Torino) alla ricetta 60 ("Degli Antidoti") e dove si legge che "Per tutelarsi dalla perfidia d'una ostile/ matrigna o di qualche invidioso che si arrovella/ per la tua fortuna bisogna predisporre una condotta cautelare per gli avvelenamenti/ inattesi (in effetti nel '500 i potenti ed i re, ma anche parecchi nobili ed agiati cittadini, escogitarono la formula un pò macabra del "servo assaggiatore dei cibi"). Come antipasto mangiare dunque delle noci. Le coppe d'elettro cangianti/ svelano il veleno. E' poi opportuno bere/ un decotto di corteccia di quercia/ o prendere dei fichi sott'olio. La divinità/ ha sovente prescritto come alimento/ il rafano..." anche se poi, non funzionando - come probabile - alcuna cautela, nella successiva formula del ricettario medicinale l'erudito romano annotò pure una "Terapia contro gli avvelenamenti": in qualche caso - ancora nel '500 e vista la fama di Sereno Sammonico - suggerita dai medici stessi alle vittime dei veleni: "Qualora le cautele non riescano ad evitare/ l'orribile veleno urgono le cure atte/ ad espellere la sostanza assorbita./ Si afferma l'efficacia del latte d'asina/ e di mucca tranquilla ( per Plinio seniore ed altri medici antichi - ma è altresì un espediente d'un certo reale effetto - il latte possedeva qualche proprietà contro alcuni veleni proteggendo la mucosa gastrica e limitando l'assorbimento di particolari tossine). La maggioranza/ prende l'erba betonica con poco vino./ L'assaporare il succo dell'edera, che avviluppa/ gli alberi elevati, nelle coppe, renderà/ innocue quelle che qualcuno avrà inquinato/ con erbe velenose. La rapida frenesia/ indotta da ingestione di giusquiamo/ potrà essere alleviata con latte di capra (come lo "stramonio" era "veleno di streghe", il "GIUSQUIAMO" si definiva spesso "veleno di donne" per la sua maneggevolezza e facile reperibilità e le donne, ricorrendo all'astuzia ed alle sostanze tossiche contro varie angherie maschili, non mancarono nel '500 di ricorrervi: il giusquiamo infatti, somministrato a dosi elevate, determina frenesia, allucinazioni e fatale collasso, spesso non riconosciuto dai medici del tempo in virtù dell'usanza di soprassedere ad un'indagine oculata sul cadavere e tantomeno da un'ispezione necroscopica adeguata, specialmente quando si riusciva a mascherare il sospetto di un possibile delitto)].
Prescindendo comunque dal discorso, qui incidentale dei veri e propri "crimini d'avvelenamento", la questione degli Untori, delle pozioni stregonesche e dei diabolici veleni fu sempre causa di discussioni e contrasti interpretativi: ad esempio, nello stesso periodo, parecchi medici pur errando - peraltro in modo comprensibile vista la carenza di strumenti di indagine - ma senza mai coinvolgere Satana (sulla scorta di Claudio Galeno che aveva perfezionato il pensiero ippocratico dei "miasmi" generatori di epidemie) addebitavano le pestilenze a "corruzione dell'aria", prodotta da esalazioni di paludi e fetidi stagni, dalle contaminazioni dell'ambiente, dall'ammasso di grandi depositi di immondizie di vario genere, dall'uso d'abbandonare all'aperto alla putrefazione carogne d'animali ed anche cadaveri umani: per questa abitudine di lasciare ovunque ogni sorta di sporcizia, spesso per trascuratezza ma talora con intenti delinquenziali, gli Statuti Criminali di Genova - libro II, capo LXXXVIII, minacciavano severe pene contro chi lasciasse volontariamente dell'immondizia davanti alle porte di casa di vicini od altre persone.
Comunque nel contesto della GRANDE MORTE NERA del XVI secolo (come poi anche del XVII secolo) l'elemento costante fu il terrore dell'incomprensibile, una paura folle contro cui poco valevano conforti religiosi o consigli medici: e così i morti restavano spesso insepolti o frettolosamente e miseramente erano inumati, al limite cospargendoli di calcce viva: non sussisteva alcun riguardo del grande apparato funebre ben codificato poi nel XVII da F. Dolfi ed i cimiteri diventavano sempre più luoghi di degrado estranei ad ogni cautelativa igienica (in questo contesto le pur discusse normative di Napoleone sulle riforme in materia cimiteriale non furono fenomeno illuministico fine a se stesso ma la risultanza di un dibattito in essere a vari livelli di cui ci offre spunti anche l'enigmatico estensore del qui citato Manoscritto Wenzel laddove in particolare registra varie osservazioni di clinici illustri sulla necessità di ridisegnare le tecniche di seppellimento.
All'interno di questa cinquecentesca temperie di orrori, che coniugava sacro e profano, superstizione e presupposti scientifici,
il Capitanato di Ventimiglia rimase tuttavia immune dal contagio per la solerzia degli Ufficiali di Sanità ai cui ordini erano le guardie armate ai rastrelli e con cui collaborarono strettamente, più dei Savoia, i Doria di Dolceacqua ed i Grimaldi di Monaco.
Comunque per il timore della peste la popolazione, di tutto l'agro intemelio, abbandonò la linea costiera con grave detrimento per le colture, specie nella buona piana nervina: tutti temevano i contagiati di peste che, di notte e per via di mare, cercavano di sfuggire all'internamento nei Lazzaretti sbarcando sulle zone incustodite della spiaggia intemelia.
Il 26-IV-1580 il Signore di Monaco, Onorato Grimaldi scrisse preoccupato agli Ufficiali di Sanità intemeli che "...quelli di Nizza tengano il male nascosto per conto delli vicini e che sotterrano li morti di notte....
Lo stesso Signore invitava gli Ufficiali di Ventimiglia a star ben attenti a quanto arrivasse dal mare, magari rovesciato o gettato da navi in corsa od in fuga: il suo consiglio era quello di raccogliere con lunghe pertiche il materiale portato a riva dal mare e di non toccarlo assolutamente con le mani ma di provvedere immediatamente a bruciarlo.
Queste precauzioni, confortate dalla sorveglianza assidua delle guardie delle torri e dei rastrelli, impedirono la propagazione dell'epidemia (che non superò l'agro di Sanremo).
Dopo la GRANDE EPIDEMIA DEL 1579 - 1580 le cose, per l'ESTREMO PONENTE LIGURE, migliorarono ancora dal lato igienico sanitario sino a quando poco oltre metà '600 (1656/1657) una
SECONDA TRAGICA EPIDEMIA DI PESTE,
in qualche modo preannunciata in una sua celebre opera
(qui integralmente digitalizzata)
dallo scienziato
GIOVANNI BATTISTA BALIANI (BALIANO)
che ancora PROSTRO' GENOVA E IL SUO DOMINIO, lasciando invece immune il territorio del Capitanato di Ventimiglia: nulla però potè frenare la paura collettiva e la fuga della gente dai luoghi più esposti, con indubbi danni per la vita di relazione, il commercio e la cura dei campi.
Le notizie che giungevano dalle CONTRADE INFETTE erano peraltro terrificanti, la MEDICINA non dava risultati di alcun genere, i supposti PREVENTIVI (o PROFILATTICI) risultavano inutili come scrisse Fra Maria Antero in un suo LIBRO SULLA PESTILENZA A GENOVA in qualche modo destinato ad essere un tragico corollario esplicativo della sconvolgente TELA SULLE ROVINE CAUSATE DAL MORBO realizzato dal pittore Domenico Fiasella su pubblica commissione per far sì che nessuno giammai si dimenticasse di tante morti e tanto gravi rovine.
I primi casi si ebbero nel luglio del '56 quando si contarono trecento morti a settembre.
Il numero dei decessi crebbe in modo quasi esponenziale in breve tempo: furono grossomodo 2500 tra ottobre e dicembre.
Poi l'epidemia parve subire un rallentamento con circa un migliaio di decessi tra i mesi di gennaio e aprile.
Un preavviso della tragedia si ebbe nel mese di maggio con un grave incremento della mortalità: oltre mille morti in trenta giorni.
Da questo momento l'epidemia prese veramente a dilagare arrivandosi a contare da cento a duecento sino a quattrocento ed ancor più decessi al giorno nel periodo compreso tra conclusione di giugno e prima decade di luglio.
D. PRESOTTO (Genova 1656-1657. Cronache di una pestilenza, in "Atti della Società ligure di Storia patria", n.s. V, 1965, pp. 402-3) trascrivendo una lettera di Gio Bernardo Veneroso è riuscito ad offrire l'impressione più efficace del generale quadro di desolazione:"...rinforzò di modo il male... che i morti crebbero a più di 1200 al giorno. Morsero la maggior parte de' commissarij, tutti i luogotenenti, tutti i capistrada... Si vedevano per le strade cumuli et montagne di morti, roba infinita gettata dalle finestre et molte pazzamente abbrugiate. Per seppellire li morti mancarono nell'istesso tempo tutti li beccamorti; somministrarno cento schiavi volontarij per volta ma questi non erano provvigione che per uno o due giorni, poi ancor essi aumentavano il numero da seppellirsi... Mancarono tutti li ministri et operaij et essendo la nobiltà et li Senatori alle ville, a loro ancora mancò il modo di venire alla città; facchini seggettarij non vi erano, li lettighieri tutti morti et il venire a piedi era un esporsi certamente alla morte, ... sì che cessarono tutti li magistrati compreso l'istesso magistrato della Sanità; si trovarono a Palazzo da 4 a 5 Senatori con il Duce, a' quali restò il pensiero di tutti i magistrati e di tutta la città per il politico, per la sanita, per la guerra, per l'abbondanza e per tutto quello che poteva occorrere, il tutto senza ministri, senza sbirri, senza tragette, tutti morti, senza soldatesche si puol dire, poiché di 2000 si ridussero a meno di 500, di modo che appena vi restava l'apparenza della guardia delli posti opportuni...".
Prima della pestilenza si era computata una popolazione di 73.170 residenti in Genova. Di questi appena tre o quattromila rimasero immuni dalla pestilenza: per quanto concerne gli altri, la mortalità raggiunse percentuali del 60-70% ed in ultimo addirittura dell' all'80 - 90%.
Le moderne ricostruzioni hanno convalidato le stime fatte al tempo dell'epidemia e si è quindi quasi certi che i genovesi falciati dalla morte nera siano da inquadrare in un numero oscillante fra i 45.000 ed i 55.000 individui (il Dominio pagò un tributo solo lievemente inferiore a quello della capitale).
Ancora una volta la maggiore mortalità serpeggiò fra le classi povere ma, a differenza di quanto accadde per la peste del cinquecento, pure i nobili non vennero risparmiati e versarono un tributo di numerose vittime.
Ancora più numerosi risultarono i morti per l'epidemia tra la media borghesia, con un danno di non poco conto per una ripresa del settore produttivo e artigianale.
In merito a ciò Suor Francesca Maria Raggi del convento di Santa Brigida lasciò scritto:"Chi può descrivere il numero delle persone morte del secondo ordine? Di questa sorte di mercanti et artigiani grossi che erano il sustentamento della città ne sono rimasti pochi..." (lettera ancora trascritta dal Presotto a p. 414 del suo lavoro).
L'erudito intemelio ANGELICO APROSIO fu testimone oculare del GRANDE MALE CHE ANDAVA FALCIANDO GENOVA: ne lasciò testimonianza nel capitolo dello Scudo di Rinaldo (parte II), dove all'interlocutore siciliano, al suo pari erudito, Giovanni Ventimiglia dedicò il Capitolo XI, dal titolo "Se nel conversare con donna povera vi sia maggior pericolo d'inciampare che in conversando con Donna ricca", e dove si legge a prolusione:
"Al Signor Giovanni Ventimiglia.
Mentre un giorno tutto ansioso, e non senza tema d'esser ferito dal pestifero contagio [la peste del 1656-7 a Genova], il quale ha poco meno che desolato l'emporio Regio delle onde Liguistiche, me n'andava passeggiando per Banchi, m'incontrai per buona sorte nel nostro dottissimo Daniele Spinola, e da esso intesi qualmente nel bel principio, che si scuoprì il male in Roma, imbarcatasi in Livorno verso Sicilia, se ne fusse tornata in Messina a ripatriare. Io [p. 338] ne lodai il Signore: che per altro haverei temuto non fusse seguito di essa come del virtuosissimo HERRICO e d ' altri amici. Iddio ha voluto preservarla per lassare a posteri la vera idea d'un buon cittadino, mentre anco dopo il corso di CCC anni, che li suoi ascendenti partirono di qua per ricevere ne la fertil Sicania eccelsi honori, non viene punto scemato il suo affetto verso questa distrutta Città, potendo dire ciascuno de' suoi cittadini: Fuimus Troes.
Spero nondimeno di vederla risorta [Ventimiglia] nelli suoi eruditissimi fogli, risorgendo novella Fenice a più bella vita, che non poté ricevere da suoi edificatori primieri; mentre non perdonando a spesa non lassa di far rivolgere sossopra gli Archivi per disotterrare le più nascoste memorie.
Anch'io una fiata mi ero invogliato di adornare cotesta Sparta: ma tirata da altre cure son stato astretto a mutar pensiero, non lassando di sollecitare il nostro concittadino Domino Gieronimo Lanteri, il quale dato principio alla Topografia di essa, quale a luogo e tempo sarà veduta da Vostra Signoria, la quale in questo mentre si compiacerà dare un'occhiata a queste poche osservationi, che io faccio intorno al conversar con le Donne, o siano di conditione povere, o ricche ..." [339].
Non è dato sapere se Aprosio scrisse materialmente nella Genova appestata del suo tempo queste parole: è dato invece sapere che ritornò nell'immune Ventimiglia affidando la sua sorte alla sorte, a qualche compiacente aiuto, e so9prattutto ad un vigoroso destriero ma portando nel cuore la consapevolezza del dramma universale: una consapevolezza su cui tornò a meditare in tempi posteriori con pensosa e dolente riflessione sulla fugacità della vita attesa la morte prematura di tanti suoi eruditi amici.
Di storia più recente furono i contagi settecenteschi di vaiolo e soprattutto di COLERA, contro i quali parimenti si attivò il sistema difensivo delle torri e dei rastrelli oltre che l'uso di una precisa mappa delle ripartizioni di Sanità, con l'indicazione degli uomini preposti ai luoghi di controllo (specie sul mare), che per ordine della Signoria di Genova il cartografo colonnello Vinzoni, circa a metà '700, avrebbe perfettamente delineato nel suo bellissimo e completo Atlante di Sanità.
La Liguria occidentale è "terra a rischio sismico" e vari son stati i TERREMOTI che l'hanno colpita: sicuramente, a prescindere dagli indubbi problemi idrogeologici cui fa cenno l'Aprosio nel suo REPERTORIO BIBLIOTECONOMICO, fu grave un SISMA poco dopo la META' DEL XVI SECOLO (1564) che mise in ginocchio non solo Ventimiglia ma molti altri centri, liguri, sabaudi e pertinenti sia alla Provenza che alle Alpi Marittime (non è forse casuale che un decennio dopo molte famiglie dell'agro ventimigliese emigrino in massa verso la Corsica denunciando il loro stato di prostrazione)
Prescindendo da quanto resterà per sempre ignoto, a proposito di questa terra speleologicamente complessa è comunque scientificamente doveroso riprendere dal Manoscritto Borea -apportando via via gli opportuni arricchimenti di documentazione critica- i TERREMOTI più significativi della Liguria occidentale, quelli cioè del 1564 - 1638 - 1755 - 1782 - 1808 (noto quale Terremoto di Pinerolo impropriamente datato al 1807 nel Manoscritto Borea) - 1812 - 1817 - 1818 - 1819 - 1820 - 1821 - 1829 - 1831 - 1832.
2. - Fin qui però non si pensò più lontano della Chiesa. Si sospettò,
sì, da taluni, che da quelle scosse potea esserne venuto qualche pò di paura
nelle case; ma non si sospettarono danni e disastri, perché nulla s'era visto
rovinare in Chiesa. Io, ad esempio, per mia parte sospettai che case, come
la mia Canonica, pregiudicate antecedentemente, si fossero aggravate - ma
non credeva che ciò fosse in gran proporzione; giacché facea conto che in
Chiesa la cosa fosse apparsa più grave, atteso l'argomento del predicatore,
cui eravamo tutti intenti; e la vastità della Chiesa stessa; e l'oscurità della
notte, che non ancor ivi dissipata nulla ci lasciava vedere -. Quando però
uscimmo di Chiesa, e si riportò sulla piazza che il paese sotto la Chiesa
era mezzo diroccato - che vi era gente a salvare dentro finestre riparatasi -
che si teme siane altra rimasta vittima sotto le macerie - che altri grondano
sangue ed altri morenti: mio Dio! fuori me stesso, piangendo, corsi sul
luogo dimentico della Casa Canonica; e davvero! che le referenze non eran
false. Straziato nel cuore ed attontito nella mente, vidi che l'abitato, tutto
sdruscito, qui era in parte caduto dei volti, lì cadente; qui squilibrato, lì minaccioso - e che delle poche famiglie, che non eran venuti alla Chiesa,
pochi andarono esenti da morte o da ferite. Vi furono infatti cinque morti,
tutti trovati nel letto schiacciati, e undici gravemente feriti, che si scavarono e di cui però niuno mori. - Non oarlando di aui delle molte strazianti scene, cui dovetti assistere ora ascoltando confessioni a campo aperto, or intromettendomi tra rovinosi muri per assolvere, se fosser ancor
vivi, i supposti morti sotto le macerie, basti sapere, che 131 famiglie dovettero abbandonare le antiche abitazioni e ritirarne alla meglio poche
masserizie, per andarsi ad attendare nella vigna o Piano del Prevosto. E qui di nuovo come non piangere? Vedere tante miserie e tanti guai senza
un rimedio, che crepacuore per un Parroco! - Suonarono intanto le nove
ore da breve, cioé tre ore dopo la catastrofe, ed ecco nuova, più breve,
ma non men terribile scossa preceduta da rombo terrifico. Si era all'aperto,
eppure... tutti mettersi a strillare, e ad invocare la misericordia di Dio e
della Madonna tra le lagrime e i singhiozzi, anche da parte degli uomini
più ardimentosi ed ancor mezzi ubbriachi dalla notte, fu la stessa cosa.
Questa scossa, che prima osservai dall'aperto, mi diede l'immagine viva di
quello scotimento, che in tutto il suo corpo praticano i cavalli ed i muli
dopo essersi levati da giacere. Viva, sussultoria, ed ondulante con rapidità
indicibile. Decise essa a cadere molti muri, che eran rimasti, dirò così, a mezz'aria per le scosse precedenti. Finalmente il dopo pranzo verso due
ore, mentre presso di mia sorella Felicina, sul Canto, m'ero assiso, come
tutti gli altri sotto un'albero a sdigiunarmi e a pigliar fiato, si sentì altra
scossa sensibile, che però, come le altre della notte e dei giorni seguenti,
non eccitarono più a molto spavento, fino a quella degli 11 marzo seguente, che di nuovo mise in apprensione, e fece rovinare qualche muro.
3. - La prima giornata passò intanto senza che il popolo si avvedesse più che tanto dei suoi casi. Era la gente come sbalordita, e credeva
d'aver sognato. Io ad esempio fino alla sera non avea ricordato di osservare la Chiesa, che tutta era stata ristorata due anni innanzi, e la Canonica, che già avea i volti abbastanza screppolati. Allor però osservai la
Chiesa, e me meschino! le tre chiavi o rondini principali della navata di
mezzo erano strappati; sicché il volto tutto era minaccioso avendo una
fenditura dalla facciata al presbiterio ed altre fessure in cento direzioni.
Più erano strappate le due chiavi o rondini della navata appoggiata al
Campanile, e proprio le due, che pare si leghino col Campanile stesso - La
Canonica poi faceva paura; il volto della sala s'era mezzo sfondato, e
quelli delle camere, se non erano sfondati aveano pur essi marchi spaventosi. Fu di qui, che quella notte e varie altre in seguito seguii l'esempio
di tutti, anche degli abitanti di Barbarasa e delle Ca-Soprane, i quali furono più rispettati dal terribile flagello benche non siano rimasti incolumi - fu di qui, dico, che non dormii in Canonica, ed accolsi l'ospitalità
offertami dall'amico Vincenzo Natta Paladin, il quale colla sua famiglia
ed i vicini improwiso una baracca in legni e tende coperta di tegole presso
la sua casa. Eravamo assieme un 35 o 40 persone - L'indomani però
quando giunsero le nuove della Liguria, qualmente cioè era stata quasi
tutta colpita dall'immane disastro, sicché Savona, Finalmarina, Albenga e
tutta la provincia di Porto Maurizio lamentavano danni incalcolabili - e
che a Diano era successa una generale distruzione con molte vittime; a
Oneglia uno sconquasso senza esempio; a Bajardo, mia patria, un'ecatombe di 231 persone schiacciate, e molte altre orribilmente ferite dal
tetto a volto della Chiesa, che rovinò d'un colpo; a Bussana [scrisse ancora nel suo Diario il Parroco Zunini] il diroccamento delle case e della Chiesa, onde molti seppelliti sotto le rovine [BUSSANA VECCHIA sarebbe poi stata abbandonata dalla popolazione: in un sito prossimo alla costa venne riedificato il borgo, la NUOVA BUSSANA, destinata ad un proficuo sviluppo mentre il diroccato centro antico dopo un lungo abbandono -e tra varie controversie- divenne sede e ritrovo di molti artisti, specie stranieri, attratti dalla bellezza spettrale del sito e dallo spettacolo della terribile potenza naturale qui scatenatasi con la conseguenza tante vittime innocenti]; a
Castellaro lo sfondamento del volto della Chiesa, benché a tratti, sicché
molti si poterono salvare; a Ceriana, a Taggia ecc. altri guai - allora un
panico più ragionato invase gli animi di tutti, ed ognuno cominciò a vedere seriamente i proprii guai, e a pensare alla giustizia di Dio - che quindi
la si dovea placare con l'intercessione di Maria Vergine invocata con preghiere. Da quel dì infatti si manifesto un gran risveglio di fede; e per più
tempo dopo il suono dell'Ave Maria della sera giovani e vecchi, buoni e
malvagi si ritiravano nelle loro tende o dei vicini per attendere alla fervida recita del S. Rosario, che prolungavasi per ore ed ore con altre preghiere..." [edito in Pompeiana nella Storia di M. De Apollonia - B. Durante, Pompeiana/ Pinerolo, 1986, pp.132-136].
La BUSSANA NUOVA fu edificata quindi sulla riva del mare e prese a fiorire anche in fuzione della sua vicinanza alla linea ferroviari ed a quella STRADA DELLA CORNICE che sarebbe poi divenuta la moderna STATALE AURELIA.
Gli orrori del terremoto non poterono però essere dimenticati e così sul promontorio detto delle anime si costruì il SANTUARIO DEL SACRO CUORE DI GESU' che tuttora presiede in modo imponente a tutto il complesso architetonico di BUSSANA NUOVA.
Ci narra Giovanni Meriana nel suo irrinunciabile e preziosissimo lavoro sui Santuari in Liguria che al centro di questa iniziativa stette la figura di Don Francesco Lombardi, parroco di Bussana dal 1857 al 1882, che la Domenica delle Palme del 1894 (era un 18 marzo) si pose idealmente a capo della "fuga" dei suoi antichi parrocchiani dal vecchio paese distrutto.
Pagine forse più poetiche anche se meno oggettive ci ha lasciato un testimone oculare, quel Fra Ginepro da Pompeiana che nei suoi scritti sul borgo natio, appunto Pompeiana, riferendosi al sisma ebbe modo di elogiare grandemente l'opera sociale e spirituale di F.Lombardi.
Convinto che nonostante la tremenda gravità dell'evento Dio avesse comunque dato una prova della sua clemenza e mosso da una sincera devozione per il SACRO CUORE DI GESU', don Lombardi, a titolo di ex-voto, volle "portar via" dalle macerie dell'antica Bussana e più precisamente della sua stessa ormai distrutta CHIESA PARROCCHIALE [vittima di una GENERALE DISTRUZIONE (come si ricava dalla drammatica confusione delle primissime istantanee)] , proprio il Culto del Sacro Cuore che vi era stato istituito nel 1767.
Ne derivò il grande santuario del SACRO CUORE DI GESU' di BUSSANA NUOVA reso splendido dall'opera indefessa di don Lombardi.
L'edificio, ad una sola navata, riflette un certo gusto bramantesco ed è carico di simboli e decorazioni: il Meriana in particolare definisce "straordinarie opere dell'artigianato artistico" il coro, che è del 1910, ed il pulpito (del 1901).
Sulla destra di chi entra nel Santuario si può quindi vedere la magnifica tomba di don Lombardi di cui è in atto la pratica di beatificazione.
La PESTE (che in Liguria come in tutta Italia lasciò tracce iconografiche popolari-religiose a testimonianza di un incubo secolare)
non tornò dopo le rovine fatte tra XVI e XVII secolo: questo fu un consistente vantaggio per l'incremento demografico del territorio compreso fra Marsiglia e Genova, senza escludere tutto il Basso Piemonte.
Ma i problemi epidemici e le emergenze sanitarie non cessarono: presto la PESTE venne surrogata da altre pericolose forme di contagio.
In particolare, tra '700 ed '800, si segnalò, per il
tributo di vittime umane, il COLERA, una malattia epidemica caratteristica
dei paesi asiatici, il cui agente eziologico è il Vibro cholerae asiatique,
BACILLO DALLA FORMA A VIRGOLA.
Il contagio avviene attraverso l'alimentazione e dopo un breve periodo di incubazione (3-5 giorni)
la malattia si scatena attraverso distinte manifestazioni patologiche (disturbi gastro-intestinali, ipotensione, ipotermia, crampi muscolari, altissima
disidratazione) sino ad esiti frequentemente mortali.
Il COLERA fu
un incubo per la Liguria come per l'Italia e l'Europa tutta durante il XIX secolo: la sua avanzata esorcizzava antichi ANTICHI SUPERSTIZIOSI TERRORI [connessi sia alla "storica" figura degli UNTORI che al recente "teorema" dei MORTI VIVENTI" e specificatamente del VAMPIRISMO] visto che se ne ignorarono a lungo sia le cause sia utili terapie anche se alcuni medici della nuova scienza andavano facendo progressi nella conoscenza del morbo, nella profilassi ed anche nella terapia.
Il pericolo del contagio parve imminente anche in Liguria e Piemonte già nel 1832 e si ebbe un'ORDINANZA PROFILATTICA SABAUDA ispirata ai modelli che che nel frattempo erano stati preparati in dipendenza dei gravissimi eventi francesi già nel 1832.
In ITALIA le manifestazioni del "colera morbo" si ebbero più tardi che in Francia e comunque posteriormente alle aspettative, precisamente nel 1835 (cosa di cui una serie di informazioni ci viene data dal Manoscritto Borea); fu allora che i vari Commissariati locali di Sanità (gli organi di pubblica profilassi istituiti dal Regno
Sabaudo dal 1814 padrone della Liguria) promulgarono precise ordinanze.
Per quanto concerne il Ponente ligure si legge:
"La malattia chiamata Collera morbus comparsa la prima volta in Silla
nel 1817 sulle rive del Gange ed avanzata d'indi in appresso verso l'Europa, donde minaccia ora d'invadere la nostra bella Penisola è un di quelle
malattie contagiose, che con i mezzi della Polizia Sanitaria, si può tenere
andarne immune, per i provvedimenti più efficaci, che ha ordinato di porre
in opera il Paterno animo di S.M. il Re nostro Signore; pur nel caso che
Dio non voglia, d'una qualche manifestazione d'un tal morbo, siccome tende a dilattarsi,
ed a cogliere un maggiore, o minore numero d'individui, secondo le disposizioni più o meno salubri della località e degli abitanti così si facciamo
con dovere di far noto quanto segue; ben persuasi che l'uomo dabbene e
l'uomo religioso, che nutre in cuore nobili sentimenti d'amor Patrio s'assoggetterà ben volentieri all'incomodo delle regole sanitarie, non per temere soltanto delle pene che la legge stabilisce ("R.D. del 1831" nota
dell'autore), ma per onore, per spirito di dedizione, per la tema di farsi autori
della disgrazia degli amici, dei congionti, di coloro in una parola, per cui
egli esporrebbe generosamente la vita, dove li vedesse in pericolo.
A preservarsi dal Collera morbus conviene prima di tutto evitare le
azioni predisponenti al medesimo.
Tali sono l'intemperanza d'ogni genere
di cibi, o di bevande, e specialmente l'ubbriachezza, le vestimenta troppo
leggiere, la sucidezza del corpo, il libertinaggio, il troppo faticare, le veglie
protrate, la tristizia, la paura.
Conviene non dormire all'aria, specialmente
di notte, non usare alimenti pingui difficili a digerirsi, che fermentano
facilmente, tali sono... le frutta immature, le bevande, che non hanno
finita la loro fermentazione, od acide, o corrotte.
S'eviterà l'aria umida, e fredda, quando si è in sudore specialmente.
Non si dovranno mangiare frutta immature, né abusare delle matture,
come pure delle cose acri come sarebbero l'aglio, cipolla, pepe e simili.
Dovrà ognuno mantenere la nettezza, la ventilazione della propria Casa.
S'ordina la maggiore polizia possibile in tutti i luoghi abitati, l'allontanamento dai medesimi di tutte le immondizie, e sozzure, che ammorbando l'aria divengono potenti germi d'infessione, e predispongono facilmente a ricevere il morbo contaggioso minacciando serie punizioni ai contravventori.
Tutti i viaggiatori, ed i stessi nativi di codesto Comune (il documento riguarda il borgo di Vallecrosia ma è simile nella forma e nella sostanza a quelli promulgati dalle altre municipalità) che trovansi
in oggi assenti se vorranno penetrare a Vallecrosia, deggiono in prima provare mercè dei documenti a tale scopo chiesti dalle relative leggi Sanitarie,
o di aver subito la loro quarantina, se provengano da Paese infetto, o vero
che arrivano da Regione pienamente libera dal morbo.
Nessuno potrà perciò essere ricoverato negli alberghi, o case private, senza un permesso
speciale della Commissione.
Coloro che sono destinati a girare per il paese durante la notte, che
dovranno eseguire gli ordini, che dalla Commissione, le verranno imposti.
Conchiuderemo col ricordare, che gli uomini inutilmente veglierebbero alla
Custodia dei luoghi, se Dio medesimo non gli costodisse.
Perciò
Commissione locale di Sanità
Vallecrosia agosto 1835"
Sul lato di un Registro ottocentesco conservato a Vallecrosia leggesi di
mano ignota "Dio ci protegga... Collera" ed in qualche modo, comunque, il borgo fu preservato dalla micidiale epidemia.
Il COLERA, seppur con un lieve ritardo cronologico, tuttavia colpì pesantemente soprattutto il meridione d'Italia assumendovi l'aspetto di un'epidemia quasi incontenibile viste, occorre dirlo, le limitate previdenze igienico-sanitarie.
Nei suoi Dialoghi (edizione napoletana del 1909 a cura del Torraca) il patriota e storico Luigi Settembrini (Napoli 1813 - 1876) drammaticamente scrisse (p.79):"Il cholera che aveva devastate molte contrade d'Europa si manifestò la prima volta nel regno [di Napoli] nell'autunno del 1836 ma nella state del 1837 menò grande strage per tutto. In Napoli morirono ventiduemila persone come sta scritto su la porta del camposanto ove furono sepolti" [i dati del Settembrini alludono solo a Napoli non all'intero Regno delle due Sicilie e si limitano all'epidemia del 1837 -quella nel corso della quale perse la vita seppur non per il morbo Giacomo Leopardi: durante l'ottocento numerosi, seppur di varia gravità, furono i fenomeni epidemici sia nel meridione (vedi :Francesco Leoni, Il colera nell'Italia meridionale (1836-1837), Editore Apes, 1990) che
nel settentrione italiano cui peraltro hanno accennato tanti letterati: Tommaseo, Rajberti, Nievo, Verga, Faldella, De Roberto, D'Annunzio, Pea ecc.].
In Piemonte e Liguria il COLERA rimase comunque in perenne
agguato ed ancora nel 1884 il PREFETTO BERMONDI DI PORTO MAURIZIO inviò ai Sindaci della Provincia le sue ordinanze concernenti i provvedimenti contro il
morbo: tra tante rigorose osservazioni meritano un cenno gli inviti a vegliare in modo speciale sulle carni porcine, su tonni, stoccafissi, baccalà,
ed altri pesci conservati i quali presentino un'alterazione qualsiasi: sostanzialmente comunque furono tre le grandi epidemie di Colera che coinvolsero l'Italia, toccando la Liguria e Genova: una nel 1835, una seconda nel 1849 e forse ancora più grave una -manifestatasi proprio a Genova- nel 1854.
Nell'età intermedia la SCIENZA MEDICA UFFICIALE nacque quando l'ordine dei medici si riunì in "corporazione": grazie al lavoro degli umanisti (ed all'eredità della scienza medica araba) era stata recuperata una certa parte del PENSIERO MEDICO DELL'ANTICHITA' CLASSICA, una parte che per un lato rimandava al pensiero di IPPOCRATE e ARISTOTELE ma che comunque aveva presenti i lavori di altri scienziati, medici ed eruditi tra cui PEDANIO DIOSCORIDE, SAMMONICO (le cui RICETTE in particolare furono trasmesse attraverso i secoli), GALENO, CELSO, SCRIBONIO LARGO e PLINIO SENIORE.
Il pensiero terapeutico di PLINIO IL VECCHIO insieme a quello di PEDANIO DIOSCORIDE, influenzò profondamente la stesura di BESTIARI ed ERBARI.
La malattia era codificata su canoni rigidi, tramite l' immagine pieno/vuoto che faceva trasparire altri doppi: secco/umido, dentro/fuori, uomo/donna.
La marginalità era lo status sia delle donne che degli umili (rapportabili biologicamente al sistema ghiandolare, il più periferico, con maggiori possibiltà di contrarre una malattia), la centralità costituiva lo status dell'uomo specie se di alta condizione (immaginato come il cuore e gli organi più interni ritenuti meno esposti ai contagi temutissimi dal XIV sec.). Secondo questo schema le donne rientravano nella categoria dei deboli e dei diversi: la malattia era un assedio agli organi principali e la putredine degli umori si manifestava con la febbre prodotta dal loro "bollire" intorno al cuore. Solo M. Ficino, contro la medicina ufficiale, propose di attrarre il male alle estremità, facendo scendere il veleno in piaghe aperte dal cerusico o CHIRURGO.
Nel Medioevo e in contesto popolare il termine medico [fatta eccezione per il caso abbastanza ristretto delle medichesse "laureate" dalla SCUOLA SALERNITANA) indicava spesso quelle BUONE DONNE che si trasmettevano, di madre in figlia,"ricette" che rendevano la medicina naturale un "affare" praticato fra mura domestiche. Queste "sapienti", più diffuse nei villaggi che in città, godevano di popolarità, come ostetriche, guaritrici e consigliere. Erano depositarie del sapere popolare, conoscevano le proprietà delle erbe, calcolavano gli influssi della luna su piante, animali, ed uomini: anticipando in qualche modo la scienza freudiana, interpretavano i sogni. Le terapie proposte non erano in sintonia con la medicina scientifica né coll'"erboristeria ufficiale": talora v'era collisione fra una ricetta popolare che consigliava di far mangiare all'ubriaco una mela cruda al mattino, bevendo insieme un bicchiere d'acqua, ed il principio medico che faceva consumare cibi amari ed aspri sì da attenuare l'effetto del vino. Nel rimedio contro il vaiolo si ricorreva alla ricetta dalla medicina empirica di avvolgere il corpo del malato in pelle d'animale scuoiato di fresco: secondo la medicina scientifica del '500 si ponevano le parti malate a contatto con pelli di animali, meglio se cuccioli, squartati di fresco, per sanare in dermatologia i tessuti corrosi da lebbra o erisipela.
E' da tenere presente che queste MEDICHESSE non sparvero, rimanendo solo patrimonio del Medioevo: in effetti continuarono ad operare ma la loro figura venne relegata nell'ambito della superstizione.
Nelle epoche più difficili furono perseguite addirittura come Streghe anche se, mediamente, pur di non travalicare certi limiti e venendo dimensionate nella figura ambigua di curatrici popolari intrise di superstiziose credenze, risultarono tollerate dall'autorità civile, ecclesiastica ed accademica sotto l'etimo, piuttosto decettivo, di DONNE SAVIE o DONNE RIMEDIANTI espressione in realtà non lusinghiera e semmai equivalente dell'attuale termine di PRATICONE senza però necessariamente possedere la valenza infamante di MAMMANA/-E (OSTETRICHE ILLEGALI)
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Negli Statuti di Genova si allude a DIVERSE FIGURE DI MEDICO:
A-FISICO = che è proprio della medicina, che è somministrato secondo i dettami della scienza medica (rimedio, terapia curativa, farmaco); che è diretto alla cura del corpo umano (medicina in opposizione alla chirurgia)> BATTAGLIA, s.v.,n.2> da cui Dottor Fisico: spesso operante in collaborazione con lo SPEZIALE.
Lo SPEZIALE o "facitore di terapie", identificabile con l'ERBORISTA [destinato a diventare un vero e proprio scienziato delle PIANTE OFFICINALI] e, nei casi più sofisticati, col FARMACISTA esperto in ALCHIMIA od in chimica, dotto di farmacopea ed erboristeria (propr.AROMATARO [meno corr. AROMATARIO] che spesso operava in proprio con formulari ed alambicchi o che si serviva della collaborazione di un esperto, operando in un locale, spesso sul retro di una FARMACIA trasformato in LABORATORIO DI DISTILLERIA, per certi versi anticipatore del futuro LABORATORIO DI CHIMICA).
Dal XVIII secolo, grazie agli straordinari progressi dell'ANATOMIA (anche per il contributo di GRANDI MEDICI STRANIERI ma anche della meccanica e dell'artigianato si ebbe un notevole perfezionamento della STRUMENTAZIONE CHIRURGICA (incredibilmente evoluta a fronte della "rozza" STRUMENTAZIONE usata per secoli fin a tempo recenti e se vogliamo anche a fronte di atteggiamenti tollerati per tradizione terapeutica quanto ritenuti socialmente disgustosi quali l'USO DELLE UNGHIE LUNGHE per piccoli interventi) che si arricchì di molti, nuovi strumenti, adatti ai più svariati tipi di interventi.
In virtù di questa specializzazione negli STRUMENTI SPECIFICI PER SETTORIALI INTERVENTI (e con l'ausilio di approfondimenti di nuove conoscenze di anatomia e soprattutto per lo sviluppo tramite la nascente chimica moderna di elementari ma funzionali anestetizzanti, per esempio ricavati dall'oppio e dalle foglie di coca) si affermarono i primi specialisti di chirurgia come il dentista specializzato e l'otorinolaringoiatra.
La realizzazione seicentesca del MICROSCOPIO sia di quello SEMPLICE che di quello COMPOSTO pose altresì le basi per uno sviluppo della MICROBIOLOGIA con l'investigazione nel microcosmo di quegli agenti patogeni di cui non si aveva contezza e che in effetti erano alla radice di tantissime patologie, epidemiche e degenerative.
Spesso coi CHIRURGHI, nell'età intermedia, si confondevano i BARBIERI (o BARBERII) che praticavano bassa chirurgia come CAVADENTI e CAVASANGUE: dalla metà del XVII sec. costoro furono ascritti alla categoria degli Infermieri per cui erano redatte opere di terapia e diagnostica.
C-FISCALE o LEGALE medici incaricati dallo Stato per indagini di medicina legale su cui rilasciavano certificazione: erano scelti dal Collegio dei Medici sorta d'Albo professionale, cui a Genova ci si doveva iscrivere per esercitare l'ufficio di medici e goderne tutele e previlegi.
D-MEDICO DEI FANCIULLI (poi PEDIATRA): specializzazione in sviluppo ma non citata negli Statuti.
SPEZIALE> ant. per Farmacista. Dimenticata la tradizione "farmaceutica greca e romana", dopo il Medioevo risorse la Farmaceutica con gli Arabi che crearono "sciroppi", "tinture", "giulebbi", "looch" e la cui scienza pervenne alla "Scuola Medica Salernitana" di cui rimangono trattati e che produsse l'Antidotarium di Nicolao Preposito.
I Farmacisti della SCUOLA MEDICA SALERNITANA (giustamente celebre come scuola che in qualche maniera svolse un ruolo di INTERMEDIAZIONE TRA OCCIDENTE CRISTIANO ED ORIENTE ISLAMICO nel contempo ridando vigore alla figura del MEDICO LAICO idealmente "incarnato" nella figura dell'arabo AVICENNA) girarono per il mondo acquisendo gran rinomanza: la SCUOLA, che dopo la grande decadenza medievale recuperò a dignità gli insegnamenti dei grandi medici classici, conobbe momenti di grande fama (resta sempre famoso il suo REGIMEN SANITATIS ma neppure è da dimenticare che, dopo i tempi dell'impero romano, offrì all'Vecchio Mondo, per la seconda volta, rinnovate figure di DONNE MEDICO).
Purtroppo nel contesto di questa rinnovata temperie scientifica e medica si diffusero anche mistificatori e ciarlatani, religiosi e profani, che propinavano medicamenti anche perniciosi alla salute.
Per questo Federico II elevò la SCUOLA MEDICA SALERNITANA ad "Università" e nel 1234-41 emanò delle norme per cui Medicina e Farmacia dovevano risultare distinte e secondo cui per lo Speziale eran necessari autorizzazione statale, possesso di un locale - periodicamente ispezionato - per custodia e preparazione dei medicamenti, di cui dovevano essere resi pubblici i prezzi come orario d'apertura e chiusura della Farmacia.
Federico II sancì l'obbligo di un testo unico per gli Speziali ed elevò a farmacopea ufficiale l'Antidotarium di Preposito (nel '500 un testo base per lo SPEZIALE fu quello dello SCHWENCKFELT).
Compare poi la Speziale anche nei CONVENTI FEMMINILI [oltre che in quelli maschili] su cui nel '600 scrive il RICHIEDEI, 212, 24: "Per essersi introdotta in quasi tutti i Monisteri, non senza grandissima utilità, e del Monistero, e delle Monache, per la comodità de' medicinali, la Speziaria, dovrà sempre la Speziale in tutte le occorrenze, che vi siano Inferme, esercitar con loro tutti gli atti di carità, e convenienza spettanti al proprio officio, visitandole sovente, provedendo lor di quanto sarà ordinato, e giudicato opportuno per loro dal Medico. Quello poi da che deve una Speziale singolarmente guardarsi è di non alterar mai le dose nelle medicine, e di non valersi in quelle, che di que' soli, e puri ingredienti, o siano semplici che troverà prescritti nella ricetta, la quale quando non fosse pienamente da lei intesa, potrà conferirla col Medico istesso prima ch'esca dal Monistero. Per pratica ancora, e sufficiente ch'ella sia nel suo officio, non dovrà mai fidarsi della sua sufficienza, dando medicina alcuna senza imposizione, o consiglio almeno dello stesso Medico, quando ben anche fossero di quelle chiamate benedette, come di manna, cassia, dulcamare, e simili; perchè queste ancora date fuori di tempo, non sempre giovano e benchè benedette non portano però seco ogni volta la benedizzione. Quando entrerà il Medico all' inferme per visitarle, se questo si farà nell'Infermeria, potrà entrare anch'essa insieme con l'Infermiera: questa per prender voce, come debba governarsi circa il preparar loro il cibo e essa per sapere ciò che habbia a che fare circa il comporre e esibir loro all'hore debite e opportune le medicine".
Il CHIRURGO o medico specializzato in chirurgia (branca della medicina che studia malattie per la cura e l'eliminazione delle quali è inevitabile intervenire con terapie manuali e strumentali: frequentemente confuso con il BARBERIO [BARBIERE] nell'età intermedia il CHIRURGO era più temuto che stimato, per l'assenza di anestetici, la STRUMENTAZIONE RUDIMENTALE a fronte di QUELLA GRECO ROMANA per l'assenza di esatte competenze anatomiche di base sempre a differenza dei chirurghi greci e romani, peraltro sostenitori di una superiore esigenza di
ASSISTIRE CON ASSIDUA ED ESPERTA COSTANZA I PAZIENTI OPERATI.
Per MEDICO - CHIRURGO dal '600, epoca in cui la PROFESSIONE CHIRURGICA VIENE SOTTOPOSTA A CAUTELE DI ORDINE LEGALE E GIURIDICO si intende "colui che compie interventi chirurgici" (in antico poteva essere persona non esperta nell'arte medica, agente per consuetudine e pratica, prototipi del chirurgo furono AMBROSE PARE' ed il professore di anatomia A. VESALIO la cui Chirurgia Magna fu edita nel 1563 da Prospero Borgarucci, docente di anatomia all'Università di Padova, che si servì di un manoscritto d'un allievo del Vesalio che aveva raccolto le lezioni del maestro> DE MARINIS, Catalogo della Raccolta Putti, 1131.
Per l'importanza, sociale oltre che scientifica, del loro lavoro i MEDICI CHIRURGHI OSTETRICI costituirono spesso nell'età intermedia un oggetto di preoccupazione costante: dal loro lavoro dipendeva la sanità delle nuove generazioni. Peraltro nelle località periferiche (come spesso si diceva "le terre", i "borghi", "le ville") ai chirurghi ostetrici subentravano -data (mediamente) la povera condizione sociale delle partorienti- le LEVATRICI. Talora il mestiere di levatrice si confondeva con quello di BALIA e in questa congerie di praticanti finirono per mescolarsi persone di buona capacità professionale con praticone e medici improvvisati o incompetenti di ginecologia che causavano alta mortalità sia nel parto che nello svezzamento. Nonostante avvisi, minacce, sospetti (anche immotivati) per questi "specialisti" in territorio genovese una compiuta regolamentazione che ponesse ordine nel settore ginecologico avvenne solo nei primi decenni del XIX secolo, quando il vecchio "Dominio" era stato ormai incorporato nel regno sabaudo, in dipendenza di un'oculata riforma che fissò con severe regole attestanti le capacità professionali sia la professione dei "CHIRURGHI OSTETRICANTI" CHE DELLE "LEVATRICI".
Nell' età intermedia grandissimo chirurgo ed anatomista fu comunque Girolamo Fabrizi d'Acquapendente (anche noto come Fabrizi d'Acquapendente, come si ricava dal nome nato ad Acquapendente nel 1535 e morto a Padova nel 1619). Allievo di Falloppio insegnò a Padova dal 1565 al 1613 e tra i molti celebri pazienti ebbe Galilei e Sarpi che curò splendidamente dalle gravi ferite patite nell'attentao del 1607 quando il padre servita Sarpi fu aggredito da un sicario della Santa Sede Romana vista la sua posizione a favore di Venezia di cui difendeva l'autonomia giuridica e giurisdizionale nel trattare cause criminali in cui fossero coinvolti anche dei religiosi.
Il Fabrizi fu inoltre maestro di Harvey e di Casseri che continuò il suo insegnamento: inoltre il Fabrizio ideò e fece costruire a Padova nel 1594 il primo teatro anatomico permanente.
Fu autore del De formatu foetu, nel 1600 (opera conservata all'Aprosiana intemelia) che è reputato il I trattato di embriologia comparata ma diventò celebre con il De venarum ostiolis del 1603 che contiene una perfetta descrizione delle valvole delle vene e molte preziose illustrazioni.
Su veleni e tossicosi da sostanze perniciose un'autorità fu il medico forlivese G. Mercuriale (1530 - 1606 ): anche se, giova rammentarlo, molti progressi si fecero nella conoscenza dell'argomento in questo secolo, anche per l'opera di naturalisti empirici come il Pomet.
Al Mercuriale comunque giunse il grande messaggio scientifico-culturale del pensiero medico greco e romano attentissimo al campo dei Veleni e degli Antidoti: Mitridate VI Eupatore Dioniso il Grande, re del Ponto, nemico di Roma nel I sec.a.C. da cui fu sconfitto dopo 3 duri conflitti, fu per un celebrato esperto di Veleni [assimilandone piccole quantità in modo periodico avrebbe raggiunta l'assuefazione e quindi l'immunità, donde il nome di mitridatismo] e rimase famoso per aver ideato un Antidoto universale detto Mithridatium antidoton la cui formula sarebbe stata individuata da Pompeo Magno nell'archivio reale e interpretata dal liberto Pompeo Leneo; PLINIO nella Storia Naturale (XXIII, 149) ne diede una descrizione "antidoto composto da 2 noci secche, altrettanti fichi e 20 foglie di ruta, il tutto pestato ed amalgamato, con l'aggiunta di un granello di sale; a chi avesse preso questo antidoto a digiuno, nessun veleno avrebbe nuociuto durante tutta la giornata"> formula troppo elementare su cui tornò lo scienziato romano correggendosi nella stessa opera (lib.XXIX, 24) in cui, senza riportare la formula [perché evidentemente non ne era a conoscenza nella completezza], invece che di soli 4 ingredienti lo ritenne composto di 54 > ma l' Antidoto universale , oggetto di investigazioni di alchimisti, maghi e streghe nei secoli dell'età intermedia, rimase un enigma; per CELSO (V, 23,3) gli ingredienti sarebbero stati 36, per GALENO (XIV, 152-'54) 43: ne parlò Scribonio Largo Designaziano nel I sec.d.C. in una delle 471 ricette della sua De compositione medicamentorum.
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Sin al XVI sec., sulla scia della tradizione medica greco-romana, l'ANTIDOTO migliore fu considerato la triaca - teriaca , specifico contro il morso di serpenti velenosi ma poi realizzato in varie formule e a difesa contro le intossicazioni da vari tipi di veleno> la più antica teriaca nota e utilizzata da Antioco il Grande [re di Siria dal 223 al 187 a.C.], era registrata su una lapide del tempio-santuario, dell'isola di Cos nelle Sporadi meridionali, dedicato a Esculapio, dio greco della medicina e figlio di Apollo e Coronide, (Plinio, XX, 264: "[la ricetta è composta] di serpillo [specie di timo - Thymus serpyllum - coltivato per l'estrazione dell'olio di serpillo dalle proprietà carminative, che producono cioé l'espulsione di gas dall'apparato gastro-intestinale], due denari di peso (1 denario = g.4,55); opopanace [opòponaco: gommoresine ricavate da piante della famiglia delle Ombrellifere, con proprietà medicamentose destruenti, cioè capaci di liberare lo stomaco da qualche intasamento] e meo [ meum athamanticum usato in medicina antica per le proprietà toniche e diuretiche> pianta Ombrellifera], altrettanto di ciascuno; semi di trifoglio [genere Trifolium di Angiosperme Dicotiledoni della famiglia delle Leguminose, comprendente circa 300 specie di cui 60 presenti in Italia> dalle proprietà officinali utili per il sistema digestivo], un denario di peso; semi di anice [erba annua delle Ombrellifere con la proprietà medicamentosa di corroborare lo stomaco disturbato e di liberare dalle flatulenze], finocchio [della famiglia delle Ombrellifere conveniente per l'aggiustamento dello stomaco e l'eliminazione di gas intestinali], ami [grecismo: gli antichi ne conoscevano solo i semi e lo stesso Dioscoride (III, 62) nutriva delle incertezze sulla pianta, poi identificata col Trachyspermum ammi o Ammi copticum : stando a Plinio (XX, 164) avrebbe avuto la proprietà di far cessare coliche e flatulenze] e apio [con tal nome si indicano parecchie varietà delle Ombrellifere tra cui sedano, prezzemolo, anacio ma è facile che qui ci riferisca alla varietà nota fra gli antichi come apios : MATTIOLI, 462, studiando Dioscoride, cita l' apios quale pianta le cui radici e semi mescolati nel vino provocano diuresi e disintossicazione]; farina di ervo [leguminosa da cui si estraeva una farina detta ervina usata nella combinazione delle medicine], 12 denari. Si schiaccia il tutto e lo si passa al crivello, e utilizzando il miglior vino a disposizione si formano col composto delle pastiglie del peso di un vettoriato ( circa g. 2,27). Somministrarne una per volta in tre ciati (1 ciato = l. 0,045) di vino mescolato ad acqua"> la teriaca (un rimedio serio ma non miracoloso, che sedava le coliche e liberava l'organismo dalle tossine) rimase per millenni un antidoto apprezzato dalla farmacopea anche se se ne ebbero vari tipi, con formule in cui presero a comparire ingredienti animali: si va da Galeno (XIV, 1 sgg. e 82 sgg.) sino all'ultima teriaca citata dalla "Farmacopea" francese del 1884.
Il XVI sec. fu detto Secolo dei Veleni per l'uso che se ne faceva nei crimini e per la possibilità di trovare scampo: Stat. Crim. , II, 10.
Il timore di ingerire Veleni giunse al punto che "personaggi importanti volevano che i cibi e le bevande serviti loro fossero prima assaggiati da un'altra persona in loro presenza"> W. DURANT, Il Secolo d'oro , III, p.79 in Storia della civiltà , Edito-Service, Ginevra, 1957> l' autore riferisce che nel '500, per Roma e da Roma per tutta l'Italia rinascimentale, si sparse il terrore di un venenum atterminatum, un tossico che, insensibile a qualsiasi antidoto, agiva dopo un tempo così lungo da far perdere le tracce dell' omicida.
In questo Secolo dei Veleni si ricorreva ad ogni sotterfugio per somministrare i tossici: un espediente era quello di spalmare con sostanze velenifere le armi da taglio o da getto (usanza già menzionata da Plinio XXXII, 58: per avvelenare le punte delle lance molto spesso si usava il doricnio , genere di arbusti velenosi della famiglia delle Leguminose Papilionacee, di cui parla MATTIOLI, 548).
Contro le tossicosi, ma anche per le perfette cicatrizzazioni e contro i rischi di infezioni e cancrene delle ferite un esercito di alchimisti, sulla scorta di Plinio (XIX, 39 e 43; XXII, 48-49) e d' altri classici cercavano la leggendaria pianta del SILFIO della Cirenaica (già quasi estinto sotto Nerone) da cui si distillava il Làsere dai tempi di Andrea (III sec. a.C), medico del re d'Egitto Tolomeo IV Filopatore ritenuto cura di molti mali, quello che Plinio definì uno "tra i doni più straordinari della natura...[che] entra in moltissimi preparati medicinali": il Làsere di cui si disponeva nel XVI sec. era estratto dalla pianta del Laserpìzio ("Ombrellifere") di Siria, Parmenia, Media, Armenia (M. MONTIGIANO, Dioscoride Anazarbeo. Della materia medicinale, tradotto in lingua fiorentina, Firenze, 1546 o 1547, p.154) e, oltre a non essere facilmente reperibile, non aveva le qualità attribuitegli da Plinio, riferendosi egli a quello della Cirenaica (scrisse che il Làsere delle regioni orientali - estratto dal Laserpìzio del genere Ferula Asa foetida delle Ombrellifere - "è di qualità molto inferiore rispetto a quello della Cirenaica, e per di più spesso mescolato con gomma o sacopenio [gomma di ferulacea orientale ma anche di una specie italica], o fave tritate": e del resto in Italia delle 30 specie di Laserpìzio conosciute ne crescono 8 (importante soprattutto il Laserpizio sermontano [ma leggi anche Siler Montanum alias Seselis Massiliensis di "Amatus Lusitanus"] di cui scrisse anche il medico Z.T.Bovio, ma senza le supposte proprietà citate da Plinio): fra gli attributi medicamentosi del Làsere ottenuto dal Laserpìzio o Silfio della Cirenaica (che non è di sicura interpretazione e per cui si è anche supposta l'identificazione con la Ferula tingitana ed a cui Catone, 156-7 attribuì alto valore terapeutico ) si attribuivano poteri cicatrizzanti e la qualità di antidoto sì forte da neutralizzare ogni veleno: possedere o realizzare tal prodotto avrebbe fatta la fortuna di qualsiasi alchimista, speziale o medico ed avrebbe risolto i problemi di intervento, che a volte imponevano l' amputazione dell'arto ferito ed avvelenato, per i Chirurghi.
Da quanto si è scritto si potrebbe pensare che il SILFIO, dalle prodigiose qualità terapeutiche, sia stata solo una leggenda proveniente dal passato remoto: se però, trattando della pianta Ippocrate, Galeno, Dioscoride, Apicio, Plinio Seniore e tanti altri medici ed eruditi, nel campo delle reciproche competenze, parlarono sempre in termini entusiastici, alludendo soprattutto alle straordinarie qualità medicamentose, un fondo di verità nella "leggenda" deve pur esservi stato. E, con probabilità, era ancor più che una leggenda da studiosi e scienziati, se Nerone ne pagò a prezzo elevatissimo l'ultima spedizione, che reclamò per sè alla vigilia dell'estinzione della pianta, e se, già da molto prima, il succo del Silfio veniva conservato, sotto stretta custodia, nel tesoro pubblico e nei templi.
Fatto certo è che il SILFIO, verso il I sec. d.C. scomparve nel nulla: esiste un solo modo per cercare di ricostruirne la struttura botanica, quello di visualizzarla sulle monete, i tetradrammi (come quello qui riprodotti) di CIRENE dove gli antichi incisori e zecchieri lo immortalarono nei suoi frutti, nei germogli e persino nelle dimensioni, che dovevano essere notevoli se la testa di un cavallo giungeva a malapena alla sua cima.
CIRENE (colonia greca fondata forse nel 631 da coloni dori originari di Tera [Santorini] sulle coste settentrionali dell'Africa, donde la regione fu poi detta Cirenaica), a dimostrazione della grande quantità di tali piante così fiorenti nel suo territorio da caratterizzarlo come ne fossero un "simbolo", scelse, per oltre tre secoli (631-300 a.C.) di utilizzare l'immagine della pianta come "marchio della propria identità nazionale": alla stessa maniera di come fecero un pò tutte le altre città stato e colonie greche> celebre e splendido il caso di RODI e della rappresentazione della rosa, caratteristica della pianta, sulle sue monete a decorrere dal tempo (411-407 a.C.) dell'unione (sinecismo) dei tre centri antichi dell'isola ("Lindos", "Jaliso" e "Camiro").
Gli Statuti Criminali Genovesi del 1556 nel c. 10 del lib, II citano pure sostanze velenose non letali, capaci di condurre alla follia: vi si ricorda pure l'abitudine di ricorrere agli intrugli delle streghe (nel senso di facitrici di VELENI che talora funzionavano all'istante ed a volte no e che più spesso funzionavano, fra lunghe agonie, soltanto per una "bizzarra e casuale" tossicità raggiunta dalla correlazione di intrugli vari). Gli Statuti menzionano pure la consuetudine, in particolare di nobili e dei cittadini più agiati, di prezzolare sicari - avvelenatori [detti anche untori] fra la servitù della parte avversa, affidando loro ogni compito, di procurarsi e somministrare il Veleno, anche in modi impensabili (non era casuale che si prezzolasse una serva del casato nemico, specie una donna di cucina, che potesse manipolare le stoviglie, spalmandone di tossico magari una in particolare, destinata alla vittima prescelta, aggirando il controllo dei saggiatori ufficiali che, anche per non alimentare intorno al banchetto un clima di tensione, esercitavano la supervisione in cucina, lontano dagli occhi padronali e da quelli dei convitati, e soprattutto - per evitare interminabili attese, tranne che in particolari momenti di crisi e sospetto d'attentati - non sondando il contenuto delle specifiche portate ma controllando la genuinità del pasto quando era ancora nel grande recipiente ove era stato preparato; anche se, giova dirlo, non mancarono casi in cui gli avvelenatori, per non fallire o dovendo colpire un nucleo intiero di famiglia, non si fecero scrupolo di "ungere" di veleno proprio la superficie della grande pentola in cui si era preparato il pasto per la globalità dei banchettanti: B. DAVANZATI, Opere (Firenze, 1852 - '53, 2 voll.) II, p.358: "Anna gli fece avvelenare la pentola" (negli Statuti si legge che molti delinquenti si servivano per i loro crimini di bambini e minori sì che mentre questi sarebbero stati salvaguardati contro le pene dall'età, loro, i mandanti, avrebbero potuto allontanare da sè i sospetti o scampare dalle massime accuse, d'ufficio e no).
Il GUAIACO (ant. guiaco) è una pianta della famiglia delle Zigofillacee. Quelle della specie GUAIACUM OFFICINALE sono alte da 6 a 10 m. con foglie persistenti, opposte, peripennate, fiori azzurri in piccole cime, frutto capsulare> sono piante originare dell'AMERICA CENTRALE.
Una specie affine, il GUIACUM SANCTUM cresce nella Florida e nelle Bahamas. Il legno, durissimo, di colore bruno o verde bruno, di grato odore, di sapore acre ed aromatico, costuisce la DROGA detta LEGNO DI GUAIACO o LEGNO SANTO e soprattutto gli Spagnoli si arricchirono con essa importandola in Europa essendo ritenuta un potente rimedio contro le affezioni della SIFILIDE (cosa non vera: in effetti il GUAIACO è pianta curativa ma come antisettico e curativo nelle malattie della vie respiratorie: come si prese a scoprire da quando, nel 1826, Unverborden ottenne per distillazione il GUIACOLO -etere monometilico della pirocatechina-).
Il nome SIFILIDE (malattia che col suo dirompente "arrivo" in Europa quasi SCONVOLSE i teoremi della medicina ufficiale) deriva dal poema dell'autore e scienziato italiano GEROLAMO FRACASTORO cioè Syphilis seu de morbo gallico , Padova, 1530: "Morbo gallico italianizzato in Mal franzese altra denominazione ritenendosi l'infezione introdotta in Europa dagli esploratori francesi delle Americhe: per ragioni pressoché identiche fu anche detta Mal napoletano si cita poi anche la denominazione di LUE.
La variabilità del nome, che alludeva spesso alla provenienza, era dovuta appunto al fatto che, per quanto si può dedurre dalle prime notizie storiche, la malattia sembrerebbe esser stata importata dalle Americhe e, addirittura, si ritennero responsabili della primitiva diffusione gli equipaggi di Cristoforo Colombo (il contagio dipende dal batterio Treponema pallidum e può esser trasmessa alla prole: essa ha avuto larga diffusione soprattutto nel XIX sec. con effetti devastanti fino all'introduzione in terapia degli arsenobenzoli e quindi dei sali di bismuto ed infine della penicillina: anche dalla metà del '500 tuttavia, in Liguria come in tutta Europa, gli effetti disastrosi della malattia diventarono oggetto di grave se non isterica preoccupazione della Sanità pubblica.
Una variante assolutamente antiscientifica dell'interpretazione della SIFILIDE, e che comportava connessioni sia con l' ASTROLOGIA che con la MAGIA, fu sorprendentemente accolta da alcuni medici fisici come Dietrich Ulsen che accompagnò con una sua celebre profezia medica la rappresentazione del SIFILITICO di Albrecht Durer (incisione del 1496): secondo la profezia del medico la SIFILIDE era sì una malattia ma la sua diffusione epidemica sarebbe stata agevolata dalla congiunzione planetaria del pianeta GIOVE con SATURNO nel segno dello SCORPIONE, avvenuta poco più di dieci anni prima nel 1484 (vedi: C. d'AFFLITTO, in Firenze e la Toscana dei Medici nell'Europa del Cinquecento , sezione Astrologia, magia, alchimia , Firenze, Edizioni medicee, 1980, p.335).
Questa VARIANTE PSEUDOMEDICA che affonda le sue radici parte nella MAGIA NATURALE, parte nell'ASTROLOGIA e parte nella SCIENZA MEDICA del tempo non costituisce tuttavia un fenomeno isolato.
A livello popolare la CAUSALITA' DELLE MALATTIE si caricò di ELEMENTI MAGICI e di un BAGAGLIO DI SUPERSTIZIONE che affondava le radici colte nella cultura dell'ARETALOGIA GRECO-ROMANA e di una MEDICINA POPOLARE ANTICA per cui, con vari espedienti (anche non privi di fondamento come il lavaggio nelle acque termali) si guariva da determinate malattie) ma per cui, talora, la MALATTIA era PUNIZIONE DIVINA PER UNA COLPA PROPRIA O DELLA FAMIGLIA: da qui, specie nei paesi mediterranei, si sviluppò, a livello di cultura popolare la consuetudine di nascondere dalla famiglia la malattia di un congiunto, come EFFETTO DELLA MALVAGITA' DI UN DEMONE MALIGNO O DI UN DIO PAGANO DIVENUTO DEMONE PER EFFETTO DELLA CRISTIANIZZAZIONE o quale ARTIFICIO DI MAGIA NERA, praticata da STREGHE, FATTUCCHIERE o MASCHE, specie in caso di malattia inspiegabile come una FORMA EPIDEMICA [ma anche un'impotenza a procreare, la tendenza ad abortire, la MALATTIA MENTALE nelle forme più temute, secondo gli AFORISMI DI IPPOCRATE, la MELANCONIA/MELANCOLIA o MANIA, che non sempre ma di frequente era la DEPRESSIONE, ma che si ritenne a lungo effetto d'un MALEFICIO DIABOLICO (quando invero non se ne tentarono altre spiegazioni, magari con la discussa
TEORIA DEGLI AFFETTI E DELLE PASSIONI [TEORIA DELLE INCLINAZIONI])
, e la NEVRASTENIA OSSESSIVA, non compresa e quindi dimensionata quale conseguenza di un indeterminato CANCRO, la MALATTIA che i DEMONI e le STREGHE avrebbero frequentemente scatenato contro le loro VITTIME od ancora più direttamente rimandata a quel campo assolutamente soprannaturale delle POSSESSIONI DIABOLICHE (INDEMONIATO - INDEMONIATA) entro cui primeggia in qualche modo la figura del "LUPO MANNARO O LICANTROPO OD UOMO LUPO" pur analizzata dal XVI secolo per opera di MEDICI ILLUSTRI nel tentativo di darne una giustificazione naturalistica qual "FOLLIA LUPINA".
[vedi comunque, per un approfondimento sulla varietà delle patologie di natura psichiatrica, qui, la malattia mentale nella interpretazione che ne darà F. Puccinotti nelle sue celebri Lezioni di Medicina Legale]
***Per un discorso più completo sull'argomento si possono anche consultare la voce RESTRICTIO MENTALIS e soprattutto le voci settoriali ENERGUMENI - LUNATICI - PAZZI EPILETTICI - DEMONIACI OD OSSESSI della voce "IRREGULARITAS" della BIBLIOTHECA CANONICA... del padre francescano Lucio Ferraris: vi si evince come ancora tra fine XVII secolo e primi XVIII secolo, sia per la Chiesa che per lo Stato, tante forme di ISTERISMO fossero connesse a
"POSSESSIONI DEMONIACHE" SI' DA COMPORTARE COME ULTIMA RISORSA IL RICORSO AD "ESORCISMI ORDINARI E/O STRAORDINARI".
Un'ideazione poco scientifica ma in linea coi tempi per giustificare tutte le forme di pazzia comprese quelle insodabili ai mezzi dell'epoca, quelle che, al modo che si legge in altra parte dell'OPERA DEL FERRARIS potrebbero collegarsi al mondo dell'insondabile nei momenti in cui ogni individuo è maggiormente indifeso cioè nel contesto del
***RIPOSO TOTALE QUANDO, NELL'OTTICA DEL TEMPO, DEMONI ED ALTRE ENTITA' POTEVANO PRENDER POSSESSIONE D'UN UOMO O D'UNA DONNA MENTRE DORMIVANO***
sì da alimentare tutta una letteratura canonica e per nulla dedicata all'evasione (fenomeno questo datato recentemente per interazioni tra letteratura orrorifica e cinamotografia dell'"Horror") incentrata sulle interferenze nell'intreccio fra
SONNO E SOGNI DEI "DEMONI DEI SOGNI" QUALI: INCUBI, SUCCUBI, "EPHIALTES" - "LA PESADILLA" - "LA COQUEMARE"
Consapevole dell'esistenza di radicate postulazioni mediche sull'inferiorità fisica e psicologica correnti a riguardo della donna quell'agguerrita antagonista di A. Aprosio che fu Arcangela Tarabotti, nel contesto della sua discussa opera "La Semplicità Ingannata" (o "Tirannia Paterna", comunque uno scritto avverso l'uso delle "monacazioni forzate") non disperde come vaniloquio il teorema che le donne possano esser lunatiche, mobili, imprevedibili ma, dopo aver più volte sottolineata la pazzia di parecchi uomini, finisce per associarli alle donne affermando che se a queste si dà l'appellativo di lunatiche con altrettanta ragione ad un buon numero di uominin si potrebbe assegnare quello di lunatici.
L'apparente equazione, costruita con indubbio garbo retorico, cela però una ben oliata trappola antimaschilista: della pazzia di tanti uomini han parlato poeti ed eruditi ma qui conta poco, essendosi per lo più trattato di giuoco di cultura. Conta invece il fatto tutta questa opera della Tarabotti si è in qualche modo "solidificata" sul principio della femminea mutevolezza [p. 37 ], quasi fosse esclusiva del sesso muliebre: ed invece la sagace suora veneziana, procedendo per via di continui confronti e prestiti ora biblici ora mitologici, giunge a pagina 236 a suggerire anche per gli uomini l'idea di lunaticità, ma a ben guardare d'una lunaticità diversa da quella delle donne (che gli uomini stessi ed i loro maschilisti dottori sottolineano piuttosto quale mutevolezza caratteriale attese le peculiarità del sesso), potremmo dire (ma le parole della Tarabotti ben suggeriscono l'idea) di una lunaticità affatto caratteriale o congenita per natura del sesso ma piuttosto d'una lunaticità cattiva alimentata da supponenza, avarizia, voglie bramose, desiderio di possesso, vizio ed altro ancora, fatta quindi di tutte quelle "qualità negative" che inevitabilmente, anche secondo i dettami della Chiesa di Roma, coniugano egoismo e tracotanza fin a dar concretezza in certi soggetti maschili a quella sorta di pazzia che va, come sopra scritto, dall'onirica vanagloria, alla restrizione mentale all'irregolarità vera e propria in quanto viziati energumeni...una pazzia generata insomma non da uno status biologico ma dall'intolleranza del carattere, da violenza gratuita, presunzione ed ipocrisia una pazzia che, attesa l'identificazione del Demone con i presupposti di violenza, presunzione, ipocrisia concede all'arguta suora di "chiudere il suo cappio" sin a sostanziare la sua affermazione per cui molti uomini son dei Diavoli sia per metafora che per intima essenza dell'animo.
Un bel teorema (qualcosa certamente superiore ad un mero sillogismo) disegna qui la Tarabotti...forse fin troppo fine per tanti suoi altezzosi interlocutori, ma che non può esser sfuggito a lettori attenti quale Angelico Aprosio! una di quelle tante organizzazioni concettuali della suora che meritano d'esser citate: soprattutto per la qualità, in lei evidente a differenza che in tanti suoi interlocutori (a dire il vero Aprosio compreso!) di "rimasticare fin alla nausea luoghi comuni" variamente ereditati, senza dar loro, come la suora riesce a fare, rinnovata linfa entro un nuovo e manierato contesto adatto alla polemica in essere.
L'indagine sui Veleni in uso nell'epoca comporterebbe una trattazione specifica
[per un approfondimento vedi comunque l'interpretazione che su avvelenamento, sintomatologia, veleni e tossici, e quindi sulle tipologie di avvelenamento darà F. Puccinotti nelle sue celebri Lezioni di Medicina Legale]
ma per avere un'idea si possono citare:
La MANDRAGORA, più dello STRAMONIO, "famigerato soprattutto nelle isole britanniche, fu l'"erba delle streghe" tipica dell'Europa continentale (Italia compresa) Delle bacche di questa solanacea si sarebbero servite streghe e
fattucchiere per preparare narcotici e filtri amatori, non di necessità quindi mortali ma comunque capaci di alterare e condizionare la mente di un uomo.
Dopo il predatore per eccellenza, cioè il LUPO ITALIANO tra i grandi animali selvatici dannosi per l'uomo e per gli animali domestici e da allevamento bisogna rammentare la LINCE (detta LUPO CERVIERO)>Genere di Mammiferi della famiglia Felidi (Felix Lynx), che comprende il sottogenere Caracal o lince delle paludi (Catolynx) piccola e simile al gatto selvatico e l'eucervaria o lupo cerviero.
Una vera calamità erano gli INCENDI in una società del legno come in gran parte era quella dell'età intermedia: ad aggravare la situazione stava il fatto che, a fianco di INCENDI SPONTANEI a metà del '500 si intensificarono gli INCENDI DOLOSI di "comunaglie" e "boschi comuni" cioè ad uso delle Comunità che, col passar del tempo, divennero una temuta consuetudine criminale (anche il diritto canonico per quanto di sua competenza dovette, attraverso i secoli, affrontare l'argomento, come può leggersi alla voce INCENDIARIO della BIBLIOTHECA CANONICA, JURIDICA... di padre Lucio Ferraris) INCENDIO / INCENDIARIO v.Stat.Crim., lib.II, c.42, Degli Incendiari> reato gravissimo in una società del legno come in gran parte era quella dell'età intermedia: a metà del '500 gli incendi dolosi di "comunaglie" e "boschi comuni" cioè ad uso delle Comunità, divennero temuta consuetudine criminale. Nel "Capitanato di Ventimiglia" nel 1572 si tenne, ad esempio, un colossale processo contro certo Giovanni Maccario figlio di Nicolò reo d'aver dato fuoco ad un "bosco comune" (ora detto di Passal'orio ora di Passalovo ora di Passalupo) per inglobarne, acquistando poi dal fisco a prezzo ridottissimo i terreni arsi e inutili, gran parte nelle proprietà paterne. Dopo varie ricognizioni, sentiti testimoni ed estimatori (la commissione d'inchiesta presieduta da Pietro Cassini di Vallecrosia computò che dei 1710 alberi del bosco 200 erano andati irrimediabilmente distrutti e che buona parte del bosco, per i vari danni patiti, non sarebbe stata più usabile per le "comunaglie" per circa 30 anni) il Maccario venne condannato alla pesante multa di 100 scudi d'oro>doc. in Civica Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia-Fondo Bono-Ms.1, c.470-71, recto-verso e 482 verso: DURANTE-POGGI, pp.169-175> per supposte azioni stregonesche da cui "Maleficio incendiario".
-IL DIBATTITO SULLA CONDIZIONE FILOSOFICA E GIURIDICA DELLA SCHIAVITU'
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Schiavo/-a (S.-o/-a di guerra - S.-o/-a di natura vedi anche schiavo nel genovesato)>: contro gli scritti di missionari come Bartolomeo de Las Casas (Apologética historia del 1551) l'idea di FENOMENI DIABOLICI e la realtà religiosa di sacrifici umani in onore di un QUALCHE DIO PAGANO per fini propiziatori in occasione di qualche RITUALE DI GUERRA giustificava il genocidio e le razzie fra i villaggi onde far prigionieri, che i Conquistatori spagnoli e portoghesi portavano avanti, da un lato, invece, per conquistarsi possedimenti amplissimi nelle AMERICHE e dall'altro per ottenere manodopera a costo quasi azzerato, per un verso di CEPPI DI ROBUSTI NEGRI AFRICANI DA IMPORTARE COME SCHIAVI LAVORATORI NEL MONDO NUOVO, e per altro verso dei deboli "eredi" delle progredite CIVILTA' PRECOLOMBIANE, gradualmente rivelatisi troppo fragili fisicamente per le malattie introdotte dagli Europei in America (il morbillo, ad es., tra loro ignoto -e contro cui il loro organismo non aveva prodotto anticorpi- fece presto migliaia di vittime) e nel contempo non abbastanza forti per caratteristiche fisiche per sopportare a lungo il durissimo lavoro nelle aziende impiantate dai Conquistatori. Servo/a> Chi è addetto a mansioni umili e lavori domestici in case private o al servizio di personale pubblico> nel "Diritto intermedio" era Servo chi per nascita, cattura in guerra, asservimento socio-politico risultava giuridicamente ed economicamente sottoposto ad altro soggetto, con privazione o semiprivazione della libertà: in effetti Servo (di casa, di proprietà, non stipendiato) per estensione equivale negli "Statuti" genovesi a Schiavo o individuo assoggettato lecitamente - per nascita da madre di pari stato o per cattura in guerra o per condanna giudiziaria ecc. - in modo completo e permanente al dominio d'altra persona (proprietario o padrone) col diritto (eguale o analogo a quello della proprietà) di usarne come bene economico, privo di libertà personale e di personalità giuridica> Servi e Schiavi erano numerosi a Genova, acquistati ai Mercati degli schiavi di Livorno o Nizza o dai musulmani a quello d' Algeri, secondo prezzi per cui lo Schiavo asiatico era più richiesto ma costoso di quello africano o di colore> "Stat.Crim." vedi: lib.II, cap.20 ("provvedimenti padronali contro Servi ladri"); cap.21 e cap. 22 ("Norme contro quanti rubano Servi altrui o li inducono a fuga dalla casa padronale") e cap.23 ("Punizioni padronali contro Schiavi variamente colpevoli) ed ancora, e soprattutto per intendere il valore degli schiavi/servi, la loro quantità a Genova e nel Dominio, i loro rapporti con la popolazione ligure) vedi il cap. 66 ("Multe e fustigazioni per chi abbia avuto coito con Serve in casa dei padroni) ed ancor più, se possibile, il cap.93 ("Pene o ammende a pro dei padron legittimi per chi sposò Schiave straniere")
SCORBUTO>Anche Scòrbuto è malattia contraddistinta da emorragie e progressivo indebolimento organico dovuto a carenze di vitamina C. In passato lo scorbuto era diffuso fra le classi meno agiate e soprattutto tra gli equipaggi dei vascelli, gli esploratori, i prigionieri. Oggi la malattia è piuttosto rara per l'elevato consumo di vitamina C e di vegetali freschi. All'inizio la malattia produce grave stachezza e facile senso di affaticamento, depressione psichica ed insonnia: in un II momento compaiono emorragie cutanee, delle mucose e sottomucose, che nel cavo orale si accompagnano a necrosi delle gengive ed a caduta di denti> Non è raro il caso in cui vengono colpiti anche l'apparato scheletrico e le cartilagini articolari di modo che viene gravemente compromessa la motilità dell'ammalato. PELLAGRA>Deriva da PELLE e -AGRA ed è malattia da carenze di vitamine, caratterizzata da eritemi pruriginosi nelle zone della cute esposte ai raggi del sole. La PELLAGRA dipende soprattutto da una forte mancanza di vitamina PP (acido nicotinico) e presenta andamento stagionale, con maggior frequenza in primavera ed estate. Nel passato era comune nelle regioni settentrionali più povere mentre oggi la si riscontra soprattutto, allo stato endemico, fra popolazioni del "Terzo Mondo". Oltre all'eritema i sintomi si riconducono alla formazione di flittene e desquamazione della pelle: la malattia si tratta somministrando dosi massicce di vitamina PP.
Il RACHITISMO è una
malattia dello scheletro dovuta a una carenza di vitamina D o ad un insufficiente apporto alimentare di calcio, o alla combinazione dei due fattori. È attualmente una malattia rara. Il deficit di calcio o di vitamina D (la cui funzione è di regolare l’assorbimento intestinale di calcio introdotto con gli alimenti) provoca, per un meccanismo di compenso, la mobilizzazione del calcio contenuto nelle ossa, allo scopo di mantenerne costante la concentrazione nel sangue. Il rachitismo è una malattia tipica dei bambini (nell’adulto prende il nome di osteomalacia) e colpisce quindi individui nella fase di accrescimento. I principali sintomi riguardano lo scheletro e sono dati da deformità e rammollimento delle ossa, rallentamento della crescita staturale, ritardo nell’eruzione dei denti e nell’inizio della deambulazione. Spesso si associano debolezza muscolare, convulsioni, depressione delle difese immunitarie, maggiore frequenza delle infezioni broncopolmonari. La terapia si basa sulla somministrazione di calcio e di vitamina D.
USURA(condanna ecclesiastica)> "interesse esagerato di un capitale" dal lat.usura, a sua volta deriv. dal verbo latino uti = "usare"(Conc. Niceno I - 325)>: "CANONE XVII - Dei chierici che esercitano l'usura/ Poiché molti che sono soggetti ad una regola religiosa, trascinati da avarizia o da volgare desiderio di guadagno, e dimenticata la divina Scrittura, che dice: 'Non ha dato il suo denaro ad interesse', prestando, esigono un interesse, il santo e grande sinodo ha creduto giusto che se qualcuno, dopo la presente disposizione prenderà usura, o farà questo mestiere d'usuraio in qualsiasi altra maniera, o esigerà una volta e mezza tanto, o si darà, in breve, a qualche altro guadagno scandaloso, sarà radiato dal clero e considerato estraneo alla regola"> Principio ripreso molto dopo e con maggior violenza contro usurai ecclesiastici e laici dal Concilio Lateranense III del 1179, i cui dettami saranno però ripresi, anche contro gli Ebrei, dal Concilio Lateranense IV-1215:"Più la religione cristiana frena l'esercizio dell'usura, tanto più gravemente prende piede in ciò la malvagità dei Giudei, così che in breve le ricchezze dei cristiani saranno esaurite. Volendo, pertanto aiutare i cristiani a sfuggire ai Giudei, stabiliamo con questo decreto sinodale che se in seguito i Giudei, sotto qualsiasi pretesto, estorcessero ai cristiani interessi gravi e smodati, sia proibito ogni loro commercio con i cristiani, fino a che non abbiano convenientemente riparato". USURA (condanna laica o dello Stato> ma vedi anche condanna ecclesiastica dell'usura)> Storia antica dell'Usura> mentre la Bibbia condanna l'Usura esercitata a danno della propria gente e non quella fatta a danno degli stranieri (Deutoronomio, 23, 19) nella Grecia Classica Aristotele non giustificava l'U. in linea filosofica, giudicando la moneta quale mezzo di scambio senza spiegarsi che potesse dare dei frutti: in Roma antica l'U. non comportava disapprovazione morale né provvedimenti di legge, visto che lo stesso suo nome si usava per indicare anche prestiti senza interesse (Cicerone, In Verrem, 3, 168).
SEPOLTURA> (Santità della sepoltura e persecuzioni di legge di Chiesa e Stato contro i profanatori di luoghi sacri: divieto alla SEPOLTURA IN TERRA CONSACRATA)> gli "Statuti Criminali genovesi" demandano queste opzioni, quali marchi di Infamia dopo la morte all'autorità ecclesiastica (libro II, capo 89 p.es.) e questa, seguendo i dettati conciliari, per esempio non concedeva S. consacrata agli Usurai (Usura - Condanna ecclesiastica = in merito alle pene ecclesiastiche per costoro si leggano i
PARAGRAFI DALL'88 AL 101 ed in dettaglio il PARAGRAFO 95 = DIVIETO DI SEPOLTURA IN TERRA CONSACRATA, dalla BIBLIOTHECA CANONICA, JURIDICA... di Lucio Ferraris, entro la voce
USURA. SCOMUNICA dal lat. excommunicare cioè isolare un individuo dal gruppo dei fedeli di una certa religione di cui faceva parte (in tal senso si intende che la S. non è elaborazione ideologica cristiano-cattolica) > Secondo l'attuale codice cattolico di diritto canonico (art.2257-2267) per S. si intende una "censura che esclude dalla comunione dei fedeli secondo particolari effetti stabiliti nei relativi canoni". La S. concepita sian dai tempi apostolici e ridiscussa in vari concili ecumenici (Nicea, 325 - Calcedonia, 451) si articolò infine in due forme. La più ampia o S. maggiore contemplava l'esclusione del reo anche da qualsiasi tipo di rapporto cogli altri fedeli mentre la più mite o S. minore comportava solo l'interdizione del reo da alcuni momenti importanti della vita rituale ed ecclesiastica. Colla scomparsa di questa seconda forma di S. (bolla Apostolicae Sedis del 1869) gli Scomunicati vennero distinti in Vitandi (da doversi evitare, i più gravi) e Tolerati e quindi ancora riclassificati secondo una più dettagliata gradazione che attualmente si può ricondurre a 37 casi: 4 riservati al pontefice specialissimo modo, 11 speciali modo, 11 simpliciter, 6 riservati all'ordinario e 5 non riservati. Per intendere la valenza nell'età intermedia, oltre che dell' Interdetto, anche e soprattutto della S. basta quanto scrive Pierpalo Bonacini alla voce S. del FEDELE (GRANDE DIZIONARIO ENCICLOPEDICO, UTET, TORINO, anni diversi) (p.404, d , vol. XVIII): "Particolare effetto assumeva la S. nella società medievale, la cui maggior tensione religiosa e spirituale, incorporata in un ordinamento caratterizzato dalle forti e diffuse connessioni tra poteri temporali ed autorità ecclesiastiche, portava quanti erano esclusi dalla vita sacramentale e dalle relazioni cogli altri componenti della chiesa alla pressoché completa emarginazione dall'intero corpo sociale. Inoltre, essa conservava un più profondo rilievo a livello politico in seguito al potere, che le veniva riconosciuto, di sciogliere dal dovere di obbedienza i sudditi di re e imperatori ai quali fosse stata comminata".
Movimento convulsivo che tende e separa i muscoli labiali, dando al volto un'espressione allegra e ridente. SARDONIA = ERBA SARDONICA: Ranuncolacea anche detta RANUNCULO PALUSTRE (Ranunculus sceleratus) con piccoli fiori gialli in cime terminali, foglie succulente tripartite, acheni a forma di becco. TETANO (dal greco tetanos: contrattura, tensione): Malattia tossinfettiva causata nell'uomo e negli animali da un'esotossina neurotropa elaborata dal batterio Clostridium Tetani penetrato nell'organismo attraverso una ferita.
-ARETALOGIA> novellistica sacra pagana greco-ellenistica, che, per ROVESCIAMENTO DEI VALORI, fu interpretata in ambito cristiano come tradizione "diabolica".
-La RAPPRESENTAZIONE della MORTE all'epoca di Aprosio causata da tante PATOLOGIE e da non minori VIOLENZE SOCIALI e NATURALI (sin al punto di rendere adeguati i LUOGHI DI INUMAZIONE DEI CADAVERI e quindi editare reiterati TRATTATI SULL'ADEGUAMENTO DELLE INUMAZIONI) costituisce peraltro un patrimonio enorme dell'iconografia cristiano-cattolica spesso supportata da significative RACCOLTE POETICHE.
La SEPOLTURA (con le conseguenze giuridiche -ecclesiastiche e civili- della Santità della sepoltura e persecuzioni di legge di Chiesa e Stato contro i profanatori di luoghi sacri e "Divieto alla Sepoltura in terra consacrata per gli usurai")> gli "Stat. Crim." demandano queste opzioni, quali marchi di Infamia dopo la morte all'autorità ecclesiastica (libro II, capo 89 p.es.) e questa, seguendo i dettati conciliari, per esempio non concedeva S. consacrata agli Usurai (Usura - Condanna ecclesiastica). Nei riguardi di Eretici, Streghe e Maghi la regolamentazione era offerta dal "Maglio delle Streghe" ed ancora più da M.DELRIO (lib.V, sez.XIX, pp.97-98):"Si deve procedere alla sepoltura del corpo di colpevoli di stregoneria, anche macchiata d'eresia?
Il decreto della legislazione francese che dal 12-VI-1804 regolava le sepolture"
fu esteso all'Italia con il decreto in data "Saint Cloud 5-IX-1806", pubblicato nello stesso anno
sul Giornale Italiano", il cui n. 276 (3 ottobre) conteneva gli articoli 75, 76, 77, della
Sezione X: la normativa era relativamente nuova in quanto si uniformava alla legislazione europea sulle nuove modalità di sepoltura, onde evitare rischi di contagio, ammorbamenti dell'aria, la formazione di lugubri cripte con corpi in decomposizione.
La lettura dei capi fondamentali dell' Editto di Saint Cloud del 1806 permette però di evincere che, al di là dei casi di intolleranza amministrativa e burocratica cui si è fatto sopra cenno la nuova LEGGE SUI CIMITERI" era sostanzialmente guidata dai fondamentali ma condivisibili capi 75-77 della sezione X dell'editto, qui di seguito riportati:
La constatazione della morte determina un certo numero di ATTI POSITIVI, volti a rendere pubblico il fatto, e negativi (tabù-interdizioni) che segnano l'inizio di uno stadio di attesa o sospensione, perdurante talvolta fino al ritorno dal cimitero, talaltra sino alla messa trigesimale o d'anniversario. Tra i PRESAGI di folklore panitaliano, alquanto diffusi nella cultura popolare ligure ponentina (ma anche provenzale) sono da collocare fattori conosciutissima come la rottura di uno specchio, la caduta del sale sulla tavola, la perdita dell'olio (chiaramente messaggi originati dal fatto che, nell'età intermedia, trattandosi di prodotti di notevole valore la loro perdita significava comunque una sventura e poteva preludere ad una sventura più grave ancora nel contesto della famiglia). Di provenienza assolutamente moderna e romanzesca, e successivamente teatrale e cinematografica, è invece la fragilità costituzionale del Vampiro" a fronte degli apparati sacri cristiani", in primo luogo della Croce" (ma è una variante culturale cristiano-europea, priva di fondamento anche a livello di leggenda: molti Vampiri" sarebbero miscredenti e la Croce non avrebbe vigore nei confronti di Vampiri di altro ambiente religioso: ad istituzionalizzare la Croce quale arma contro i Vampiri è stata la produzione culturale occidentale cristiana ed il presupposto di base che il Cristianesimo costituisse l'unica vera religione. In siffatto ragionamento (violando quella sorta di ordinamento morale e in qualche maniera "deontologico" che ha guidato l'erudizione attraverso i millenni) concorre il sincretismo fra morale ottocentesca e OPPOSIZIONE ECCLESIASTICA" (ora sotto forma canonica di credenza nel vampiro e di sua persecuzione coi rimedi istituzionali se non addirittura propri della più variegata fede popolare ora sotto forma di trattati abbastanza ben esposti come quello settecentesco di G. DAVANZATI che apertamente negava l'esistenza di siffatti terrori notturni ricacciandoli nelle nebbie della superstizione) alle posizioni opposte dell'ANTICLERICALISMO FILOSOFICO", in particolare di matrice ILLUMINISTA E GIACOBINA", ed ancor oltre, entro un circuito di ipotesi troppo esteso per venir riproposto, ad una forzata pseudoidentificazione tra Vampiro" e apocalittico, giovanneo Anticristo": anche il "riso sardonico" attribuito alle Lamie" e poi, ancora una volta entro una certa letteratura e cinematografia, trasmesso tanto a Streghe" che a Vampiri" recupera la sua motivazione dalla cultura popolare e da una tradizione della farmacopea che affonda le radici in un'erboristeria" permeata di magismo.
Angelico Aprosio tra i "Fautori" cioè tra i"sostenitori" della Sua "Libraria"
annovera "Anfrano Mattia Fransoni" erudito genovese non privo di ambizioni letterarie e soprattutto intenzionato ad affermarsi quale editore critico.
Il "Fransoni" si era in particolare meritata la riconoscenza aprosiana per aver procurato all'agostiniano (che per personale curiosità e quale Vicario dell'Inquisizione cercava di tenersi informato su ogni argomento connesso a scienza o "medicina legale") un testo all'epoca ritenuto scientifico ma già motivo di accanite discussioni per
la continua potenzialità di sconfinamento nell'esoterismo vale a dire il raro e misterioso volume del"Theatrum Sympatheticum..." una silloge in cui erano stati accorpati i contributi di vari autori (non sempre giustificati dalla censura della Chiesa di Roma) che andavano trattando aspetti molteplici
di un tema all'epoca in auge come quello del magnetismo universale senza dubbio studiato a fondo dall'agostiniano intemelio come si ricava da quanto pubblicato entro il capitolo XII (con documentate riflessioni sulla base di un autore ben noto al ventimigliese come Pietro Servio) ed il
capitolo VIII della sua "Grillaia", specificatamente nella lunga dissertazione che corre da p. 100 a p. 105. La MUMMIFICAZIONE fu importata dai Romani nel modo occidentale e pur non divenendo pratica comune di seppellimento gli scavi archeologici hanno lasciato tracce di un certo significato con ritrovamenti avvenuti nel RINASCIMENTO come in tempi recenti.
In'opera di medicina, l'Hortus Sanitatis del 1557 furono ribaditi vari concetti sulla potenzialità terapeutica della MUMMIA: la prima ILLUSTRAZIONE nota del modo abituale di procurarla (saccheggiando i depositi di mummie che affioravano o che erano stati individuati dai profanatori, esistenti sin dalla notte dei tempi) è invece contenuta nell'ultima pagina dell'opera di Joachim Struppe dal titolo Testimonianze dei più famosi dottori, storici e filosofi sui medicamenti esotici più segreti e preziosi, in special modo sulla mummia e su tutto quanto la riguardo; e come essa fu universalmente impiegata nei tempi antichi in Giudea, Egitto, Arabia e altrove.
Riflessioni un pò diverse valgono invece nei riguardi del Vampirismo e naturalmente del Vampiro, figura "diabolica" in apparenza propria della cultura popolare e della superstizione dell'Europa orientale e dei popoli carpatico-danubiani: ma in realtà questa credenza è dovuta alla tradizione letteraria e cinematografica che ha confuso la leggenda dei Vampiri -propria di quasi tutte le culture mondiali di tutti i tempi- con la vicenda storica e poi romanzata di "DRACUL L'IMPALATORE" il Signore di Valacchia che combattè ferocemente ed orribilmente nel XVI secolo i Turchi invasori che glia avevano trucidata la famiglia Sul Vampirismo si hanno documenti dell'antica Cina, di Babilonia, della Caldea, dell'Assiria, dell'Egitto (la tredicesima formula di una tavoletta di scongiuri proveniente dalla biblioteca reale di Ninive infatti dice "...il fantasma, lo spettro, il VAMPIRO..."). Pure nella razionale Grecia classica si trova questo mito su morti che si sarebbero nutriti del sangue dei viventi: basta ricordare la tragedia Ecuba di Euripide in cui compare la figura di Achille nel sepolcro, quietato dal sacrificio di una vergine di cui il defunto eroe beve il sangue). Nel Medioevo il Vampirismo (si sarebbe diventati Vampiri per suicidio, morte violenta, caratteri ereditari, nascita con particolarità genetiche - come i denti canini acuminati - o morali e spirituali di dannazione e predisposizione verso certi delitti) acquistò diffusione globale nella tradizione europea, assumendo, questo orrore notturno, specifiche caratteristiche fisiche (labbro leporino, volto scarlatto, lingua dalla punta affilata, sembianze animalesche - dal cane al rospo alla pulce al ragno - con un'unica narice e pelle sempre gonfia e tesa) e caratterizzandosi con nuovi poteri come quello di generare carestie e siccità e rendere impotenti gli uomini (ed in ciò presentando molti punti di contatto con la figura di Streghe e Lamie) e propagare la peste (al contrario risultando in ciò prossimo al Mago che ha fatto patti con Satana ed in particolare con gli Untori e propagatori di morbi, emissari del Maligno. Per ricevere i compensi di un patto diabolico (ad es. l'immortalità) gli UNTORI, come detta il loro stesso nome, avrebbero unto [con l'ausilio oltre che di DEMONI anche di STREGHE] di sostanza propagatrice di peste, le abitazioni delle città fra XIV e XVII secolo. Sorprendentemente, a prova delle contraddizioni epocali, mentre contro la peste ci si serviva alla luce del sole, quando possibile e quindi fra altri consimili "prodotti", di un particolare SPECIFICO [nella medicina antica un FARMACO IDONEO A CURARE UNA SPECIFICA MALATTIA], per la precisione una costosa e quantomeno discutibile combinazione alchimistica , permeata di fantasie improponibili per qualsiasi disciplina empirica, come l'Olio contravveleno, sciroppo di scorpione bollito realizzato presso l'Officina farmaceutica granducale di Firenze, al contrario parecchi innocenti e severi alchimisti, colpiti da infamanti accuse caddero vittime di superstiziose paure e cacce feroci [in nome del rigore critico v'è comunque da dire che, per quanto la credenza fosse diffusa, non si son scoperte moltissime tracce documentarie sugli Untori, un pò per la dispersione del materiale ed ancor più per l'assenza di ricerche moderne a vasto raggio].
Escludendo il milanesato ove il fenomeno persecutorio fu eclatante e peraltro sancito ufficialmente dall'autorità attraverso apposite Gride [Grida] (vedi F. NICOLINI, La peste del 1629-1632, in Storia di Milano, Fondaz. Treccani degli Alfieri, Milano 1953-1966, vol.X, pp.499-564) si hanno sì indicazioni, un pò per tutto il '500, di processi e roghi contro Untori nella città e territorio di Ginevra (E.W.MONTER, Witchcraft in Geneva, 1537-1662, in "Journal of Modern History", XLIII, 1971, pp.183-184) ed ancora nella Savoia (G.PARKER, The army of Flanders and the Spanish road, 1567-1659, University Press, Cambridge, 1975, p.66) ma altrove la mappa degli untori non è facile da disegnare anche perché, di fronte a sospetti di unture o di propagazione del contagio (esulando scientemente dalle definizioni fin troppo decise ed esplicite dei testi inquisitoriali ecclesiastici) negli atti del braccio secolare non sempre venne usato questo epiteto al fine di indicare malefici avvelenatori (un poco per non seminare "panico superstizioso" e molto di più onde non cedere spazio ed azione all'invadenza del Santo Ufficio: si veda al proposito con quanta prudenza terminologica - pur alludendosi anche a veneficij compiuti per via magica [e quindi implicitamente all'opera di UNTORI] - sia stato redatto sugli "avvelenamenti" - il capo X del II libro dei genovesi Statuti Criminali di Genova. Eppure la giustizia penale nel '500, noto col '600 come secolo dei veleni, ebbe sempre a che fare cogli "avvelenamenti" (di cui erano state escogitate varie forme e tecniche: compresa l'usanza di prezzolare la servitù corrotta di qualche nemico perché ne spalmasse le posate od i piatti con unguenti tossici) contro cui (visto il mistero che aleggiava sull'onnipotente - e probabilmente solo fantasioso - antidoto di Mitridate, il "contravveleno per eccellenza" usato dal re orientale nemico di Roma) sino all'Ottocento, tempo in cui persistevano i "fanatici" delle sostanze velenose, si usava la Triaca o più propriamente "Teriaca", antidoto classico - dalle svariate composizioni - riconosciuto ancora validissimo dalla farmacopea ufficiale francese di fine XIX sec.: una sorta, piuttosto elementare però, di Teriaca è anche quella che tra II e III sec. d.C., in un'epoca di instabilità del governo imperiale in cui i veleni servivano per risolvere certe controversie di potere, Quinto Sereno Sammonico registrò nel suo Liber medicinalis (ora edito a c. di C. Ruffato per la "Strenna '96"-U.T.E.T.-Torino) alla ricetta 60 ("Degli Antidoti") e dove si legge che "Per tutelarsi dalla perfidia d'una ostile/ matrigna o di qualche invidioso che si arrovella/ per la tua fortuna bisogna predisporre una condotta cautelare per gli avvelenamenti/ inattesi (in effetti nel '500 i potenti ed i re, ma anche parecchi nobili ed agiati cittadini, escogitarono la formula un pò macabra del "servo assaggiatore dei cibi"). Come antipasto mangiare dunque delle noci. Le coppe d'elettro cangianti/ svelano il veleno. E' poi opportuno bere/ un decotto di corteccia di quercia/ o prendere dei fichi sott'olio. La divinità/ ha sovente prescritto come alimento/ il rafano..." anche se poi, non funzionando - come probabile - alcuna cautela, nella successiva formula del ricettario medicinale l'erudito romano annotò pure una "Terapia contro gli avvelenamenti": in qualche caso - ancora nel '500 e vista la fama di Sereno Sammonico - suggerita dai medici stessi alle vittime dei veleni: "Qualora le cautele non riescano ad evitare/ l'orribile veleno urgono le cure atte/ ad espellere la sostanza assorbita./ Si afferma l'efficacia del latte d'asina/ e di mucca tranquilla ( per Plinio seniore ed altri medici antichi - ma è altresì un espediente d'un certo reale effetto - il latte possedeva qualche proprietà contro alcuni veleni proteggendo la mucosa gastrica e limitando l'assorbimento di particolari tossine). La maggioranza/ prende l'erba betonica con poco vino./ L'assaporare il succo dell'edera, che avviluppa/ gli alberi elevati, nelle coppe, renderà/ innocue quelle che qualcuno avrà inquinato/ con erbe velenose. La rapida frenesia/ indotta da ingestione di giusquiamo/ potrà essere alleviata con latte di capra (come lo "stramonio" era "veleno di streghe", lo "GIUSQUIAMO" si definiva spesso "veleno di donne" per la sua maneggevolezza e facile reperibilità e le donne, ricorrendo all'astuzia ed alle sostanze tossiche contro varie angherie maschili, non mancarono nel '500 di ricorrervi: il giusquiamo infatti, somministrato a dosi elevate, determina frenesia, allucinazioni e fatale collasso, spesso non riconosciuto dai medici del tempo in virtù dell'usanza di soprassedere ad un'indagine oculata sul cadavere e tantomeno da un'ispezione necroscopica adeguata, specialmente quando si riusciva a mascherare il sospetto di un possibile delitto)].
Una verità di fondo, in questo caso alternativa sia al paranormale che alla spiegazione medica e scientifica, sta comunque alla radice del Vampirismo: il potere salvifico o maligno attribuito al sangue umano ed alla sua assunzione [cartaginesi, galli, certe popolazioni germaniche e barbariche, gli Unni e presso altre culture i guerrieri Masai del Kenia -che si nutrono però esclusivamente di latte e sangue bovino- i Vichinghi e gli amerindiani Dakota-Sioux assaggiavano il sangue dei nemici uccisi in battaglia per farne propri la forza ed il valore (ma i pesanti cavalieri catafratti, cioè corazzati come i loro cavalli, gli stessi Unni e gli Alani, molto più praticamente, nel corso di campagne militari che si protraevano per lande desolate e fredde non mancavano, prima dei combattimenti, di succhiare per via d'una cannula, infissa nella vena giugulare del loro cavallo o di un eventuale cavallo "d'appoggio o scorta", un pò di sangue tiepido per trarne un utile goccio d'energia vitale altamente proteica). Sul fronte opposto rispetto a quello del sangue benefico sta l'ancor più complicato teorema del sangue malefico, cioè a livello malefico, il sangue "guasto", in qualche modo corrotto ed inutile (da qui deriva peraltro l'estremizzazione di questo fatto biologico nei contorni della tarda e paraerotica leggenda secondo cui i Vampiri prediligerebbero in linea assoluta il puro sangue delle vergini) doveva al contrario evitarsi - anche sotto forma di semplice, casuale contatto - essendo ritenuto "depositario" di forze oscure e debilitanti: ad esempio - e ciò era abbastanza diffuso anche nella cultura popolare ligure dal Medioevo - si giudicava "dannoso" quello "ormai degradato e degenerato" del "flusso" della FEMMINA MESTRUATA cui per antica tradizione pseudomedica veniva proibito di toccare piante (soprattutto germogli) od animali (cuccioli in particolare e femmine gravide di ogni specie domestica e d'allevamento) onde, come si credeva, non farli ammalare, non procurare inconsapevolmente degli aborti o non far nascere creature deformi (né bisogna dimenticare che fra le primarie interferenze negative attribuite alle Streghe sussisteva la credenza che potessero nuocere a piante novelle e neonati, servendosi - in modo quasi abituale - delle loro urine e soprattutto del proprio sangue mestruale in combinazione con altre particolari misture (in gran parte costituite da sordes cioè residui organici umani) od in composizione con parole magiche e sguardi incantatori: anche per siffatta ragione e più in generale per la credenza in queste "energie infauste del sangue impuro" in non poche case fu costruito un locale apposito di segregazione, detto la "Camera della mestruata" dove la stessa risiedeva, tristemente isolata dal contatto coi famigliari, specie i piccoli, sino alla fine del suo ciclo. Queste convinzioni sulla "donna mestruata", che a livello popolare si son tramandate fino ai giorni attuali, trassero vigore da arcane considerazioni parascientifiche sviluppate principalmente da Senocrate ed Anassilao, ed anche da Solino, e comunque riprese da Plinio il Vecchio - XXVIII, 77-79 - che esercitò enorme influenza sulle credenze mediche sin oltre il medioevo: ".... Prima di tutto sostengono che il sangue mestruale esposto di fronte alle saette allontana la grandine ed i turbini: così si calmerebbe la furia degli elementi. Inoltre sarebbe sufficiente, allo scopo di disperdere le tempeste durante la navigazione, che una donna anche non mestruata si liberasse delle vesti restando nuda. Dalle mestruazioni, che generano effetti straordinari e di cui ho scritto in un altro passo di quest'opera, si può dire che se ne ricavano presagi negativi e terribili, tra i quali, senza troppe remore e pudore, alcuni si possono citare. Ricordo per esempio che se l'energia del mestruo coincide con una eclissi lunare o di sole non sussiste alcuna difesa contro quest'ultima; fatto che si verifica pure in occasione d'un novilunio. Il maschio rischia molto nell'accoppiarsi con una donna mestruata, e può patirne funeste conseguenze, tenendo altresì conto che quel sangue guasto è in grado addirittura, data la sua forza, di macchiare la rossa porpora... Per quanto concerne invece il dato positivo [a riguardo del sangue mestruale o sangue guasto occorre dire] che se una donna mestruata, del tutto nuda, attraversa un campo di grano e dalle spighe cadono morti gli insetti nocivi, gli scarabei, i vermi ed i tanti parassiti, esso fu scoperto, a perere di Metrodoro di Scepsi - soprannominato l'"odiatore dei romani", filosofo ed erudito condannato a morte da Mitridate nel 70 a.C. - , facendo ricerche su un'invasione di parassiti cantaridi [si trattò forse di un coleottero vescicatorio della famiglia Meloidi, dal nome scient. di Lytta versicatoria od alternativamente della Lytta segetum, seguendo almeno le ipotesi del Leitner nella sua Terminologia di zoologia a p.70] in Cappadocia: è appunto da quel tempo che le donne di tale regione usano attraversare i campi per bonificarli quando sono indisposte, tenendo le vesti rialzate fin sopra le natiche. In altri luoghi invece si riscontra poi soltanto la tradizione che le donne mestruate procedano, per i terreni coltivati, a piedi nudi, coi capelli sciolti sulle spalle e la veste slacciata. Secondo l'opinione di parecchi non debbono però far ciò al sorgere del sole perché in tal caso al contrario le sementi patiscono, le viti novelle muoiono, come la ruta e l'edera che pure sono importanti piante medicamentose. Si è detta comunque solo una parte di quanto è documentato intorno alla potenza delle mestruazioni. In senso storico la figura del Vampiro si concentra dal tardo Medioevo nell'Europa slava ed orientale, seppur con una forte penetrazione in Grecia: dopo la SETTECENTESCA RISCOPERTA DI QUESTA LEGGENDA (incentivata dalle discussioni seguite alla pubblicazione nel 1679 del volume Dissertatio Historico - Philosophica de Masticatione Mortuorum di Philippus Rohr), la figura del Vampiro venne "esaltata" - anche per la sua innata, e a quel tempo di moda, caratteristica anticlericale - sulla direzione di certi miti storici, rumeni e transilvanici e addirittura d'area magiara ed austriaca, legati alle figure di "Nosferatu" e in particolare del "CONTE VLAD" (Vlad l'Impalatore altresì noto come Dracul, che nel 1476 il re d'Ungheria MATTIA CORVINO fece imprigionare a Medias, città transilvanica della Romania centrale, nella torre pendente cinquecentesca di ben 74 metri aggiunta alla chiesa evangelica in stile gotico del XV secolo). Per comprendere le interazioni "culturali" tra Vampiro e Strega-Lamia è comunque interessante leggere la parte conclusiva della LVIII ricetta (Terapia dei bambini molestati dalla dentizione o dalla strige) del Liber medicinalis (II-III sec.d.C.) di Quinto Sereno Sammonico, dove si legge:"...Qualora una cupa/ strige incalzi i bambini e sprema sulle loro/ labbra socchiuse poppe velenose, seguire/ i suggerimenti di Titinio, autore all'antica/ di importanti commedie togate,/ che consiglia di appendere loro dell'aglio" [si tratta del poeta comico Vettio Titinio, forse del II sec. a.C.> Sammonico non cita Plinio Seniore che pure elogiò l'aglio nella sua Storia Naturale XX, 23 : in effetti, su questo argomento, lo scienziato-erudito si mantenne prudentemente generico pur scrivendo che"...il suo odore tiene lontani serpenti e scorpioni e, come alcuni hanno affermato, qualsiasi animale..."]: Sammonico, a riprova della sua duratura e grande influenza culturale, deve aver condizionato - pur in mezzo a qualche fraintendimento - il tardo estensore del Bestiario medievale, detto Bestiario moralizzato ove, alla rubrica XXII, trattando De la lanmia si allude alle tossine che sotto aspetto di latte sgorgherebbero dalle sue mammelle e avvelenerebbe "lo filiolo": concetto in cui si intersecano riferimenti biblici, dove "il figliolo" sarebbe piuttosto il "cucciolo" della Lamia o dello sciacallo, e cultura popolare pagana per cui nel "figliolo" sarebbe invece da ravvisare l'inerme "fanciullo/-a" vittima notturna e dormiente della donna demone: V. Bestiari medievali cit, p.504, XXII.
Di provenienza assolutamente moderna e romanzesca, e successivamente teatrale e cinematografica, è invece la fragilità costituzionale del Vampiro a fronte degli apparati sacri cristiani, in primo luogo della Croce (ma è una variante culturale cristiano-europea, priva di fondamento anche a livello di leggenda: molti Vampiri sarebbero miscredenti e la Croce non avrebbe vigore nei confronti di Vampiri di altro ambiente religioso: ad istituzionalizzare la Croce quale arma contro i Vampiri è stata la produzione culturale occidentale cristiana ed il presupposto di base che il Cristianesimo costituisse l'unica vera religione. In siffatto ragionamento (violando quella sorta di ordinamento morale e in qualche maniera "deontologico" che ha guidato l'erudizione attraverso i millenni) concorre il sincretismo fra morale ottocentesca e OPPOSIZIONE ECCLESIASTICA (ora sotto forma canonica di credenza nel vampiro e di sua persecuzione coi rimedi istituzionali se non addirittura propri della più variegata fede popolare ora sotto forma di trattati abbastanza ben esposti come quello settecentesco di G. DAVANZATI che apertamente negava l'esistenza di siffatti terrori notturni ricacciandoli nelle nebbie della superstizione) alle posizioni opposte dell'ANTICLERICALISMO FILOSOFICO, in particolare di matrice ILLUMINISTA E GIACOBINA, ed ancor oltre, entro un circuito di ipotesi troppo esteso per venir riproposto, ad una forzata pseudoidentificazione tra Vampiro e apocalittico, giovanneo Anticristo: anche il "riso sardonico" attribuito alle Lamie e poi, ancora una volta entro una certa letteratura e cinematografia, trasmesso tanto a Streghe che a Vampiri recupera la sua motivazione dalla cultura popolare e da una tradizione della farmacopea che affonda le radici in un'erboristeria permeata di magismo: Quinto Sereno Sammonico, sulla scorta della letteratura medica e scientifica che lo aveva preceduto, già ben sapeva che, fuori di ogni malia stregonesca, il "riso sardonico" era al contrario un moto convulsivo, determinato dall'avvelenamento da "erba sardonica" (specie di ranuncolo tipico della Sardegna) che tende e separa i muscoli labiali, conferendo al volto un'espressione in apparenza ridente seppur in modo subdolo (in effetti tale forma di "riso convulsivo ed innaturale" deriva anche da avvelenamento per tetania>v.BATTAGLIA, Grande Dizionario della Lingua italiana, U.T.E.T., Torino, a.v., s.v."sardonico" 1)]. L'arma universalmente riconosciuta contro i VAMPIRI sarebbe invece sempre l'AGLIO. Il Cacciatore umano dovrebbe sempre esser molto vigile, aspettare il sonno del Vampiro quando durante il giorno sarebbe costretto a ritirarsi nella fossa d'origine o come i dtakul nella loro stessa bara. Sarebbe quindi necessario che per riconoscere il luogo della fossa sarebbe necessario portare un cavallo bianco o nero: questo si rifiuterebbe assolutamente di passare sopra la tomba del non porto.
Per altro verso è interessante notare come un interprete di magia del livello culturale e del peso ideologico di M. DELRIO ( lib. V, sez.XVI), a riprova dell'attenzione volta dalla Chiesa e dall'Inquisizione al tema delle Streghe-Vampiro o Lamie pericolosamente connesso all'emergente, e maschile o se si vuole maschilista e per certi aspetti destabilizzante, mitologia del vampiro transilvanico e carpatico-danubiano, non a caso abbia proposto sotto forma di ragionamento scolastico (con bibliografia giuridica canonica) un confronto tra contraddittorie interpretazioni su un vampirismo di cui, viste le presunte serie attestazioni, non può far a meno di ratificare l'esistenza, badando però di inquadrarla nella tradizionale ed ortodossa visione cattolica "del mondo femminile prioritariamente traviato dal Male": Alla radice dello studio di presunte manifestazioni soprannaturali malefiche, ma anche alla base di un tentativo di loro classificazione sulla base di scorrette forme di inumazioni, vi fu (soprattutto, ma non solo e basti pensare agli scritti dell'italiano GIUSEPPE DAVANZATI) l'OPERA dell'erudito francese
DOM AUGUSTINE CALMET destinato anche contro le intenzioni a diventare per molti la massima autorità sulle infernali creature nominate
VAMPIRI e LAMIE parimenti attratte dall'alimento del SANGUE UMANO
La MEDICINA POPOLARE costituì da sempre un importante patrimonio di conoscenze anche se spesso essa entrò in contrasto coi contenuti della MEDICINA UFFICIALE.
Una pianta altrettanto apprezzata in Liguria dalla MEDICINA POPOLARE era quella della MALVA (nelle dizioni locali detta pure *marva, *varma ed *arma") usata per calmare le infiammazioni del cavo orale e dei denti ma comune anche nella cura di alcune patologie infiammatorie dell'intestino, dello stomaco o per lavande fatte a scopo igienico e/o profilattico. Si può quindi citare l'ABROTANO: ed al riguardo una panacea vale a dire il "Bonméigu" da identificare con l'"Artemisia absynthium" o ASSENZIO: vedi qui
la PIANTA nell'interpretazione di AMATUS LUSITANUS
L'ERBA BETONICA (Betonica officinalis) è una pianta erbacea della famiglia Labiate che cresce nei boschi e nei campi dell'Europa centrale e mediterranea. Il PIRETRO non è altro che il crisantemo ("chrysanthemum cinerari aefolium") ed era usato come fermifugo dal suo estratto o "piretrina".
DROGA DELLA BELLADONNA: era una droga che aveva effetto sul sistema nervoso ed alla cui comjposizione entravano a far parte la BELLADONNA, gemme di pioppo seccate, foglie secche di papavero, GIUSQUIAMO: secondo Girolamo Cardano questo unguento strofinato alle caviglie, al collo, alle braccia calmava i dolori e rendeva piacevole il sonno.
UNGUENTO DELLE STREGHE: sarebbe servito per partecipare alle riunioni magiche del SABBA.
Scrive ancora Antonio Zencovich (pp. 120 sgg.) nel suo ponderoso lavoro sulla "stregoneria": Il punto di vista suggerito dal moderno razionalismo non è tuttavia il migliore per affrontare il discorso [sull'INFANTICIDIO sia di natura stregonesca che semplicemente criminale] e si rende perciò necessario cercare delle motivazioni più in linea col modo di pensare di allora. Si potrebbe avanzare l'ipotesi che, date le implicazioni sovversive e antisociali assunte dalla stregoneria, il fatto di macchiarsi di un delitto atroce e dedicarsi a pratiche ributtanti, come quella di utilizzare le spoglie della vittima, valesse a soddisfare la pulsione perversa di chi intenzionalmente compiva un crimine non per ricavarne un utile concreto, ma per sancire una rivolta estrema contro la società. I SACRIFICI UMANI erano scomparsi nell' area del Mediterraneo, molto prima del Cristianesimo e già al tempo dei Romani, tra gli argomenti della propaganda antipunica, si annoverava l'accusa di adorare divinità sanguinarie: usanza ritenuta barbara già allora, da parte di un popolo che considerava ammissibile la schiavitù, le uccisioni a scopo di spettacolo, la deportazione e il massacro dei popoli vinti.
In una dimensione più ristretta ed egoistica anche le streghe miravano all'obbiettivo di appropriarsi, a loro esclusivo vantaggio, della quantità di vita immolata (per lo più in maniera immaginaria, ma in qualche caso forse reale) sull'altare di Satana.
Era certo che il dottore fosse in combutta con Satana, il quale si recava da lui sotto diverse forme. Ciascuna delle sue mogli gli aveva dato un figlio senza che nessuno, fuori dalla casa, lo sospettasse. Tuttavia dopo nove settimane o nove mesi, tra speciali riti e preparativi, il bambino era sempre stato ucciso in modo disumano e gli era stato squarciato il petto e strappato il cuore. Ogni volta Satana era stato presente a questa operazione in questa o quella
forma; perlopiù, però, era apparso sotto
le sembianze di un pipistrello dal volto umano e con le sue larghe ali aveva attizzato il fuaco al calore del quale Trabacchio preparava delle eccellenti gocce di sangue prese dal cuore del bambino che potevano contrastare ogni malattia.
Anche il dottor Trabacchio viene descritto come uno che uccideva i hambini, allo scopo di ricavare dal loro sangue una panacea dagli straordinari poteri.
Secondo una tradizione non solo popolare indeterminate forze malefiche di presunti RITORNANTI e/o MORTI VIVENTI avrebbero attaccato nel 1731 gli abitanti del villaggio di Medvegia, in Serbia, "e fecero morire parecchie persone succhiando loro il sangue". Giova comunque precisare che la questione delle MORTI APPARENTI non fu esclusivo appannaggio dell' EUROPA ORIENTALE.
-La pestilenza del 1579-80 : la peste ed il Ponente ligure
SCROFOLOSI (LA SCROFOLA):
Nella molteplice rappresentazione delle localizzazioni extra - polmonari della tubercolosi il termine di "scrofola" da tempo ormai non più sopravvive ad indicare una particolare diatesi con grosse tumefazioni ghiandolari al collo, corrispondente di regola ad un quadro avanzato della linfoadenite cervicale tubercolare.
Verso la metà del XIX secolo un medico piemontese, tale Francesco Galvagno editò ad Alba un libro in cui il tema delle MORTI APPARENTI e della revisione delle TECNICHE DI SEPPELLIMENTO, peraltro già discusso da anni, fu ripreso con toni tanto accesi e lugubri da accendere da un lato terrore e disgusto ma da proporre, d'altro canto, l'inevitabilità di moderne risoluzioni.
Nella cultura di ogni epoca la MORTE [ed in senso contestuale la VITA] ha costituito uno dei massimi misteri della condizione umana: assieme ad esse una particolare valenza culturale ed etnologica ebbe poi il consequenziale sviluppo delle PRATICHE DI USCITA DALLA VITA E DI INGRESSO NEL REGNO DELLE OMBRE, ed in particolare lo studio di quel MONUMENTALE APPARATO CRISTIANO DELLE CERIMONIE E TRADIZIONI FUNEBRI che mai completamente si emancipò dalle influenze delle più antiche e pagane tradizioni (ora sovvertendole, ora assimilandole seppur con estrema cautela).
In nessun arco di tempo però, come nel periodo che intercorre tra l'epoca medievale e la fine del XVII secolo, la Cultura sia popolare che dotta della morte si è colorita, anche per l'avvento di veri e propri cataclismi tra cui in primo piano le GRANDI MORTALI EPIDEMIE, di significati complessi sia nella valenza interpretativa (scientifica e spirituale) quanto nella rappresentazione iconografica.
CAPITOLO I - MOTIVO DELLA PUBBLICAZIONE Avendo constatato che ai miei tempi erano sorte varie difficoltà a proposito delle sepolture, delle cappelle e sul modo stesso di tramandare il ricordo dei defunti, ritenni di pubblicare questo lavoro che apputno, come dice il titolo, riguarda le sepolture, le cappelle, le statue e i monumenti dei defunti.
Per primo argomento mi chiedo: che cosa in effetti si intende per sepoltura?.
Vediamo adesso di quanti tipi può essere la sepoltura.
Comportano reciproche differenze le sepolture, i sepolcri, i monumenti, i cimiteri, i sarcofagi, i cenotafi e i depositi. Per CIMITERO si intende quindi il luogo che è deputato ad ospitare le sepolture come ci scrive card. in Clement. I de sepulturis.
Gli antichi, sin dai tempi di cui è rimasta qualche memoria, erano soliti inumare i loro morti nei pressi dei loro luoghi sacri entro vasi di grande dimensione. Secondo l'interpretazione di Oldrad. cons. 4 ad sepulturis [scrive il seicentesco Dulfi rifacendosi a usanze e convinzioni radicate] per molte ragioni [di natura igienica, soprattutto, sarebbe da dire: n. del traduttore] è opportuno che il defunto venga sepolto nel periodo massimo di 24 ore dal tempo in cui abbia esalato l'ultimo respiro.
Tutto ciò però non ha vigore nel caso che la chiesa detenga per privilegio particolare il diritto di esser lugo adibito alle inumazioni come scrive Archidiac. in cap. primo. de sepulturis, in 6 Abb. in cap. fraternitatis atque in cap. certificari ext eodem titulo. I Viandanti di passaggio ed i pellegrini che non hanno lasciato indicazione alcuna sul luogo in cui intendono essere inumati debbono essere sepolti nel territorio della chiesa parrocchiale sotto la cui giurisdizione hanno esalato l'estremo respiro di vita: così riportano Ugon. Vincent. & Rayn. senuit Archidiac. in cap. I de sepultur. in 6 num. 4 & approbat Lap. in cap. religiosi, eod. tit. in 6, num. 4 sostenendo che questa è la soluzione più logica sebbene Goffred. & alij plures dixerint che si dovrebbero piuttosto inumare nella chiesa cattedrale. I Figli illegittimi, se sono soltanto naturali vengono inumati assieme al padre, a meno che il padre non avesse ricoperto qualche carica di alta dignità (Angel. in dicto verbo sepultura, nu. 21 atque Silvest. nu.8 vers. Quartum. Silvester aggiunge poi chese i figli sono spurii non debbono in alcun modo esser sepolti con il padre: Petr. de Ubald. de Canonica, Episcopali & Parochiali q. 9, nu. 15 aggiunge poi che tali figli spurii, per tradizione popolare, sono da inumare assieme alla madre sempre che lo stesso padre non esprima la volontà che siano deposti con lui nella tomba e dopo che sono stati legittimati per sua volontà mentre qualora siano stati legittimati dopo la morte del padre possono esser sepolti soltanto nella tomba della nadre come sostiene il Medic. in d. suo tractato. de sepultura q.7 nu.22. Una donna sposata, condotta a casa del marito, qualora non abbia scelto una particolare sepoltura sarà inumata nel sepolcro del suo uomo visto che, in vigore del coito e cioè dell'accoppiamento sessuale, son diventati ormai una sola carne unita da Dio e che quindi l'uomo non può né deve separare (vedi Cravett. cons. 10 nu.6, Asin. in l. familiaria nu. 13 ff. de religios. Angel in dicto verbo sepultura, num. 22, atque Silvester num.8, vers. quintum. Nel caso invece che si tratti di donna separata dal suo sposo per aver commesso adulterio non sarà sepolta con lui se non si sarà giunti ad una riconciliazione (cap. plerumque ext. de donat. inter vir. atque vx atque ibi affirmant Ant. de Butr., Abb. atque alij, Clar. in praxi in § adulterium in verbo caveat, num. 18, Angel & Silvester, in locis praedictis, & Medices dicta quaest. 7, num. 16. La motivazione di ciò è legata al motivo che la donna, oltre che per il fatto che a causa del suo adulterio smise di far parte del domicilio del marito e perse i suoi beni dotali (Clar. in dicto § adulterium, nu. 15), in più perse anche ogni onore e dignità che gli proveniva dall'autorevole figura dello sposo. Tiraquel in p. l. connubialem, glos. 1, par. prima, num. 45 cita più Dottori e ragioni. Se poi una donna avrà più uomini dovrà essere sepolta con l'ultimo con cui avrà vissuto ed in relazione a ciò sono chiare le parole del testo in cap. is qui, § mulier, de sepulturis in 6: ad integrazione di tutto questo Ioan. Andre. aggiunge che lo stesso principio vale anche se una donna, rimasta vedova, ritornò alla casa paterna, poiché siffatti privilegi vengono concessi al luogo e non alla persona ed anche se si trsferisce in altro sito, affermazione che peraltro risulta confortata da quanto ha scritto il dottissimo Petrus Ubaldus in dicto tractato de Canonica Episcopali atque Parochiali, d. quest. 9 num. 20 & 11. Io de Turre Cremata in cap. facultates § nunc quaeritur 13, quaest. 2, num. 18 & novissime post alios Sperel dicta decis. 88, nu. 13.
Quando il Sommo Pontefice non abbia lasciato alcuna indicazione sul luogo ove egli intenda esser sepolto dovrà esser inumato nella chiesa cattedrale del sito in cui all'epoca della sua dipartita sorgeva la Curia pontificia: le modalità funebri in tal circostanza seguiranno le procedure in auge a riguardo dei Vescovi che vengono istituzionalmente inumati nella cattedrale di loro competenza al modo che scrive Petr. de Ubald. loco quo supra n. 28.
Si verifica altresì il caso che qualche Cardinale della Santa Chiesa non abbia preventivamente scelto il luogo idoneo alla sua tumulazione.
Un Legato pontificio in missione, qualora sia venuto meno al consorzio dei viventi, sarà da inumare nella cattedrale della città in cui avrà esalato l'ultimo respiro come se ne fosse stato il Vescovo. Così scrive Petr. Ubald. loco de quo sup. n. 29 atque seq. ubi plura habentur.
I Lebbrosi e tutti quanti son tormentati da qualche morbo contagioso, come quelli che per esempio hanno perso la vita a causa di qualche epidemia, dovranno invece essere sepolti in un luogo non pericoloso per gli altri, donde i miasmi pestilenziali dei loro corpi contagiati e in disfazimento non possano far danno ai vivi ed ai sani: secondo quanto scrivono Abb. in cap. sacris nu. 6 extra de sepulturis, Medices de sepulturis, quaest. 7, nu. 36 queste vittime di gravi malattie dovranno comunque e sembre usufruire di una sepoltura ecclesiastica.
Se non si ha cognizione in merito al cadavere di qualche sconosciuto scoperto per via o in residenze pubbliche e/o private, se cioè si trattasse di persona vivente in cristo oppure di individuo scomunicato sembra davvero il caso di procedersi nella maniera più misericordiosa sempre che non si avanzi, con motivazioni, qualche considerazione in contrario: vedi Pisanell. in verbo sepultura 4 § quid fiet.
Quanti, una volta trasferitisi momentaneamente in un luogo rurale per svolgrevi lavori agresti o per trascorrervi la villeggiatura, vi vengono sorpresi da imprevista morte senza aver avuto il tempo di scegliere il luogo dove esser sepolti non saranno inumati nel territorio di quella villa rurale, ove non hanno domicilio, ma nella parrocchia o piuttosto nei sepolcri dei loro avi se vi possono esser condotti senza gravi incommodi e pericoli (cap. is qui de sepultur. lib.6) secondo, tuttavia, il rispetto delle distinzioni prima menzionate come da Armilla, in verbo sepultura, nu. 20.
I popoli del passato avevano comunque una straordinaria varietà e tipologia di riti funebri e di modi di inumazione.
Oggi in verità, come possiamo facilmente vedere, i corpi dei defunti vengono condotti alla sepoltura ecclesiastica col concorso di litanie e canto di salmi: a ciò si aggiunge la processione dei fedeli e le loro preghiere a pro dei defunti stessi come si legge nel cap. quia divina & c. ubicunque 13, quaestione 2., Ias. in l. furiosum, C. qui testamenta facere possunt nu. 4.
Si è sempre disputato a lungo nell'ambito di ogni Stato costruita su salde fondamenta e permeato fortemente della fede cristiana se si possa negare la sepoltura a quanti per gravi crimini siano stati condannati al supplizio estremo. Il suicida Parimenti vengano privati di sepoltura ecclesiastica, cioè in terra consacrata, gli infedeli, gli eretici, gli ebrei ed i pagani anche se fossero svelati per tali solo dopo la morte [glossa bibliografica].
Può altresì accadere che qualcuno perda la vita partecipando ad un torneo come si detta nel cap. I de Torneamentis affermando come è stato sancito nel Concilio Lateranense da Innocenzo ed Eugenio: in tal evenienza non è da concedersi la cristiana sepoltura e si ordina che si deve procedere in siffatta maniera anche nel caso che qualcuno abbia chiesto e ottenuta la penitenza [glossa bibliografica].
Anche a coloro che muoiono in singolar tenzone, cioè in un duello fra due persone, non è concesso il seppellimento in terra sacra secondo quanto dicono i dettami del Concilio di Trento (de reform. cap.19). Secondo siffatta sanzione il duello è ritenuto illecito per la fede in Cristo e di conseguenza si procede anche con la proibizione dell'inumazione ecclesiastica: tuttavia nel caso che qualcuno mostri un segno di contrizione almeno nell'interpretazione di Laur. Portel. in resp. moral. par.3, cas. 10, num.3 si ritiene di non dover procedere all'applicazione di tale sanzione e si dà anche la facoltà di celebrare delle messe per tali defunti, vittime pentitesi di duelli, al modo che scrive Antonino Diana in tract. 4, Miscellanea resolutionum 192, prope finem.
La sepoltura ecclesiastica non deve somministrarsi a vantaggio di quanti abbiano perso la vita senza essersi confessati e comunicati [glossa bibliografica] sempre che di tali colpe non si fossero emendati in articulo mortis [S. Antonin. 3, par. tit. 10, cap. 5, § 9].
Nei confronti dei Blasfemi o perpetratori di bestemmie nel caso non si siano emendati con la dovuta penitenza [glossa bibliografica] non si deve concedere alcuna sepoltura cristiana in terra consacrata. Lo stesso principio vale poi per tutti i peccatori abituali tra i quali sono da ascrivere le donne di malaffare e le meretrici [scrive ancora il Dulphus], quanti praticano il concubinaggio, tutti gli usurai e via dicendo [ampia glossa bibliografica] sempre che, per tempo e tramite la dovuta penitenza, non si siano riconciliati con la Santa Chiesa. Lo stesso dicasi anche per gli scomunicati [ampia glossa bibliografica] per cui la letteratura precisa tuttavia che un'ingiusta scomunica non può obbligare nè Dio nè gli uomini. Nel caso degli scomunicati è ancora da precisare che se in articulo mortis essi abbiano dato qualche segno di pentimento ed abbiano fatto penitenza possono venire sepolti in terra consacrata [vedi Barbosa in tract. de offic. & potest. Parochi, cap. 26, num. 40]. Lo stesso Barbosa sostiene che tale giudizio venne dato in occasione della Sacra Congregazione dei Cardinali in merito ai doveri dei vescovi e dei prepositi regolari: Giovanni Battista Mastrilus essendo stato ucciso nella condizione di scomunicato fu dapprima inumato dai parenti in terra non consacrata ma poi, essendosi saputo che in articulo mortis aveva egli dato segni palesi di penitenza ed essendo anzi stato dimostrato che nello sfiorire della vita esclamò in confessione Madonna Santissima aiutami!, ne fu concessa l'esumazione e la sepoltura ecclesiastica. Nel caso però di pubblici aggressori di chierici, pur nel caso che non sia stata fatta alcuna denuncia o dichiarazione, ed anche che siano stati inopportunatamente scomunicati, non si ritiene dover procedere alla sepoltuta ecclesiastica dei loro cadaveri stando almeno a quanto suggeriscono vari autori [glossa bibliografica]. Resta da menzionare il caso che la sentenza di scomunica di cui spesso si parla a riguardo di debitori insolventi non ha vigore [ampia nota bibliografica]: secondo l'interpretazione corrente del diritto canonico quando qualcuno è nell'impossibilità materiale di saldare i suoi debiti non può essere scomunicato, anche nel caso che proprio per colpa sua non sia avvenuto il giusto pagamento di quanto ricevuto
Nel caso di un bimbo venuto alla luce vivo dal ventre della madre e poi defunto si può certamente procedere alla sepoltura cristiana.
Esistono dei rapitori e violatori di chiese od altri edifici sacri al culto che giammai si pentono per le loro colpe [glossa bibliografica]: se sino al momento dell'esecuzione capitale si comportano in modo da non dare alcun segno di pentimento e neppure sono in grado di restituire il maltolto, senza dubbio debbono essere privati di ogni forma di sepoltura ecclesiastica sì da rappresentare una terribile ammonimento per tutti. Se però qualcuno maturi la volontà di restituire quanto rapinato in loro vece, peraltro gli eredi possono anche esser costretti a far ciò [glossa bibliografica], i Chierici non sono però in siffatta circostanza essere obbligati ad interessarsi della loro sepoltura come si specifica nel repertorio bibliografico sopra citato, a differenza di quanto può verificarsi in merito ad altre forme di delitto.
Quanti son stati giustiziati sulla forca per i loro delitti e son morti senza essersi pentiti delle loro malazioni, stando ai decreti del Concilio di Magonza (quaesitum 13, quaest.2, non possono godere di sepoltura cristiana.
Non è da concedersi la sepoltura in terra cristiana a ladri famigerati, visto che costoro debbono essere puniti oltre la stessa morte fisica ed i loro corpi sono da abbandonare alle fiere ed ai volatili sì che ne facciano scempio [glossa bibliografica]. Parimenti quei briganti e rapinatori che vengono uccisi allorché son stati trovati a perpetrare il loro crimine non debbono fruire di gristiana sepoltura, così come dettano le scritture dei dottori della Chiesa [ampia nota bibliografica]. Alcuni fra questi interpreti però sanzionano che, nel caso in cui siffatti criminali abbiano fatto prova di contrizione, si può soprassedere a tale punizione e concedere l'inumazione in terra consacrata: ad aggiunta di ciò precisano che, per l'eccezionalità del momento, non trovandosi un sacerdota che possa raccogliere la loro confessione, resta valida quella fatta nei riguardi di abbia raccolto i loro ultimi respiri e le loro estreme volontà.
E' usanza barbara quella di riesumare dei cadaveri e di arderne i resti di modo che le ossa vengano separate dalle carni liquefatte. In questo caso, stando a quanto suggerisce la letteratura in merito, non si deve in alcun modo concedere la sepoltura di tali resti in terra consacrata. Il corpo di chi sia stato così bestialmente trattato non può essere sepolto alla maniera degli onesti cristiani e questo costituisce il caso in cui, come la stessa letteratura canonica suggerisce, ad un defunto tocca una punizione senza che si sia macchaito di alcuna colpa. Alla stessa stregua i parricidi debbono essere privati di qualsiasi forma di cristiana sepoltura [glosse bibliografiche]...a loro riguardo è stato sancito che il parricida, frustato a sangue, sia quindi rinchiuso entro un sacco di cuoio assieme ad un cane e ad un gallinaceo evirato (perché questo con maggior forza combatte contro il Serpente, secondo il modo che cita la glossa prima riportata), con una vipera ed ancora con una scimmia.
I laici che non ottemperano al dovuto versamento delle decime alla Chiesa debbono essere privati di ogni forma di inumazione in terra sacra stando alla letteratura canonica in merito.
Non si conceda inumazione in terra consacrata a chiunque sia stato colpito da interdetto e conseguentemente sia risultato escluso dalla vita religiosa in seno alla Chiesa: in base agli interpreti [glossa bibliografica]. Gli stessi autori reputano quindi che un identico principio valga nel caso di un interdetto generale sì che il privilegio della sepoltura cristiana non si può nemmeno concedere ad uomini di una qualche collettività che siano stati interdetti per i peccati di altri, Qualora però sulla soglia della morte essi abbiano dato segni di contrizione, una volta che sarà cassato l'interdetto generale, si potrà procedere ad una cristiana inumazione.
Neppure è da seppellire cristianamente quell'Episcopo che nel corso di qualche sua visita spirituale abbia preso denaro illecitamente, giusto quanto sostengono alcuni interpreti. Potrà essere però inumato cristanamente solo se nel tempo stabilito non abbia reso il doppio di quanto illecitamente preso [glossa bibliografica].
E' da precisare che qualora una fra tutte quelle persone di cui si è detto sia stata sepolta in maniera cristiana, si deve procedere di maniere che se i suoi resti sono in qualche modo distinguibili dagli altrui debbono essere gettati oltre la cinta dal sacro cimitero. E secondo alcune interpretazioni questi resti umani di individui immeritevoli di cristiana inumazione non possono venir sepolti nemmeno in luogo tanto vicino al cimitero che in esso si possano sentire le voci dei chierici mentre cantano. Se però non si è in grado di distinguere le ossa degli immeritevoli si cristiana sepoltura da quelle degli innocenti non si dovrà fare assolutamente nulla come avverte una certa bibliografia critica: però trattandosi di un infedele di cui non si riesce a discernere il corpo si procederà, alla maniera che suggerisce il Concilium Agrippinensis nel cap. Eccelsiam il 2 de consecrat. dist. prima, alla totale distruzione sino alle fondamenta della sua residenza con tutti i muri.
Una volta che il cadavere di un individuo è stato tumulato non lo si deve più ispezionare a meno che non intercorra autorizzazione della Curia episcopale [glossa bibliografica]; solitamente si concede tale facoltà al solo giudice laico al fine di acquisire utili informazioni per svelare l'arcano di un eventuale delitto [glossa].
In qualsiasi luogo, oltre i limiti sacri di un cimitero cristiano, sia stata inumata una salma, prescritta dalla sepoltura in terra sacra, in capo ad essa dovrà sempre apporsi una croce a denotare che il defunto lì custodito fu comunque un cristiano. Il Diavolo infatti teme avvicinarsi ad un luogo ornato e difeso dal simulacro della Croce alla maniera che si legge nei libri canonici [glossa]. Al tempo della terribile epidemia del 1630 [quella che colpì il milanesato ed altre contrade italiane: in Liguria sarebbe giunta anni dopo
Se la sepoltura in terra consacrata possa venir interdetta ad un debitore defunto su petizione dei suoi creditori si sono espressi molti autori [segue ampie glossa bibliografica].
Gli antichi Romani [scrive ancora Floriano Dulfi pur destreggiandosi tra molte incertezze ed una bibliografia non sempre esatta]nel seppellire i loro defunti si servivano di modalità su cui ci rende edotti Plinio
Una lapide posta ad ornamento di un sepolcro non può esser venduto se non da una chiesa ad un'altra [glosse bibliografiche] e se vengono portati via i sassi dei sepolcri come delle tombe, gli epitaffi, le colonne, le statue o qualsiasi altro genere di immagine sepolcrale, coloro che fanno ciò si rendono colpevoli del crimine di violazione di sepolcre al modo che sostengono i dottori della chiesa [glossa bibliografica].
In molte circostanze ho sentito dibattere se la restituzione di qualche cosa che sia stata da lui sottratta ad altri possa in qualche modo giovare ad un defunto.
Sono da condannare quelle spese, a volte senza misura, che vengono fatte dagli uomini nel contesto di una cerimonia funebre, nella quale invece è da conservare sempre un alto grado di modestia [glossa bibliografica].
Un tempo con la definizione di CAPPELLA [sostiene nel suo volume al capitolo XI il Dulphus] si era soliti nominare una CHIESA MINORE di quelle per la precisione che nel corso di spedizioni, viaggi e quindi realizzazione di accampamenti di tende erano fatte col tetto di pelli di capre ed in cui si celebravano le Messe: per essere più precisi era detto in verità tugurio il tetto realizzato con pelli caprine e di lì quelle particolari strutture religiose presero la nominazione di Capelle. Per conseguenza i loro amministratori sono tuttora detti Cusstodi e Ministri Cappellani (glossa c concedimus de consecrat. distinctione I $ ibi Turrecremata n.4 & melius in cap. Ecclesia ead. distinctione I n.10, Paulus de Cittadinis in tract. de Iure patronat. in r, parte n. 43). Per GIUSPATRONATO (regionalistico GIUSPADRONATO) si intende nel Diritto canonico l'insieme dei diritti e dei doveri che competono ad una famiglia che a proprie spese abbia eretto una chiesa o fondato un'opera pia o un beneficio ecclesiastico: si tratta di una voce semidotta -come scrive il Battaglia- composta dal latino giuridico JUS PATRONATUS:
Sulle condizioni istituzionali dell’esercizio della medicina nell’Italia del Seicento e sul ruolo subordinato della chirurgia cfr. Elena Brambilla, La medicina del Settecento: dal monopolio dogmatico alla professione scientifica, in Storia d’Italia, Annali 7. Malattia e medicina, a c. di Franco Della Peruta,Torino, Einaudi, 1984, Carlo M. Cipolla, Contro un nemico invisibile. Epidemie e strutture sanitarie nell’Italia del Rinascimento, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 267-285, Gianna Pomata, La promessa di guarigione. Malati e curatori in Antico Regime. Bologna XVI-XVIII secolo, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 129-198, David Gentilcore, The organisation of medical practice in Malpighi’s Italy, in Marcello Malpighi anatomist and physician, Domenico Bertoloni Meli (ed.), Firenze, Olschki, 1997, pp. 77-110, e, più specificamente sulla situazione napoletana, Aurelio Musi, Disciplinamento e figure professionali: l’articolazione della medicina nel Mezzogiorno spagnolo, in Sapere è potere. Discipline, Dispute e Professioni nell’Università Medievale e Moderna. Il caso bolognese a confronto. Dalle discipline ai ruoli sociali, a c. di Alessandra De Benedictis, Bologna, CLUEB, 1990, pp. 203-221, D. Gentilcore, Healers and Healing in Early Modern Italy, Manchester-New York, Manchester University Press, 1998, Alessandro Pastore, Il medico in tribunale. La perizia medica nella procedura penale d’antico regime (secoli XVI-XVIII), Bellinzona, Casagrande, 1998.
Il MAIS enzimatico [annota nel suo saggio Pier delle Ville] era stato portato in Europa da Cristoforo Colombo
"Né graminacea, come il mais, né solanacea come pomodoro, patata e tabacco, è la pianta del
La fermentazione, di natura enzimatica viene favorita ricoprendo i semi con sabbia tiepida. "In proposito di tale processo enzimatico [scrive ancora Pier delle Ville] è interessante leggere un altro testo della Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia facente parte dello stesso volumetto, successivo a quello fin qui seguito sul caccacius.
"Del tè cosa ci dice la seicentesca Biblioteca Aprosiana? [si interroga nel suo bel saggio (pp. 6 - 8) l'attento Pier delle Ville]
Con il nome di CAFFE' [termine derivato dal turco qahvé a sua volta derivato dall'arabo qahwah] si indica propriamente un seme di circa quarante specie di piante del genere COFFEA (alberi della specie delle Rubiacee, alto sino a 6 - 9 metri, con foglie persistenti, coriacee, opposte, ovali, fiori ascellari, bianchi, odorosi, a grappoli, con frutto a drupa di color rosso cupo, simile ad una ciliegia che contiene due semi). Secondo i dati o comunque le osservazioni dei moderni ricercatori le prime BOTTEGHE DEL CAFFE' (quindi CAFFETTERIE e poi semplicemente CAFFE') avrebbero visto la luce a LA MECCA sin dal secolo XV, per poi comparire al CAIRO e quindi a COSTANTINOPOLI.
La LEBBRA costituisce una malattia contagiosa causata dal Mycobacterium leprae, bacillo isolato nel 1873 da Gerhard Armauer Hansen.
Nel Manoscritto Borea per quanto concerne l'agro di Sanremo, ma comunque con riferimenti su scala pressoché "provinciale", sono rammentate le siccità degli anni 1428 - 1639 - 1683 - 1775 - 1817 - 1818 - 1822 - 1831 - 1834.
In merito a siffatto accerchiamento utili notizie ci vengono fornite dalla Cronaca del Calvi laddove in particolare si legge:
A Berkeley, in Inghilterra, nel 1749 nasceva Edward Jenner, il padre dell'immunologia.
Il VAIOLO è una malattia infettiva acuta, contagiosa ed epidemica, di natura virale, caratterizzata da un tipico esantema vescicolo-pustoloso. È stata distinta chiaramente dalle altre malattie esantematiche nel 17° secolo da T. Sydenham, che ha rappresentato in passato una delle cause maggiori di mortalità; è merito della vaccinazione Jenneriana, il declino della frequenza della malattia, e la rapida delimitazione dei focolai di epidemia. Il vaiolo può colpire, oltre all'uomo, diversi animali nei quali, a seconda della specie, riveste carattere ora minaccioso, ora mite.
Il vaiolo umano e quello dei diversi animali, sono provocati da virus filtrabili, distinti ma estremamente simili, che rappresentano, secondo quanto oggi si tende ad ammettere, varianti e mutazioni di un comune capostipite : a questa comunanza di origine sarebbe dovuta la capacità del vaiolo vaccino di provocare l'immunità contro il vaiolo umano, che è sfruttato nella vaccinazione Jenneriana.
Tali virus hanno in comune la propietà di provocare la comparsa di tipiche formazioni istologiche, tra cui i cosiddetti corpuscoli del Guamieri, che sono inclusioni endocellulari dovute ad agglomerati di virus e reperibili sia nelle cellule epiteliali della cute, delle mucose rinofaringee, negli alveoli polmonari dei malati.
La trasmissione della malattia può avvenire in modo diretto (ossia da ammalato a sano) o indiretto(tramite vari veicoli: vestiti, biancheria, insetti, ecc.).
Il virus penetra per lo più per via respiratoria; ma sono anche possibili le vie: digestiva, cutanea e transplacentare. Il vaiolo è un'infezione che lascia una immunità duratura, ma non illimitata: fra i neri, a differenza di quanto accade tra i bianchi nei quali tale evento è eccezionale, si osservano reinfezioni con una certa facilità.
Ha un periodo di incubazione di 10-14 giorni, praticamente asintomatico , cui segue un cosiddetto periodo d'invasione, con durata di 2-3 giorni, che si manifesta con brividi, febbre alta, cefalea, prostrazione, nausea, vomito, dolori vertebrali e lombari, talora un modesto esantema transitorio, sotto forma di piccoli elementi cutanei semplicemente arrossati e, talvolta, emorragici. Per lo più al quarto giorno dall'inizio delle manifestazioni cliniche, inizia il periodo eruttivo vero e proprio: la temperatura diminuisce rapidamente mentre compaiono l'esantema l'enantema, sotto forma di macule cutanee rosse, che si trasformano in caratteristiche vescicole ombelicali (queste, però, nelle mucose facilmente si rompono, prendendo l'aspetto di tante erosioni). Intorno all'ottavo, nono giorno il contenuto delle vescicole cutanee, diviene progressivamente purulento (periodo suppurativo) mentre la cute circostante diviene più o meno edematosa; la febbre si riaccende, assumendo di solito carattere remittente, con tendenza però alla remissione per lisi (in assenza di complicazioni) ; le condizioni generali appaiono seriamente compromesse. Segue il PERIODO DI ESSICAMENTO E DI CADUTA DELLE CROSTE, che in genere comincia verso il dodicesimo giorno di malattia: l’edema scompare, le pustole si ricoprono di una crosta brunastra che cade dopo 7-10 giorni, lasciando una cicatrice più o meno depressa e biancastra indelebile. Accanto alla forma clinica classica ora descritta, esistono delle forme di vaiolo, alcune più miti (vaioloide), altre, invece, particolarmente gravi: il VAIOLO CONFLUENTE, caratterizzato da un elevatissimo numero di pustole, che tendono a confluire e che si accompagnano a edema imponente; il VAIOLO EMORRAGICO, o VAIOLO NERO, così detto per la tendenza emorragica degli elementi esantematici; la PORPORA VAIOLOSA, in cui si verificano manifestazioni emorragiche cutanee e mucose già nel periodo di invasione. La prognosi del vaiolo umano è sempre riservata. La mortalità varia a seconda della forma clinica e del genio epidemico, oltre che per altri fattori. Una terapia specifica non esiste ancora: ma le severe norme profilattiche, basate sull’obbligatorietà della vaccinazione jenneriana, hanno reso la malattia del tutto eccezionale nei paesi più evoluti.
La RABBIA (IDROFOBIA) è una malattia infettiva degli animali dovuta ad un appartenente alla famiglia dei rabdovirus (letteralmente = virus a forma di pallottola), grande 150-200 micron (millesimi di millimetro), molto sensibile al calore.
L'OSSIMELE (anche OSSIMIELE, OSIMELE, OSSEMELLO, OSSIMELLE, OXIMELE, OXIMELLE) non è una pianta medicinale ma per quanto ormai disusato era spesso citato dagli erboristi: era una bevanda a scopo medicinale costituita da miele stemperato in una soluzione acetica: era altresì ricavabile dall'OSSIMELLITO un preparato farmaceutico appunto composto da miele sciolto in una soluzione acetica medicamentosa.
Si trattava di un impianto medicamentoso ottenuto dall'uso di più erbe (prpriamente dall'etimologia sarebbe
oxos = "aceto" e krokos = "zafferano" combinati insieme sì da essere poi spalmati su una fascia o cerotto ritenuto ideale per la risoluzione soprattutto di slogature)
SQUINANZIA [der. del lat. cynanches, dal gr. kunagkhe = "tosse canina, angina", comp. di kuon, kunos "cane" e del tema di agkho "io soffoco", con s- e -ia] = tosse laringea spastica accompagnata da mal di gola e difficoltà alla deglutizione.
La PLEURITE (anticamente detta MAL DELLA COSTA o MAL DI COSTA come tra l'altro si legge nelle opere del medico cinquecentesco Bovio) è un processo infiammatorio a carico dei foglietti pleurici .
A livello popolare la CAUSALITA' DELLE MALATTIE si caricò di ELEMENTI MAGICI
e di un BAGAGLIO DI SUPERSTIZIONE
che affondava le radici colte nella cultura dell'ARETALOGIA GRECO-ROMANA e di una MEDICINA POPOLARE ANTICA
per cui, con vari espedienti -anche non privi di fondamento come il lavaggio nelle acque termali- si guariva da determinate malattie: la letteratura e quindi l'archeologia non hanno mancato di produrre
utili informazioni su questo contesto religioso-curativo del paganesimo per cui
TERME - PISCINE - COMPLESSI TERMALI SPESSO CONNESSI A TEMPLI divenivano mete di fedeli ammalati che si affidavano -oltre che alla cura delle acque termali-
all' INCUBATIO in sostanza una sorta "TERAPIA DEL SONNO" CHE TUTTAVIA PROPRIO PERCHE' INTRISA DI
RELIGIOSITA' PAGANA VENNE SOPPRESSA PER
ROVESCIAMENTO CULTUALE E/O SOVRAPPOSIZIONE CULTUALE DAL TRIONFANTE CRISTIANESIMO di maniera che
si venne costruire la potente pluri-equazione
Nell'età di mezzo ogni medico per la sua stessa disciplina e per i sospetti che spesso correvano nei suoi confronti "poteva" essere ritenuto in qualche modo connesso con una disciplina temuta un po' per la sua incomprensibilità ed un po' in quanto ritenuta connessa all'esercizio di arti proibite: l'ALCHIMIA [dall'arabo (san'a) al-kimiya'> (arte della) PIETRA FILOSOFALE nel lat. medievale chimia> donde ALCHIMISTA]. Secondo F. CARDINI le POSTULAZIONI della TABULA SMARAGDINA, hanno avuto importanza nel pensiero occidentale sin porre le basi della CLICCA QUI PER RITORNARE ALLA HOME PAGE
Per altro verso è interessante notare come un interprete di
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La CICUTA che le streghe avrebbero poi usato come componente fondamentale del loro velenoso UNGUENTO.
il CORIANDOLO: usato in erboristeria ma noto per esser ingrediente di filtri stregoneschi.
L'ERBA SARDONICA o SARDONIA causa come veleno delle convulsioni del RISO SARDONICO ma anche utilizzata in certi giovevoli medicamenti.
Il GIUSQUIAMO veleno di estrazione vegetale, molto economico, popolare e tristemente diffuso (anche nell'Amleto di Shakespeare viene citato il giusquiamo come il veleno che il fratello del re di Danimarca e padre di Amleto avrebbe istillato nelle orecchie del congiunto per succedergli come Sovrano di Danimarca e sposarne la consorte).
la LAVANDA ed i rischi di un suo USO SCORRETTO NEL CAMPO DELLA MAGIA.
Lo STRAMONIO od "erba delle streghe": una connessione storica fra pozione malefica e stregoneria fu testimoniata da avvelenamento con stramonio, che in dosi massicce comportava alterazioni nervose, disturbi visivi, allucinazioni: lo stramonio è una pianta delle solanacee cui venne attribuito il soprannome d' "erba delle streghe o del diavolo", nei paesi anglosassoni ove si credeva che i suoi componenti alcaloidi servissero per gli incantesimi delle streghe causando, in occasione di carestie, sanguinose persecuzioni verso chi ne coltivasse anche piccole quantità nei propri orti: le foglie dello stramonio, originario della regione caspica ma diffuso allo stato spontaneo in tutta Europa, costituiscono la droga (stramonii folia) della Farmacopea ufficiale italiana contenente l'alcaloide josciamina, che nell'estrazione si trasforma in atropina, il cui uso in terapia si esplica quale calmante: S. MARSZALKOWICS, L'elemento tossicologico nella stregoneria e nel demonismo medievale in "Lavori di storia della medicina", 1936-7, Roma, ed.1938.
Il TABACCO (altresì citato quale TABACO -TOBACO secondo la forma delle parlate di Haiti da cui ne deriva il fitonimo) fu termine che si prese ad utilizzare sin dal XVI secolo per indicare le foglie di origine sudamericana e caribica che introdusse in Europa per primo nel 1559 Gonçalo Hernàndez di Toledo per incarico del re di Spagna Filippo II.
La diffusione della pianta avvenne però soprattutto ad opera di Jean Nicot de Villemai verso il 1560 nell'ambito della corte di Francesco II e di Caterina de' Medici.
Verso il 1586 nell'Historia generalis plantarum di Jacques Dalechamps la pianta, già citata col fitonimo di herba prioris od herbe du gran Prieur in quanto coltivata a fini medicamentosi dal Gran Priore di Francia della Casa di Lorena, assunse la nuova nominazione di herba nicotiniana a titolo di commemorazione del suo principale divulgatore, appunto Nicot.
Tuttavia le rimase come fitonimo principale quello più antico di TABACCO (peraltro destinato ad essere fissato scientificamente dalla classificazione del Linneo) che i commercianti spagnoli usavano abitualmente sin dai primi tempi e che trasmisero quindi ai mercanti olandesi e quindi ai produttori americani della Virginia.
La diffusione del TABACCO in Italia (per fumo, fiuto ed uso medicamentose) procedette trionfalmente dall'Olanda verso i primi del '600 (1615): nella penisola il porto di arrivo del TABACCO era lo SCALO GRANDUCALE DI LIVORNO (alla stessa maniera di quanto accadeva per il CAFFE').
L'uso divenne tanto comune che l'illuminista Bernardino Ramazzini nella sua opera De Morbis artificum [Modena, 1700, ristampata più volte e di cui esiste una buona traduzione italiana dell'Abate Francesco Chiari, Venezia, Occhi, 1754] scrisse (si cita dalla traduzione): "E' un'invenzione di questo secolo (almeno nella nostra Italia) o un uso vizioso questa polvere dell'erba nicoziana e non v'è cosa più usata, s' dalle donne che dagli uomini e da' fanciulli altresì, in guisa che la compra di esso si ripone fra le spese quotidiane della famiglia" [all'epoca il TABACCO veniva fumato, masticato e fiutato dagli uomini, oltre che fiutato spesso anche fumato dalle donne come terapia contro il mal di denti ed inoltre era frequentemente impiegato contro la stitichezza dei bambini sotto forma di "clisteri di polvere di herba nicotiana": è peraltro poco noto che di siffatte proprietà terapeutiche del tabacco proprio un letterato ligure settecentesco Celestino Massucco compose uno specifico elogio entro un suo poemetto, appunto intitolato Il Tabacco, e tuttora leggibile entro l'antologia letteraria ligure dell'anno 1789 curata dall'erudito e letterato ligure Ambrogio Balbi].
Eppure, a molti parrà sorprendente, la discussione sul tabacco, oggi giustamente di moda per i pericoli cancerogeni che comporta, esisteva già all'epoca si da dar vita ad una fazione di colpevolisti e ad un di innocentisti: certamente non si trattava tanto di riflessioni profilattiche e di medicina avanzata, tutto era incentrato su un uso ed abuso che per alcuni aveva pochissimo se non nulla di pernicioso o sconvenevole mentre ad esempio per la Chiesa romana si era infine dovuti giungere ad una CONDANNA DELL'USO ED ABUSO DEL TABACCO QUALE FORMA DI SCOSTUMANZA COMPORTAMENTALE, MORALE E SOCIALE principio cui nello Scudo di Rinaldo II, seppur tralignado, in qualche modo dovette accodarsi anche l'Aprosio, seppur curiosissimo di tutte le novità e soprattutto assertore di quelle reputate innocue.
Pier delle Ville (Pietro Loi) in un suo utile saggio ha affrontato il problema dell'uso, dell'abuso e delle presunte qualità terapeutiche del TABACCO sulla base del materiale custodito in Ventimiglia nella
La lettura delle pagine di Pier delle Ville, che fu illustre veterinario e valente naturalista, permettono di vivere da vicino il dibattito appassionato che già nel Seicento si accese sulla valenza terapeutica o non del tabacco oltre che sulla moda del fumare, fiutare e masticare i vari preparati della lavorazione delle foglie del tabacco.
Scrive quindi l'autore con la riconosciuta competenza scientifica:
'(pp.1 - 5) Questa pianta, dotata di qualità ornamentali, aveva in origine due varietà: Nicotiana tabacum e Nicotiana rustica, secondo la nomenclatura botanica, distinguibili per il fiore tubolare allungato e dai petali rossicci della prima, e più piccolo e giallino dell' altra; anche le foglie diversificano per grandezza.
La Nicotiana rustica contiene molto più nicotina ed altri veleni, tutti facilmente assorbibili applicando la foglia sulla cute: è peggio della socratica cicuta mortifera, peggio dello shespiriano giusquiamo corruttore, e gli animali evitano di brucarla.
Per allontanare gli alcaloidi tossici, dopo il raccolto le foglie sono fatte appassire all' ombra, e lasciate fermentare prima di subire lavorazioni di vario tipo, per produrre i tabacchi d'uso.
Perché questa pianta, dal 1500 in poi, è entrata nell'abitudine assurda e dannosa del fumo! Il commercio transoceanico portò molti vegetali, nuovi per l' Europa, dalla patata al pomodoro, e caffè, mais , cacao, tabacco: il meno utile si affermò rapidamente nell'uso, mentre la patata destinata a sfamare i popoli potè imporsi relativamente più tardi.
Esistono testi del 1500 e del 1600 che trattano del tabacco, del cacao, e del tè: la Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia
conserva diverse opere su questi vegetali.
Innanzi tutto numerosi testi di botanica, ad esempio uno Zenoni, Historia Botanica (Bologna, G. Lorghi, 1675) e un Montalbani, Hortus Botanigrophicus (Bologna, 1660).
Ovidio Montalbani, "philosophus naturalis", rappresenta una classificazione dei vegetali non per
caratteri, come nel 1700 farà il Linneo, ma per habitat delle piante, o per incerte somiglianze. Del melo sono elencati come affini, con descrizione, quattordici piante, compresi il melograno ed i limoni. I tassonomisti a cui si riferisce il Montalbani sono cospicui nomi del passato: Dioscoride, Teofrasto, Galeno, Dodona, Bauhinio, Lobelio. L'autore tratta anche di Nicotiana maior, di Hyoshiamus peruvianus, di Datura stramonium. Ma del tabacco specificatamente scrive il medico ravennate Massimo Zavona nell'Abuso del Tabacco nei Nostri Tempi (Bologna 1650) in lingua italiana. Dall'elenco "Nomi'de gl'autori citati nell'opera" si prevede una trattazione erudita piuttosto che strettamente scientifica (Agrippa, Avicenna, Cesalpino... Vucherio). In otto capitoli è considerata l'origine ed il nome del tabacco, della forma e figura... della preparazione.
L'VIII capitolo è intestato: "L'uso d'oggidì del tabacco è un abuso". Nel testo in breve si scopre una contaminazione ascientifica, non sperimentale, con le confuse fantasie del secolo: "Ma se bene tuti che scrivono del tabacco concordano a constituirlo del temperamento caldo discordano nondimeno nel determinare il grado di calore, perché Monarale e Delecampio lo costituiscono caldo e secco nel secondo grado e temperato nelle altre qualità. Cesalpinio lo pone caldo nel primo grado e secco nel terzo... Altri... dicono essere di temperamento freddissimo". Spiegare oggi perché e percome il tabacco fosse caldo o freddo sarebbe sprecare carta, inchiostro e tempo.
Gli autori, qual più qual meno, sono interessati all'uso terapeutico delle foglie, cui vengono attribuite disparate capacità curative, in parte secondo osservazione, in parte secondo la pseudoscienza del secolo fantasioso. Non mancano ricette che ci fanno pensare ad una prima introduzione farmaceutica del tabacco , con successivo sviluppo d'un uso "edonistico". Le ricette hanno l'obbiettivo di esercitare un'azione "calda" in un gran nurnero di malanni "freddi": "A dolori articolari cagionati da materia o causa fredda... giovano lefoglie applicate calde". A parte fantasiose chiacchiere, lo Zavona esprime pareri utili ancor oggi, contro il vizio del fumo: "Fui sempre e sono di parere che il tabacco (adoprato nel modo che oggi si costuma)... si debba piuttosto chiamare abuso... Di questo parere fu Pietro Francesco Frigio Autore Moderno... annovera tra i mezzi di abbreviarsi la vita lo smodato pigliare il tabacco, e dice: A questi tempi è accresciato un uso per il quale molti scioccamente si ammazzano".
Zavona conclude: "Habbisi per ultimo quella considerazione che chi disegnasse trattenersi dal troppo uso, di farlo a poco a poco, non in un subito, perché conforme a Cornelio Celso... ogni mutazione subitanea è pericolosa ". Il buon dottor Zavona aveva individuato la patologia dell'assuefazione alle droghe.
Anche più interessante è l' opera di Giovanni Crisostomo Magen (Magnenus), "Burgundi Luxoniensis Patrici philosophi medici", docente presso l'Università di Pavia, dove pubblicò nel 1648, quattordici "Exercitationes de Tabaco". Nella "Praefactio ad Lectorem" menziona gli autori che sull'argomento lo hanno preceduto:"Everartus Antverpianus (1587), Mathies Lobellius, Johannes Neander, Bremanus Vestfaliensis ( Tabacologiahoc est Tabaci seu Nicotianae eius descriptio, ecc.). Il testo è in lingua latina, con dedica a Filippo IV, ed al regio rappresentante in Italia "Heroi Othoni Caimo". L'autore si chiede: "...laudemne aut vero damnem tabaci usus?... Tum, mi lector, utere non abutere..." e sull'uso del fiutar tabacco: "...felicitatem possimus augurari, dum starnutabis".
Segue un Sillabus, ovvero Indice delle Exercitationes, ovvero Capitoli, che conferiscono un'iniziale organicità scientifica e fanno sperare una metodicità illuministica. Sul nome ci informa: "Apud indigenos americanos vocabulo Pictalet vocatur ut ait Monardels... In Hispaniola Insula Petebecenuc dicitur teste Oviedo..: Ab Novae Franciae Pet nomine... ab Hispanis inditum ab suo natali solo insula scilicet Tabaco". Ovviamente ricorda il nome Nicotiana a Johan Nicotio regis Galliarum Legati in Lusitania anno 1559 ed altri nomi: Herba Reginae... Herba Medicea (da Caterina de' Medici).
Descrive quattro varietà di piante, minutamente, e nel paragrafo 5 dell' Exercitatione Secunda distingue in uno schema le "infima tabaci folia deteriora", quelle sviluppate presso il terreno, le inferiori, e spiega che "...natura teneriora semper magis fovet ".
Il Magen, evidentemente ben informato, colto e riflessivo, permeato di scientifica cautela, sulle virtù terapeutiche del tabacco si esprime negativamente: "Censeo primo tabacum non esse reponendum inter benigna medicamenta... vomitum enim facit... cerebrum turbat", e più avanti, Exercit IV,: "Dico primo usum familiarem tabaci pueris nullo modo convenire...".
La metodicità del testo faceva presagire un criterio scientifico illuministico, da Enciclopedia, ma anche Crisostomo Magen, come Massimo Zavona, pensa che il tabacco per effetto del suo calore secco "somni conciliatione promovet", ed avrebbe una "Relatione et Analogia" di carattere zodiacale "cum Aquario et Marte"...
Il professor Magen propone numerose ricette ed indicazioni con osservazioni critiche: per esempio ad Henricius, che consigliava: "in ore detento" un decotto di tabacco e camomilla per lenire il mal di denti, risponde: "Dentium dolor a causa frigida nullo modo tollitur tabacco".
Ricorda l'avversione per il tabacco di due regnanti: uno è il Tyrannus Ammurathes IV, che per editto vietò "... ne quisquam fumo tabaci uteretur... quia prolis multiplicatione impediebat...".
Sicuro: i suoi sudditi fumavano... come Turchi! L'altro re è "Jacobus Britanniae Regis, odio ergo tabacum... libello scripsisse Misokapnion".
La pericolosità della droga si manifestò specialmente con l'usanza sociale del fumare, del masticare e dell'annusare il tabacco, ed anche di più con la somministrazione di varie preparazioni per finalità farmacoterapiche. In sostanza la nicotina e gli altri alcaloidi della linfa vegetale sono talmente tossici, che tutti i tentativi del passato di introdurli in terapia sono falliti. Infine oggi un estratto nicotinico può essere utilizzato solo in agricoltura a fine parassiticida.
Di Angelico Aprosio esiste un manoscritto, parzialmente pubblicato dal Durante nel I volume monografico di questa Nuova Serie dei Quaderni dell 'Aprosiana edito nel 1993, presso la Biblioteca Universitaria di Genova: si tratta della seconda parte "Dello Scudo di Rinaldo", opera moralistica. Il capitolo VIII, "Del Tabacco e dell 'abuso di esso" e dedicato "Al Signor Domenico Panarolo filosofo medico e pubblico professore di Medicina nel Romano Ateneo". Nella pagina segnata 254 del manoscritto l'Aprosio manifesta notevole disprezzo per l'uso del tabacco, che "Da Galeotti passò alle mani dei Birri e di simile canaglia... ridotto in sottilissima polvere cominciò a lasciarsi vedere tra quelle d'uomini dei piu' civili, in tanta moderazione che la quantità... di un fagiuolo indiano era soverchia a pascere i pruriti del naso per il corso di un anno lunare: ora è talmente cresciato l'abuso... che apparendo incapaci le scatolette, non mancano di quelli che se lo pongono nelle tasche a rinfuso... In tutte le città altro non si veggono che cartelli di tabacivendoli, ed in Londra in particolare come riferisce Barnaba de Riicke citato da Henrico de Engelgrave se ne veggono e se ne contano piu' di mille botteghe... ". A pagina 266 del manoscritto 1'Aprosio conclude con durezza: "II tabacco distrugge e malmena in tutto mentre egli fa arrugginire... i nervi immediatamente del cervello e gli rubba ogni argentino candore... Tabaci cerebro valde Inimici"...'
Nell'antica erboristeria si credeva poi che gli infusi di MANDRAGORA fossero utili contro
sterilità (Teofrasto, Plinio). Pitagora riteneva che le
radici rendessero invisibili.
Si diceva che procurasse
voluttà, che guarisse malanni, che recasse fortuna
nei processi e nelle liti: erba magica per eccellenza... dunque!
Le più cupe leggende accompagnano comunque la storia di
questo vegetale: esso veniva considerato della massima
efficienza, specialmente quando fosse stato colto sotto
una forca, ai piedi dell'impiccato, bagnato da
goccia di sperma emessa negli ultimi spasimi, durante
l'agonia.
Caratteristico è anche il modo con cui doveva essere colta: non doveva venir toccata
dall'uomo poiché come diceva la leggenda questi sarebbe
morto fulminato nel momento stesso che l'avesse sradicata.
Allora era necessario legarla a mezzo di
corda al collo di un cane nero: s'incitava la bestia
alla corsa, la MANDRAGORA veniva sradicata e il cane
moriva. Nello stesso momento l'uomo doveva
suonare un corno per non udire le grida che
la pianta avrebbe mandato nel sentirsi staccare
dal suolo: quelle grida infatti lo avrebbero fatto
morire.
E' da ricordare che, sia pur vagamente
la MANDRAGORA ricorda una forma umana: come tale
era ritenuta un amuleto di insuperata virtù magica: la si
doveva tenere gelosamente custodita in un cofanetto,
vestita di abiti sontuosi, le si doveva dare regolarmente
dar mangiare e da bere. Quando si credeva di udirla
piangere (e si citavano testimoni che giuravano di averne
sentito i gemiti!?!) si prevedevano gravi disgrazie
nella famiglia.
Nella farmacologia, la MANDRAGORA era considerata
erba dotata di virtù afrodisiache: tale infatti è, per vari aspetti, il
concetto della omonima commedia di Machiavelli.
La sua azione principale però, a quanto sembra, era
quella anestetica: accompagnata ad altri unguenti,
la MANDRAGORA era somministrata ai condannati a
morte.
Gli effetti magici della MANDRAGORA, secondo gli
occultisti, sarebbero i più potenti di tutte le piante. Occorrerebbe
però attenersi ad alcune rigorose precauzioni: tra queste, importantissima, quella di non
toccarla mai con il ferro e con i cosiddetti metallini, e di
raccoglierla infine sempre sottovento.
In quanto alla sua radice, secondo gli
antichi testi di magia, i veri effetti magici sarebbero determinati dalla pasta ottenuta dalla stessa dopo averla
pestata: ma, si sarebbe dovuto far ciò sempre in certe ore astrologiche;
in certi periodi annuali: lavorando il tutto in un
mortaio composto da sette metalli,
formato da una lega speciale, di fabbriazione complicatissima sì che quasi tutti
ricorrevano a fabbri specializzati...ma qui si è ormai sulle sabbie
lella leggenda.
l'ELEOMELE era una sorta di veleno particolare sospeso tra criminalità e stregoneria le cui caratteristiche, tranne che dai competenti erboristi, non furono mai comprese del tutto.
Il NAPELLO (Aconitum napellus) o specie di ACONITO resistente ad ogni sorta di antidoto: nonostante la difficoltà di procurarselo per via clandestina ed il prezzo elevato da pagare ai migliori "maestri di veleno" il Napello era ricercato dagli Avvelenatori come simbolo del Veleno per eccellenza di potenti e cortigiani. Nel NAPELLO, assieme ad altri alcaloidi, si trova l'aconitina, uno degli alcaloidi più tossici per l'uomo: basti pensare che la dose mortale per l'uomo è di uno o due milligrammi, sì che anche la farmacopea moderna, che era riuscita a controllare l'alcaloide, ha preso ad usarlo sempre meno in terapia (dove pure a minime dosi l'alcaloide ha spiccate proprietà sedative ed analgesiche)
La pianta erbacea perenne della "Ranuncolacee", appunto l'ACONITO, nelle sue varie specie oltre il napellus e compresi il lycoetonum ed il variegatum .
Con il nome di APPIO (anche APIO) si indica una pianta della famiglia delle Ombrellifere, che comprende parcchie varietà d'orto tra cui il SEDANO (Apium graveolens), il PREZZEMOLO o APIO PALUSTRE (Apium petroselinum), l'ANACIO (Pimpinella anisum).
Traducendo la Storia Naturale di Plinio, Cristoforo Landino scrisse (BATTAGLIA, sotto voce Appio): L'erba detta Olusatro, el quale chiamano ipposelino, cioè appio cavallino, è rimedio a' morsi dello scorpione...Quello chiamato ELIOSELINO, cioè appio di palude, ha propria virtù contro a' ragni [L'APPIO o APIO era peraltro uno dei componenti degli ANTIDOTI CONTRO I VELENI
La BELLADONNA appartiene alla famiglia delle Solanacee: gli antichi erboristi la nominano spesso anche SOLATRO [dal lat. mediev. solatru(m), contrazione della loc. solanum atrum propr. "solano scuro"] che rappresenta un nome comune di alcune piante della famiglia delle Solanacee.
La BELLADONNA contiene l'ATROPINA che veniva usata nelle giuste dosi già dagli antichi Egizi per produerre del collirio capace di far dilatare gli occhi e renderli quindi più splendenti: anche le donne romane se ne servivano per lo stesso genere di cosmesi.
L'ATROPINA ha infatti proprietà vasodilatatrici: per questo può essere usata in terapia medica per gli spasmi intestinali, i catarri bronchiali, la pertosse, le bradicardie ed anche per ridurre la sintomatologia del Morbo di Parkinson (in questo caso però sotto la forma di "Cura bulgara" somministrando cioè decotti ottenuti da un particolare tipo di Belladonna che cresce in Bulgaria).
Tuttavia la somministrazione di dosi eccessive di atropina può provocare una grave forma di avvelenamento caratterizzata da secchezza delle fauci e della gola, raucedine, disturbi visivi, tachicardia, sintomi a carico del sistema nervoso, mal di capo, vertigini, irrequietezza, allucinazioni, delirio.
l'ARSENICO usato dai Romani che lo importavano dal Ponto sotto forma del solfuro d'arsenico detto Sandaraca, poi noto come Risogallo fu uno tra i più usati tossici di quest'epoca di veleni in cui la maggior parte di sostanze nocive era estratta dalle piante: nel tentativo di elaborare antidoti reali o nella vana ricerca di cure antiche, diventate quasi mitiche, come la panacea di tutti i mali come il silfio si finiva per manipolare sostanze altamente velenose quali i composti dell'arsenico e per contrarre delle tossicosi incurabili.
la CICUTA o erba velenosa delle "Ombrellifere", nelle specie virosa, minore o aglina e maggiore che sin dalla classicità greca fu tra i Veleni più usati (si pensi alla morte di Socrate: "Mangiata o bevuta che si sia la cicuta, offusca tanto la virtù visiva de gli occhi, e genera così spesse vertigini, che non lascia discernere alcuna cosa. Induce, dopo questo, singhiozzi, anfanamenti, pazzia e frigidità grande nelle parti estreme del corpo; e finalmente, stringendo il fiato nella canna del polmone, se ne muoiono i pazienti strangolati e ispasimati" (MATTIOLI, 52).
Ha gli arti lunghi e robusti, coda breve, orecchie grandi e triangolari, dotate di un ciuffo di peli all'apice.
Il pelo, morbido e folto, è di colore variabile, perlopiù grigio-rossiccio, con o senza macchiette nere sulle parti superiori, molto chiaro sul ventre.
Peli più lunghi ai lati del capo formano le caratteristiche fedine.
E' un animale agile e forte, dotato di una proverbiale actezza di sensi, specie della vista: predone sanguinario attacca diversi animali anche di grosse dimensioni.
Praticamente estinto da una caccia spietata (dal MANOSCRITTO BOREA apprendiamo dell'uccisione di una LINCE [ LUPO CERVINO] nell'anno 1815) qualche esemplare pare sia ricomparso in Liguria ove nel passato era alquanto diffuso e costituiva, al pari del lupo, una seria minaccia per gli allevamenti e gli animali da cortile.
In determinati periodi storici, caratterizzati da difficili situazioni climatiche, il sopraggiungere sulla costa di robusti CINGHIALI non mancava di creare problemi: ma questi fieri animali selvatici, da tempi immemorabili, erano soprattutto uno dei p0rincipali bersagli dell'ATTIVITA' VENATORIA LIGURE.
L' ORSO BRUNO, destinato poi a scomparire in forza di una spietata persecuzione, era l'incontrastato signore dell'alta valle del Nervia: per dimensione, forza e mole non aveva rivali nè nel cinghiale nè nel lupo italico.
Per quanto non avesse la mole di altri ursidi o di altri ORSI BRUNI di altre contrade era pur sempre un animale imponente che, per quanto onnivero, poteva causare danni alle greggi ed agli armenti.
Poteva darsi pure il caso di qualche esemplare, magari un VECCHIO SOLITARIO, che, o perchè malandati e perchè feriti ed affamati, si pingesse ad aggredire l'uomo, specie se questo si avventurava nel suo "regno" magari procedendo per una di quelle tante VARIANTI DI PERCORSO che caratterizzavano i tragitti dell'ALTA VALLE.
Per tutto questo insieme di ragioni la COMUNITA' DI PIGNA nelle sue NORME STATUTARIE del XVI secolo introdusse una RUBRICA ove si legge: "Orsi, Luppi grossi/ Che ogni persona che piglierà nel territorio del presente Luogo di Pigna et Busio, Orsi o Lupi grossi, a colui, a coloro che n'averanno preso gli sii sii dato e pagato dalla Città e Sindici Agenti per essa per ogni Orso o Lupo grosso libre due ducali [la moneta è sabauda visto che Pigna e trritorio dipendevano dal Piemonte sabaudo], et se prenderà delli piccoli lla Città gli pagherà una libra [lira] per ogni uno, et quelli gli haverano presi saranno tenuti mettere la testa et le grafie attaccate ad una delle porte della terra".
Per giustificare la taglia ricevuta, visto che venivano retribuiti con denaro fiscale, i cacciatori avrebbero dovuto appendere alle pubbliche porte della città la testa e gli artigli dei predatori: può sembrare un'usanza barbara ma era necessaria per la salvaguardia della vita agreste.
Le armi (reti, trappole, dardi) e il tipo di caccia (di agguato, di anganno e/o coi cani) fu successivamente integrata coll'uso delle armi da fuoco: si trattava però di ARCHIBUGI, usuali tra la popolazione solo da fine '500, armi cioè che non potevano certo compiere delle stragi.
E' dal XIX secolo con la comparsa di fucli più sofisticati e a tiro molto più lungo che la caccia all'ORSO divenne anche uno sport, uno sport che, senza regolamentazione, portò all'estinzione in zona dello splendido animale.
Dal fatto che negli STATUTI DI PIGNA del '500 fosse stata introdotta questa rubrica si deduce che le colonie di ORSI nell'area in particolare di GOUTA dovessero essere notevoli e costituire, questo è fuor di dubbio, un pericolo per le greggi transumanti: è ipotizzabile che all'epoca storica dei PELLEGRINAGGI (XIII-XIV secolo) questi grandi animali fossero ancora più numerosi in zona che nel '500 e che finissero per costituire un pericolo reale per quei PELLEGRINI che procedessero da soli o si avventurassero troppo fuori dai percorsi naturalmente battuti.
Naturalmente gli INCENDI, SPONTANEI, CASUALI o DOLOSI, risultavano pericolosissimi ogni volta che investivano i centri urbani ove la grande quantità di legno utilizzato nelle strutture edili poteva causare vere e proprie calamità con gravi stragi: anche per questa ragione alcuni autori come GEORG ANDREAS BOEKLER (autore della celebre opera Theatrum Machinarum Novum [Nurberg, Paulus Fursten, 1661]) divenne famoso per le macchine da lui ideate per lo sfruttamento dell'acqua in ogni campo, da quello di sfruttarne l'energia motrice a quello di dotare gli inservienti pubblici dei vari Stati di una MACCHINA TRAINATA DA ANIMALI ED IN GRADO DI SCAGLIARE al modo delle moderne AUTOCISTERNE DEI POMPIERI un GETTO COSTANTE D'ACQUA SULLE STRUTTURE AGGREDITE DAGLI EVENTUALI INCENDI.
IL PERICOLO degli INCENDI ed il COSTANTE SOSPETTO DELLA LORO ORIGINE CRIMINOSA condizionò comunque spesso gli estensori delle NORME STATUTARIE DEL DIRITTO PENALE ed a questo non sfuggirono gli autori degli Statuti CRIMINALI DI GENOVA del 1556.
Difatti al libro II degli stessi o "delle Pene" risulta trascritto: Chiunque entro la città di Genova o nel distretto ma entro la cinta muraria, direttamente o prezzolando sicari, abbia incendiato, per far danno, qualsivoglia edificio, venga condannato a morte e, a guisa di risarcimento, i suoi beni vengano attribuiti al fisco repubblicano. Qualora non sia stato catturato, venga allora condannato in contumacia per tal crimine e risulti bandito, come esule, dal consesso dello Stato. Nei limiti territoriali sopra evidenziati e segnati può talora accadere che qualcuno abbia fatto scoppiare un incendio, anche se non al segno che ogni cosa venga combusta, all'interno di qualche casale rurale sito fuori mura fortificate. Il colpevole sia tenuto a risarcire i danni procurati ed a versare al fisco una somma variabile da cinquecento a mille lire. Nel caso che non abbia pagato il dovuto entro dieci giorni da quello della condanna, il reo venga perpetuamente esiliato dallo Stato o sia incatenato come galeotto per il resto della vita. Se al contrario l'incendio avrà distrutto il corpo intero dell'edificio od anche solo parte dello stesso, il responsabile condannato, salvo l'obbligo dei risarcimenti, sia condotto al supplizio estremo. Allo stesso modo venga punito chi da sé o per mezzo d'altri, in qualche spazio esterno ad abitazioni residenziali o edifici rustici, abbia appiccato fuoco, per dolo, a qualsivoglia cosa o manufatto, di modo che l'incendio si sia poi esteso al vicino edificio, sì da distruggerlo in tutto o in parte. Tenuto altresì conto se l'incendio si sia esteso per colpa o casualmente e comunque oltre la reale volontà di nuocere, il reo sia condannato e multato secondo la forma del diritto. Chi abbia devastato col fuoco un'altrui terra agricola coltivata, in cui si trovino piante da frutto, paghi la multa di cinquanta lire e risarcisca al proprietario il doppio del danno patito. Chi invece, senza volontà di dannificare ma per negligenza, abbia appiccato il fuoco ai coltivi altrui debba risarcire il semplice danno e versare al fisco l'ammenda di dieci lire. In ultimo chi, di persona o per via di complici, abbia incendiato per fini dolosi degli incolti, senza però impedire che il fuoco devasti dei coltivi vicini, venga ritenuto colpevole come se avesse incendiato le terre agricole poste a coltura.
Chi abbia incendiato una terra silvestre o pratense od un qualsiasi incolto risarcisca il danno per il doppio di quanto stimato e paghi al fisco un'ammenda da dieci a cento lire, oppure venga portato in giro per la città, incatenato e battuto a colpi di verga. Qualora per colpa o negligenza ma ben oltre la volontà di far dolo il fuoco abbia invaso un terreno silvestre, pratense od incolto, il reo debba invece risarcire il danno semplice, versando al fisco un'ammenda di dieci lire. In senso più ampio si ribadisce che allorquando qualcuno sia morto per un incendio o sia rimasto ferito se non menomato oppure una casa sia andata distrutta interamente od in parte, spettino al fisco repubblicano tutti i ben di colui, per cui colpa, opera, incitamento o consiglio, sia stato appiccato il fuoco. Poiché tuttavia è arduo provare le responsabilità degli incendiari o piromani, in particolare perché fraudolentemente di per sé agiscono solo colla copertura della notte od ancor meglio si valgono di interposte persone come fanciulli, sempre giustificati dall'età, domestici o parenti nullatanenti, intendendo qui soccorrere a tutti questi problemi inquisitoriali e quanto più facilmente giovare alla ricostruzione della verità, si conferisce potestà, al Pretore di Genova come a tutti gli altri magistrati cui spetta indagare su questi crimini, di esercitare costrizione, ogni volta che parrà necessario, sul malfattore, procedendo anche per presunzione di colpa e per vie indiziarie ad arbitrio dell'uomo buono e giusto, colla facoltà d'obbligare, per la riparazione del danno, il padre al posto del figlio, il padrone per il servo oppure uno solo dei componenti di tutta quanta la famiglia cui appartiene colui che fu responsabile materiale dell'incendio..
-LO SCHIAVO DI NATURA: UNA CONDIZIONE SCIAGURATA
-LO SCHIAVO DI GUERRA: I MERCATI DEGLI SCHIAVI
-POSTAZIONE ESTREMISTA SULLO SCHIAVO DI NATURA
-POSTAZIONE POLEMICA CONTRO LA FILOSOFIA GIURIDICA DELLO SCHIAVO DI NATURA
-SERVI E SCHIAVI NEL GENOVESATO
Inoltre, da paura ignoranza e malafede -sin dai tempi delle prime spedizioni geografiche in Asia, molte popolazioni esotiche e lontane venivano descritte, sulla base di fantasiosi resoconti, come CREATURE SELVAGGE E PRIMITIVE, SE NON SEMIANIMALESCHE E MOSTRUOSE, per cui ne era, a seconda della sfruttabilità e delle convenienze, giustificabile, con adeguato supporto ideologico e filosofico, la distruzione o quantomeno lo sfruttamento quali SCHIAVI DI NATURA (individui selvaggi non equiparabili a persone civili e quindi, naturalmente, di condizione inferiore: fatto anche giuridicamente, oltre che filosoficamente, diverso da quello degli SCHIAVI DI GUERRA come gli infedeli Turchi, commerciati, quando catturati, nei Mercati degli schiavi, tra cui famoso quello di Livorno: Schiavi non per natura e minor diritto soggetti ai Cristiani ma quali prede di "giusta guerra").
Nel GENOVESATO il fenomeno della SCHIAVITU' (alimentato soprattutto dai commerci coi portoghesi ma anche dalla cattura -specie a metà XVI sec.- dei miliziani della FLOTTA TURCHESCA che infestava il mar Tirreno) si confuse spesso e volentieri, dal lato giuridico, con quello della SERVITU': resta tuttavia interessante notare la valenza economica, ed il notevole pregio, riconosciuto agli SCHIAVI ORIENTALI, e soprattutto alle SCHIAVE ORIENTALI più ambiti e sempre più costosi di quelli AFRICANI come si ricava dal capo 93 del libro II degli Statuti Criminali della Repubblica del 1556.
A tale estremismo (non esente però da CONTESTAZIONI E POLEMICHE), in senso generale e populistico "rapito" da una diffusa subcultura religiosa e predicatoria alla sfera del paranormale, concorse in chiave filosofica e giustificante, il pensiero di Aristotele sugli Schiavi di natura : Politica, 1253b20 sgg., 1255a5 sgg.> La categoria aristotelica rinvigorita da Tommaso d'Aquino e dai teologi del XIII sec. sullo S. di natura acquisì gran valore per il dibattito, soprattutto ma non solo spagnolo, sulla liceità del dominio coloniale e dell'encomienda o giustificata utilizzazione degli S. di natura nelle colonie agricole forzate.
La polemica sugli SCHIAVI DI NATURA dipese sostanzialmente da uno scontro ideologico sulle DIVERSITA' in senso lato e sulla loro lecita perseguibilità.
Sulla questione si affrontarono a Valladolid nel 1550, davanti al Consiglio delle Indie, Bartolomeo de Las Casas e Juan de Sepulveda che, studioso d'Aristotele, ne aveva ripreso la teoria sullo S. di natura estendola dai negri africani agli indigeni precolombiani, senza tener conto dei notevoli livelli della loro civiltà.
L'argomento, benché dibattuto a fondo (e senza ancora che intervenisse - come avverrà solo agli albori settecenteschi dell'antropologia fisica - la questione giuridica di un'uguaglianza di diritti misurata sul colore della pelle) non giunse mai a soluzione anche se illustri giuristi e dottori, partendo da Francisco de Vitoria (nelle Relationes de Indis del 1539) e dalla sua scuola di Salamanca, sancirono che gli indiani, per il diritto internazionale, erano soggetti di pari dignità e su cui il dominio era motivato solo in conseguenza d'un intervento militare "umanitario", nel caso che violassero i dettami del diritto delle genti.
Ma si può dire che in tali riflessioni sussistesse sempre il meccanismo figurato del "serpente che si morde la coda": lo stesso Vitoria, nonostante le considerazioni di massima e l' apparente moderazione di giudizio, finiva per classificare gli indiani od i "selvaggi" come mite variante di Diversi, magari un giorno equiparabili agli europei, ma ai suoi tempi ancora bisognosi d'un' assistenza paternalistica, che modificasse certi squilibri storici del loro esistere, dal cannibalismo ai riti idolatrici, prove tangibili di una certa arretratezza: apparente teorema di qualificazione dei precolombiani ma nel contempo assioma di giustificazione per un' egemonia occidentale che si richiamava sempre ad Aristotele, che per Vitoria non avrebbe tanto postulato schiavizzazione degli "indiani" quanto il ricorso ad una autorità pronta a correggerli (NIPPEL, passim ).
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In Italia comparve, come fenomeno relativamente nuovo, verso la fine del XVII secolo ed i primi del XVIII colpendo principalmente le popolazioni rurali dell'Italia settentrionale.
Solo nel 1914 (anche se sulla scorta di quell'importante contributo che CESARE LOMBROSO diede alle investigazioni con la sua stesura di una "Geografia Medica d'Italia" nella II metà dell'Ottocento) si scoprì che era malattia da avitaminosi propria dei regimi popolari indotti dalla miseria ad un alimento povero, caratterizzato quasi esclusivamente di polenta e pane giallo (la vitamina PP risulta infatti assente nelle farine del mais).
L'endemia pellagrosa determinò altresì un rapporto causale in Italia tra la pellagra appunto ed un numero crescente di disfunzioni psichiche che inducevano al ricovero in manicomio dei malati (nel suo stadio finale la PELLAGRA dà infatti luogo a gravi COMPLICANZE MENTALI E PSICHICHE).
Le cause predisponenti sono attualmente in parte diverse rispetto al passato, quando erano soprattutto imputabili alle sfavorevoli condizioni socio-economiche (con grossi problemi nutritivi sin dall'epoca dell'allattamento) e alla scarsa esposizione alla luce solare.
Oggi responsabili dell’insorgenza di rachitismo sono soprattutto la nascita pretermine, l’ allattamento prolungato non integrato con vitamine, l’allattamento prolungato con latte di soia, il rifiuto di latte e latticini dopo lo svezzamento.
Per questi motivi si adottano, oggi, misure preventive, che consistono nella somministrazione della vitamina D al neonato, qualunque sia la sua dieta, per tutto il primo anno di vita.
Col Concilio di Lione II (1274) l'attenzione si sposta più in generale sull'Usura estendendo il discorso ai cristiani ed agli ecclesiastici:"26 - Dell'Usura. Desiderando impedire la voragine degli nteressi, che divora le anime ed esaurisce quanto si possiede, vogliamo che venga osservata inviolabilmente la costituzione del concilio Lateranense (III, del 1179, carta 25, COD, 223), emessa contro gli usurai: ciò sotto minaccia della divina maledizione. E poiché quanto minore sarà per gli usurai la possibilità di prestare ad usura, tanto maggiormente verrà tolta la libertà di esercitarla, con questa generale costituzione stabiliamo che né un collegio, né altra comunità o singola persona di qualsiasi dignità, dondizione o stato, permetta a dei forestieri o ad altri non oriundi delle loro terre, che esercitassero o volessero esercitare pubblicamente l'usura, di prendere in affitto, a questo scopo, case nelle loro terre, o di tenerle, se già le hanno prese in affitto, o, comunque di abitarle; devono, invece entro tre mesi, scacciare tutti questi usurai manifesti dalle loro terre, senza ammettere più nessuno, mai in avvenire. Nessuno dia in affitto, a scopo di usura una casa; neppure sotto qualsiasi altro pretesto (o colore). Chi facesse il contrario, se fossero persone ecclesiastiche, patriarchi, arcivescovi, vescovi sappiano che incorreranno nella sospensione; persone minori, ma singole nella scomunica, se fosse un collegio, o altra comunità, incorrerà nell'interdetto. Se poi si indurissero, nel loro animo, per un mese, contro di esso, le loro terre, da quel momento siano sottoposte all'interdetto ecclesiastico, fino a che questi usurai dimorano in esse. Se si trattasse di laici siano costretti dai loro ordinari con la censura ecclesiastica ad astenersi da questo eccesso, venendo meno ogni previlegio. 27 - Ancorché gli usurai manifesti abbiano soddisfatto nelle loro ultime volontà di soddisfar, per quanto riguarda gli interessi che avevano percepito, o determinando la quantità (del denaro da restituire), o in modo indeterminato, sia negata ad essi, tuttavia, la sepoltura ecclesiastica fino a che non si sia completamente soddisfatto - nei limiti delle loro possibilità - per gli interessi stessi, o finché sia stata data assicurazione della restituzione (e ciò nel modo dovuto) a coloro, cui dev'essere fatta la restituzione, se sono presenti essi stessi, o altri che ossano ricevere in loro nome; o, se essi fossero assenti, all'ordinario del luogo, o a chi ne fa le veci, o al rettore della parrocchia nella quale il testatore abita, dinanzi ad alcune persone della parrocchia stessa degne di fede (a questo ordinario, vicario, rettore sia lecito in forza di questa costituzione accettare tale cauzione in loro nome, cosicché possano aver poi diritto all'azione [legale]) o ad un pubblico impiegato, incaricato dallo stesso ordinario. Se poi si conosce la somma precisa degli interessi, vogliamo che essa sia sempre espressa nella cauzione; altrimenti sia determinata un'altra cauzione secondo il criterio di chi la riceve. Questi, però, non ne stabilisca scientemente una minore di quella che si ritiene per vera; se si comporterà diversamente, sia tenuto lui a soddisfare il resto. E stabiliamo che tutti i religiosi od altri, che contro la presente disposizione osassero ammettere alla sepoltura ecclesiastica degli usurai manifesti, debbano andar soggetti alla pena stabilita dal concilio Lateranense [III] contro gli usurai. Nessuno assista ai testamenti di pubblici usurai o li ammetta alla confessione o li assolva, se non avranno soddisfatto per gli interessi o fornita debita assicurazione, come premesso, di dar soddisfazione loro possibile. I testamenti degli usurai manifesti redatti in modo diverso non abbiano alcun valore ma siano ipso iure invalidi".
Nell'alto Medioevo vista l'economia curtense e di sussistenza, data la quasi totale mancanza di liquidità per un mercato che quasi più non esisteva, l'Usura quasi scomparve come fatto economico; essa ricomparve con il riprendersi dei commerci e l'esigenza di liquidità, dopo il Mille, nel basso Medioevo. Nonostante le condanne sancite dai Concili ecclesiastici l'Usura si diffuse largamente e non solo per i prestiti alla produzione (onde cioè intraprendere attività auspicabilmente produttrici di guadagni) ma anche, per le classi non abbienti, per i prestiti al consumo (cioè per la vita di sopravvivenza, dal comprare il cibo al pagare gli affitti) con la conseguenza di enormi indebitamenti delle masse popolari e rustiche.
La condanna, di Chiesa e Stato, in questa società ove i prestiti erano ormai necessari per la produzione ed i commerci, ottenne il solo risultato di relegare l'U. ad una clandestinità in cui si mascheravano gli interessi con espedienti di ogni sorta: erano diffusi la vendita con patto di riscatto (ove la distinzione tra prezzo di alienazione e di riscatto costituiva in definitiva l'interesse), la registrazione sotto forma di donativo dell'interesse estorto, la fissazione di una penale per ritardato pagamento (indicando nel protocollo di restituzione una data anteriore a quella di fatto convenuta).
Lo Stato (a Genova, come a Venezia o Pisa) interveniva quando accertava queste irregolarità e si poteva perdere l'intero capitale.
Del resto gli USURAI erano ben consapevoli del fatto che il loro mestiere non fosse lecito e, per quietare la propria coscienza in vista della vita ultraterrena, aprivano conti destinati a "Domineddio" (in pratica ad "Opere assistenziali e di carità") o redigevano testamenti a favore di opere pie o per la realizzazione di opere pubbliche e d'arte (anche per questo la condanna ecclesiastica comportò la non ratificazione dei testamenti di usurai).
Nonostante le condanne di Chiesa e Stato l'Usura continuò ad essere praticata con successo, sì che i Dottori della Chiesa giunsero, con argomentazioni sottilissime, a distinguere tra il prestito ad interesse illecito per il consumo (divenuto clandestino ed ambito di gravi abusi, gestito - anche per sopravvivere - da minoranze relegate ai margini della società, come gli Ebrei destinati a suscitare contro di loro avversione etnica e razziale)e quello per la produzione ed il commercio legalmente praticato per lo sviluppo dei grandi banchieri e di un efficiente mercato finanziario e creditizio di cui, a Genova, il genovese Banco di S.Giorgio costituì un'emanazione tanto legale da divenire espressione massima dell'intera economia repubblicana (intanto per soccorrere chi doveva ricorrere al mercato clandestino dell'Usura soccorsero in qualche modo dal '400 dei ricchi benefattori del mondo finanziario con lasciti e quindi coll'istituzione dei Monti di Pietà che accordavano prestiti su pegno).
Per intendere la complessità di questo periodo è utile riportare quanto scritto da Dante Zanetti nel Dizionario Enciclopedico del FEDELE, vol.XX, alla voce Usura (p.639, col.1):"Nel 1285 il comune di Venezia contrasse un prestito all'8% e tre anni più tardi un altro prestito al 12%. Nella Sicilia di Federico II l'interesse legale era del 10%; a Verona, nel 1228, del 12%; a Genova, nella stessa epoca, era del 15%. D'altra parte nel sec.XII un mercante veneziano pagò interessi varianti dal 43 al 50%: In Francia, sul finire del Duecento, un operatore privato pagò interessi che raggiungevano il livello iperbolico del 120 e addirittura del 266%. Nel sec. XV Jacques Coeur diventò banchiere della corte di Francia prestando a carlo VII somme considerevoli a un tasso che andava dal 12 al 50%. Nello stesso secolo i banchieri di Arras pretendevano interessi oscillanti tra il 12 e il 20% e i banchieri piacentini chiedevano anche il 30%. Il comune di Vigevano contrasse prestiti al 75% nel 1411, al 90% nel 1413, al 48% nel 1439. Nel Cinquecento i mercanti cristiani che operavano nel Levante [tra cui moltissimi Genovesi] pagavano interessi del 30 o 40%. Si tratta di pochi esempi ma sufficienti a darci un quadro abbastanza fedele di una situazione che era determinata da una generale penuria di capitali e da un rischio molto elevato. D'altra parte, i prestiti finanziavano spesso operazioni speculative che garantivano profitti talmente elevati da rendere sopportabili anche tassi che ci appaiono oggi sproporzionati. Poco si conosce intorno ai saggi praticati nel mercato clandestino dell'U. spicciola, ma non è difficile immaginare quali livelli potessero toccare, dato il rischio ancora più elevato e le condizioni di estrema necessità di chi vi ricorreva".[I tassi diminuirono dal Seicento in una nuova ottica finanziaria, grazie soprattutto alla scuola Inglese ed Olandese: nei Paesi Bassi si passò tra il 1660 ed il 1700 a mutui che andavano da 3% al 2,5% mentre in Inghilterra già a fine '500 si pubblicavano saggi sull'interesse e l'U. evidenziando i vantaggi di usufruire di capitali a basso tasso di interesse nel contesto della liberalizzazione del mercato finanziario].
Nei riguardi degli ERETICI dal XVII secolo sarebbe valsa la normativa sancita da Gregorio XIV: specificatamente con l'art. XLIX del cap. IX del suo Catalogo delle Scomuniche.
Su Eretici, Streghe e Maghi la letteratura canonica era comunque dipendente dal vecchio Maglio delle Streghe e particolarmente sviluppata nell'opera interpretativa di M. DELRIO (lib.V, sez.XIX, pp.97-98) che scrisse:"Si deve procedere alla sepoltura del corpo di colpevoli di stregoneria, anche macchiata d'eresia?
In questa scelta bisogna adattarsi alla consuetudine in vigore nelle giurisdizioni in seno alle quali i condannati son stati giustiziati. Per quanto concerne quelli che, PENTENDOSI, hanno resa vana l'esecuzione si deve agire comunque a danno del cadavere, specie trattandosi di individui colpevoli d'eresia. Così nelle regioni in cui si è soliti procedere alla confisca dei beni, anche dopo la morte del reo è opportuno confiscarne le proprietà mentre laddove non vige siffata consuetudine si arriverà alla perpetua dannazione del defunto, sì che si possa ordinare di esumare il corpo anche dopo che sia stato sepolto, di modo che le ossa vengano arse dal fuoco purificatore. Non si seppeliranno peraltro coloro che siano morti nel compiere questo genere di crimini, anzi il loro cadavere dovrà venir esposto sulla forca. Facendo qualcuno obiezione a ciò col dire che i giudici non devono così incrudelire contro il cadavere di chi si sia suicidato in carcere, poiché colla sua morte il reo ha finito per espiare le proprie colpe, mi sento in grado di ribattere che, anzi, costui è doppiamente colpevole e che per nulla si può espiare una colpa commettendone un'altra, cioè uccidendosi contro i dettami della legge umana e di quella divina...vari interpreti di diritto ritengono che sia giustissimo incrudelire contro i resti di chi, resosi colpevole di crimini estremi ed atroci, abbia poi cercato col suicidio di scampare ad un'infamante punizione. Del resto l'universale parere concorda nel sostenere che la punizione pubblica dei cadaveri, esposti alla comune vergogna, costituisca un utile esempio ed un'ammonizione per quanti possano soltanto meditare di compiere misfatti del genere. Sono altresì concorde con quegli esperti di Diritto i quali ritengono che, secondo i dettami della legge Cornelia, che tratta dei 'dei sicari', si debba procedere contro quei parenti od amici che al reo, chiuso in carcere, abbiano procurato del veleno, delle armi da taglio per suicidarsi o lo abbiano personalmente aiutato a togliersi la vita. Accadendo però che uno di questi criminali sia defunto naturalmente, per una malattia contratta nel carcere stesso, il giudice avrà facoltà di procedere secondo l'universale parere, specie se prima di morire il criminale non abbia confessato la sua colpevolezza: di conseguenza sarà possibile non concedergli una sepoltura cristiana in terra consacrata, lasciandolo in stato di peccato mortale...Il giudice avrà invece l'arbitrio d'ordinare la cristiana inumazione di qualcuno, con la protestazione però che, citato ogni teste a difesa, si continui la causa contro il morto, specie nel caso d'un colpevole d'eresia. Ma entro qual periodo di tempo sarà lecito iniziare una causa contro una persona che sia scomparsa in tal modo dal consesso dei viventi? Personalmente ritengo che si possa agire, secondo il diritto canonico, fino al quarantesimo anno dalla morte senza però arrivare alla confisca dei beni e piuttosto procedendo alla perpetua dannazione del morto; in merito alla legge ordinaria e penale dello Stato direi che non sia invece da procedere oltrepassato il lustro od i 5 anni consueti per il diritto".
Esso può intervenire come conseguenza da avvelenamento di erba sardonica , ma anche spontaneamente nella tetania: forse per l'uso di intrugli con l'ERBA SARDONICA ma quasi sempre per SPASMI MUSCOLO FACCIALI DA STRESS E DOLORE, sotto la tensione emozionale dlle inquisizioni e soprattutto a causa del dolore di inenarrabili TORTURE molte donne, accusate di STREGONERIA furono riconosciute colpevoli proprio per questo "sintomo" ritenuto, naturalmente a torto, un atto di spregio verso Dio, gli Inquisitori a loro concesso da Satana (cui la tradizione popolare attribuiva appunto la caratteristica raggelante del suono -col digrignare dei denti- e degli spasmi del RISO SARDONICO.
Raggiunge gli 80-90 cm. di altezza e vive nelle zone paludose dell'emisfero boreale.
Contiene un succo velenosissimo e amarissimo che, se ingerito in quantità eccessiva, provoca le caratteristiche contrazioni dei muscoli facciali dette RISO SARDONICO.
In dosi adeguate ha invece proprietà diuretiche ed antispsmodiche ed espettoranti: altri nomi Appioriso, Erba Sardonia ed appunto Erba Sardonica: vedi BATTAGLIA, vol.XVII, s.v.)
Oltre che dall'uomo malato la fonte del contagio è costituita dalle feci di alcuni animali erbivori, in particolare del cavallo, che ospitano nel loro intestino le spore del batterio causa della malattia.
Il batterio strettamente anaerobio (che vive in assenza d'aria) al di fuori dell'organismo produce spore dalla forma a bacchetta di tamburo.
Nell'ospite rimane localizzato nel punto di penetrazione e la sua azione tossica è dovuta all'esotossina, che perviene al corno anteriore del midollo lungo i nervi motori.
L'incubazione ha una durata variante da 2 a 10-15 giorni o più.
Compare poi la sintomatologia che dapprima consiste nella contrazione della muscolatura liscia della faccia (facies sardonica o tetanica: RISO SARDONICO
La coscienza rimane in genere inalterata ma la temperatura può giungere a 42° ed oltrepassarli nella fase agonica.
Per quanto si ricorresse (oltre che alla LAVATURA E ALLA DISINFEZIONE) alla CAUTERIZZAZIONE DELLE FERITE o, in caso di malattia manifesta, alla CURA SPECIFICA DEL MORBO per la medicina antica la guarigione dall'infezione era pressochè impossibile, nonostante alcuni vantati successi in ultimo basati su massicce somministrazioni di antispastici.
Oggi si ricorre ad impiego di siero antitetanico o immunoglobuline antitetaniche, antibiotici, fenotiazinici, sedativi, talora anche curarici, oltre che alla respirazione artificiale: la profilassi si basa sulla immunoprofilassi, vaccinica e sierologica.
In un "Papiro di Ossirinco" ( XI, n.1381 della prima metà del II secolo d. C. edito da Grenfell ed Hunt e ripreso da W.Schubart in Einfurhung in die Papyruskunde, Berlino, 1918, pp.157 sgg.) si elenca un "MIRACOLO TERAPEUTICO" del dio "Imouthes - Asclepio" [in contesto cristiano queste "forme" di potenza divina terapeutica furono confuse con vecchi "culti per demoni e forze oscure": come l' "Incubatio" o "sonno terapeutico presso un luogo o recinto sacro", spesso conservato nelle "chiese primigenie dai cristiani" fin oltre il mille, specie nelle zone rurali più arretrate, nonostante le proteste e gli anatemi dei vescovi].
Nel testo si legge: "Era notte, quando ogni essere vivente giace nel sonno tranne i sofferenti, e la divinità appare con maggiore efficacia, e violenta mi bruciava la febbre, ed ero squassato dall'asma, dalla tosse, e dal dolore che mi saliva dal fianco; con il capo appesantito dalla pena scivolavo nell'incoscienza del sonno; e mia madre perché accanto al figlio, giacché è per natura amorosa, soffrendo per i miei tormenti sedeva non concedendosi neppure un attimo di sonno. Poi improvvisamente vide - né sogno né sonno - giacché gli occhi erano immobili ed aperti, benché non vedessero chiaramente, in quanto una apparizione divina le si presentò spaventandola e impedendole di distinguere con facilità sia lo stesso dio sia i suoi ministri. Solo che c'era una figura di statura più che umana avvolta in splendida veste di lino che portava nella mano sinistra un libro, e dopo avermi soltanto guardato dalla testa ai piedi due o tre volte, scomparve. Ella quando tornò in sé ancora tremante cercava di svegliarmi. Avendomi trovato senza febbre e gocciolante di sudore, fece atto di ossequio all'apparizione del dio, e detergendomi mi rese più lucido. E quando presi a parlare con lei ella decise di rivelarmi il prodigio del dio, ma io prevenendola le raccontai tutto per primo; infatti quanto ella vide con la visione io vidi in sogno. E cessatimi i dolori al fianco ed datomi il dio ancora una cura lenitiva, proclamai i suoi benefici".
Questa iconografia -che mediamente appartiene alla cultura popolare e quindi al folklore- in Italia, come in tutto il mondo, è stata spesso la trasposizione dei SEGNI DELLA MORTE: intesi sotto la specie dei PRESAGI, degli ATTI POSITIVI da compiere nella casa del defunto o dai parenti dello stesso come ogni possibile "rito" avverso presunte forme di MALOCCHIO e quindi ancora -questa volta in modo più prossimo agli insegnamenti della Chiesa del RITO FUNEBRE [fuori del contesto cattolico-cristiano sopravvissero a lungo leggende e tradizioni cultuali di un'impossibile lotta contro la decomposizione, tradizioni che affondavano a volte pericolosamente nel culto pagano dell'inumazione sin alla tradizione della MUMMIFICAZIONE, di cui si prese consapevolezza dalla sempre più celere riscoperta umanistico-rinascimentale della civiltà classica con la conseguente esumazione di antichi sepolcreti che custodivano mummie romane].
La civiltà e quindi il diritto di un popolo sono connessi con la sua tradizione religiosa, nel periodo intermedio: di conseguenza secondo il diritto ecclesiastico, cui si adegua, quello dello stato, la SEPOLTURA NELLE CHIESE O IN TERRA CONSACRATA finiva per essere un DIRITTO ACQUISITO solo a quanti si fossero mantenuti entro i parametri comportamentali del CITTADINO.
A quanti si fossero resi colpevoli di sacrilegi,di lesa maestà cioè di gravi crimini contro chiesa e stato, di colpe immonde contro natura (tra cui l'omosessualità e la sodomia) ed ancora ai praticanti di usura (anche se mai era facile discernere tra usura e prestito) ed ai falsari - a titolo di NOTA DI INFAMIA cioè di come pubblica testimonianza di indegnità- poteva "NON" concedersi la SEPOLTURA IN TERRA CONSACRATA: di conseguenza anche l'essere sepolto in un modo piuttosto che in un altro era alternativamente SEGNO DELLA MORTE, della MORTE GIUSTA trattandosi di inumazione benedetta, di MORTE MALEDETTA trattandosi di sepoltura in terra sconsacrata (erano segnali contraddittori per indicare vie diverse che l'UOMO GIUSTO e quello INGIUSTO -almeno secondo i parametri del tempo- avrebbero percorso nell'oltretomba, quella della dannazione e/o della salvezza; contestualmente quel SEGNO DI MORTE che era anche un SEGNO DI INFAMIA si estendeva alla famiglia del defunto che ne era stato colpito sì da trascinarla nella terra ambigua e pericolosa della FAMIGLIA DA EMARGINARE).
L'ORATORIO DEI DISCIPLINANTI di VALLECROSIA MEDIEVALE permette di leggere la successione iconografica e storico culturale dei
SEGNI DELLA MORTE E DELLA FEDE.
L'edificio, piuttosto recente dal lato architettonico, fu, come detta il titolo, l'ultima SEDE della locale CONFRATERNITA DEI DISCIPLINANTI che qui, come in tutte le altre località, mediamente curava le pratiche di inumazione: la persona poteva essere sepolta secondo il rito antico in cripte, in sotterranei o in ampi cimiteriali prossimi ora all'una ora all'altra chiesa: i cadaveri erano avvolti in un lenzuolo di lino e, nella maggior parte dei casi, erano condotti all'ultimo riposo senza essere rinchiusi in aluna cassa funeraria o sarcofago ma venendo pietosamente sistemati entro una PORTANTINA FUNEBRE variamente addobbata. Il corteo funebre poteva essere sontuoso e scenografico (come spesso accadeva nei periodi di vita normale) ma poteva al contrario risultare sommario specie durante le grandi EPIDEMIE DI PESTE quando la gente temeva di esporsi al contagio in luoghi affollati.
Nei cimiteri, come l'abbandonato CIMITERO ANTICO DI VALLECROSIA non mancavano i moniti sulla brevità della vita sia di tipo profano (tipica era, sotto una meridiana, la scritta, anche in versi, di "...guardare l'ora che passa" e l'invito a salvare la propria anima senza perdersi dietro alle sciocchezze della vita terrena).
La maggior parte dell'iconografia cimiteriale antica era connessa alla rappresentazione di un'UMANITA' DOLENTE a fronte di un male oscuro che preannunciava la venuta dei lugubri CAVALIERI DELL'APOCALISSE.
Da quest'arte, di matrice popolare, si alludeva all'ammonimento a salvare la propria anima od ancora al compianto per un'umanità tormentata dal male e capace ormai di appellarsi solo alla pietà divina.
Lo stipamento dei cadaveri in cripte "sovraffollate" all'interno di chiese maleodoranti o l'uso di antichi campi, in cui le inumazioni avvenivano a bassa profondità senza l'uso di casse o sarcofaghi lignei, determinò nel XVIII secolo -nel contesto del pensiero illuminista e quindi di un successivo, napoleonico RIORDINAMENTO AMMINISTRATIVO DEI LUOGHI DI CULTO- alla necessità di un'utile ma controversa RIFORMA DELL'INUMAZIONE E/O DI TUTTE LE PRATICHE DI SEPPELLIMENTO DEI CADAVERI UMANI, riforma che (non del tutto a ragione detta anche RIFORMA DELL'EDITTO DI SAINT-CLOUD) impose lo svuotamento di antichi cimiteri o di vecchie cripte e la realizzazione di nuovi luoghi per le inumazioni.
Le ragioni addotte furono di ORDINE IGIENICO-PROFILATTICO E DI POLIZIA SANITARIA E NON (contro la frequentazione dei cimiteri -per scopi ignobili- da parte di MEGERE, ASTROLOGI ed imbroglioni del soprannaturale che, per i gonzi, vi cercavano piante e reliquie da usare in vergognose cerimonie divinatorie) e di illuminata lotta contro le SUPERSTIZIONI che nei cimiteri trovavano il loro luogo di maggior sviluppo: per esempio, assieme a molti criminali praticanti di magia, si riteneva che i cimiteri -specie se incustoditi- attirassero in modo particolare i LUPI MANNARI (peraltro, a prescindere, dalle favole e dalle oscure leggende la cresciuta abitudine -tra XV e XVII secolo- di seppellire i morti di media/popolare condizione senza cassa o sarcofago, avvolti nel lino, a bassa profondità nei campi comuni determinava quell'insorgere di FUOCHI FATUI -fenomeni di combustione dei gas volatili della decomposizione liberatisi dalle fosse e giunti a contatto con l'ossigeno dell'aria- di modo che i balenii di luce che specie d'estate serpeggiavano fra gli spazi cimiteriali alimentarono nella fantasia popolare e non che questi luoghi, nelle ore notturne, quando appunto i FUOCHI erano visibili- fossero infestati da fantasmi ed altre entità malefiche).
Venne pertanto sancita una REGOLAMENTAZIONE DEI CIMITERI estremamente rigida che, nei primi momenti della sua applicazione, essendo ispirata a norme illuministiche e rivoluzionarie francesi intransigenti finì per soffocare quella creatività della pietà che fino ad allora aveva caratterizzato la diversificazione delle tombe ad opera dei parenti rimasti in vita: con la caduta di Napoleone e la RESTAURAZIONE gradualmente certe esagerazioni della RIFORMA DEI CIMITERI vennero abrogate anche se restò eliminata la vecchia tradizione di inumazione, si prese ad utilizzare quasi solo i campi aperti e i defunti furono sepolti a maggiore profondità nel terreno, rinchiusi entro casse di legno che custodendo i resti impedivano che certi campi, specie se poco frequentati, diventassero delle "succursali del terrore"
In questa scelta bisogna adattarsi alla consuetudine in vigore nelle giurisdizioni in seno alle quali i condannati son stati giustiziati. Per quanto concerne quelli che, suicidandosi, hanno resa vana l'esecuzione si deve agire comunque a danno del cadavere, specie trattandosi di individui colpevoli d'eresia.Così nelle regioni in cui si è soliti procedere alla confisca dei beni, anche dopo la morte del reo è opportuno confiscarne le proprietà mentre laddove non vige siffata consuetudine si arriverà alla perpetua dannazione del defunto, sì che si possa ordinare di esumare il corpo anche dopo che sia stato sepolto, di modo che le ossa vengano arse dal fuoco purificatore. Non si seppeliranno peraltro coloro che siano morti nel compiere questo genere di crimini, anzi il loro cadavere dovrà venir esposto sulla forca. Facendo qualcuno obiezione a ciò col dire che i giudici non devono così incrudelire contro il cadavere di chi si sia suicidato in carcere, poiché colla sua morte il reo ha finito per espiare le proprie colpe, mi sento in grado di ribattere che, anzi, costui è doppiamente colpevole e che per nulla si può espiare una colpa commettendone un'altra, cioè uccidendosi contro i dettami della legge umana e di quella divina...vari interpreti di diritto ritengono che sia giustissimo incrudelire contro i resti di chi, resosi colpevole di crimini estremi ed atroci, abbia poi cercato col suicidio di scampare ad un'infamante punizione. Del resto l'universale parere concorda nel sostenere che la punizione pubblica dei cadaveri, esposti alla comune vergogna, costituisca un utile esempio ed un'ammonizione per quanti possano soltanto meditare di compiere misfatti del genere. Sono altresì concorde con quegli esperti di Diritto i quali ritengono che, secondo i dettami della legge Cornelia, che tratta dei 'dei sicari', si debba procedere contro quei parenti od amici che al reo, chiuso in carcere, abbiano procurato del veleno, delle armi da taglio per suicidarsi o lo abbiano personalmente aiutato a togliersi la vita. Accadendo però che uno di questi criminali sia defunto naturalmente, per una malattia contratta nel carcere stesso, il giudice avrà facoltà di procedere secondo l'universale parere, specie se prima di morire il criminale non abbia confessato la sua colpevolezza: di conseguenza sarà possibile non concedergli una sepoltura cristiana in terra consacrata, lasciandolo in stato di peccato mortale...Il giudice avrà invece l'arbitrio d'ordinare la cristiana inumazione di qualcuno, con la protestazione però che, citato ogni teste a difesa, si continui la causa contro il morto, specie nel caso d'un colpevole d'eresia. Ma entro qual periodo di tempo sarà lecito iniziare una causa contro una persona che sia scomparsa in tal modo dal consesso dei viventi? Personalmente ritengo che si possa agire, secondo il diritto canonico, fino al quarantesimo anno dalla morte senza però arrivare alla confisca dei beni e piuttosto procedendo alla perpetua dannazione del morto; in merito alla legge ordinaria e penale dello Stato direi che non sia invece da procedere oltrepassato il lustro od i 5 anni consueti per il diritto".
Finito il clima dei terrori della Controriforma" e delle punizioni divine" contro l'insorgere di leggende e paure e contro le speculazioni (non mancavano gli apprendisti stregoni" che in nome della magia nera" per perpetrare malefici a pagamento" disseppellivano i poveri resti per procurarsi, allo scopo di incomprensibili riti, qualche reperto umano in disfacimento.
Anche se col Dei Sepolcri" Ugo Foscolo", accodandosi per quanto materialista alle proteste dei cattolici", realizzò un autentico capolavoro sull'importanza dei sepolcri e della corrispondenza d'amorosi sensi tra i vivi e gli estinti lo spirito della legge era governato da intenti positivi e progressisti.
Ormai nelle cripte" morti antichissimi e recenti cadaveri erano ammucchiati in un orribile coacervo di membra sparse ed odori di ogni sorta salivano dalle cripte" ed invadevano lo spazio cultuale delle chiese" procurando irrefrenabile vomito in molti fedeli ed inducendoli ad abbandonare i templi e non pià praticarli: anche per questo la parte meno consevatrice del clero si schierò a favore della realizzazione di cimiteri abbastanza lontani dai centri abitati ed a favore di inumazioni sufficientemente profonde, coi defunti non solo avvolti in poche fasce di lino ma ben rinchiusi in salde casse.
Come sempre accade -e in ciò è ben comprensibile la protesta di cui il Foscolo" si fece grandissimo portavoce lirico-
furono le esagerazioni di alcune municipalità e le interpretazioni burocratiche errate della legge e dei
decreti a meritare una condanna.
In nome dell'uguaglianza" sotto la recente spinta rivoluzionaria" alcune municipalità promossero un piano di tombe a terra comuni, caratterizzate da un numero (le generalità del defunto si ricavavano poi da un registro in dotazione al custode del cimitero): questo
spirito egalitario finiva però per urtare i costumi, la tradizione, la coscienza storica delle genti che, da sempre, diversificavano le tombe dei cari estinti" in nome di un metafisico colloquio oltre la tomba" reso fattibile proprio dai piccoli gesti delle cure individuali" e delle premurose distinzioni" nei personalissimi addobbi floreali e non dei sepolcri stessi.
" 75. E' proibito di seppellire i cadaveri umani in altri
luoghi che nei cimiteri. Questi saranno necessariamente collocati fuori dell'abitato dei comuni-
76. Que' comuni che non hanno un cimitero collocato come sopra, lo faranno disporre al più
tardi entro un biennio. La Municipalita ne destinerà il luogo coll'approvazione del Prefetto:
in caso di inadempimento per parte della Municipalità, la Commissione dipartimentale provvederà a spese del comune.
- 77. Un particolare regolamento stabilirà le discipline opportune
per prevenire Ogni inconveniente, che può nascere dal troppo sollecito e non bene eseguito
seppellimento dei cadaveri"[troppo sollecito" per eludere a volte problemi ereditari, dar sepoltura in tutta fretta senza pubblicizzare l'evento a vantaggio degli aventi diritto alle loro legittime porzioni di eredità: ma troppo sollecito" anche per i timori di contagi" e infezioni" sì che a volte i cadaveri venivano sepolti sotto poche decine di cm. di terra sì da essere poi preda di sciacalli ed alle prime piogge, per qualche smottamento, di animali selvatici o inselvatichite, divenendo orribile spettacolo per i frequentatori dei cimiteri stessi].
Le interdizioni più comuni sono l'arresto di qualsiasi lavoro nella casa ove è sostenuto il decesso con l'immediato spegnersi del fuoco, simbolo di vita e attività, la proibizione per i familiari, salvo i bambini, di coricarsi durante tutto il tempo in cui il morto resta in casa, il fermare gli orologi, specie quelli a pendolo, per indicare che la vita attiva della famiglia rimane interrotta per un certo periodo, il coprire gli specchi e i vetri a evitare la riflessione delle immagini che è opera demoniaca.
Nella casa ovesi teneva veglia per un defunto era quindi vietato portare carne macellata e nell'eventuale pasto si era in grado di introdurre solo carne di pesce (a Sanremo specificatamente di nasello).
Il primo degli atti positivi è il suono delle campane che svolge nei riguardi della comunità una funzione di pubblicità, di conferma ufficiale della morte: la regola generale è che le campane suonino a distesa o a mortorio per i giovani e gli anziani, a gloria per i bambini.
Per quanto si è potuto leggere sul poco che è stato scritto bisogna comunque dire che da tempi remoti sin alla contemporaneità il PRESAGIO SIMBOLO è sempre stato quello dello STRIDERE DELLA CIVETTA (e in linea appena defilata il CANTO NOTTURNO DEL GUFO ed ancora l'apparizione di un
Questo PRESAGIO era nel medioevo quello temuto per eccellenza.
Sembra strano ma la sua origine è giunta nella cultura popolare cristiana del medioevo e dei tempi susseguenti dal mondo classico, sfiorando a più riprese il tema del vampirismo ma coniugandosi in Italia colla vicenda della LAMIA altra figura diabolica che, sorprendentemente, coniuga in sè gli attributi del PIPISTRELLO, dello SCIACALLO e della CIVETTA.
Per comprendere le interazioni "culturali" tra VAMPIRO e STREGA-LAMIA [quella del VAMPIRO DRACULA è poi una storia sette/ottocentesca tanto parallela quanto diversa] con certi lugubri PREDATORI DELLA NOTTE è comunque interessante leggere la parte conclusiva della LVIII ricetta" ("Terapia dei bambini molestati dalla dentizione o dalla strige") del "Liber medicinalis" (II-III sec.d.C.) di QUINTO SERENO SAMMONICO, dove si legge:"...Qualora una cupa/ strige incalzi i bambini e sprema sulle loro/ labbra socchiuse poppe velenose, seguire/ i suggerimenti di Titinio, autore all'antica/ di importanti commedie togate,/ che consiglia di appendere loro dell'AGLIO" [si tratta del poeta comico Vettio Titinio", forse del II sec. a.C.> Sammonico" non cita
Plinio Seniore" che pure elogiò l'AGLIO nella sua Storia Naturale" XX, 23 : in effetti, su questo argomento, lo scienziato-erudito si mantenne prudentemente generico pur scrivendo che"...il suo odore tiene lontani serpenti e scorpioni e, come alcuni hanno affermato, qualsiasi animale..."]: Sammonico, a riprova della sua duratura e grande influenza culturale, deve aver condizionato - pur in mezzo a qualche fraintendimento - il tardo estensore del Bestiario medievale, detto Bestiario moralizzato ove, alla rubrica XXII, trattando De la lanmia si allude alle tossine che sotto aspetto di latte sgorgherebbero dalle sue mammelle e avvelenerebbe "lo filiolo": concetto in cui si intersecano riferimenti biblici, dove "il figliolo" sarebbe piuttosto il "cucciolo" della Lamia o dello sciacallo, e cultura popolare pagana per cui nel "figliolo" sarebbe invece da ravvisare l'inerme "fanciullo/-a" vittima notturna e dormiente della donna demone": V. Bestiari medievali cit, p.504, XXII.
Queste riflessioni - ed in particolare quella di Sammonico - provano comunque in quali variegate modalità la delineazione strutturale della Lamia si sia in definitiva evoluta seguendo un interminabile tragitto (culturale, folklorico, scientifico e magico) di varia ramificazione e portata letterario-libresca (spesso non esente di contraddizioni interne), donde, per ulteriori deviazioni intellettuali e fantasmagoriche, è altresì derivata l'equazione VAMPIRO /STREGA-LAMIA", che non solo propone la storica considerazione sul potere dell'AGLIO contro le forze del male ma altresì suggerisce l'impressione che, ancora districandosi sopra la linea di correlazioni culturali mai venute meno tra paganesimo e cristianità, tale fausto giudizio sull'aglio" (dalle effettive proprietà medicamentose, visto anche che, tra altre utilissime sostanze terapeutiche, contiene un ANTIBATTERICO COME L'ALLICINA: ne sono comunque risapute da secoli le qualità ipotensiva, antisettica sia sull'apparato respiratorio che gastroenterico, balsamica ed espettorante, antielmintica ed antidiarroica) quale strumento di difesa - o, se vogliamo, di profilassi - contro il male diabolico abbia avuta la sua origine in una "diceria popolare (greco)romana [non escludendo, su questa, prestiti della tradizione mediorientale ed ebraica] più accolta in dimensione letteraria che scientifica" per cui la STRIX ATRA (uccello "mitico" ma nell'odierna nomenclatura ornitologica identificato con la CIVETTA, appunto perseguitata da una resistentissima tradizione folklorica come premonitrice di morte, specie per fanciulli e bimbi ammalati") venisse messa in fuga appunto dall'AGLIO" primieramente per l'odore aspro e sgradevole e poi [dilatandosi col tempo e le narrazioni - via via storpiate dalla trasmissione orale - la portata stessa della favola] per qualche intrinseca e misteriosa proprietà della stessa pianta.
Sulla linea di instancabili, parallele sovrapposizioni culturali, di matrice popolare e no, la STRIX ATRA, nella sua identificazione con la CIVETTA, si è contestualmente dimensionata nella tradizione mitica e favolistica romano-imperiale entro gli orrori della Strix e quindi della Lamia, da cui il Vampiro paraletterario, anche "dotto" o comunque di curiosa divulgazione, ha poi recuperato (avverso la sua ideazione primigenia) il timore della luce (capace di decomporlo) e soprattuto un'endemica, quasi "mortale avversione" per l'aglio non tanto in grado di distruggerlo ma certamente idoneo a deprimerne le potenzialità sin a metterlo in fuga (come del resto tutte le altre Bestie, essendo il Vampiro in sostanza una Bestia per quanto anomala visti i vari animali in cui, magari in forza di diaboliche ragioni, può cambiare le sue fattezze: dal Lupo Mannaro, alla
Pulce od insetto parassita che si nutre di sangue, al GUFO [Plinio Seniore", X 34 al proposito scrisse: "Il gufo, uccello funebre e di sinistro augurio soprattutto negli auspici pubblici, abita in luoghi deserti e non soltanto desolati, ma anche terrificanti e inaccessibili, mostruosa creatura della notte e non emette un canto ma un gemito".
Il GUFO risulta un ponte naturale di passaggio tra interpretazioni pagane e cristiane sì che il giudizio pliniano si ritrova, per esempio, nel Bestiaire medievale di Philippe de Thaun" ("Bestiari medievali cit"., p.n 256, vv.2789-2800): "Il nicticorax, dice Davide nel suo libro è di tale natura che vuole vivere nelle grondaie, non ama la luce e preferisce le tenebre, vola e grida rivolto all'indietro e si ciba di immondizia. E' un uccello notturno, e canta in vista di una disgrazia; lo chiamiamo 'gufo' in francese").
Ma il NITTICORACE fu anche accostato alla CIVETTA ["Il nitticorace, detto anche nottola/...il nitticorace è immondo...e preferisce le tenebre alla luce" come riporta il Bestiario medievale "Fisiologo versio BIs" ("Bestiari medievali", cit., pp.20-22, VII) in stretto collegamento con le "Etimologie" (XII, VII, 40 e 41) di ISIDORO" ("Il nitticorace è anch'esso una nottola ed è un uccello che rifugge la luce e non sopporta di vedere il sole"): in queste descrizioni comunque il NITTICORACE o "corvo della notte" permette identificazioni varie, tanto con la CIVETTA" quanto col GUFO" e con altri volatili notturni compreso il PIPISTRELLO EUROPEO e l'UPUPA, che uccello notturno non è e che invece ISIDORO di Siviglia nelle "Etimologie" (XII, VII, 66) descrisse come un animale sporco, dal capo coperto da una cresta di alti ciuffi, un uccello che altresì mangerebbe escrementi umani, che vivrebbe tra le tombe ed il cui sangue esorcizzerebbe, entro i sogni di chi se ne cospargerebbe, demoni "soffocatori": il tutto contro una visione più fausta dell'Upupa alimentata in genere dai Bestiari mdievali che ne fecero un simbolo dell'amore filiale verso i genitori deboli ed invecchiati> peraltro nel complesso panorama dei tanti uccelli notturni, in qualche modo collegati col male, col misterioso e comunque coll'enigmatico, si potrebbein ultima analisi addirittura tirare in ballo la spinturnice di Plinio" X 37, il brutto e infausto uccello già menzionato da Festo - ed ascritto dagli ornitologi al gracchio - che avrebbe spesso profanato are ed altari rubandone il carbone) al Canide".
Sulla linea di tradizione e di superstizione, spesso documentate dai BESTIARI MEDIEVALI la sgradevolezza fisica attribuita ad ogni essere malvagio ed in particolare al Demonio, finì -dopo varie tergiversazioni figurative e molte incertezze descrittive, per essere -relativamente tardi- trasferita sul PIPISTRELLO ("avis pellibus alas" = "volatile dalle ali membranacee", come lo definiva SERENO SAMMONICO riprendendo ancora Plinio" X 169 ed attribuendo al suo sangue proprietà depilatorie: e come detto, per qualche Bestiario medievale, contrariamente a certe fragili interpretazioni, non potrebbe essere tal misterioso animale delle tenebre venir sovrapposto a Gufo e Civetta nell'identificazione coll'osceno/-a NITTICORACE"?.
E peraltro l'abitudine, citata da Plinio", di porre dell'AGLIO a guardia di case magazzini alimentari -contro le intrusioni di animali tra cui il pipistrello"- finì per trasferirsi nella mitologia del Vampiro respinto -proprio per la sua doppia identità di morto vivente" e di pipistrello" dall'acre odore dell'aglio").
Comunque, per metamorfosi, (oltre che all'iconografia demoniaca) i connotati del PIPISTRELLO finirono per essere decisamente attribuiti al Vampiro e la scelta definitiva, oltre che probante, del chirottero" (cioè delle varie speci di pipistrelli) come animale simbolo e nello stesso tempo somigliante" al MALIGNO" ed al VAMPIRO" (suo emissario terreno che potrebbe trasformarsi appunto in pipistrello") data in particolare dal tempo in cui, dopo le scoperte geografiche, in area mesoamericana e caraibica si rinvenne quella variante di chirottero" che è il PIPISTRELLO-VAMPIRO", pericoloso e formidabile parassita dei grandi animali e dell'uomo stesso di cui, mentre riposano e dormono, sugge il sangue per via di ferite indolori inferte con denti aguzzi e poi mantenute copiosamente aperte tramite una sostanza anticoagulante contenuta nella sua saliva): propriamente si tratta del VAMPIRO VERO DI AZARA" ("Desmondus Rotundus")>classe: Mammiferi, ordine: Chirotteri, famiglia: Desmodontidi, lunghezza della testa e del tronco: cm. 7.5-9, lunghezza dell'avambraccio: cm.5-6,5", peso: 15-50 grammi", alimentazione: sangue", gestazione: p 90-100 giorni", parto: 1 piccolo".
QUINTO SERENO SAMMONICO, sulla scorta della letteratura medica e scientifica che lo aveva preceduto, già ben sapeva che, fuori di ogni malia stregonesca, il "riso sardonico" era al contrario un moto convulsivo, determinato dall'avvelenamento da "erba sardonica" (specie di ranuncolo tipico della Sardegna) che tende e separa i muscoli labiali, conferendo al volto un'espressione in apparenza ridente seppur in modo subdolo (in effetti tale forma di "riso convulsivo ed innaturale" deriva anche da avvelenamento per tetania">v.BATTAGLIA", Grande Dizionario della Lingua italiana, U.T.E.T., Torino, a.v., s.v."sardonico" 1)].
Al centro degli infiniti riferimenti riguardanti il magnetismo universale, simpatie ed antipatie di macro e microcosmo primeggiavano le considerazioni su svariate forme terapeutiche tra cui l'UNGUENTO ARMARIO un composto alla cui confezione concorrevano diversi elementi o componenti tra cui aveva importanza straordinaria la
***********MUMMIA***********
per secoli, ed ancora oltre i tempi di Aprosio, dai più ritenuta importante o di valore non per quanto effettivamente è, cioè un reperto antiquario dell'Egitto dei Faraoni, ma come composizione chimica dalle rilevanti proprietà curative.
Si trattava di una miscela di bitume, MIRRA, ALOE, zafferano, balsamo e altri aromi, di consistenza cerosa, colore bruno o nero, odore sgradevole che era usata nell'antichità per conservare i cadaveri e che dal Medioevo sin al secolo XVII fu estratta dalle tombe egizie essendo oggetto di un attivo commercio dato che la credenza popolare -ma anche il parere di svariati medici- le attribuiva delle PROPRIETA' MEDICINALI E MAGICHE: vedi qui cosa ne scrive il SENNERTIUS in merito alla sua UTILIZZAZIONE nel facimento dell' UNGUENTO ARMARIO.
Talvolta le veniva aggiunto dell'asfalto ed era prodotta artificialmente con l'essiccamento di corpi morti.
Molti testi di medicina antica riconoscevano reale valore terapeutico alla MUMMIA: per esempio in "PETRO ISPANO VOLGAR." (2-22) si legge "Ardi insieme mummia, sangue di dragone, incenso, mastice, classe, e nella aurora danne a bere con siropo rosato o vero con zuchero rosato"
E parimenti nel FASCICULO DI MEDICINA VOLGARE (18) si trova altra medicina: "Unguento da crepati. Togli pece navale, mastice, pegola, terra sigillata, sangue di drago, scornice di carta rasa, chalidomo arsi ana on. IJ, bolo armenico, mumia armoniaco, colla di pesce ana drag. IJ e fa unguento".
Nel RICETTARIO FIORENTINO (I-C-II) era addirittura proposta una selezione fra le qualità del prodottotto commercializzato: "La mumia buona suole essere di colore nera, lucida, puzzolente, soda e facile a polverizzare, di sapore orribile": e peraltro non era impossibile rinvenire MUMMIE anche in area italiana attesa l'abitudine, pur non frequente e durante il fulcro dell'Impero di Roma, di mummificare alcuni corpi come attestano importanti RINVENIMENTI ARCHEOLOGICI tanto del passato che della contemporaneità.
Gli stessi concetti riprese e divulgò con notevole successo il Mattioli nel suo volgarizzamento del medico classico Pedanio Dioscoride: si dovette giungere a MEDICI DEL XVI SECOLO per mettere in discussione la validità di questo medicamento che comunque continuò a trovarsi nelle farmacie sino al XVIII secolo, quando contestualmente iniziarono altre investigazioni scientifiche e antiquarie sul loro segreto iniziando raccolte museali e soprattutto procedendo ad una ordinata apertura dei SARCOFAGI e ad una attenta sfasciatura delle MUMMIE in essi custodite: in merito ad una interpretazione nuova della MUMMIA non si può tuttavia far a meno di menzionare AMATUS LUSITANUS laddove nel XVI secolo, in un suo commento a Dioscoride, dissertò in modo innovativo della MUMMIA sotto le voci BITUME e PISSASFALTO (e proprio AMATUS LUSITANUS, accostandosi per certi aspetti al GOCLENIUS denunziò aspramente gli abusi dei MANGONES (= MERCANTI FALSIFICATORI ED ADULTERATORI) che, criminalmente ed in modo orribile valendosi di cadaveri recenti, sviluppavano nei loro laboratori le senza dubbio terrificanti MUMMIE EFFIMERE allo scopo di vendere quali MUMMIE AUTENTICHE e lucrare su un TRAFFICO ESTREMAMENTE REDDITIZIO (negli scritti si allude non solo agli artifici da laboratorio dei mercanti criminali che sacrilegamente violano i CIMITERI per sottrarre i cadaveri da poco inumati ma si fa palesare l'ipotesi che alcuni non si astengano dal rapire poveri o sbandati, ucciderli e avvalersi dei loro resti per falsificare delle mummie da propinare ignobilmente ai più creduloni o gonzi)
La lunghissima tradizone della MUMMIA come medicamento -cosa non molto nota- prese corpo nel Medioevo dall'opera dei mercanti italiani che se ne approvvigionarono nei mercati medio-orientali per commerciarla, ad un prezzo superiore addirittura a quello delle Spezie, nella Cristianità.
Un ruolo importante nel traffico di MUMMIA ebbero poi i CAVALIERI TEMPLARI che proprio con essa, oltre che con altri commerci e servizi, si arricchirono in Oriente: la loro fama di MAGHI (fama che fu alla base della loro rovina e che rientrò tra le principali accuse loro mosse al CONCILIO DI VIENNE del XIV sec. che ne segnò la fine) fu alimentata proprio dalla loro riconosciuta dimestichezza con l'ALCHIMIA e la conoscenza di nuove ed ancora misteriose medicine -non completamente giustificate dalla Chiesa- spesso recuperate dal patrimonio culturale del MEDIO ORIENTE e specificatamente dell'EGITTO tradizionalmente venerato e temuto come terra di maghi e di segreti insondabili.
Una scoperta eccezionale che confuse Roma tutta e fece vacillare alcune coscienze fu fatta alla fine del XVI secolo nel corso di lavori casuali di sterro e recupero materiale edilizio sulla via Appia.
Nell'aprile del 1485 alcuni operai scoprirono non lungi da Roma durante uno scavo presso la "via Appia" scoprirono un SARCOFAGO dal contenuto straordinario: in esso stava il "corpo mummificato" di una ragazza romana di notevole bellezza: il sarcofago, per volere dei "Conservatori della città" venne esposto per due giorni al "Palazzo dei Conservatori" di modo che una folla enorme (oltre 20.000 persone si recò a visitarlo) spinta dalla convinzione di un fatto miracoloso ed anche dalla superstizione, ritenendosi che presso il corpo fosse stata rinvenuta una lucerna ancora accesa dopo oltre mille anni di inumazione).
Per evitare il crescere della superstizione "Papa Innocenzo VIII" ordinò che il corpo di notte fosse di nuovo portato in luogo segreto e disperso nei dintorni di "Porta Pinciana".
Il DISEGNO DEL CORPO MUMMIFICATO ("disegno a penna colorato all'acquarello, in lettera di B.Fonte a F.Sassetti, Coll. Prof. B.Ashmole, Oxford") è opera di un testimone oculare dello straordinario evento, l'umanista Da Fonte che ne scrisse all'amico fiorentino "Sassetti" che a sua volta fece resoconto del fatto al dottissimo amico "Lorenzo il Magnifico de' Medici".
Così annotò il "Da Fonte": "Bartolomeo Fonte al suo amico Francesco Sassetti salute...
Mi hai pregato di dirti qualcosa sul corpo di donna trovato di recente presso la Via Appia. Spero soltanto che la mia penna sia in grado di descrivere la bellezza e il fascino di quel corpo. Se non ci fosse la testimonianza di tutta Roma il fatto sembrerebbe incredibile...Nei pressi della sesta pietra miliare dell'Appia, alcuni operai, in cerca d'una cava di marmo, avevano appena estratto un gran blocco quando improvvisamente sprofondarono in una volta a tegole profonda dodici piedi. Rinvennero colà un sarcofago di marmo. Apertolo, vi trovarono un corpo disposto bocconi, coperto d'una sostanza alta due dita, grassa e profumata. Rimossa la crosta odorosa a cominciare dalla testa, apparve loro un volto di così limpido pallore da far sembrare che la fanciulla fosse stata sepolta quel giorno. I lunghi capelli neri aderivano ancora al cranio, erano spartiti e annodati come si conviene a una giovane, e raccolti in una reticella di seta e oro.
Orecchie minuscole, fronte bassa, sopraccigli neri, infine occhi di forma singolare sotto le cui palpebre si scorgeva ancora la cornea. Persino le narici erano ancora intatte e sì morbide da vibrare al semplice contatto di un dito. Le labbra rosse, socchiuse, i denti piccoli e bianchi, la lingua scarlatta sin vicino al palato. Guance, mento, nuca e collo sembravano palpitare. Le braccia scendevano intatte dalle spalle, sì che,volendo, avresti, potuto muoverle. Le unghie aderivano ancora saldamente alle splendide, lunghe dita delle mani distese; anche se avessi tentato non saresti riuscito a staccarle. Petto, ventre e grembo, erano invece compressi da un lato, e dopo l'asportazione della crosta aromatica si decomposero. Il dorso, i fianchi e il deretano avevano invece conservato i loro contorni e le forme meravigliose, così come le cosce e le gambe che in vita avevano sicuramente presentato pregi anche maggiori del viso.
In breve, deve essersi trattato della fanciulla più bella, di nobile schiatta, del periodo in cui Roma era al massimo splendore.
Purtroppo il maestoso monumento sopra la cripta è andato distrutto molti secoli or sono senza che sia rimasta neanche un'iscrizione. Anche il sarcofago non porta alcun segno: non conosciamo né il nome della fanciulla, né la sua origine, né la sua età." (trad. dal latino dell'originale in "Collezione Prof. B.Ashmole, Oxford").
Uno dei più recenti ritrovamenti in Italia è stato il corpo abbastanza ben conservato di una GIOVINETTA MUMMIFICATA ritrovata in un sepolcro lungo la via Cassia, sempre presso Roma in loc. Grottarossa: la datazione scientifica riporta la mummia a circa 1800 anni or sono, quindi al fiorire di Roma imperiale: il processo di mummificazione era spesso fatto praticare da funzionari imperiali che avevano operato in Egitto ed avevano potuto ammirare la straordinaria tecnica di inumazio nel, tanto da volerne trasferire esperimentazioni anche in Italia.
A tal proposito, per quanto possa far fede l'entusiastica lettera dell'umanista "Da Fonte", in merito al più celebre ritrovamento di MUMMIA in Italia è da registrare il passo in cui egli analizzava il "taglio strano degli occhi" quasi che quella che per lui fu una fanciulla d'alto rango poteva benissimo essere la giovane congiunta orientale, siriana od egiziana magari di nobile schiatta, di qualche funzionario che ne volle portare la salma con sè: ma tutte queste restano comunque ipotesi, salvo la constatazione del rilievo che in certi ambienti culturali e di elevata condizione sociale la pratica della mummificazione fu in uso anche nella romanità prescindendo dal caso celebre delle mummie dipinte di "Fayum".
Nella "Storia generale delle droghe" del 1694 (trad. dal francese), il commerciante e farmacista parigino "Pierre Pomet" sperava di distogliere i suoi lettori dall'uso di medicamenti a base di mummie con la spaventevole raffigurazione in primo piano d'un CADAVERE SBUDELLATO. Espresse il proprio orrore nella parola "gabbaras" riportata in alto a sinistra fra le due mummie, che sopravvive nell'inglese "garbage" il cui significato è "sterco" o "rifiuto".
Nel libro si svela che questa particolare mummia, piuttosto malandata, avrebbe fatto parte del bottino della vittoriosa battaglia navale di tardo '500 dei Cristiani contro i Turchi a Lepanto e che era stata portata nel confliitto navali dai musulmani come una sorta di talismano.
In un'opera famosa, Civiltà al Sole, "C.W.Ceram" scrisse:"Mumiya" è una parola araba che denomina propriamente un asfalto naturale al quale già in epoche precedenti si attribuivano virtù medicamentose. Quest'asfalto fu una delle sostanze con cui, dopo tentativi di ogni genere, le mummie egiziane furono finalmente imbalsamate.
Dalle tombe l'asfalto passò alle farmacie " [ed anche ai laboratori di salute delle infermerie dei patrizi, come i Signori di Dolceacqua]" d'Europa e vi rimase sin verso il XIX secolo quando la distinzione tra "mummia" e "mumija" andò perduta ed ai malati ricchi furono prescritti medicamenti costosi ricavati dalle salme polverizzate dei sovrani e delle sovrane egiziane.
Il terrore di questi morti-viventi, che si risvegliano nella notte a caccia di vittime da cui succhiare il sangue, è però molto antico ed assai più esteso in senso geografico.
Anche nella SACRA BIBBIA compaiono riferimenti ad un VAMPIRO seppur sotto forma di DEMONE FEMMINILE.
Uno SPECIFICO ritenuto un preservativo o meglio ancora un antidoto alla peste, secondo la tradizione susseguente alla pestilenza in Milano del 1630, sarebbe stato composto da cera nuova once tre, olio d’oliva once due; olio di Hellera, olio di sasso, foglie di aneto, orbaghe di lauro peste, salvia, rosmarino, once mezza per ciascuno; un poco d’aceto, il tutto doveva esser bollito si da ridurlo a una pasta con la quale si sarebbero dovute ungere le narici, le tempie, i polsi e le piante dei piedi, dopo aver mangiato cipolle, aglio e bevuto aceto.
Prescindendo comunque dal discorso, qui incidentale dei veri e propri "crimini d'avvelenamento", la questione degli Untori, delle pozioni stregonesche e dei diabolici veleni fu sempre causa di discussioni e contrasti interpretativi: ad esempio, nello stesso periodo, parecchi medici pur errando - peraltro in modo comprensibile vista la carenza di strumenti di indagine - ma senza mai coinvolgere Satana (sulla scorta di Claudio Galeno che aveva perfezionato il pensiero ippocratico dei "miasmi" generatori di epidemie) addebitavano le pestilenze a "corruzione dell'aria", prodotta da esalazioni di paludi e fetidi stagni, dalle contaminazioni dell'ambiente, dall'ammasso di grandi depositi di immondizie di vario genere, dall'uso d'abbandonare all'aperto alla putrefazione carogne d'animali ed anche cadaveri umani: per questa abitudine di lasciare ovunque ogni sorta di sporcizia, spesso per trascuratezza ma talora con intenti delinquenziali, gli Statuti Criminali di Genova - libro II, capo LXXXVIII, minacciavano severe pene contro chi lasciasse volontariamente dell'immondizia davanti alle porte di casa di vicini od altre persone.
Invece tra le civiltà precolombiane, specie in MESSICO, il sangue -tanto fra i MAIA che nell'IMPERO AZTECO- serviva preferibilmente quale "strumento" esaugurale al fine di rendersi favorevoli le divinità che presiedevano alle coltivazioni].
Nelle immagini di codici amerindiani si presero ad osservare con orrore in Europa i SACRIFICI UMANI sull'altare di pietra dei Teocalli, Piramidi a gradoni: i manoscritti, a parte le genealogie dei Re, erano prevalentemente di carattere sacro e si conservavano nei calmecac cioè i collegi religiosi in cui erano educati i figli della nobiltà> nell'epoca post-classica (1000.1500 a.C.) la scrittura acquisì sempre più un significato anche non spirituale, trovandosi, col materiale tradizionale, libri di diritto e di storia a carattere cronachistico.
Per inciso questa cultura religiosa del sangue e dei sacrifici umani non venne compresa dal mondo europeo ed altrettante persecuzioni abbatterono le grandi città e poi la cultura Maia ed Azteca: bere il sangue altrui è infatti come rubare l'anima d'un altro, così si evince dalla Bibbia e precisamente dal Levitico, XVII, 10.14 ove si legge che "L'anima del corpo è nel suo sangue". Tale biblico divieto non impedì comunque, come annota la vampirologa Ornella Volta che la PRIMA TRASFUSIONE DI SANGUE di cui si abbia notizia sia avvenuta in ambito cristiano e romano per ridare salute a Papa Innocenzo VIII (1484 - 1492): per ironia della sorte l'intervento terapeutico finì per assumere i toni di un'orgia vampiresca visto che i tre giovani donatori del sangue per l'illustre malato morirono per sopraggiunta anemia fulminante [in effetti giova ricordare che i veri studi approfonditi sull'argomento datano a quasi due secoli dopo e che in merito ad essi un ruolo fondamentale viene riconosciuto alla sagacia scientifica di GIAN DOMENICO CASSINI DI PERINALDO]
Nonostante lunghi, controversi DIBATTITI gli indio precolombiani per lungo tempo furono equiparati alla condizione inferiore di SCHIAVI DI NATURA.
Si può aggiungere che se una donna indisposta tocca un alveare le api fuggono via, che se la stessa tratta del lino durante la cottura questo annerisce, che altresì la mestruata rovina - qualora lo prenda in mano - il filo del rasoio dei barbieri: non è inoltre da dimenticare che a contatto di una femmina in simili condizioni il rame assume un fortissimo puzzo cangiandosi in verderame mentre le cavalle, se incinte, abortiscono e che, a parere di qualcuno, per ottenere questo infausto risultato basterebbe addirittura lo sguardo d'una donna in pieno mestruo, specie se trattasi della prima mestruazione dopo la perdita della verginità od ancora nel caso della prima mestruazione in assoluto d'una qualche vergine...."[in effetti Plinio, di seguito nella trattazione, elenca anche parecchie valenze positive attribuite al "sangue mestruale", persino come curativo, pur alternando convinzioni sincere ad osservazioni alquanto critiche: per l'utilità del discorso sul Vampirismo e sugli Untori ed in particolare sull'uso romano di ungere con pozioni gli stipiti delle porte od appendervi oggetti o parti di animali, per allontanare o causeare malefici, dopo aver fatto cenno all' aglio ed al pipistrello in merito al Vampiro, si può menzionare una credenza proposta contro i Magi dell'antichità, da Plinio reputati ora bugiardi ora criminali, che l'erudito imperiale registra con qualche interrogativo implicito: "Su un altro punto si è d'accordo, e non esiste nulla cui vorrei più credere: mi riferisco alla convinzione popolare che solo toccando con del sangue mestruale gli stipiti delle porte si sia in grado di render vane le arti malefiche dei Maghi, genia di bugiardi"> la riflessione è interessante, non tanto per un'efficacia, puramente fantasiosa, in parte denunciata dallo stesso Plinio, ma in quanto simile procedura costituirebbe per un verso un antidoto, senza dubbio fantasioso, contro un espediente magico-medicamentoso dei Maghi prossimo ai procedimenti della Magia nera, soprattutto per l'uso di sordes (o residui vergognosi del corpo umano, come frammenti di unghie, pezzi d'osso e di denti, cerume, urina, saliva, sudore, feci e sangue mestruale) e per altro verso, in rapporto alla "cultura paracristiana dei malefici" di streghe ed untori , rappresenterebbe uno stretto collegamento fra alcune ipotesi arcaiche, non solo greche e romane, e la discutibile "civiltà rinascimentale - controriformista dei filtri e delle unture", a protezione o distruzione dei buoni :"('a parere dei Maghi (suggerisce Plinio continuando nelle sue riflessioni) si impastino con la cera i ritagli delle unghie dei piedi e delle mani del malato e intanto si faccia solenne dichiarazione che si cerca una cura per la febbre terzana, quartana o giornaliera, quindi si appiccichi siffatta poltiglia alla porta d'un'altra casa prima che si levi il sole: ecco il rimedio da loro prescritto per simili patologie. Che impostori nel caso che si tratti di un'invenzione ma che delinquenti se, così facendo, contagiano gli altri con oscene malattie!"].
Il Vampiro, che non è un fantasma ma un morto vivente connesso al terrore della notte e che si risveglia al crepuscolo della luce morente del sole, beve dunque il sangue delle vittime per acquistare "potere" e "vivere", anzi per "sopravvivere oltre il tempo" in un culto perverso, ma umanissimo e di tradizione pure alchimistica, della ricerca di "immortalità" e di sfida profana -e laica- alle leggi di Dio e della Natura.
Il raccapricciante esotismo del Vampiro e del vampirismo dal '700 in poi godette comunque di una sorprendente fortuna nel campo dell'immaginifico e finalmente rifulse, in maniera prima letteraria e molto più tardi cinematografica, attraverso l'immagine moderna, ed in verità rielaborata volentieri in nome di effetti di colore spesso discutibili , del Vampiro - a partire dal romanzo "The Vampyre" (1819) del medico personale di Byron, W.Polidori, per giungere al celebre DRACULA, dall'omonimo romanzo scritto del 1897 dall'irlandese Bram Stoker in cui fu amplificata una tragica e reale vicenda umana accaduta nel XV secolo in quell'ambiente balcanico contro cui premevano le armate dei Turchi durante il loro massimo sforzo espansionistico a danno dell'Europa e del Cristianesimo.
In senso esteso, però, il tema delle creature notturne che si nutrono del sangue altrui entrò con decisione nella civiltà della Caccia alle streghe, sia in ambito cattolico che protestante, tanto in Europa che in area americana e soprattutto centroamericana e caraibica. Ed è soprattutto utile ricordare che gli attributi del Vampiro sono piuttosto inseriti, nel contesto dell'Europa occidentale, cattolica e mediterranea, entro le più vaste potenzialità malefiche delle Lamie e che in definitiva tali particolari attributi si devono ricondurre, per questa estesa area geoculturale, alla solita e sempre più complessa trama del paranormale in cui la Diversità veniva continuamente alimentata, ogni volta che se ne demolivano frontiere poco prima giudicate inattaccabili, dalla sovrapposizione di nuovi teoremi del Male, ogni volta recuperati dall'inesauribile contenitore delle paure collettive.
La Lamia, con cui si imparenta il Vampiro per così dire occidentale, è invece un antico termine della favolistica greca (antic. "làmmia") che stava ad indicare un "Mostro mitologico, immaginato per lo più con corpo di serpente e testa di donna che secondo antiche credenze popolari elleniche e no, riprese in età romana e quindi rinvigorite con nuova linfa favolosa in epoca medievale usciva di notte dai boschi e dai crepacci per divorare i bambini e suggerrne il sangue"[ Il termine dotto latino lamia allude esplicitamente alla figura del "vampiro", inteso nel senso di "colui che succhia il sangue delle sue vittime"(così Francesco Baldelli -Cortona XVI sec., autore peraltro molto caro all'Aprosio- in Filostrato. Della vita di Apollo Tianeo, tradotto, Firenze, 1549, p.290 poté scrivere: " Questa buona femina e novella sposa è una del numero delle lamie, chiamate da alcuni larve, da alcuni lemure e da altri streghe. Queste son molto inchinate a l'amori e alle lascivie e a disonesta lussuria"> si veda peraltro F.MILIZIA, Opere, Bologna, 1826-'27, III, p. 167: " 'Lamie' maschere spaventose degli antichi Romani, con naso e denti orribili, colle quali si faceva paura ai bambini": secondo ISIDORO di Siviglia (Etym., VIII, XI, 102: le Lamie sarebbero stati mostri così definiti dalla tradizione per la loro abitudine di dilaniare i fanciulli, mentre la Bibbia nelle Lamentazioni 4, 3 registra la profezia per cui anche le "Lamiae nudaverunt mammam, lactaverunt catulos suos" cioè le "Lamie si scoprirono le mammelle ed allattarono i loro piccoli" anche se in verità all'interpretazione mitica della femmina mostruosa o Lamia parecchi interpreti preferiscono l'identificazione naturalisticamente plausibile di Lamia = "Sciacallo"].
Queste riflessioni - ed in particolare quella di Sammonico - provano comunque in quali variegate modalità la delineazione strutturale della Lamia si sia in definitiva evoluta seguendo un interminabile tragitto (culturale, folklorico, scientifico e magico) di varia ramificazione e portata letterario-libresca (spesso non esente di contraddizioni interne), donde, per ulteriori deviazioni intellettuali e fantasmagoriche, è altresì derivata l'equazione Vampiro /Strega-Lamia, che non solo propone la storica considerazione sul potere dell'aglio contro le forze del male ma altresì suggerisce l'impressione che, ancora districandosi sopra la linea di correlazioni culturali mai venute meno tra paganesimo e cristianità, tale fausto giudizio sull'aglio (dalle effettive proprietà medicamentose, visto anche che contiene un antibatterico come l'"allicina": ne sono comunque risapute da secoli le qualità ipotensiva, antisettica sia sull'apparato respiratorio che gastroenterico, balsamica ed espettorante, antielmintica ed antidiarroica) quale strumento di difesa - o, se vogliamo, di profilassi - contro il male diabolico abbia avuta la sua origine in una "diceria popolare (greco)romana [non escludendo, su questa, prestiti della tradizione mediorientale ed ebraica] più accolta in dimensione letteraria che scientifica" per cui la STRIX ATRA (uccello "mitico" ma nell'odierna nomenclatura ornitologica identificato con la civetta, forse non casualmente perseguitata da una resistentissima tradizione folklorica come premonitrice di morte per fanciulli e bimbi ammalati) venisse messa in fuga appunto dall'aglio primieramente per l'odore aspro e sgradevole e poi [dilatandosi col tempo e le narrazioni - via via storpiate dalla trasmissione orale - la portata stessa della favola] per qualche intrinseca e misteriosa proprietà della stessa pianta.
Sulla linea di instancabili, parallele sovrapposizioni culturali, di matrice popolare e no, la strix atra si è contestualmente dimensionata nella tradizione mitica e favolistica romano-imperiale entro gli orrori della Strix e quindi della Lamia, da cui il Vampiro paraletterario, anche "dotto" o comunque di curiosa divulgazione, ha poi recuperato (avverso la sua ideazione primigenia) il timore della luce (capace di decomporlo) e soprattuto un'endemica, quasi "mortale avversione" per l'aglio non tanto in grado di distruggerlo ma certamente idoneo a deprimerne le potenzialità sin a metterlo in fuga (come del resto tutte le altre Bestie, essendo il Vampiro in sostanza una Bestia per quanto anomala visti i vari animali in cui, magari in forza di diaboliche ragioni, può cambiare le sue fattezze: dal Lupo Mannaro, alla Pulce od insetto parassita che si nutre di sangue, al GUFO [Plinio Seniore, X 34 al proposito scrisse: "Il gufo, uccello funebre e di sinistro augurio soprattutto negli auspici pubblici, abita in luoghi deserti e non soltanto desolati, ma anche terrificanti e inaccessibili, mostruosa creatura della notte e non emette un canto ma un gemito".
Il gufo risulta un ponte naturale di passaggio tra interpretazioni pagane e cristiane sì che il giudizio pliniano si ritrova, per esempio, nel Bestiaire medievale di Philippe de Thaun (Bestiari medievali cit., p.n 256, vv.2789-2800): "Il nicticorax, dice Davide nel suo libro è di tale natura che vuole vivere nelle grondaie, non ama la luce e preferisce le tenebre, vola e grida rivolto all'indietro e si ciba di immondizia. E' un uccello notturno, e canta in vista di una disgrazia; lo chiamiamo 'gufo' in francese"). Ma il NITTICORACE fu anche accostato alla Civetta ["Il nitticorace, detto anche nottola/...il nitticorace è immondo...e preferisce le tenebre alla luce" come riporta il Bestiario medievale Fisiologo versio BIs (Bestiari medievali, cit., pp.20-22, VII) in stretto collegamento con le Etimologie (XII, VII, 40 e 41) di ISIDORO ("Il nitticorace è anch'esso una nottola ed è un uccello che rifugge la luce e non sopporta di vedere il sole"): in queste descrizioni comunque il NITTICORACE o "corvo della notte" permette identificazioni varie, tanto con la Civetta quanto col Gufo e con altri volatili notturni compreso il Pipistrello europeo e l'Upupa, che uccello notturno non è e che invecei ISIDORO di Siviglia nelle Etimologie (XII, VII, 66) descrisse come un animale sporco, dal capo coperto da una cresta di alti ciuffi, un uccello che altresì mangerebbe escrementi umani, che vivrebbe tra le tombe ed il cui sangue esorcizzerebbe, entro i sogni di chi se ne cospargerebbe, demoni "soffocatori": il tutto contro una visione più fausta dell'Upupa alimentata in genere dai Bestiari mdievali che ne fecero un simbolo dell'amore filiale verso i genitori deboli ed invecchiati> peraltro nel complesso panorama dei tanti uccelli notturni, in qualche modo collegati col male, col misterioso e comunque coll'enigmatico, si potrebbein ultima analisi addirittura tirare in ballo la spinturnice di Plinio X 37, il brutto e infausto uccello già menzionato da Festo - ed ascritto dagli ornitologi al gracchio - che avrebbe spesso profanato are ed altari rubandone il carbone) al Canide.
Sulla linea di tradizione e di superstizione, spesso documentate dai BESTIARI MEDIEVALI la sgradevolezza fisica attribuita ad ogni essere malvagio ed in particolare al Demonio, finì -dopo varie tergiversazioni figurative e molte incertezze descrittive, per essere -relativamente tardi- trasferita sul Pipistrello (avis pellibus alas = "volatile dalle ali membranacee", come lo definiva Sereno Sammonico riprendendo ancora Plinio X 169 ed attribuendo al suo sangue proprietà depilatorie: e come detto, per qualche Bestiario medievale, contrariamente a certe fragili interpretazioni, non potrebbe essere tal misterioso animale delle tenebre venir sovrapposto a Gufo e Civetta nell'identificazione coll'osceno/-a nitticorace?: e peraltro l'abitudine, citata da Plinio, di porre dell'AGLIO a guardia di case magazzini alimentari -contro le intrusioni di animali tra cui il pipistrello finì per trasferirsi nella mitologia del Vampiro respinto -prprio per la sua doppi identità di morto vivente e di pipistrello dall'acre odore dell'aglio).
Comunque, per metamorfosi, (oltre che all'iconografia demoniaca) i connotati del pipistrello finirono per essere decisamente attribuiti al Vampiro e la scelta definitiva, oltre che probante, del chirottero (cioè delle varie speci di pipistrelli) come animale simbolo e nello stesso tempo somigliante al MALIGNO ed al VAMPIRO (suo emissario terreno che potrebbe trasformarsi appunto in pipistrello) data in particolare dal tempo in cui, dopo le scoperte geografiche, in area mesoamericana e caraibica si rinvenne quella variante di chirottero che è il PIPISTRELLO-VAMPIRO, pericoloso e formidabile parassita dei grandi animali e dell'uomo stesso di cui, mentre riposano e dormono, sugge il sangue per via di ferite indolori inferte con denti aguzzi e poi mantenute copiosamente aperte tramite una sostanza anticoagulante contenuta nella sua saliva): propriamente si tratta del VAMPIRO VERO DI AZARA (Desmondus Rotundus)>classe: Mammiferi, ordine: Chirotteri, famiglia: Desmodontidi, lunghezza della testa e del tronco: cm. 7.5-9, lunghezza dell'avambraccio: cm.5-6,5, peso: 15-50 grammi, alimentazione: sangue, gestazione: p 90-100 giorni, parto: 1 piccolo.
Secondo alcune tradizioni altro mezzo di repulsione sarebbe quello di spalmarsi il collo con sterco di mucca.
Ancora è citata l'usanza di cibarsi d'un poco di terra della tomba del vampiro, anche bagnandosi del suo sangue: è ipotesi molto controversa visto che per alcune culture popolari del soprannaturale questo sarebbe un modo non per proteggersi ma semmai per contagiarsi.
Un'arma in qualche modo istituzionale è poi costituita dal fatto d'avere a disposizione il nemico storico dei vampiri cioè un dhampiro (uomo nato da donna umana e padre vampiro), in pratica un cacciatore di vampiri capace di fiutarli in ogni luogo. La storia documentata cita un dhampiro della Serbia dal nome di Murat di Vrbrica> costui fu studiato nel 1858 dal folklorista e vampirologo Vukanovic e, per i documenti raccolti, si rivelò capace di cacciare i vampiri con un semplice fucile da caccia, facendosi pagare una tariffa di mille dinari o dieci capretti.
L'immaginazione popolare, naturalmente, sulle possibili armi contro i vampiri ha elaborato una incredibile casistica:
A tal punto il Cacciatore umano di vampiri dovrebbe raggiungere il corpo del vampiro e piantargli nel cuore un paletto di frassino o biancospino.
Fondamentale precauzione, visto il flotto di sangue che esploderebbe dalla ferita, il Cacciatore dovrebbe star attento a non farsi contaminare dal sangue infetto e vlenoso del non morto.
Poiché non accadrebbe, secondo la vampirologia, che la luce diurna dissolverebbe il vampiro così ferito mortalmente, sarebbe in seguito necessario che il Cacciatore trascini tra le fiamme il Vampiro sì da ridurlo in cenere: mancando il tempo per questa procedura bisognerebbe piuttosto strappare il cuore del Vampiro e quindi decapitarlo.
Per evitare rischi temibili (in particolare un risveglio precoce del vampiro) si potrebbe ricorrere secondo la tradizione a vari espedienti:
1-Mettere nella bara un oggetto appuntito o tagliente (un coltello, un falcetto, un ramo spinoso di rosa selvatica o di biancospino) per inchiodare il non morto al suo giaciglio.
2-In Germania sarebbe uso quello di bloccare i temibili nachzehrer tramite una rete piena di nodi oppure con dei soporiferi semi di papavero.
3-A livello precauzionale -per chi si teme sia morto in tema di poter diventare Vampiro- si può:
A-Chiudere la bocca dei morti con una fascia, deponendo prima nella bocca una moneta nell'auspicio che il non vivo si accontenti di masticare quella e non si risvegli contro gli umani: in questo caso, confusamente, si notano le interferenze della procedura di inumazione dei pagani soliti deporre una moneta in bocca al defunto come obolo da pagare al demone Caronte, il Traghettatore, sì che questo accetti con la sua barca di trasportare l'anima nell'Averno, l'oltretomba degli antichi, senza tornare indietro a tormentare i viventi.
B-Mettere una candela accesa tra le mani del defunto durante la veglia sì da illuminargli la strada per l'aldilà (usanza tipica della Pomerania).
C-Sempre in Pomerania, ma anche secondo altre tradizioni, si usa deporre un morto sospetto nella bara a testa in giù, volto verso il mondo sotterraneo, quasi a indirizzargli la strada da percorrere onde raggiungere la pace eterna.
"...le Lamie confessano cose incredibili ed assolutamente impensabili, come l'aver raggiunto in volo il luogo dei raduni sacrileghi, l'essersi congiunte carnalmente col demonio, l'aver più volte suscitato contro uomini, animali e cose le terrifiche forze della natura ostile. Risposta: Siamo invece riusciti a dimostrare che tutto quanto confessato non risulta impossibile al diavolo e pertanto i buoni Cattolici debbono prestar fede a tal genere d'affermazioni. 2: I peccati delle Lamie paiono piuttosto restringibili al puro pensiero, ai desideri più oscuri ma non realizzati: la Chiesa, come del resto alcun tipo di giudici, non deve quindi addivenire ad una punizione avverso queste donne. Risposta: Ho presupposto appena adesso un falso ragionamento; come infatti ben si sa son da punire tutte quelle meditazioni che han lo scopo di finalizzarsi in azioni straordinarie, magari sotto forma dei più vergognosi crimini. 3: la congenita fragilità del sesso femminile e ancor più l'età avanzata dovrebbero essere una giustificazione onde evitare un inasprimento di inchieste, torture e pene. Risposta: Sostiene con giustezza Iulius Clarus, peraltro rifacendosi alla consueta prassi giudiziale, che la vecchiaia non costituisce ragione idonea per sminuire la severità delle pene in occasione dei crimini più gravi: tuttavia ci si sbaglia a pensare che solo gli anziani possano incorrere in tal genere di peccato e che sian lor compagne soltanto le donne da poco conto: pertanto il sesso non può rappresentare alcun tipo di giustificazione in crimini d'eresia o nel campo di delitti terribili.4 : Le Lamie si debbono in verità paragonare piuttosto alle sonnambule o forse ancor meglio a donne che, nel sopore del sonno, confessano colpe assurde, che appartengono alle farneticazioni della loro mente turbata. Risposta: In verità non son mancati casi di fattucchiera e saga che han più volte ammesso, sotto giusto interrogatorio, d'aver perpetrato da sveglie ed in perfetta consapevolezza i loro misfatti, come patti diabolici, coiti satanici, infanticidi, danneggiamento di messi ed armenti: ma del resto ritengo che siano in genere da punire anche quelle che si limitano a meditare le proprie malazioni nei sogni, tenendo altresì conto del fatto che prima d'averle sognate le hanno evidentemente premeditate e che, dopo le visioni oniriche, si son date a farne comunicazione ad altri col folle motivo di trarne guadagno, prestigio e piacere".
La letteratura ecclesiastica inquisitoriale (da fine '500 ben sunteggiata dallo stesso DELRIO), ma comunque non estranea alla trattatistica giuridica dei vari Statuti criminali dei Paesi europei e no, parlava spesso di infanticidi per magia ma curando sempre di inquadrarli nel discusso ecumene della femminilità (il crescente fenomeno di infanticidi rituali, a rigor di verità, non era estraneo a determinate superstizioni ed usanze oscene di provenienza idolatrica mai del tutto disperse nel vecchio continente specie in aree dalle condizioni di estrema arretratezza culturale e parimenti, seppur in tempi abbastanza recenti, al lugubre fenomeno che si sarebbe sempre andato ramificando, fino a sublimarsi in una sorta di religione del potere, attraverso lo sviluppo, anche anacronistico, di sorprendenti sincretismi religiosi nel nuovo continente: specie in ambito ispano-americano e soprattutto nell'area caraibica ove si fusero, per esempio nella relativamente tarda e poco nota "Santeria" ma ancor più nel magismo della religione haitiana del "Vudu", espressioni cultuali dell'ortodossia cristiano-cattolica e sopravvivenze rituali dell'Africa Nera, derivanti ad esempio dal complesso pantheon degli dèi cosmici dei Fon dell'antico regno del Dahomey od ancora dall'ambiente spirituale di divinità, come i Petro, erroneamente giudicate un tempo di ascendenza creola ma piuttosto derivanti, per via di instancabili mediazioni culturali e rituali, dal pantheon dei Kongo in Africa centrale): "...Alcune (streghe ma nel senso di Lamie ancora sottolinea con precisione intenzionale lo stesso DELRIO) si muovono del tutto apertamente, con sfrontata sicurezza, a caccia di vittime. Sono soprattutto quelle che cercano di sorprendere per via qualcuno sì da consegnarlo alle furie di un demone o che soffocano fra materassi e cuscini infanti e bambinelli colti nel sonno inermi, senza custodi. Ma esistono pure quelle forsennate che uccidono i fanciulli conficcandogli un ago dietro le orecchie, come fece quella perfida ostetrica Elvezia di cui fa menzione nel Malleus lo Sprengerio. Risultano comunque innumerevoli i malefici compiuti da fattucchiere contro i bimbi: quando si tratta di neonati esse preferiscono rapirli dalla culla per nutrirsene o far uso a pro d'unguenti delle loro misere carni....ai più grandicelli propinano invece un qualche filtro pernicioso che li uccide all'istante o li macera crudelmente di lenta consunzione [reato contemplato nel capo X del libro II degli Statuti Criminali di Genova del 1556] ed alcune di loro, come già narrarono Quinto Sereno, Ovidio e lo stesso Festo Pompeo (parlando specificatamente di figure arcane dai connotati delle Lamie ed in alcun caso di Maghi Vampiri: anche se qui il DELRIO cede alle lusinghe dei suoi studi eruditi e profani), giungono al segno di succhiare il sangue di questi poverelli...e per testimoniare che tal loro feroce costumanza è tuttora in vigore torna utile leggere quanto ha scritto il Chieza nella sua Descrizione delle Indie (parte II, carta 196) su un gruppo di Malefiche (ma ancora nel senso di Streghe-Vampiro o Lamie) scoperte a Panama e ree d'aver ucciso dei fanciulli bevendone per intiero il sangue" (e quest'ultima riflessione è solo il codicillo di un incredibile teorema in cui sono correlati magismo e superstizione, misoginia e sovrapposizioni culturali così resistenti a livello di tradizione popolare da "assemblare" in una sola entità femminea i caratteri infausti della puttana, della mitica strix atra, di Lamia e Strega, di espressione femminile del Vampiro pregna di sconcertanti attributi di sensualità contorta, senza escludere gli estremi perversi di pedofilia, pederastia, zoofila e persino di coprofagia (nutrirsi di feci umane durante un rapporto sessuale contro natura) se, in un'ulteriore ipotesi di scambio tra rapporti letterario-mitologici e culturali e come in fondo suggerisce una certa ed anche medievaleggiante iconografia delle Lamie, senza neppur troppo osare si accosta la Strega-Lamia alla figura mitologica sempre femminile e sempre oscena dell'Arpia].
-LILIT (anche LILITH e LILITEA) è un demone di sesso femminile, generalmente
notturno, che ha avuto un grande sviluppo nel giudaismo talmudico e medievale.
L'origine del demone può essere riportata
alla Babilonia e a Sumer.
In accadico esiste un demone femminile detto Lilitu: in ebraico il nome è stato certamente sentito
connesso con laylah cioè "notten".
Nell'Antico Testamento la figura di Lilit è
documentata con sicurezza in Isaia (34, 14).
Lilit appare
anche in uno scongiuro trovato ad Arslan Tash (l'antica Hadattu) su una tavoletta del sec. VII. a. C.
Qui il nome del
demone, certamente femminile, appare nella forma Lili, ma
l'identificazione è certa anche se non si ammette la caduta di
una t finale.
In questo testo essa riceve gli attributi di predatrice e distruttrice.
Nella letteratura midrashica si trova una leggenda secondo cui
Adamo, una volta saputo che sarebbe dovuto morire, non
volle più accostarsi ad Eva; allora Lilit, presa dalla sua bellezza, si
accostò ad Adamo e generò da lui molti demoni, maschi e femmine, che invasero tutta la terra.
Nella credenza popolare "Lilit"
assale gli uomini che dormono soli, acquisendo connotati vampireschi che la innestano sul vasto tema del culto del sangue
E' opportuno precisare a titolo proemiale che nell'intenzione di DOM AUGUSTINE CALMET risiedeva originariamente il programma di giustificare razionalmente alcune leggende legate al mito ancestrale dei "Ritornanti", appunti i presunti "Vampiri": si era egli fatto l'idea che molte presunte manifestazioni fossero state l'effetto di suggestioni collettive legate ad uno dei temi basilari della letteratura illuministica, le improprie tecniche di inumazione e il seppellimento di individui solo apparentemente morti [MORTI APPARENTI / CATALESSI] o dichiarati morti dopo una sommaria investigazione medica o per assoluta mancanza di oculata indagine necroscopica.
Secondo una tradizione non solo popolare indeterminate forze malefiche di presunti RITORNANTI e/o MORTI VIVENTI avrebbero attaccato nel 1731 gli abitanti del villaggio di Medvegia, in Serbia, "e fecero morire parecchie persone succhiando loro il sangue".
Così racconta l'ufficiale medico Johannes Fluchinger dell'esercito austriaco, che nel terribile inverno dello stesso anno fu inviato per ordine dell'alto comando a investigare il fenomeno in quella remota provincia dell'lmpero.
Si legge nel suo rapporto: "Ho condotto l'indagine con la consulenza di altri due ufficiali medici e in presenza del capitano della locale Compagnia di heyduk (fanteria serba), Gorschiz Hadnack, e degli heyduk più anziani del villaggio, i quali mi hanno raccontato quanto segue: cinque anni fa un heyduk locale di nome Arnold Paole si ruppe il collo cadendo da un carro di fieno. Lo stesso Paole, in vita, aveva rivelato a più riprese di essere stato morso da un vampiro, presso Gossowa nella Turchia serba. Per liberarsi dell'influsso maligno, aveva mangiato un po' di terra presa dalla tomba del vampiro e si era bagnato con il suo sangue. Tuttavia, una ventina di giorni dopo la sua morte, diverse persone dissero che Arnold Paole era tornato a tormentarle, e in effetti quattro di loro morirono. Per mettere fine al male, su consiglio di Hadnack, che era esperto in tali faccende, i paesani disseppellirono Paole quaranta giorni dopo la sua morte. Trovarono il suo corpo intatto.
Sangue fresco era colato da occhi, naso, orecchie e bocca; camicia, sudario e bare erano pieni di sangue; le unghie delle mani e dei piedi erano cadute con la vecchia pelle, ma pelle e unghie nuove erano ricresciute al loro posto. Da ciò si dedusse che Arnold Paole era un vampiro. Secondo l'usanza, gli fu piantato un paletto nel cuore e in quel momento egli emise un forte gemito, e un gran getto di sangue schizzò fuori dal suo corpo. Lo stesso giorno il cadavere fu arso e ridotto in cenere".
"Secondo questa gente" continua la relazione di Fluchinger "chi è ucciso da un vampiro diventa vampiro a sua volta. Perciò dovettero disporre allo stesso modo dei cadaveri delle quattro vittime di Paole".
Ma qualcosa non dovette funzionare, perché le morti continuarono: "Quindici giorni fa,
una ragazza di nome Stanacka si svegliò a mezzanotte con un urlo terribile, e disse di essere stata aggredita da un certo Milloe, che era stato sepolto nove settimane prima. Nel giro di tre giorni, la ragazza morì".
Così, il gelido pomeriggio del 12 dicembre 1731, Fluchinger e gli heyduk di Medvegia entrarono nel cimitero.
Tutte le tombe sospette furono aperte ed i cadaveri esumati: si trattava di tredici corpi in tutto.
Con orrore e meraviglia dei presenti, quasi tutti i cadaveri furono scoperti in perfetto stato di conservazione, sporchi di sangue fresco, rossi in volto, e più grassi e floridi di quando erano in vita.
Perciò, conclude il rapporto dell'ufficiale "le teste dei vampiri furono fatte tagliare a degli zingari di passaggio e poi bruciate insieme ai corpi. Le ceneri vennero gettate nel fiume Morava. In fede, Joahnnes Fluchinger, ufficiale medico reggimentale".
Oltre alla firma di Fluchinger il documento riporta quelle degli altri testimoni: è curioso il fatto che questa scrittura non appartenesse a qualche fantastica narrazione esotica dell'orrore ma costituisse parte integrante di una relazione ufficiale, una testimonianza autenticata sul presunto fenomeno del vampirismo.
Peraltro essa non costituì un caso isolato: qualche anno prima, nel 1725, in un altro villaggio serbo, Kisilova, un altro commissario dell'lmpero aveva assistito all'esumazione e all'eliminazione (con paletto e rogo) di un altro vampiro, Peter Plogojowitz, ritenuto responsabile della morte di nove abitanti del villaggio.
Prima ancora, nel 1672, questa volta in Istria, a Coriddigo, fu esumato il corpo di un certo Giure Grando, sepolto ben sedici anni prima: Grando era apparso a diverse persone del paese ed entrato persino nel letto della moglie!
Alcuni abitanti di Coriddigo si fecero coraggio e aprirono la tomba del vampiro: Giure Grando apparve loro roseo e sorridente.
Mentre il prete del villaggio alzava il crocifisso gridando: "Guarda Gesù Cristo, strigon! Cessa di tormentarci!", gli altri, tremando di paura, cercarono di piantargli nel cuore un paletto di biancospino.
Ma il paletto rimbalzava sempre dal corpo del vampiro: di conseguenza lo decapitarono ed il supposto vampiro avrebbe lanciato un urlo terribile mentrela bara veniva inondata di sangue fresco.
Le ipotetiche epidemie di vampirismo di cui si possiede qualche documentazione si verificarono in Istria (1672), Grecia (1701), Prussia Orientale (1710 e 1721), Ungheria (1725 -30), Serbia (1725-32), nuovamente Prussia Orientale (1750), Slesia (1755), Valacchia (1756), Russia (1772).
In effetti si cercava di fornire delle spiegazioni razionali di questi presunti fenomeni paranormali ma, in ambiente culturale come quello europeo occidentale alla costante ricerca di nuove suggestioni artistiche e tematiche, finirono per suscitare maggior interesse i fatti inspiegabili e le orride descrizioni.
Dappertutto, intorno alla metà del Settecento, si parlava di vampiri e la vampiromania contagiò persino i filosofi: Voltaire, nel suo satirico Dizionario Filosofico, in effetti affermò con la solita mordacità che i veri
vampiri erano i preti, gli speculatori e gli esattori delle tasse.
Jean-Jacques Rousseau scrisse che tutta la società umana era basata sullo sfruttamento e il vampirismo: per ognuno di noi "il nostro vampiro sono gli altri".
Il naturalista Buffon, rifacendosi coscientemente alle sue osservazioni e speculazioni, diede il nome di vampiro ai pipistrelli succhiatori di sangue.
Ma mentre nell'Europa più moderna e civile si discorreva di vampiri con il sorriso sulle labbra, nei remoti e arretrati villaggi dell'Europa meridionale e orientale la paura era concreta.
"Tutti avevano perso la testa -scrisse il botanico francese Pitton de Tournefort, testimone di un'epidemia di vampirismo nell'isola greca di Mikonos, nel 1701.
"Era come una febbre del cervello, pericolosa quanto la rabbia e la follia. Intere famiglie abbandonavano le loro case alla periferia del paese e portavano i loro giacigli nella piazza centrale, per passarvi la notte. L'approssimarsi del buio scatenava un lamento generale".
Dopo l'"epidemia" in Slesia del 1755, l'Imperatrice d'Austria Maria Teresa, proclamando il suo disgusto per quella che giudicava la superstizione popolare dei "barbari processi riservati a poveri morti indifesi" per tutto il suo vasto dominio sancì l'illegittimità della "magia postuma" che per sua natura comportava la violazione delle tombe.
L'alto intervento pose probabilmente fine alle dissertazioni ufficiali, ma non al richiamo popolare sui "Vampiri": l'argomento rimase sospeso sulla linea abbastanza sottile che distingueva e distingue il fantasioso dall'imponderabile e per questo la discussione fu ripresa stabilmente da eruditi e soprattutto letterati, costantemente in caccia di quell'esotismo che in fondo caratterizzò per sua parte il "secolo dei lumi" prima e successivamente la temperie culturale romantica.
Nel 1816, lo scrittore Prosper Mérimée, l'autore della Carmen poi musicata da Bizet, si dichiarò testimone di un caso di vampirismo a Varbesk, in Serbia, proprio nella casa ove era ospitato.
Durante la notte una ragazza, Khava, gridando balzò dalla sua stanza ed affermando poi di aver visto la finestra aprirsi e un individuo pallido, coperto di un un sudario gettarsi su di lei per morderla al collo.
Per sua testimonianza si sarebbe trattato di un certo Wieczany, morto da una quindicina di giorni: a dire del letterato francese Khava avrebbe avuto il collo segnato da un minimo ed indecifrabile segno rossastro.
All'alba lo scrittore francese si accodò sin al cimitero agli abitanti del villaggio e verificò l'esumazione, pur fatta contro le norme statutarie.
Per rappresentare la sequenza degli eventi annotò con un certo timor panico mescolato ad una punta di esotica vanità per il suo presenzialismo ad un presunto prodigio: "Quando il sudario fu levato, un grido acutissimo mi fece rizzare i capelli sulla testa".
"E' Un vampiro! E' Un vampiro! I vermi non l'hanno divorato!: cento bocche ripeterono il grido. Poi venti colpi di fucile furono tirati alla testa del cadavere e il padre e i fratelli di Khava lo fecero a pezzi con i loro coltellacci".
Khava fu bagnata con il sangue del vampiro, per annullare il contagio, ma morì nel giro di pochi giorni: presunti, simili casi di vampirismo si sarebbero verificati per tutto l'Ottocento e persino nel XX secolo.
Nel 1909 un antico castello della Transilvania fu incendiato dai contadini: secondo essi un vampiro che vi abitava sarebbe stato causa di una moria di bambini (notizia riportata dal "Neues Wiener Journal " del 10 giugno 1909).
Giova comunque precisare che la questione delle MORTI APPARENTI non fu esclusivo appannaggio dell' EUROPA ORIENTALE.
Essa fu sentita in ogni contrada del vecchio Continente anche e invero venne affrontata in maniere diverse: certo più misteriche e fantasiose nella parte orientale e al contrario su BASI PIU' SCIENTIFICHE tanto nei Paesi del Nord Europa che in Italia.
ALFRED BERNARDO NOBEL il celebre scienziato svedese che inventò la DINAMITE [elaborando la scoperta della NITROGLICERINA fatta dal chimico piemontese ASCANIO SOBRERO del quale, sempre nel MUSEO DI VILLA NOBEL è custodita l' AMPOLLA entro cui fu sintetizzato il terribile esplosivo] al culmine della sua gloria ma spossato nel fisico (ed anche nel morale visto l'uso bellico di un'invenzione cui aveva attribuito scopi filantropici, ad esempio per agevolare la drammaticità delle grandi escavazioni) cercò a SANREMO e nel mite clima del PONENTE LIGURE un poco di rimedio ai suoi tanti mali: in particolare era tormentato da continui raffreddori, da frequenti disturbi bronchiali ed in particolare da gravi emicranie poste in relazione coi suoi continui contatti con la nitroglicerina.
Nella città rivierasca abitò una splendida VILLA (vedi sopra l'immagine) che inizialmente intitolò "MIO NIDO": ad essa, molto più semplicemente, diede poi nome di "VILLA NOBEL" restando colpito da un'affermazione dell'amico Gustav Aufschlaeger che gli fece notare che il "concetto di nido" comportava la coabitazione, fisica e sentementale, tra due individui (presumibilmente un uomo ed una donna, meglio se coniugati e con prole) e che mal si addiceva ad un endemico solitario quale era lo scienziato svedese.
La villa che è stata assimilata dall' Amministrazione della Provincia di Imperia ed ora è sede di un piccolo museo oltre che punto di riferimento di incontri culturali, fu attrezzata con un piccolo ma attrezzato laboratorio.
NOBEL morì solo, assistito dai domestici francesi, nel dicembre del 1896 a causa di un'emorragia celebrale che lo privo della parola e ne deformò la pstura del volto come si constata dalla maschera funebre che ne fu fatta.
La salma venne quindi trasferita in Svezia, per espressa volontà testamentale di NOBEL, dove fu onorevolmente scortata dal servizio funebre sino al cimitero di Nya Kyrkogarden ove fu combusta nel locale forno crematorio.
Si leggono queste volontà dello scienziato svedese soprattutto nell'ultimo testamento ove tra l'altro si legge: "...con esplicito desiderio e volontà [dispongo] che alla mia morte mi vengano aperte le vene dei polsi e dopo che sia stato eseguito quanto sopra e accertato da parte dei medici competenti l'avvenuto decesso che il mio cadavere sia cremato in uno dei cosidetto forni crematori [e così avvenne ad opera dei medici Bobone e Martemucci che rilasciarono specifico refero datato Sanremo, 11 dicembre 1896: come si legge nell'opera di G. Garbarino (pp.102- 103)].
In effetti, e forse a questo si è dato un risalto ancora relativo tranne che, indirettamente, dal citato Garbarino, la stanchezza morale di NOBEL era in perfetta sintonia con uno dei TERRORI STORICI DI XVIII E XIX SECOLO: quello di cadere vittima di uno stato di MORTE APPARENTE ed essere sepolto vivo nel modo di cui neppure mancavano serie DOCUMENTAZIONI.
Quanto era diventata la geniale follia letteraria di un grande letterato dell'orrore come EDGAR ALLAN POE e comunque ciò che tormentava tanto la gente semplice quanto gli intellettuali e gli scienziati dell'epoca non aveva risparmiato nemmeno il grande ALFREDO NOBEL.
Le ragioni profonde di tutto ciò risiedevano probabilmente nel riflesso psicologico di ancestrali paure del padre l'imprenditore ed inventore IMMANUEL NOBEL (tra l'altro brevettò la sua scoperta del legno compensato) la cui esistenza, peraltro fortunata, fu angustiata sempre dal timore di essere sepolto in STATO DI MORTE APPARENTE a causa delle gravi carenze nell'accertamento necroscopico del tempo ed anche per il fatto non raro che spesso (specie a livello dei ceti meno abbienti) si provvedeva all'inumazione addirittura senza alcun supporto di referto mortuario sottoscritto da un medico competente. Il giovane ALFREDO non potè far a meno di risentire di siffatto clima di paura alimentato dal padre che, ad estrema testimonianza di questo suo ricorrente pensiero, addirittura inventò e brevettò un BRACCIALE DA POLSO alimentato da pile elettriche da APPLICARE NELLA BARA AL DEFUNTO. Nel caso che questo si fosse risvegliato da qualche stato di MORTE APPARENTE lo strumento si sarebbe attivato ed avrebbe fatto agire una suoneria, sita presso l'uffico del custode dell'obitorio o del cimitero, onde permettere un pronto soccorso.
Per una strana convergenza di casualità al pari del padre di ALFREDO NOBEL anche Giovanni, padre di ASCANIO SOBRERO il citato inventore della nitroglicerina, affrontò, in maniera meno scientifica e più giurisdizionale, l'argomento delle CATALESSI o MORTI APPARENTI: un tema complesso che, per quanto è tuttora possibile evincere, può aver certamente influenzato nella fantasia collettiva il TERRORE DEI MORTI VIVENTI.
Nativo di Cavallermaggiore, già segretario della Regia Università di Torino, Giuseppe Sobrero (morto nel 1873) ebbe occasione di affrontare quale consigliere e poi come vicesindaco del comune di Cavallermaggiore il tema delle INUMAZIONE E DELLA RIFORMA DEI CIMITERI: in modo particolare egli si rese conto della limitatezza dei controlli necroscopici e si propose di realizzare una polizia mortuaria che fosse all'avanguardia.
Come scrive il Garbarino (pp. 110 e seguenti) lo stimolo per tali ricerche gli fu suggerito dalla lettura di un volumetto ben documentato opera, oggi non facilmente reperibile, di certo dottor Galvagno intitolato La morte apparente - avvertimenti alla gente di campagna.
Le conoscenze empiriche degli individui, dopo il crollo dell'IMPERO DI ROMA e la dispersione della sua cultura compresa quella MEDICA, risultarono arricchite e razionalmente organizzate dall'avvento dei BENEDETTINI che portarono i contributi della loro sapienza agronomica avvicinando presto la gente alla rivoluzione ECONOMICA DELLA GRANGIA ed a quella "scientifica" di una riscoperta erboristeria per cui avevano imparato ad estrarre (catalogando negli ERBARI le loro acquisizioni) da PIANTE OFFICINALI ("ERBE CURATIVE"), tramite i loro moderni LABORATORI DI DISTILLAZIONE prodotti e derivati veramente curativi.
In effetti già nel "CAPITOLARE DI CARLO MAGNO" era elencato il nome delle piante officinali da coltivare: l'opera in effetti era singolarmente ispirata dall'influsso esercitato nel Medioevo sulla medicina dall'erudito e medico teorico romsano Pedanio Dioscoride le cui ricette, sopravvissute alle devastazioni, restarono un patrimonio di sapienza cui si attinse volentieri nell'età di mezzo.
Nel CAPITOLARIO vennero elencati i SEMPLICI cioè le piante base dell'erboristeria, quelle che raccolte dall'AROMATARIO [cui era anche dato nome di SEMPLICISTA] erano fondamentali per elaborare delle possibili cure.
Erano 16: si trattava dell'assenzio, del crescione, del finocchio, della malva, del fienogreco, del giglio, del ligustro, della lunaria selvatica, del melone, della menta, del pulegro, della salvia, del tanaceto, della santoreggia e del rosmarino.
Abitualmente i fermaci ricavati da queste piante, in unione con altre volta per volta utili, erano le TISANE da bere mentre avverso le costipazioni si faceva ricorso ai FUMENTI: affonda in queste radici, contro le affezioni delle vie respiratorie, l'abitudine popolare di far respirare al malato foglie di eucalipto e di tiglio messe nell'acqua bollente.
Il finocchio e la genziana erano invece usate contro i disturbi gastro-intestinali.
Per guarire dalle affezioni delle vie urinarie si ricorreva invece a tisane di zucca, di radici di canna, dell'erba parietaria o gambarossa, dell'origano e della gramigna.
Una pianta molto utilizzata in MEDICINA POPOLARE era quella soprannominata ERBA DELLA MADONNA di identificare per alcune località con la SAXIFRAGA ROTUNDIFOLIA cioè la SASSIFRAGA CIMBARIA che cresce spontanea sulle fasce dei muri a secco e in altre contrade alla STACHIDE BIANCA ("Stachys recta") che possiede proprietà antiinfiammatorie e che per esempio a Triora nella Valle Argentina era bevuta anche per combattere il malocchio.
Fu assai nota nell'antichità e si attribuì ad ESCULAPIO (qui raffigurato in un erbario tardoromano) la scoperta delle sue qualità: uno dei suoi massimi estimatori fu l'erudito e medico romano Pedanio Dioscoride che fu molto studiato nel Medioevo e di cui il Mattioli fece poi una seguitissima volgarizzazione.
Le sue foglie, lunghe e dentellate, contengono sostanze resinose che una volta si usavano come tonico e come stomatico: la radice con funzione purgativa e la polvere come starnutatorio.
In effetti per la cultura medica popolare il campo delle sue qualità curative era anche più esteso: curiosamente si pensava per esempio che i suoi fiori essiccati, coneservati dentro il cappello, proteggessero dal mal di testa.
Oltre a ciò le si attribuivano anche qualità magiche: si riteneva che i serpenti non potessero superare un certo cerchio fatto con i suoi fusti.
In tempi antichi veniva utilizzato questo suo estratto anche come antiparassitario per gli alberi da frutto e gli ortaggi
Secondo i pochi autori che lo citano sarebbe stato composto da BELLADONNA, GIUSQUIAMO, CICUTA, canapa indiana, oppio.
Ben si capisce dagli ingrendienti che molte persone indagate, comprese le presunte STREGHE, non sapessero cosa rispondere e a volte pensassero realmente di aver intrattenuto relazioni col demonio.
Le sostanze stupefacenti contenute in questo UNGUENTO che tuttavia sarebbe stato assunto sotto forma di lavanda procuravano alterazioni della psiche e gravi stati allucinogeni da cui era esaltata la sfera erotica: sì che spesso le presunte orge altro non erano che esplosioni solitarie di erotismo paradossale: MANTA-SEMOLLI, s.v. Belladonna.
GIOVAN BATTISTA DELLA PORTA, forse il più prestigioso esponente della MAGIA NATURALE, diede una sua interpretazione alternativa al tema dell'UNGUENTO STREGONESCO (di cui fra l'altro riprese una ulteriore "formula">vedi qui nella chiara traduzione di A. Zencovich):
Benché queste cose siano quanto mai commiste di implicazioni demoniache, risulta tuttavia, a chi le osservi con attenzione, che esse possano accadere per forza di natura.
Riferirò quanto ho appreso dalle interessate: prendono grasso di bambini [il Nider nel Formicarius riportò specificatamente le risultanze di processi tenuti a Berna] e lo fanno cuocere nell'acqua in un vaso di rame, lasciando addensare e quindi depositarsi ciò che resta della bollitura, poi lo raccolgono e se ne servono subito per l'uso. Insieme mescolano eleoselinum (specie di appio), ACONITO, foglie di pioppo e fuliggine.
Oppure, in un altro modo, prendono sium (gorgolestro), calamo aromatico, potentilla, sangue di pipistrello, solanum sonniferum
(giusquiamo) e olio e mescolano le varie cose, facendo molta attenzione mentre le lavorano.
Poi si ungono tutte le parti del corpo, dopo averle strofinate fino ad arrossarle, affinché il calore vi sia richiamato, poiché qualche volta, sebbene di rado, può succedere che l'unguento si rapprenda a causa del freddo.
Per distendere la carne e fare aprire i pori della pelle aggiungono del grasso, ovvero il liquido oleoso che cola dal medesimo, perché l'effetto dei principi attivi penetri nel corpo e sia migliore e più forte: non dubito infatti che
ciò abbia la sua importanza.
Così sembra loro di essere trasportate nell'aria in una notte di luna, tra convivi, musiche, tripudi e di giacere insieme a bei giovani cosa che desiderano più di tutte. Tanta è la forza dell'immaginazione e la qualit`'a delle impressioni che, in pratica, la parte del cervello sede della memoria ne viene saturata e, dal momento che loro stesse sono, per naturale inclinazione, assai disposte alla credulità, si formano la convinzione che le proprie facoltà si modifichino, dato che notte e giorno non pensano ad altro.
A ciò contribuisce il tatto di cibarsi soltanto di bietole, radici, castagne e legumi.
Mentre ero occupato a documentarmi con la maggiore accuratezza possibile per questo lavoro e non sapevo decidermi su quale opinione prendere, mi capitò tra le mani una vecchietta che spontaneamente si offrì, per breve tempo, di rispondere a proposito di quelle donne che, a somiglianza degli uccelli notturni che portano tale nome, sono chiamate streghe e suggono di notte il sangue dei neonati nelle culle. Essa diede ordine che tutti i testimoni presenti con me uscissero fuori della stanza.
Denudatasi completamente si strofinò con un certo unguento, mentre noi la osservavamo da una fessura della porta.
Soccombendo all'azione delle sostanze soporifere, cadde in un sonno profondo.
Allora noi, da fuori, spalanchiamo la porta, che sbatté forte; ma tanta era la forza del sonno che la donna aveva completamente perduto i sensi. Torniamo fuori; ormai l'effetto del farmaco diminuisce, quindi cessa. Risvegliata dal torpore, lei si mette a dire molte cose deliranti, sostenendo di avere attraversato mari e monti e dando false risposte. Noi diciamo che non è vero e lei insiste; le mostriamo la sua pelle arrossata e lei, ostinatamente, resiste ancora di più.
Ma ciò che penso a proposito di queste cose sarà meglio raccontarlo in altra sede. Riportiamo il discorso al nostro argomento: siamo stati finora fin troppo prolissi. Di un'unica cosa però ritengo opportuno dare avviso: che l'esperienza facilmente potrebbe fallire.
Questi effetti non si verificano ccn tutti allo stesso modo, ma piuttosto con i soggetti melancolici, di costituzione molto fredda, che patiscono il freddo e hanno il metabolismo basso: essi infatti percepiscono le cose che hanno visto nel sonno esattamente come se le avessero vissute, e come tali le riferiscono.
Di fronte alla controversa questione dei poteri delle malefiche, il Porta manteneva un atteggiamento alquanto disincantato di "curioso". Pur riconoscendo nelle loro imprese l'esistenza di un contenuto demoniaco e mostrando anzi, di accettare per buona la tesi che quelle donne avessero l'attitucline di succhiare nottetempo il sangue dei neonati, considerava tuttavia preminente il dato naturale del fenomeno, vale a dire l'effetto allucinogeno delle sostanze impiegate.
Alla stessa conclusione -faceva capire- sarebbe giunto chiunque avesse osservato il fenomeno in modo critico (intuens), senza lasciarsi suggestionare più del lecito dalle tenebrose implicazioni dell'oggetto. Ammetteva di essersi trovato, all'inizio, nell'incertezza del giudizio, ma l'esperimento di cui era stato testimone aveva risolto i suoi dubbi: la donna non si era mossa dalla stanza, non era stata caricata sulle spalle dal demonio.
Scoperta non clamorosa, dal nostro punto di vista; un po' inquietante, invece, per quell'epoca.
Anche se non sufficiente a invalidare le affermazioni dei teologi, secondo i quali non sempre, ma "qualche volta" le malefiche si recavano in volo con tutto il corpo agli osceni convegni, si trattava pur sempre di un argomento contrario alle loro tesi, in grado di scatenare sensi di colpa in chi non si fosse sentito in diritto di mettere in discussione i dogmi sostenuti sulla base del principio di autorità.
In tal modo il giovanissimo Porta dimostrava di possedere, in embrione, lo spirito di un vero uomo di scienza, pur essendo vissuto prima dell'affermarsi del metodo sperimentale. Sarebbe però troppo volerlo considerare un pioniere della moderna epistemologia; a parte il fatto che nella sua opera, come sappiamo, accoglieva con una buona dose di credulità le leggende degli antlchi, egli era attirato più che altro dalla stranezza e non mirava tanto a indagare in maniera sistematica i fenomeni del creato, quanto a concentrarsi su quella parte della realtà che assumeva, ai suoi occhi, le caratteristiche di "meraviglia".
Lo si potrebbe comunque definire un empirista, una mente libera, un navigatore solitario nel mare procelloso delle superstizioni, il quale, in virtù della fiducia nei propri mezzi, poteva avvicinarsi alla realtà meglio di quanto non sarebbe stato possibile fare attraverso i procedimenti vischiosi della Scolastica (alla quale peraltro, forse per "salvarsi l'anima", sosteneva di aderire).
Così come per concederci un paragone che ci permette di non uscire dalla metafora - le
carte geografiche realizzate a quei tempi sulla base delle esperienze degli uomini di mare risultavano in genere piu attendibili di quelle redatte dai geografi professionisti.
Egli affermava inoltre l'autocoscienza, in senso rinascimentale, del sapiente, ovvero del "filosofo", come usava dire allora, consapevole di appartenere a una elite culturale in diritto di attingere senza timori reverenziali alla più varie forme del sapere. Perciò, aiutato un po' anche dall'incoscienza giovanile, si ritenne autorizzato ad affrontare l'argomento nell'opera che, come risulta dal titolo, escludeva dal proprio oggetto la magia nera o "artificiale": materia non divulgabile, sotto pena dell'interdetto religioso.
Prometteva inoltre di tornare sull'argomento in un'altra sede, cosa che però non ci risulta abbia fatto.
quello del rapimento e dell'uccisione degli infanti; un'accusa che ricorreva con estrema frequenza nei processi di stregoneria (interpretando peraltro un mito di origine remota e pressoché universale, di cui si trovano testimonianze scritte persino negli antichissimi Atharvaveda, o Inni Magici dei Veda).
Non necessariamente, secondo l'opinione comune, il rapimento precedeva l' uccisione: si riteneva anzi, più spesso, che le streghe facessero morire i lattanti nella culle, per esumarne nottetempo i cadaveri dalle tombe.
In tal modo si giustificavano le morti improvvise dei neonati che potevano aver luogo - come talvolta accade pure ai nostri giorni - per le cause più disparate.
Quando poi il decesso avveniva durante il parto, era lecito sospettare dell'ostetrica, sotto le cui spoglie a volte si nascondeva una lamia in cerca della materia prima per i propri intrugli.
Questi ultimi, infatti, per garantire il miglior esito, dovevano essere preparati con il corpo di bambini morti prima del battesimo.
L' infanticidio è adombrato nella prima ricetta, che prevedeva l'impiego di grasso di fanciulli (pinguedo puerorum): una delle sostanze più indicate a produrre gli unguenti, secondo la letteratura dottrinale.
C'era però chi preferiva le ossa, oppure il sangue, mescolato eventualmente a quello di uccelli notturni, secondo quanto insegnava il Malleus maleficarum.
Una volta confezionato il prodotto, non era indispensabile spalmarselo addosso: bastava applicarlo su un oggetto qualunque (una sedia, o un pezzo di legno, compresa la classica scopa), dopo di che si poteva decollare verso il luogo
dell'adunata sacrilega.
A rigore neppure l'unguento era necessario, proseguivano gli autori; tuttavia erano rari i casi descritti in cui le streghe ne facevano a meno.
Le materie derivate dal corpo di bambini morti costituivano dunque un ingrediente quasi necessario per simili esigenze.
Il loro valore era ovviamente soltanto simbolico o autosuggestivo, poiché (l'affermazione potra sembrare cinica, ma difficilmente oppugnabile) l'effetto concreto non doveva essere diverso da quella di sostanze di più ortodossa estrazione animale.
C'e tuttavia da considerare che a quei tempi i fanciulli non godevano della venerazione di cui, almeno all'apparenza, sono fatti oggetto ai nostri giorni.
Molti ne nascevano, molti ne morivano e, finché non erano in grado di lavorare, costituivano un elemento sociale improduttivo il cui valore veniva stimato di conseguenza.
Provocare la morte di uno di loro era considerato, in generale, meno grave di toglierla a un uomo fatto ; cosa che, a sua volta, non era ritenuta il peggiore dei delitti.
Alla donna che con sortilegi uccideva un neonato non suo si prescrivevano, secondo un penitenziale del VI secolo, sei mesi di digiuno e due anni di astinenza dalle carni.
Ma se la vittima era un adulto, secondo un analogo testo coevo, il digiuno comminato era di tre anni, più altrettanti di astinenza: pene, tutto sommato, non particolarmente severe.
Se dunque l'infanticidio, reale o ideale, non era perpetrato con la precisa volontà di macchiarsi di una colpa imperdonabile, verrebbe da congetturare che in esso si conservasse la reminiscenza di qualche rito pagano.
Non è escluso però che la pratica del SACRIFICIO UMANO [ certamente connessa all'arcaica RELIGIONE DEL SANGUE ] fosse praticata presso alcune delle etnie che circondavano l'Impero o vi si erano avvicinate al tempo delle migrazioni.
Dalle loro antiche religioni, Bandite e demonizzate in seguito all'evangelizzazione, certi rituali potrebbero essersi così trasferiti nel campo avverso delle pratiche occulte.
Prima che ciò accadesse, peraltro, una loro eco si era fissata nelle varie leggende, classiche e cristiane, a proposito di draghi e mostri reclamanti periodiche offerte di carne umana.
Nelle versioni giunte fino a noi, attraverso i rimaneggiamenti succeduti nei secoli, le vittime di tali "fiere" risultavano essere per lo più giovinetti e giovinette; in realtà, a finire in pasto alle crudeli divinità erano in primo luogo proprio gli infanti, la cui soppressione si accompagnava a una rudimentale esigenza eugenetica e di controllo demografico.
Il fatto di offrirli a un'entità superiore, oltre che la riparazione del delitto commesso, implicava l'idea di riuscire in tal modo a non sprecare la materia vitale sacrificata, ma di riconvertirla a beneficio della comunità.
Ciò valeva pure a propiziarsene il favore, rendendone possibile l'intervento diretto: quest'ultimo, invocato mediante le formule segrete, era infatti necessario per la buona riuscita di ogni pratica "nera".
Dal sentimento di tale esclusiva alleanza, più che da un sinistro diletto criminoso, le streghe derivavano dunque l'emozione che si lega al compimento di gesti proibiti e spesso conferisce, a chi li compie, un sentimento di potenza.
I racconti che le descrivono danzanti in maniera frenetica al cospetto del loro signore intendono sottolineare come l'eccitazione infernale che le caratterizzava fosse resa possibile - secondo il leimotiv del cacciatore trionfante sulla preda dalla fagocitazione dell'energia vitale
proveniente dai corpi degli uccisi.
In casi del genere esse erano solite stringere tra le mani il cordone ombelicale delle loro vittime: ciò perche l'ombelico era considerato il punto più significativo dell'essere umano, il suo fulcro, secondo un concetto affermato anche da alcune religioni orientali.
La presenza, negli unguenti del sabba, di sostanze derivate dal corpo di fanciulli morti rispondeva dunque al medesimo obiettivo, poiché a tali empi ingredienti veniva attribuita una valenza farmacologia stabilita sulla base di motivi simbolici.
Una chiave di lettura allegorica delle proprieta dei "semplici" era d'altronde del tutto in linea con i principi della scienza medica ortodossa.
Al riguardo [scrive ancora lo Zencovich (pp. 121 - 122)] sarà utile aprire una breve parentesi, ricordando come molte sostanze che rappresentavano dei capisaldi della farmacopea classica fossero assurte a tale ruolo in virtù di valutazioni che andavano al di là della verifca sperimentale dei loro effetti.
Per questa ragione la vipera, in grado di uccidere animali più grandi di lei, era vista come un potente energizzante.
E in maniera analoga la mummia, che si presumeva contenesse un principio antagonista alla disgregazione del corpo, si vedeva attribuite delle particolari proprieta conservative.
Nel medesimo ruolo, peraltro, pochi concorrenti aveva l'oro, oggetto della ricerca degli alchimisti, i quali perseguivano l'obiettivo di arrestare il processo del naturale divenire del corpo umano.
L'impiego della pinguedo puerorum mirava in sostanza allo stesso fine: si trattava dell'eterno desiderio degli uomini (e più ancora delle donne) di preservarsi dall'invecchiamento salvandosi, con qualche miracolo di Dio o del diavolo, dal destino collettivo della senescenza.
Era un sogno antico quanto il mondo, non a caso descritto in molte leggende e che costituiva per tradizione il compenso offerto dal demonio in cambio dell'anima.
Le donne che erano scese a patti con lui immaginavano di aiutarlo a mantenere le promesse quando si cospargevano con il grasso o il sangue dei fanciulli, convinte di impadronirsi in quel modo delle qualità di vigore e giovinezza intrinseche alla sostanza impiegata.
Non stonerà, a tale riguardo, una digressione letteraria sulla figura dello stregone napoletano dottor Trabacchio, coniata dalla fantasia di Ernst Theodor Hoffmann (1776 - 1822) nella novella Der Revierjager che costituisce, tra l'altro, una testimonianza di come la fama legata alla tradizione occulta della scuola medica napoletana, di cui il Porta fu uno dei maggiori interpreti, fosse destinata a rimanere viva, fuori d'Italia, fino oltre l'epoca dell'Illuminismo:
Subito dopo Trabacchio uccideva le sue mogli in qualche maniera misteriosa, cosicché anche il più acuto occhio medico non riusciva a trovare la minima traccia di
omicidio...
II dottor Trabacchio confessò tutto apertamente e parve provar piacere a confondere il tribunale con gli orribili racconti dei suoi misfatti...
I religiosi che assistettero al processo si diedero ogni pena immaginabile per indurre il dottore al pentimento e all'ammissione dei suoi peccati; fu però tutto inutile, perché Trabacchio si limitò a deriderli e a sbeffeggiarli...
Quando fu legato alla colonna rise forte e disse al boia che lo legava saldamente, desidero.o di uccidere: - Bada bene, fratello, che questi lacci non ti brucino le mani -.
Al frate che da ultimo voile avvicinarglisi gridò con voce terribile: - Vattene! Sta lontano da me! Credi che io sia diventato così stupido da patire una morte penosa per farvi contenti? La mia ora non è ancora giunta -. Il legno cominciò a crepitare; appena le fiamme raggiansero Trabacchio esse si ravvivarono come in un fuoco di paglia e da una lontana altura si udì risuonare un'acuta risata di scherno.
Tutti guardarono in quella direzione e inorridirono quando videro il dottor Trabacchio in carne e ossa nel vestito nero col mantello ornato d'oro, la spada al fianco, il cappello spagnolo rimboccato con la penna rossa sulla testa... che era solito indossare aggirandosi per le strade di
Napoli....
Nella stessa logica - ribadiamo, per concludere questa parte del discorso - va considerata la presenza del grasso di fanciulli morti nella prima ricetta del Porta.
Nella seconda, invece, una analoga valenza simbolica è data dal sangue di pipistrello: a chi era destinato a volare nella notte esso avrebbe conferito le qualità dell'animale dal quale era stato estratto, silenzioso e a proprio agio nelle tenebre.
La sua funzione era quindi complementare rispetto all'ingrediente di cui abbiamo parlato prima: l'uno e l'altro avrebbero anche potuto stare insieme e il fatto che qui li si trovi indicati come alternativi si spiega con ragioni di economia, più che di incompatibilità.
Essi dovevano infatti possedere un valore commerciale non indifferente, a causa dell'esistenza di una domanda sommersa, ma non per questo trascurabile.
Infatti, se i farmacisti, nell'intraprendere la loro attività, giuravano di non vendere materiali sospetti di qualunque sorta di superstizione, patto tacito o espresso del Demonio, vuol dire che qualcuno andava in giro a cercarli.
Non è perciò difficile immaginare che le adepte del sabba si vedessero costrette a rifornirsi al mercato clandestino, a prezzi che dovevano essere inevitabilmente elevati, come accade sempre con i generi messi
al bando.
Così racconta l'ufficiale medico Johannes Fluchinger dell'esercito austriaco, che nel terribile inverno dello stesso anno fu inviato per ordine dell'alto comando a investigare il fenomeno in quella remota provincia dell'lmpero.
Si legge nel suo rapporto: "Ho condotto l'indagine con la consulenza di altri due ufficiali medici e in presenza del capitano della locale Compagnia di heyduk (fanteria serba), Gorschiz Hadnack, e degli heyduk più anziani del villaggio, i quali mi hanno raccontato quanto segue: cinque anni fa un heyduk locale di nome Arnold Paole si ruppe il collo cadendo da un carro di fieno. Lo stesso Paole, in vita, aveva rivelato a più riprese di essere stato morso da un vampiro, presso Gossowa nella Turchia serba. Per liberarsi dell'influsso maligno, aveva mangiato un po' di terra presa dalla tomba del vampiro e si era bagnato con il suo sangue. Tuttavia, una ventina di giorni dopo la sua morte, diverse persone dissero che Arnold Paole era tornato a tormentarle, e in effetti quattro di loro morirono. Per mettere fine al male, su consiglio di Hadnack, che era esperto in tali faccende, i paesani disseppellirono Paole quaranta giorni dopo la sua morte. Trovarono il suo corpo intatto.
Sangue fresco era colato da occhi, naso, orecchie e bocca; camicia, sudario e bare erano pieni di sangue; le unghie delle mani e dei piedi erano cadute con la vecchia pelle, ma pelle e unghie nuove erano ricresciute al loro posto. Da ciò si dedusse che Arnold Paole era un vampiro. Secondo l'usanza, gli fu piantato un paletto nel cuore e in quel momento egli emise un forte gemito, e un gran getto di sangue schizzò fuori dal suo corpo. Lo stesso giorno il cadavere fu arso e ridotto in cenere".
"Secondo questa gente" continua la relazione di Fluchinger "chi è ucciso da un vampiro diventa vampiro a sua volta. Perciò dovettero disporre allo stesso modo dei cadaveri delle quattro vittime di Paole".
Ma qualcosa non dovette funzionare, perché le morti continuarono: "Quindici giorni fa,
una ragazza di nome Stanacka si svegliò a mezzanotte con un urlo terribile, e disse di essere stata aggredita da un certo Milloe, che era stato sepolto nove settimane prima. Nel giro di tre giorni, la ragazza morì".
Così, il gelido pomeriggio del 12 dicembre 1731, Fluchinger e gli heyduk di Medvegia entrarono nel cimitero.
Tutte le tombe sospette furono aperte ed i cadaveri esumati: si trattava di tredici corpi in tutto.
Con orrore e meraviglia dei presenti, quasi tutti i cadaveri furono scoperti in perfetto stato di conservazione, sporchi di sangue fresco, rossi in volto, e più grassi e floridi di quando erano in vita.
Perciò, conclude il rapporto dell'ufficiale "le teste dei vampiri furono fatte tagliare a degli zingari di passaggio e poi bruciate insieme ai corpi. Le ceneri vennero gettate nel fiume Morava. In fede, Joahnnes Fluchinger, ufficiale medico reggimentale".
Oltre alla firma di Fluchinger il documento riporta quelle degli altri testimoni: è curioso il fatto che questa scrittura non appartenesse a qualche fantastica narrazione esotica dell'orrore ma costituisse parte integrante di una relazione ufficiale, una testimonianza autenticata sul presunto fenomeno del vampirismo.
Peraltro essa non costituì un caso isolato: qualche anno prima, nel 1725, in un altro villaggio serbo, Kisilova, un altro commissario dell'lmpero aveva assistito all'esumazione e all'eliminazione (con paletto e rogo) di un altro vampiro, Peter Plogojowitz, ritenuto responsabile della morte di nove abitanti del villaggio.
Prima ancora, nel 1672, questa volta in Istria, a Coriddigo, fu esumato il corpo di un certo Giure Grando, sepolto ben sedici anni prima: Grando era apparso a diverse persone del paese ed entrato persino nel letto della moglie!
Alcuni abitanti di Coriddigo si fecero coraggio e aprirono la tomba del vampiro: Giure Grando apparve loro roseo e sorridente.
Mentre il prete del villaggio alzava il crocifisso gridando: "Guarda Gesù Cristo, strigon! Cessa di tormentarci!", gli altri, tremando di paura, cercarono di piantargli nel cuore un paletto di biancospino.
Ma il paletto rimbalzava sempre dal corpo del vampiro: di conseguenza lo decapitarono ed il supposto vampiro avrebbe lanciato un urlo terribile mentrela bara veniva inondata di sangue fresco.
Le ipotetiche epidemie di vampirismo di cui si possiede qualche documentazione si verificarono in Istria (1672), Grecia (1701), Prussia Orientale (1710 e 1721), Ungheria (1725 -30), Serbia (1725-32), nuovamente Prussia Orientale (1750), Slesia (1755), Valacchia (1756), Russia (1772).
In effetti si cercava di fornire delle spiegazioni razionali di questi presunti fenomeni paranormali ma, in ambiente culturale come quello europeo occidentale alla costante ricerca di nuove suggestioni artistiche e tematiche, finirono per suscitare maggior interesse i fatti inspiegabili e le orride descrizioni.
Dappertutto, intorno alla metà del Settecento, si parlava di vampiri e la vampiromania contagiò persino i filosofi: Voltaire, nel suo satirico Dizionario Filosofico, in effetti affermò con la solita mordacità che i veri
vampiri erano i preti, gli speculatori e gli esattori delle tasse.
Jean-Jacques Rousseau scrisse che tutta la società umana era basata sullo sfruttamento e il vampirismo: per ognuno di noi "il nostro vampiro sono gli altri".
Il naturalista Buffon, rifacendosi coscientemente alle sue osservazioni e speculazioni, diede il nome di vampiro ai pipistrelli succhiatori di sangue.
Ma mentre nell'Europa più moderna e civile si discorreva di vampiri con il sorriso sulle labbra, nei remoti e arretrati villaggi dell'Europa meridionale e orientale la paura era concreta.
"Tutti avevano perso la testa -scrisse il botanico francese Pitton de Tournefort, testimone di un'epidemia di vampirismo nell'isola greca di Mikonos, nel 1701.
"Era come una febbre del cervello, pericolosa quanto la rabbia e la follia. Intere famiglie abbandonavano le loro case alla periferia del paese e portavano i loro giacigli nella piazza centrale, per passarvi la notte. L'approssimarsi del buio scatenava un lamento generale".
Dopo l'"epidemia" in Slesia del 1755, l'Imperatrice d'Austria Maria Teresa, proclamando il suo disgusto per quella che giudicava la superstizione popolare dei "barbari processi riservati a poveri morti indifesi" per tutto il suo vasto dominio sancì l'illegittimità della "magia postuma" che per sua natura comportava la violazione delle tombe.
L'alto intervento pose probabilmente fine alle dissertazioni ufficiali, ma non al richiamo popolare sui "Vampiri": l'argomento rimase sospeso sulla linea abbastanza sottile che distingueva e distingue il fantasioso dall'imponderabile e per questo la discussione fu ripresa stabilmente da eruditi e soprattutto letterati, costantemente in caccia di quell'esotismo che in fondo caratterizzò per sua parte il "secolo dei lumi" prima e successivamente la temperie culturale romantica.
Nel 1816, lo scrittore Prosper Mérimée, l'autore della Carmen poi musicata da Bizet, si dichiarò testimone di un caso di vampirismo a Varbesk, in Serbia, proprio nella casa ove era ospitato.
Durante la notte una ragazza, Khava, gridando balzò dalla sua stanza ed affermando poi di aver visto la finestra aprirsi e un individuo pallido, coperto di un un sudario gettarsi su di lei per morderla al collo.
Per sua testimonianza si sarebbe trattato di un certo Wieczany, morto da una quindicina di giorni: a dire del letterato francese Khava avrebbe avuto il collo segnato da un minimo ed indecifrabile segno rossastro.
All'alba lo scrittore francese si accodò sin al cimitero agli abitanti del villaggio e verificò l'esumazione, pur fatta contro le norme statutarie.
Per rappresentare la sequenza degli eventi annotò con un certo timor panico mescolato ad una punta di esotica vanità per il suo presenzialismo ad un presunto prodigio: "Quando il sudario fu levato, un grido acutissimo mi fece rizzare i capelli sulla testa".
"E' Un vampiro! E' Un vampiro! I vermi non l'hanno divorato!: cento bocche ripeterono il grido. Poi venti colpi di fucile furono tirati alla testa del cadavere e il padre e i fratelli di Khava lo fecero a pezzi con i loro coltellacci".
Khava fu bagnata con il sangue del vampiro, per annullare il contagio, ma morì nel giro di pochi giorni: presunti, simili casi di vampirismo si sarebbero verificati per tutto l'Ottocento e persino nel XX secolo.
Nel 1909 un antico castello della Transilvania fu incendiato dai contadini: secondo essi un vampiro che vi abitava sarebbe stato causa di una moria di bambini (notizia riportata dal "Neues Wiener Journal " del 10 giugno 1909).
Essa fu sentita in ogni contrada del vecchio Continente anche se invero venne affrontata in maniere diverse: certo più misteriche e fantasiose nella parte orientale e al contrario su BASI PIU' SCIENTIFICHE tanto nei Paesi del Nord Europa che in Italia.
Con un COMUNICATO dirigistico ma non drammatico gli "Ufficiali di Sanità di Ventimiglia" iniziarono il loro carteggio sull' EPIDEMIA DI PESTE BUBBONICA.
La pestilenza, già presente in focolai europei, comparve in Italia a Trento nel 1574, poi nel 1575 a Palermo e Messina e tra il 1576-77 in città del Settentrione per approdare in Liguria (Savignone) nel 1578.
Nel Genovesato esplose tra 1579 e 1580 decimando la popolazione della capitale ed imperversò sino al 4/XI/1580: neppure mancarono voci sulla presenza di UNTORI.
La giurisdizione di Ventimiglia non fu colpita ma ACCERCHIATA DALLA PESTE che da Albenga a Loano si era estesa a Ceriale ed oltre fino a Sanremo per comparire nel Nizzardo e da qui giungere al rastrello dei Balzi Rossi.
L' "Ufficio di Sanità" e i suoi Magistrati dirigevano un sistema di controllo, tenuto per via di "residenti" che potevano far disporre dei blocchi, tenuti da armati, appunto i RASTRELLI, controllare i viaggiatori e le loro PATENTI DI SANITA', inibire i traffici e bloccare i porti.
Ogni tutela era dettata dagli effetti di un male di alta mortalità con dolori di vario tipo, terribilmente manifesti nell'esteriorità di una febbre altissima associata a convulsioni e di rigonfiamenti o bubboni sparsi per il corpo: si vociferò che in Genova l'avesse portata, con una borsa piena di panni infetti, un misterioso viaggiatore o che ne fossero stati responsabili gli Spagnoli, reduci dalla Sicilia con Don Giovanni d'Austria, sbarcati a Voltri e con destinazione Milano attraverso la valle Polcevera (la letteratura medica del tempo non rifuggì dalle superstizioni delle perniciose combinazioni astrali, dei venti pestilenziali o dell'abnormità concettuale di DIABOLICI UNTORI).
Per il timore di essere investiti dal male, le genti del ponente ligure da un lato non mancarono di abbandonarsi ad azioni tragiche come la LAPIDAZIONE di uno sciagurato transfuga da Ceriana o l'arresto più o meno motivato di vari viaggiatori ma anche si dimostrarono solidali con la sventurata Genova minata dal morbo cui furono inviati dal Capitanato intemelio utili soccorsi.
Un esplicito riferimento alla tubercolosi dei linfonodi ma soltanto delle stazioni periferiche, con riproduzione di materiale "fimoso" già si ritrova nelle descrizioni di Ippocrate e la denominazione di "scrofola" (per ingrossamento e arrotondamento del collo, con aspetto simile a quello della scrofa) comparirà nella medicina romana di Celso e di Galeno.
Nel medioevo viene già praticata l'incisione dei linfonodi tumefatti, mentre le speranze di guarigione dei malati di scrofola sono affidate alle soprannaturali facoltà possedute dalle mani [dono divino] dei re di Francia [anche se la tradizione erboristica dava molto credito pure all'applicazione della "Scrofularia" -pianta erbacea medicinale delle "Scrofuliaracee", famiglia Dicotiledoni- con foglie ovate e fiori bruno-rossastri in cime terminali: a lungo, sino agli albori della medicina moderna fu ritenuta molto giovevole contro la scrofolosi].
Una precisa analogia dei vari aspetti macroscopici delle alterazioni ghiandolari dei linfonodi esterni e di quelli intratoracici sarà alla fine dei Seicento rilevata da Riccardo Morton, che introduce il termine di "tisi scrofolosa".
Nel corso dell'Ottocento i nessi di connessione tra processi ghiandolari scrofolosi e polmonari con uguale componente caseosa sono da alcuni identificati sotto un'unica insegna etiologica (teoria unicistica), contrapponendosi ad altri, in prima linea il Virchow, che riconoscono la scrofolosi e la tisi polmonare ambedue affezioni distinte, anche se la prima sembra talvolta aprire l'insorgenza delle lesioni polmonari.
Le classiche esperienze sul contagio di Villemin (1865) e di Armani (1875) sul materiale proveniente da ghiandole caseose e colliquate ugualmente capaci di riprodurre l'infezione tubercolare ed infine la scoperta dell'agente etiologico (Roberto Koch, 1882) daranno nuova luce a tutto il complesso problema dell'interessamento delle linfoghiandole e del sistema linfatico nella infezione tubercolare fino all'affermazione della dottrina del complesso primario (Kuss, 1898).
Ancora fino alla metà del Novecento proseguiranno modalità di terapia delle linfoadenite cervicale tubercolare basate sul potenziamento delle difese organiche, l'elioterapia, i bagni marini, con un complesso di stabilimenti che erano sorti nel Settecento per opera degli Inglesi e che in Italia si affermarono con gli Ospizi Marini per i giovani scrofolosi, il primo dei quali inaugurato a Viareggio nel 1861 per opera del dottor Giuseppe Barellai.
Nel 1868 sorse quello del Lido di Venezia, fino agli anni sessanta sede di numerosi reparti ospedalieri per i malati di varie forme di tubercolosi extra - polmonare, in particolare ossea, peritoneale e linfoghiandolare periferica.
[testo del pneumologo Prof. Giuliano Lenci - integrazioni informatiche di B. Durante].
Tra l'altro vi si legge a proposito del dramma dei SEPOLTI VIVI per scarsa provvidenza necroscopica:
"Non si può che veramente fremere d'orrore all'idea d'un uomo a cui tocchi soggiacere alla suprema sventura di essere sepolto vivo. Ravvivata la intiepidita e quasi spenta di lui vitalità, riordinate gradualmente le funzioni della circolazione e della respirazione e quindi le intellettuali sue cognizioni, si ravvisa l'infelice entro una fossa strettamente rinserrato, epperciò costretto a respirare un'aria limitata da un piccolo spazio, dove l'azione polmonare trovasi fortemente angustiata tanto per la pochezza ed impurità dell'aria, quanto per la pressione che soffre il torace nell'angusta bara. Prende allora le smanie, raccoglie tutte le forze che sono in suo potere ond'isfuggire ad una morte disperata ed inevitabile, alza per quanto può le grida benché conosca di non essere inteso, si dimena, urta contro il coperchio per rimuoverlo, ma nulla vale contro la forza dei chiodi, e contro il peso della terra che gli sta sovrapposta. Allora una disperazione furibonda lo assale, si sgraffia egli, e si strazierebbe a brani procurandosi di uccidersi da se medesimo, come trovasi verificato in qualche caso, ove le circostanze poterono a ciò prestarsi. Finalmente abbandonato all'orrore della situazione, cresce sempre più in lui il terrore, l'angoscia, l'affanno in modo che fra i più crudeli tormenti, egli miseramente finisca con una morte che mette, al solo pensarci, raccapriccio ed orrore... Ora se tale è, e così dolorosa la condizione di quelli (come appunto si osserva nei deliquii, nelle asfissie, nelle apoplessie ed in alcune particolari malattie del sistema nervoso), quanto più spaventosa ed orribile dev'essere la sorte di tanti altri i quali, senza poter effettuare il menomo movimento, per indicare la non pur anco estinta loro vita, conoscono chiaramente da molti fatti apparisca di essere creduti morti, odono i pianti dei loro congiunti ed amici, osservano i loro funerali, si accorgono di essere portati al sepolcro, sentono l'inclinarsi della cassa ed il cadere della terra che va a coprirli per sempre e condannati si veggono a perire disperatamente senza speranza di salvezza".
Ancora nel pieno XVIII secolo l'argomento dell'ESSENZA DI VITA E MORTE sarà oggetto di DIBATTITI, non escluso quello, per ogni verso straordinario, delle ricerche per il PROLUNGAMENTO DELLA VITA ed ancora quello, molto più realistico, del dramma delle MORTI APPARENTI [se si vuole con la "variante paranormale" dell'ESPERIENZA DI PREMORTE [NDA] su cui si vanno tuttora confrontando POSTAZIONI ANTITETICHE, ora assolutamente AGNOSTICHE ora SCIENTIFICO-PROPOSITIVE] che tra tanti avrebbe tormentato anche un illustre ospite di Sanremo come ALFREDO NOBEL.
Dibattiti che, giova sempre precisarlo, mediamente furono (come ancora sono) affrontati entro testi di provata serietà che sostanzialmente finirono per contrapporre il pensiero classico di IPPOCRATE e GALENO a quello di PARACELSO e in maniera consequenziale la TRADIZIONE MEDICA UFFICIALE coi potenti teoremi della MAGIA NATURALE e dell'ALCHIMIA.
Parimenti vari altri SPECIALISTI rimanevano alquanto vaghi nel cercare di delineare plausibilmente le caratteristiche, non solo fisiche ma anche metafisiche, di VITA e di MORTE.
A tutti, prescindendo dalle possibili CONTROVERSIE EPOCALI sui CIMITERI era comunque nota l'importanza morale, religiosa e igienica di SEPPELLIRE con FUNERALI VOLTA PER VOLTA ADEGUATI i CADAVERI prima della loro decomposizione come si può leggere nella monumentale opera di Lucio Ferraris intitolata
BIBLIOTHECA CANONICA.....
Sulle PRATICHE DI INUMAZIONE dall'ETA' INTERMEDIA sino alle GRANDI RIFORME DEL XVIII SECOLO i Dottori ed i Canonisti della Chiesa si sono adoperati attraverso i secoli in una sequela di interpretazioni e pubblicazioni assolutamente specialistiche e quasi sempre connesse al Diritto Canonici.
Oggi, senza ricorrere a tale specialistico mare di ipotesi, deduzioni e controriflessioni, per la conoscenza delle antiche modalità di inumazione cristiana è preferibile ricorrere ai dati che si ricavano dalle seguenti, seppur ormai rare pubblicazioni: - Medici, Sebastiano <1595 m.> , Sebastiani Medicis ... Tractatus. de sepulturis, & opuscula septem, Florentiae, per Bartolomeo Sermartelli, 1580; Samuelli, Francesco Maria - Francisci Mariae Samuelli ... Praxis noua obseruanda, in ecclesiasticis sepulturis, Christi fidelibus catholicis tradendis...., Taurini. per Giuseppe Vernoni, 1678; Feltmann, Gerhard, Tractatus de cadauere inspiciendo. In cuius recessu, praeter ea quae in fronte promittuntur, varia de funeribus, sepulturis, medicis, vulneribus..., Groningae, 1673 .
Una silloge specifica e completa (specialmente per il contesto religioso italiano per quanto applicato spesso alla legge dello Stato) poi è però soprattutto quella di FLORIANO DOLFI [col nome spesso latineggiato in FLORIANUS DULPHUS] giurisperito nell'Archiginnasio di Bologna che scrisse il Tractatus de sepulturis, capellis, statuis, epitaphijs, & defunctorum munimentis. Authore Floriano Dulpho i.c. Bonon...., Bononiae, per Giovanni Battista Ferroni, che si rifece alle fonti di cui sopra (particolarmente al Medici ed a molte altre, particolarmente tutte quelle sull'argomento che gli potevano esser fornite dalla bibliografia consultabile al suo tempo).
Il lavoro del DOLFI, anche per la sua rarità e quindi con vantaggio dei ricercatori, è qui di seguito proposto integralmente in traduzione [seppur talora con una quasi necessaria riduzione della citazione delle tante glosse bibliografiche], elencandone qui di seguito, preventivamente, un utile INDICE.
CAPITOLO I - LA SEPOLTURA DEI SUICIDI
CAPITOLO I - LA SEPOLTURA E SUOI MOLTEPLICI ASPETTI
CAPITOLO II - SEPOLTURA "COMUNE" - "PROPRIA" - "PARTICOLARE" - "DI FAMIGLIA" - "EREDITARIA"
CAPITOLO III - VARI TIPI DI SEPOLTURA
CAPITOLO III - CIMITERO, DIRITTO DI ASILO, IMMUNITA' ECCLESIASTICA, CASI DI PROFANAZIONE
CAPITOLO IV - STORIA ANTICA E MODERNA DEI RITI FUNEBRI
CAPITOLO IV - TERMINI DI TEMPO PER LE INUMAZIONI (CAUTELE CONTRO LE MORTI APPARENTI)
CAPITOLO IV - LE MONACHE COME I FRATI POSSONO CURARE LE INUMAZIONI
CAPITOLO IV - INUMAZIONE DI VIANDANTI, PELLEGRINI E FORESTIERI
CAPITOLO IV - INUMAZIONE DI FIGLI ILLEGITTIMI, NATURALI, SPURII, LEGITTIMATI PRIMA O DOPO LA MORTE DEL PADRE
CAPITOLO IV - INUMAZIONE DI SPOSE ONESTE, DI SPOSE ADULTERE (CONCILIATESI O NON), DI VEDOVE RISPOSATESI, DI VEDOVE NON RISPOSATESI
CAPITOLO IV - INUMAZIONE DI SOMMO PONTEFICE CHE NON ABBIA SCELTO IL LUOGO DELLA SUA SEPOLTURA
CAPITOLO IV - INUMAZIONE DI CARDINALE CHE NON ABBIA SCELTO IL LUOGO DELLA SUA SEPOLTURA
CAPITOLO IV - INUMAZIONE DI LEBBROSI, MORTI DI EPIDEMIE, PESTILENZE, MALI CONTAGIOSI
CAPITOLO IV - INUMAZIONE DI CADAVERE DI PERSONA IGNOTA IN MERITO ALLO STATO DEL SUO RAPPORTO CON LA CHIESA CATTOLICA ROMANA
CAPITOLO IV - INUMAZIONE DI PERSONE DEFUNTE IN LUOGO DI VILLEGGIATURA O DI LAVORI AGRESTI
CAPITOLO IV - INUMAZIONI PRESSO I POPOLI ANTICHI ED ESOTICI: NOTIZIE VARIE
CAPITOLO IV - CONCLUSIONE DEL CAPITOLO: L'INUMAZIONE CRISTIANA (LICEITA' DI IMPUGNARE TESTAMENTI DI PERSONE FURIOSE IN MERITO A STRAVAGANTI RITI FUNEBRI DA LORO DESIDERATI)
CAPITOLO V - SEPOLTURA DA CONCEDERSI O NON AI CONDANNATI A MORTE PER GRAVI CRIMINI
CAPITOLO V - SEPOLTURA DA NON CONCEDERSI AD INFEDELI, ERETICI, GIUDEI E PAGANI
CAPITOLO V - SEPOLTURA DA NON CONCEDERSI A QUANTI SONO MORTI PARTECIPANDO A TORNEI, TAUROMACHIE, GIOCHI CIRCENSI CRUENTI
CAPITOLO V - SEPOLTURA DA NON CONCEDERSI A QUANTI SONO MORTI PARTECIPANDO A DUELLI INTESI COME "SINGOLAR TENZONI"
CAPITOLO V - SEPOLTURA DA NON CONCEDERSI A QUANTI SONO MORTI SENZA ESSERSI CONFESSATI E COMUNICATI
CAPITOLO V - SEPOLTURA DA NON CONCEDERSI A BLASFEMI, MERETRICI, PRATICANTI DI CONCUBINAGGIO, USURA, SCOMUNICATI ECC.
CAPITOLO V - SEPOLTURA DA NON CONCEDERSI A FETI MORTI NEL VENTRE MATERNO (COSE DA FARSI): SEPOLTURA DI NEONATI POI MORTI
CAPITOLO V - SEPOLTURA DA NON CONCEDERSI A RAPITORI E VIOLATORI DI CHIESE
CAPITOLO V - SEPOLTURA DA CONCEDERSI O NON AI GIUSTIZIATI SUL PATIBOLO
CAPITOLO V - SEPOLTURA DA NON CONCEDERSI A LADRI "FAMOSI" PUNTI COLL'ESTREMO SUPPLIZIO
CAPITOLO V - SEPOLTURA DI BRIGANTI E RAPINATORI
CAPITOLO V - SEPOLTURA DA NON CONCEDERSI A QUANTI SIANO STATI SOGGETTI AL RITO BLASFEMO DELL'INCINERAZIONE
CAPITOLO V - SEPOLTURA DEI PARRICIDI (ASSASSINI DEI GENITORI, MADRE O PADRE)
CAPITOLO V - SEPOLTURA DA NON CONCEDERSI A QUANTI NON ABBIANO PAGATO LE DECIME ALLA CHIESA
CAPITOLO V - SEPOLTURA DA NON CONCEDERSI AI COLPITI DA "INTERDETTO ECCLESIASTICO"
CAPITOLO V - SEPOLTURA DA NON CONCEDERSI AD EPISCOPI REI DI FURTI E LADROCINI
CAPITOLO V - ECCEZIONI VARIE NEL CASO DI SEPOLTURA CRISTIANA CONCESSA A PERSONE IMMERITEVOLI
CAPITOLO V - ISPEZIONE E RICOGNIZIONE DI UN CADAVERE DOPO LA TUMULAZIONE (AUTORIZZAZIONI NECESSARIE)
CAPITOLO V - CHE SI APPONGA COMUNQUE UNA CROCE AD INDICARE LA SEPOLTURA DI UN CRISTIANO, PER NECESSITA' OD ALTRO AVVENUTA OLTRE LO SPAZIO DEPUTATO DEL CIMITERO
CAPITOLO VI - INTERDIZIONE DELLA SEPOLTURA CRISTIANA DI UN DEBITORE SU PETIZIONE DEI CREDITORI
CAPITOLO VII - TECNICHE DI SEPOLTURA DEGLI ANTICHI ROMANI
CAPITOLO VIII QUANTI VENDONO LAPIDI ED ISCRIZIONI DI DEFUNTI COMMETTONO IL CRIMINE DI VIOLAZIONE DI UN SEPOLCRO, SEMPRE CHE NON SI TRATTI DELLA TOMBA DI UN NEMICO
CAPITOLO IX - RESTITUZIONE DI COSE A SUO TEMPO SOTTRATTE AD ALTRI DALLA PERSONA SEPOLTA (CASI VARI)
CAPITOLO X - LA POMPA FUNEBRE (CASI VARI)
CAPITOLO XI - CAPPELLA -CAPPELLE: COSA SIANO, LORO AMMINISTRAZIONE E CURA
In orima istanza ritenni giusto parlare delle sepolture o pratiche di inumazione, infatti gli slanci di umana afflizione e la misericordia che promana da ogni essere razionale spingono tutti gli uomini a seppellire i cadaveri dei morti e ad attrezzare il loro corredo funebre: del resto non esiste alcuna gente tanto incivile o primitiva che non provveda a dar riposo ai cadaveri, visto anche che la sepoltura è un diritto di natura [glossa bibliografica].
Rispondo che la sepoltura è un luogo vuoto o concavo, che si voglia dire [glossa bibliografica] sito in un cimitero ecclesiastico e dove può riposare il corpo di un defunto già appartenente all'ecumene cattolica [glossa bibliografica].
Tale espediente è necessario per diverse motivazioni.
In prima istanza per il fatto che, essendo tal luogo consacrato, i corpi dei morti non possono essere perseguiti dagli spiriti immondi, come invece accade in altri luoghi non benedetti [glossa bibliografica].
In secondo luogo nel contesto di un cimitero i corpi dei defunti risultano affidati alla santa custodia di quei Santi cui è dedicata la chiesa e ciò in conformità in quanto menzionato dalla precedente glossa.
La terza ragione ciò accade per il motivo che la Chiesa Trionfante prega specialmente per quanti sono sepolti in un luogo sacro.
Il quarto motivo è che quanti in tal luogo son tenuti a servire messe più frequentemente e in modo peculiare sono obbligati a pregare per quelli che vi sono inumati [glossa bibliografica].
Questo specifico rispetto per la sepoltura dipende dal fatto che essa non è sacra di per sè ma per il luogo in cui essa si trova, cioè il cimitero, e contemporaneamente per il rispetto che si deve al sacro Officio del sacerdote celebrante [glossa bibliografica].
I corpi dei nostri antichi, dopo la morte, erano mediamente sepolti dentro le stesse case di abitazione ma poi, a causa del fetore generato dai corpi in decomposizione, si stabilì che essi dovessero venir inumati fuori città [glossa bibliografica] sancendosi opportunatamente che si dovesse provvedere a sistemare i corpi in sepolture in luoghi consacrati delle varie città, pur differenziati secondo le possibilità e lo stato socio-economico dei defunti [glossa bibliografica] sì che il termine sepoltura può possedere varie accezioni purché sia tenuto l'Offizio necessario per quanti devono essere posti nei sepolcri.
Per sepoltura si può di conseguenza intendere il stessa nuda terra che che modestamente ricopre un defunto quanto una tomba ornata di marmi o di pietre [glossa bibliografica].
Più correttamente si dice terra pura quella che risulta predisposta per le inumazioni; al contrario una sepoltura si nomina tomba marmorea o di pietra come suggerisce il dottissimo Giovanni di Turrecremata [glossa bibliografica].
Una cosa non è però fattibile, che qualcuno venga sepolto presso l'altare della chiesa cimiteriale o comunque sotto il gradino superiore dell'altare stesso come ha stabilito la Sagra Congregazione preposta alle cause dei Vescovi e dei Regolari il 13 ettembre 1593, l'8 febbraio 1594 ed ancora il 2 maggio 1601.
Nel caso si scopra che che presso un determinato altare si sia anticamente proceduto ad una qualche sepoltura nessun sacerdote potrà celebrare presso tale altare fino a quando i corpi non siano stati altrove traslati come la medesima Sacra Congregazione ha sancito in occasione dell'adunanza tenuta a Trani il 10 novembre 1599 e di cui ci ha lascitao la relazione Augusto Barbosa nel suo tractato de officio & potestate Parochi, cap. 26, num. 10.
La risposta è che sostanzialmente può essere scissa in due maniere: risultare cioè comune o propria.
La comune riguarda tutti quanti la scelgono oppure tutti quanti muoiono nella giurisdizizione della loro Parrocchia una volta fatta la scelta del luogo e del modo di inumazione [glossa bibliografica].
Ciò accade per due fondamentali ragioni giuridiche.
In primo luogo perché essendo vivi essi pagarono le decime.
In seconda istanza per la ragione che chiunque, trasferendosi di provincia in provincia, alla fine risulta emancipato dalla giurisdizione primaria per risultare soggetto a colui sotto la cui amministrazione prese ultima residenza.
Essi pertanto risultano sottoposti per lo spirituale alla seconda (ultima) giurisdizione ecclesiastica e presso di essa hanno il diritto di venire sepolti [glossa bibliografica].
Altra forma di sepoltura comunitaria si verifica poi nei casi speciali di qualche Università, intendendosi col termine Comunità di persone, che, per qualche speciale privilegio, hanno il diritto diritto di essere inumati comunitariamente come gli adereni alla Società dei Notai o a quella dei Macellai come avviene nel caso molto famoso di S. Petronio di Bologna: sempre che il singolo soggetto non abbia scelto diversamente.
Parlando invece di sepoltura propria ci si riferisce ad una forma di inumazione che avviene per gruppo di famiglia, su base ereditaria...può anche essere definita sepoltura particolare quella che uno sceglie esclusivamente per se stesso.
Esiste una differenza tra la sepoltura di famiglia e quella di tipo ereditario.
Essa consiste nel fatto che nel caso di un sepolcreto di famiglia vi possono essere tumulati solo i congiunti consanguinei o al massimo quanti sono stati assimilati per sopraggiunti vincoli di parentela nel gruppo di famiglia ma giammai vi possono venir inumati dei morti estranei al gruppo famigliare.
Trattandosi altresì di un sepolcreto su base ereditaria vi potranno essere inumati anche dei defunti non consanguinei nè essa può spettare ad uno solo per un'eventuale divisione dei beni.
La SEPOLTURA è costituita da un luogo concavo realizzato in un cimitero ecclesiastico alla maniera che si è precedentemente detto [glossa].
Il SEPOLCRO invece è il sito ove sono deposti il corpo e/o le ossa di un uomo [glossa] ed ha la caratteristica di un ospizio perenne dove cioè i resti terreni del defunto debbono custodirsi sin al giorno del Giudizio finale al modo che ha annotato ilReverendissimus Odofredus Eminentissimi atque Reverendissimi Archiepiscopi Bonon. Vicarius in suo responso de sedulibus in Ecclesia retentis, n. 48.
Inoltre, sebbene il diritto di sepolcro sia una grazia particolare, v'è da precisare che una volta che esso sia concesso risulta trasmissibile agli eredi del defunto e non può esser revocato né per intervento di Rettori né per volontà di Vescovi ut post Canonistas in capitulo penultimo ext. de sepult. dixit Giovag. cons. 8, n. 21, lib.2: di modo che non soltanto il luogodeputato alla sepoltura assume valenza religiosa ma con esso anche il corpo che vi risulta inumato.
E' noto che può verificarsi il caso che un corpo, evidentemente smembrato per varie ragioni, può risultare sepolto in luoghi diversi: ebbene, in tale circostanza, non si hanno più sepolcri cioè più luoghi religiosi ma uno solo e questo sarà il sito in cui si custodirà il capo del defunto ed ancora se, malauguratamente lo stesso capo dovesse risultare scisso in più parti, sarà da attribuire valenza santa e religiosa a quel luogo particolare in cui risulterà custodita la porzione più significativa della testa del defunto. Se poi si riscontra che non esiste una parte predominante nessuna di esse ha valenza religiosa come sostiene Marco Mantua in Singul. 409 nu. 1 Rimin. Iun. conf. 780, nu. 81, lib. 7.
Tutte queste valutazioni non derivano dal diritto Canonico ma altra letteratura di materia religiosa [glossa bibliografica ed in particolare Matheus Mathesilanus] ha sostenuto che il sepolcro si distinque soprattutto dalla sepoltura per la ragione che esso può anche esser realizzato fuori di un cimitero [Host. in eius summa in tit. de sepulturis, in § quid sit sepultura nu. 1].
Si è poi anche affermato che che il termine "sepolcro" viene utilizzato per indicare il significato "senza polso" nel senso cioè che in esso sono inumati tutti coloro che non hanno all'auscultazione più alcun battito del cuore [Florian de S. Petro in l. vel quod pater familiae § si adhuc nu. 1 ff. de relig. & sumpt. fun.].
Per MONUMENTO si intende quel tipo di edificio funebre che è stato edificato allo scopo di conservare ai posteri la memoria di un estinto: da alcuni invece si intende che il significato del termine sia da collegare all'intento di "munire" cioè di fortificare e difendere la tomba contro le devastazione al modo che sostiene rebuff. in l. cum in testamento, ff. de verborum signif..
I nostri antichi, ma l'usanza è tuttora continuata, erano soliti onorare i cadaveri inumandoli in splendidi edifici.
Tali consuetudini si riscontrano particolarmente a Roma come rammenta Asin. in d. l. 2 in § monumentum.
Ogni monumento viene realizzato per ricordare attraverso i secoli la persona estinta e non perché in esso siano deposti e custoditi dei cadaveri: e questo lo sostengono S. Agostino nel De Civitate Dei lib.I ed anche Giovanni de Turrecreamata nu. 4 & alii in capitulis cum gravia 13 quaest. 2, Medices d. q. 3, nu.4.
Quando un antico Imperatore veniva eletto gli venivano subito presentate le lapidi marmoree sì da poterne scegliere la preferita per il suo sepolcro e subito essa veniva sistemata in memoria della morte e per tal ragione era detta monumento [Alberic. in l. quidam, ff. de condit. instit. Boer. decis. 297, nu.4: inoltre qualora in un un monumento venga introdotto il corpo di un defunto ed il monumento non risulta più grande di un sepolcro, esso assume di conseguenza il titolo di sepolcro mentre conserva quello di monumento per tutto il periodo di tempo che in esso non vi sia inumato alcuno e di questo si legge nei Santi Vangeli sia ex Ioan. cap. 19 dove è scritto V'era nell'orto un monumento nuovo, in cui ancora nessuno era stato deposto sia ex Mattheo cap. 26 E depose quello in un Monumento nuovo.
Giovanni Sicardi in Rub. C. de religios. & sumpt. funerum num. 5 sostiene in conclusione che il sepolcro differisce dal monumento come la specie si differenzia dal genere.
Lo si definisce deputato alle inumazioni ecclesiastiche in quanto ha ricevuto la benedizione di un Vescovo e non lo si può definire tale prima che sia avvenuta tale benedizione: perchè sia cimitero non è comunque obbligato ad ospitare una chiesa come si legge in alcuni autori come medices d. quaest. 3, nu. 5.
Più chiaramente ancora a parere di Dominiscus de Sancto Hieminiano in cap. unico de consecrat. Eccles. vel altaris, nu. 5 il CIMITERO prende nome dal termine CIMIS che in lingua greca è interpretato quale dolce luogo di riposo delle anime o più pertinentemente dei corpi dal momento che lì i corpi si trasformano in cenere.
Si ipotizza anche che il termine possa derivare da Cimone che equivale a "dormo, riposo" visto che in siffatto luogo i corpi sono affidati all'eterno riposo.
Ancor più qualcuno ipotizza che Cemen sia in greco da correlare a al concetto di terra aurifera visto che quella dei cimiteri è terra, prossima all'oro in quanto per i defunti più preziosa di qualsiasi altra cosa (e su ciò si esprime la glos. in cap. sacris, in verbo in coemiterio, extra de spulturis) e detiene il medesimo principio di immunità che spetta ad ogni chiesa e di questo si legge in vari autori: cap. si quis contumax & cap. quisquis inventus & ibi glos. 17, q.4, cap. consuluisti, extra de consecratione Ecclesiae vel Altaris & probat titulus extra de Immunitat. Ecclesiarum coemiterij & rerum ad eas pertinentium & ibi DD. Lap. allegat. 12, nu. 4 vers. Idem de coemiterio, Alex. cons. 145 in fine, lib. 7, qui dixit exemptum nedum coemiterium, sed & hortum, arcam & totum mansum, iuxta ecclesiam Pisanella in summa in verbo in Coemiterium, in princ. & in verbo comunitas Ecclesiae, in vers. Utrum Coemiteria, Fumus in summa Armilla, in verbo coemiterium, in princ..
In sostanza tutti color che per evitare persecuzioni di qualsivoglia natura si rifugiano in un CIMITERO godono del medesimo tipo di immunità ecclesiastica [a giudizio non solo del Dulfi ma dei Canoni] di cui potrebbero fruire nel caso si fossero rifugiati in una chiesa: principio che peraltro è sancito da alex. d. cons. 145, lib. 7, num. 13.
Pertanto sebbene la Santa Chiesa, ex cap. sicut antiquitus, 17, q. 4, attribuisca ad una chiesa matrice un diritto di immunità per lo spazio di 40 passi ed alle altre chiese per 30 passi (che il passo è composto di cinque piedi e il piede ora di quindici ora di sedici dita) come afferma il Turrecremata non per nulla si può inibire al cimitero di godere dello stesso diritto di immunità.
Nel caso poi che il Cimitero sia prossimo alla chiesa una volta che questa sia stata profanata anche il cimitero ne subisce la medesima sorte: contrariamente qualora il cimitero sorga lontano dalla chiesa, ut in Armill. n.1, non avviene automaticamente che se il cimitero risulti oltraggiato la stessa sorte toccfi alla chiesa: secondo il d. cap. unico & ibi DD. de consecrat. Eccles. vel Altaris, lib. 6 non sembra giusto che quanto è meno degno abbia il vigore di infanfare ciò che è più degno, al modo che affermano Doctores atque Sunmmistae nei luoghi predetti e che nessuno sia lì swpolto prima che il luogo sia stato riconsacrato per via dell'aspersione con l'acqua benedetta: e leggiamo anche glos. in cap. consuluisti, extra de consecrat. Eccles. vel Altaris, Pisanella loco, quo supra, Silvester in verbo coemeterium nu.2.
Nell'evenienza poi che un muro divida due cimiteri contigui e vi sia in quel muro una porta di comunicazione, per la quale possa avvenire il reciproco accesso, come a Bologna accade in merito alla chiesa di San Giovanni battista del Mercato sia ben chiaro che non si tratta di un solo cimitero ma di due.
verificandosi che uno di questi risulti profanata e la stessa cosa non accada per l'altro, come prova il testo in detto capitolo unico e se ancora la profanazione si verifica nel mezzo esatto della porta di comunicazione risulterà profanato solo quel cimitero a ragione ed uso del quale saraà stata realizzata la parete divisoria e sarà stata aperta la porta come ancora riporta Io Andr. in detto capitolo unico.
Può comunque accadere che non sia possibile chiarire quale dei due abbia realmente patito la sconsacrazione, cosa di cui si legge ad opera di Silvestro nella Summa sotto la voce 'cimitero', numero 3 il quale autore afferma che le forme di profanazione sostanzialmente sono di quattro tipi: oltre che come sopra si è detto, quando cioè non si rispetti l'immunità ecclesiastica, una chiesa può essere profanata quando sia sporcata del sangue mestruale di una donna che non sia sposata (e di ciò detta la glos. in cap. Ecclesijs, dist. I de coscecrat. in verbo semine, in terzo luogo quando per violenza vi sia stato sparso del sangue ed ancora, in quarto luogo, allorgando nell'edificio sacro sia stato sepolto un miscredente od un profano (Armilla nu.4 & Pisanella in fine in verbo Coemierium).
Per quanto una chiesa non sia edificio parrocchiale può avere un suo cimitero in base alla tradizione locale o secondo una episcopale concessione e di ciò hanno scritto Archid. de sepulturis c. I, lib 6, Federic. de Senis, cons. 135, in fine.
Nel caso poi che in un cimitero sia stato sepolto uno scomunicato è lecito riesumarne il corpo a meno che le sue ossa ormai non siano mischiate con quelle di altri defunti non scomunicati a tal punto da rendere infattibile qualsiasi giusto discernimento: così è scritto nei cap. sacris; ext. de sepult. Goffr. eod. tit. in Summa, nu. 5, Silvester in d. § Coemeterium, num. 4.
Si ebbe anticamente l'abitudine di utilizzare al posto di un sepolcro un SARCOFAGO
L. funeris, ff. de relig. atque sumpt. fun. l. Libertis, § cibaria atque ibi glos. ff. de alim. atque cibaria leg.: è infatti il SARCOFAGO a detta di Plinio un genere particolare di pietra di vena fissile che ha la proprietà di consumare i corpi dei defunti in essa deposti nel giro di circa quaranta giorni fatta sola eccezione per i denti e si dice che di ciò abbia fatto memoria anche S. Agostino (lib. 18, cap. 5 de Civitate Dei: uno dei due termini della parola è infatti Caro e l'altro phagos che significa mangiare in lingua greca: infatti la carne dai vermi viene consumata in tale arco di tempo pressapoco.
Alberico nel suo Dizionario sotto la parola Sarcofago sostiene peraltro la medesima opinione, che cioè il termine derive dal meccanismo di consunzione della carne ad opera dei voraci vermi e per tale ragione con il tempo si assunse la consuetudine di inumare i defunti nei sarcofagi come nei sepolcri cimiteriali.
Sussiste su ciò ampia letteratura che corre dal De Civitate Dei di S. Agostino (libro 18, capitolo 5) laddove ha detto Si tratta più pertinentemente di un'Arca in cui si depongono i morti che tutti volgarmente definiscono SARCOFAGO e che dalla gente è spesso usato in luogo del sepolcro ecclesiastico: lo stesso riporta Asinio in l. funeris, ff. de relig. nu. 4 e quanto detto dal Medici nel suo trattato De sepulturis, questione 3, numero 6.
Si definisce poi CENOTAFIO un sepolcro che è vuoto, che cioè non custodisce alcun defunto come ancora il Medici al numero 7 della Questione appena citata ha affermato.
Il CENOTAFIO non è quindi altro che un semplice monumento come si legge in altre interpretazioni: approbat glos in l. vel quod in § si adhuc in verbo cenotaphium ff. de relig. & sum. funer. Boer. decis. 275, nu. 5.
Per DEPOSITO si intende invece una cassa posta in un luogo elevato in cui si conservano i corpi degli estinti.
A dire il vero i DEPOSITI furono vietati in funzione della Bolla papale di Pio V datata alle Calende di Aprile del 1566, al punto VI laddove si legge :Ed affinché nulla di indecente possa lasciarsi nelle chiese vedano i preposti, i rettori ed i parroci che tutte le CASSE ed i DEPOSITI o comunque tutte le altre forme con cui si conservano sopra la terra i resti dei defunti vengano rimossi ed in merito a tutto questo abbiamo noi sancito che i corpi dei defunti vengano inumati nella terra ad opportuna profondità e al proposito Angelo da Ferrara avverte in un suo opuscolo di non seppellire i morti neppure nell'Arca alla maniera che scrive il Medici in detto suo trattato sulle sepolture alla questione 5, segnata dal numero 4 ed alla questione 9, indicata dal numero 10.
Nonostante ciò tuttora a Bologna si possono vedere i DEPOSITI del glossatore Accursio II, di Rolandino Romanzio, di Rolandino Passagerio, di Egidio de Foscerario, tutti quanti illustri giureconsulti ed ancora i DEPOSITI di altri individui meno celebri o noti di costoro.
Qualche volta il sepolcro prendo anche il nome di POLYANDRION, talora di MAUSOLEO, in altre circostanze di DORMITORIO, TUMULO, ERGASTOLO, PIRAMIS, BUSTO, URNA, SPELONCA, ARCA LIBITINA, SANDAPILA ed infine di FERETRO.
Il POLYANDRON in pratica è un antro quasi funestato dalla gran quantità di corpi ivi inumati: Lavor., in tract. de prisco atque recenti funerandi more, tit. 2, cap.6, num.4.
Dal momento che si tratta però di un luogo dove, seppur in tempi lontani, sono stati sepolti i corpi di molti uomini alla fine il termine è quasi diventato un sinonimo di CIMITERO.
Il MAUSOLEO veramente prenderebbe nome da un tale personaggio [il pagano Mausolo] al quale la moglie fece erigere un sepolcro straordinario per bellezza e dimensioni. Il nome di MAUSOLEO è stato dato al primo di questi edifici dal nome del defunto, appunto Mausolo.
Per tale convenzione morte mausolea viene definita ogni morte caratterizzata da grandi apparati funebri e da una sepoltura particolarmente preziosa parimenti detta Mausoleo come afferma anche Lavor., ibi, nu. 12.
Il DORMITORIO, che prende nome dal verbo dormire, sarebbe il luogo in cui riposano in armonia col Signore i corpi dei Santi alla maniera di cui parla S. paolo al capitolo 4 della sua Lettera ai Tessalonicensi dove dice Non vogliamo che vi dimentichiate dei fratelli che dormono.
E' detto TUMULO il tipo di inumazione che ha relazione coi termini Tumen e soprattutto Tellus, cioè alla latine 'terra'.
Con siffatto termine si indica un particolare genere di sepoltura per cui il defunto giace sulla terra e su di esso è stata posta altra terra che risulta alquanto sollevata. Del TUMULO fa cenno Iob. cap. 10 scrivendo Dall'utero fu traslato al Tumulo.
ERGASTOLO è un termine combinato dall'utilizzazione del termine statio che deriva dalla forma verbale a stando. Si tratta di una forma di sepoltura propria di quanti sono morti fermi nel nome del Signore.
PYRAMIS è termine di origine greca che sta in luogo di PIRA nel senso che su di essa i corpi vengono dati alle fiamme e ridotti in cenere.
Il senso del nome è del tutto particolare: così come il fuoco prende alimento dal basso ed ascende verso luoghi sempre più aerei alla setssa stregua per PYRAMIS si intende una struttura a guisa di altissima sepoltura del tipo di quella che è a Roma e dove furono deposte le ceneri di Giulio Cesare.
Dopo la trasformazione e la corruzione del termine oggi quel luogo è detto Acus S. Petri che piuttosto anticamente si diceva Iulia: a riguardo delle Piramidi tratta in modo esauriente Lavor nello stesso luogo cui si è fatto prima cenno della sua opera ma la numero 9 [ovviamente l'autore fa alquanta confusione fra il concetto di 'Pira' quale 'Rogo funebre' e quei particolari monumenti di fattura medio-orientali che furono le Piramidi e di cui in Roma si trovavano dei surrogati di non poco rilievo: ad esempio la 'Piramide di Cestio'].
Per BUSTO, che ha correlazioni di significato con Busta, si allude invece al sito ove si conservano i resti dei corpi umani come se fossero stati pienamente ed efficacemente dati al fuoco purificatoro: e così si scrive in glos. in c. convenior in verbo Busto 23, quaest. 8, Boer. decisi. 287, nu.4.
Il termine URNA deriva dall'antica usanza di abbruciare i resti dei defunti e poi di deporne le ceneri entro dei vasi di terra.
Per SPELONCA si intende una forma peculiare di sepolcreto in base alla quale si hanno due ricettacoli e precisamente uno destinato ad ospitare, di una coppia coniugale, lo sposo e l'altro la consorte: si legge qualcosa in merito in ca. Ebron 13, q. 2 e sostanzialmente l'identico concetto viene ribadito da Flor. de S. Petro in libro vel quodo § adhuc eod. titulum ff. de relig. & sumpt. funeris num. 1.
Il termine ARCA corrisponde in pratica a quello prima discusso di Monumento come viene registrato in l. is qui intulit ff. eodem: anche se oggidì l'appellativo di ARCA nel caso della città di Bologna vien piuttosto dato a quel luogo in cui si seppelliscono comunitariamente i cadaveri.
La LIBITINA è invece un sepolcro nobile o per maggior precisione è il sepolcro tipico degli infanti. LIBITINA è peraltro un termine classico che si adatta a quei locali in cui si procedeva all'allestimento e alla vendita di tutto quanto aveva a che fare con le pompe funebri: ciò lo si apprende grazie all'antico Plutarco nei luoghi che riferisce Lavor. in dicto tract. de prisco atque recenti funerandi more tit. 2, cap. 1, nu. 37 laddove si legge che Libitina era ritenuta dagli antichi romani la dea Venere che a Roma ebbe un suo tempio vicino all'edificio nel quale si vendevano gli apparati funerari così che, in chiave cristiana, gli uomini che si concedono alle libidini terrene ed ai piaceri abbiano sempre a rammentarsi donde derivi tal nome e che il loro comune destino è quello di morire dopo la vita, per quanto lunga essa sia.
Col termine SANDAPILA ci si riferisce invece al sepolcro che si usa per l'inumazione dei lattanti o meglio di quelli che defunsero non avendo ancora completato il decimo giorno di vita al modo che ce ne ha lasciato memoria Boer. dicta decis. 287, num. 6.
In ultimo luogo il nome di FERETRO vien comunemente dato al sepolcro dei plebei e della gente di modesta condizione stando ancora alle notizie tramandate da Boer. d. decis. 287 nu. 4 & seq. Medices d. q. 3, nu.9.
La loro consuetudine religiosa li indusse poi a riprodurre le effigi dei defunti, divenuti Lari, ed a custodirli in un luogo della casa di abitazione che prendeva il nome di Larario: in questo tenevano inoltre le immagini degli Dei Penati e degli uomini insigni che erano consueti venerare.
Proprio per siffatta tradizione l'Imperatore Settimio Severo prese a venerare nei templi le immagini di Cristo, di Abramo, di Orfeo e di apollonio come se si trattasse di divinità, consuetudine che ai giorni nostri si è perpetuata tra le popolazioni barbare come ci ha lasciato scritto, prendendo spunto anche dall'autorità del divino martire Pietro, nel Comendio delle delle Indie Occidentali l'autore Io. Bapt. Asinius in l.2, § in locum alterius, nu.1 & pluribus seq. ff. de relig. & sumpt. funer.. Asinio racconta al proposito che vige la consuetudine di deporre le le ceneri dei loro Re e Signori in vasi di terracotta od in altri vasi ancora decorati con la rappresentazione dei templi più antichi e che hanno anche altre maniere di custodire le ceneri.
Continuando questo discorso Asinio (numero 23 del suo lavoro) si rifà a quanto accadeva nell'Urbe, ai tempi di Roma imperiale, dicendo che nella grande città non si poteva seppellire alcuno se non coloro che si erano segnalati per qualche eccezionale ragione.
Per tale ragione si racconta che l'imperatore adriano avesse fissato una pesante ammenda di quaranta aurei contro coloro che si fossero fatti seppellire entro il recinto dell'Urbe: a tale proposito si può consultare ex Crinito lib. I, cap. 12 dixit Ioannes Ravisius Textor in eius officina, in tit. de vario inhumanandi more, in vers. Antiquitus, fol.229.
Platone consigliò invece di seppellire i morti in un campo sterile ed inutile sì che i cadaveri in disfazimento non potessero nuocere ai viventi: in base almeno a quanto riferisce mantua in suo Gymnasio Scholastico, in verbo Sepulcrum laddove riferisce delle costumanze di inumazione degli antichi.
E l'antico costume funerario fu, per lungo tempo anche, che una volta che l'anima fosse spirata ed avesse lasciato il corpo, l'inerme cadavere sollevato dal letto di morte venisse sistemato sul davanti o presso la porta stessa dei templi: alla stregua anche di ciò che insegna Giusto Lipsio nel lib. primo electorum cap. 6, il quale adduce varie prove di tutto ciò.
Gli antichi inoltre, nel luogo del sepolcro, avevano l'abitudine di sistemare accanto al cadavere molti oggetti, anche di valore, come dimostra Joseph, cap. 16 de antiquitate Iudaica: a proposito dei sepolcri David fece queste parole. Sepelivit enim filius eius Salomon in Hierosolymis decenter nimis atque aliss rebus, quae solent circa Exequias Regis ministrari atque multa divitias cum eo recondit.
All'incirca dopo milletrecento anni Hyrcanus Pontifex, mentre la città di Gerusalemme era assediata dal re Antioco figlio di Demetrio che fu poi denominato Pio, volendo dare del denaro perché si ritirasse da quell'assedio, non avendo i mezzi per pagare l'accettato riscatto, fece aprire il sepolcro del re David e, tolti all'incirca tremila talenti, ne diede parte ad Antioco sì da rimuovere l'angosciosa vicenda dell'assedio.
Molto tempo dopo che si verificarono queste vicende il re Erode, facendo aprire quel sepolcro, ne trasse altri denari: argomento di cui parla lo stesso Lavorius nel De prisco atque recenti funerandi more, cap. I, nu. 85.
Una simile consuetudine caratterizzava anche gli Albani stando almeno a quanto narra Strabone nel suo XI libro: lo stesso disse poi Asinius in d. l. 2 d. § si in locum alterium atque in § praetor ait, nu. 63, ff. de religios. atque sumpti. funer..
Asinio in siffatta parte del suo lavoro narra molte cose in merito al rispetto dei defunti e alla loro cremazione da parte degli antichi: ancora più attentamente ne scrive Lavorio nel suo menzionato Trattato sull'uso antico e recente di procedere nel culto funebre (tit. 2 cap. 4 nu. 53 ad finem).
In base alle norme del loro diritto gli antichi non avevano facoltà di seppellire i defunti entro le città, i castelli o i vici in quanto non si voleva che la putrefazione dei corpi corrompesse l'aria ma anche perché non si intendeva correre il rischio che, nell'evenienza di una guerra, i cittadini atti a portare le armi ed impegnati a respingere gli eventuali nemici invasori non finissero per devastare le sepolture dei padri e degli avi.
Inoltre a parere di Cicerone, per rendere sicure le città dagli incendi, mentre i corpi dei defunti venivano dati alle fiamme del rogo incineritore, si prese la consuetudine di procedere a siffatte pratiche funebri in territorio esterno alle città ed ai villaggi: di questo si legge in Thom. de Castilione, de funeribus antiq., in tab. 7.
Chi contravveniva a tale imperativo di legge veniva punito con l'ammenda di quaranta aurei: l. tertia, § Divus Adrianus, ff. de sepulchro violato, Baptista de S. Blasio in tract. de actione atque eius natura in actione 116.
Queste consuetudini degli antichi non caddero in disuso e proprio in base al loro insegnamento fu stabilito che venisse preparato un luogo separato e sacro e adibito ad accogliere i resti mortali dei defunti.
Nel caso della chiesa principale l'area, per sanzione degli antichi Santi Padri, doveva essere di quaranta passi mentre nelle chiese minori come nelle Cappelle di trenta soltanto (cap. sicut antiquitus 17, quaest. 4): a siffatto luogo fu conferito il nome di CIMITERO.
Tale principio non deve valere tuttavia per quelle donne che sono defunte trovandosi in stato di puerperio.
Nel caso che muoia una di queste se ne deve vegliare il corpo per un periodo maggiore, di almeno 40 ore: l'esperienza ha infatti dimostrato che, per qualche grave e inspiegabile mancamento, alcune di loro furono ritenute ormai prive di vita mentre in seguito rinvennero del tutto: Lavor., ibi, cap I, nu. 214 riporta addirittura l'evento di alcune donne che furono erroneamente ritenute morte, prima di rinvenire, per 7 giorni ed ancora il caso di diciassette fanciulli greci ritornati alla vita da uno stato di catalessi mentre se ne allestivano già le esequie.
E per quanto una chiesa non consacrata goda degli stessi privilegi di una chiesa consacrata (cap. fi, ext. de consecrat. Eccles. vel Altaris, cap. penult. extra de immunitate Eccles.) bisogna tuttavia essere ben consapevoli di agire in tale evenienza sulla base di casi ben circostanziati come si dimostra affernmando che non si può ricorrere a tale espediente nell'eventualità di dover ricorrere all'inumazione in luogo assolutamente consacrato: così scrive Card. in Clem.4 & 5 de sepulturis che, pur adducendo questo argomento e che cioè una chiesa non consacrata si avvale dello stesso previlegio di una consacrata, conclude il suo ragionamento affermando che comunque la chiesa non consacrata non costituisce luogo idoneo di sepoltura cristiana se non vi sorga accanto un cimitero deputato alle inumazioni con la dovuta solennità e previa benedizione, poiché senza quest'ultima l'eventuale campo non può definirsi cimitero.
Per quanto una persona possa scegliere il luogo onde venir sepolto in base a cap. primo de sepulturis atque cap. licet eodem tit. in 6 a nessuno tuttavia resta concesso optare per una inumazione in un luogo privato sulla base del cap. fraternitatis & ibi Abbas in 3. notab. eodem. tit..
Per quanto in base al diritto civile un luogo possa venir deputato religioso dal fatto che vi sia stato cristianamente sepolto un estinto (L. 2 C. de relig. & sumpt. funerum, l. in tantum, & sacrae, ff. de rerum divisiones lo stesso principio non vale per il diritto canonico atteso che un determinato luogo, per essere deputato a cristiana sepoltura, deve godere della sanzione del Vescovo (Mathesil. sing. 75, nu.1), principio peraltro seguito a Bologna in occasione della Peste del 1630 su mandato dell'Eminentissimo Cardinale Ludovisi al tempo meritevolissimo e vigilantissimo Archiepiscopo di Bologna glos est in cap. in Ecclesiast. 13 q.2 Innoc. atque alii in d. cap. abolendae, de supult. Ant. de Butrio, atque Abb. in cap. ad haec ext. de relig. domibus, Aret. in § religiosum, de rerum divisione, Imola in l. quid ergo, l. 1 § si haeres in fine, ff. de leg. 1.
Questa eccezione assume vigore non soltanto per i frati mendicanti ma anche per le monache: ed infatti sebbene le donne non possano predicare od insegnare pubblicamente, né abbiano facoltà di ascoltare le confessioni come di toccare i sacri vasi e di spandere l'incenso attorno agli altari od ancora di ordinare alcuno né da alcuno esser ordinate agli ordini ecclesiastici (cap. mulier atque cap. sacratas 23. distinct. cap. 9 de poenit. atque remiss. cap. mulierem quaest.) tuttavia non si trova in alcun canone che ad esse possa venire negato di condurre a sepoltura i corpi dei fedeli defunti nelle loro chiese ed anzi sembra doversi permettere che presso di loro ciunque possa venir sepolto stando al cap. ubicumque ibi vel santimonialium religiosa Congregatio 13 quaest. 2.
E tutto questo trova conforto dal fatto che null'altro vi possonono inumare, in un luogo concavo, che non sia un cadavere umano che l' possa trovar quiete secondo la definizione cella quale ho fatta citazione nel capitolo I al principio.
Questo rito funebre naturalmente può essere eseguito tanto da una donna che da un uomo poiché in tale ritualità non si deve operare in base alle doti di riflessioni ed intelligenza, che notoriamente sono superiori negli individui di sesso maschile, né si deve agire con quella peculiare solennità e con quella forma di cerimonia che comportano piuttosto uno stato di deferenza della femmina all'uomo; pertanto, venendo meno questi presupposti, le donne si debbono porre sullo stesso piano del maschio: è peraltro da far notare che, in relazione alle cose che riguardano i riti funebri, le femmine possono esercitare il servizio di inumazione col soccorso di altri e in merito a ciò constatiamo che, per quanto la cura delle anime non possa competere alle donne, nell'occasione di un funerale, trattandosi di un esercizio fisico lo stesso diritto di cura può competere ad un Monastero di Monache a condizione che a siffatto esercizio concorra un uomo che detenga lecitamente quella potestà di cura delle anime (Natt. cons. 432 nu. 9 atque post sacram Rotam tenuit Felyn in cap. dilecta, extra de maioritate atque obedient. nu. 4 atque in cap. cum venerabilis. de except. quem ibi allegat Natta num. 11).
Ai giorni odierni vige peraltro la costumanza che qualcuno si faccia seppellire anche in una chiesa non consacrata della quale dopo Antoninum in summa attestatur Sylvester in Summa in verbo sepultura, nu. primo in fine atque melius idem Natta d. cons. 432, nu. 12).
Lo stesso Natta, nel luogo citato, precisa per di più che di diritto uno può esser inumato in un cimitero non consacrato a patto però che questo sia stato benedetto (c. nemo, de consecrat., distinct. prima): tale cimitero di conseguenza non lo si può definire consacrato, se non in modo ampio e generico come afferma Abb. in d. c. abolendae, dove anche, il medesimo interprete, lascia trapelare che per siffatta motivazione il cimitero soltanto benedetto risulta meno degno della chiesa (cap. 1 de consecrat. Eccles. vel Altar. in 6 atque sequuntur praedicti Felyn atque Modern. in cap. I de iudicijs).
Qualcuno può anche deliberare che la sua sepoltura avvenga, purché su livenza del Curato o del Vescovo, fuori della giurisdizione della sua Parrocchia di appartenenza; cosa sulla quale esiste una vasta letteratura: Calvas in Summa, in verbo sepultura, nu.4 versic., Sed ego teneo Io. Andr. in cap.1 nu. 3 de sepulturis in 6; nel caso poi che si tratti di un minore soggetto a patria potestà il tutto deve avvenire su decisione del genitore come si legge in cap. licet. § 1 de sepulturis, lib. 6 atque ibi avertit Dominicus de S. Geminiano num. 2 atque Anchar. nu.1.
Altri autori fondano invece le loro considerazioni sul fatto che il diritto di sepoltura è mutevole, connesso alla volontà di colui della cui sepoltura si affronta il problema e poiché il figliolo non è soggetto alla potesà paterna per ciò che concerne la scelta della sepoltura e neppure in merito ad altre cose di ordine spirituale (vedi Bertach. de Episc. § videmus, nu.28. Idem Dominic. in d. cap. licet num.1 e a maggior ragione se si tratta di un figlio già emancipato (Asin. in l. familiaria, nu. 43, ff. de reliq. atque sumpt. funer., Medices in d. tract. de sepulturis, quaest 2, nu. 19, Cravet. cons. 10) e qualora non sia stata testimoniata una qualche personale scelta di sepoltura questa deve avvenire nella Parrocchia in cui sono inumati i suoi antenati (Rota decis. 187, parte 2, nu. 2, in noviss. Barbos. in tract. de offic. atque potest. Paroch. cap.26, num. 32 atque 33.
Se poi il defunto non ha un luogo di famiglia deve essere inumato nel cimitero della chiesa parrocchiale come apertamente sancisce la glos. in cap. 1 de sepulturis, in sexto.
Può accadere che, sforzandosi negli spasimi della morte, qualcuno riuscisse a comunicare ad un altro il compito di scegliere per la sua sepoltura: qualora però il moribondo spirasse prima che la persona cui avesse conferito l'incarico potesse fare una scelta e decidere sul luogo dell'inumazione, la persona incaricata non avrebbe più alcuna facoltà di scegliere atteso il principio che per la morte di chi ha conferito un incarico di scelta, vien meno anche la stessa facoltà di eleggere una particolare sepoltura piuttosto di un'altra.
E' infatti una cosa ben precisa affidare il compito di scegliere il luogo della sepoltura e ben altra cosa è il scegliere come sostengono quasi tutti i testi: le ragioni profonde le dimostrò Lapus in cap.13 qui num. 5 eod. tit. de sepult. in sexto quando scrisse che uno che si trovi in siffatta situazione può essere sepolto solo nella chiesa parrocchiale od in quella cui appartenevano i suoi antenati.
Questi antenati si classificano partendo dal Padre e dal Nonno come è sostenuto nel Cap. Ebron 13, quaest. 2, cap. primo de sepultur.): non sono da computarsi per primi come maggiori del defunto i Proavi e gli attavi secondo quanto ha annotato Domin. de S. Geminian. in vero dopo una lunga serie di valutazioni in d. c. is qui nu. 10 de sepulturis lib. 6 de veriori attestatur Angel. Calvas. in dicto verbo de sepultura, num. 15 atque dixit Oldrad cons. 25, num.2).
Del resto si è affermato giustamente che se si dovesse investigare fra tutti gli antenati di un qualsiasi defunto si dovrebbe risalire a scandagliare l'intero agro Damasceno, dove fu creato Adamo (Sperellus decis. 88, nu. 7 il quale aggiunge anche quod melius dixisset se expressisset quaerendum montem Calvarium, ubi Adam sepultus fuit).
Tuttavia Io. Andr. in cap. 1, cod. lib.6, num.4 & in cap. in nostra nu. 18 ext. de sepultur. riferisce che siffatta questione si pose a Siena in merito alla persona persona di un Magnifico Soldato forestiero, forse Giovanni Assonio degli Ubaldi Capitano Generale delle Armi del Signor Conte, esempio di virtù nella guerra dei Fiorentini, che morì nella giurisdizione della Parrocchia di San cristoforo e fu poi sepolto nella chiesa cattedrale ed i cui funerali furono magnifici ed estremamente costosi. Il narratore di questi eventi aggiunge che detta Parrocchia non aveva ricevuto in pagamento dei suoi diritti sulle onoranze funebri se non la quarta parte di quanto dovuto per il fatto che il defunto, nel territorio di sua pertinenza, aveva sì preso in affitto una casa ma senza abitarvi e per il fatto che era Capitano Generale delle Armi come sopra si è detto.
Nondimeno prevalse l'opinione dell'Arcidiacono e degli altri, come dimostrano Domenico di S. Gemignano nel capitolo primo De sepulturis in 5, n.4, Silvester in verbo sepultura nu.8 vers. Secundum, Peregrini atque advenae: tuttavia Sylvester assieme ad antonio fa in merito questa precisazione: 'qualora il pellegrino sia un religioso deve essere seppellito in un Monastero del suo Ordine, nel caso invece si tratti di un laico se risiedette per un po' di tempo sotto la giurisdizione della Parrocchia ove morì o vi giunse con l'intenzione di fermarsi per un certo tempo sarà inumato nel territorio di pertinenza di detta parrocchiale nello stato di suo secolare, accdendo invece che l'estinto non soggiornò nel luogo né espresso l'intenzione di soggiornarvi sarà sepolto nella chiesa cattedrale a meno che non abbia preso i Sacramenti da un Sacerdote della parrocchia medesima.
Silvester, tenuto conto di tali distinzioni e rimossene altre, approva tuttavia che ci si attenga alle consuetudini del luogo mentre Anchar in d. cap. in nostra disse che i dubbi in merito, su cioè come agire, sono considerevoli e a prova di essi allega Feder. de Senis che afferma i diritti della Parrocchia nel consiglio 214 al numero 7.
Mediamente si provvederà quindi alla sua inumazione nella chiesa cattedrale dove risiederà il Papa, e presso cui abbia eretto il proprio domicilio nel caso che assista con costanza il Pontefice nell'attività conciliare: così si legge in cap. fundamenta, § decet, de elect. 6.
Qualora invece un Cardinale dovesse abbandonare la Curia pontificia per una sua qualche malattia, a causa di un'epidemia di peste o per qualche calamità naturale e/o metereologica, il suo corpo dovrà essere traslato sin alla Curia e quindi sepolto nella chiesa in cui avrebbe dovuto venir tumulato nell'evenienza che si fosse del tutto staccato dalla Curia Romana.
Nel caso della città di Bologna però io stesso ebbi occasione di vedere che il Reverendissimo Domino Zanotti, Vicelegato all'epoca dell' Eminentissimo Domino Cardinale di Monte Alto ed a quel tempo operante per quest'ultimo a Bologna, venire tumulato nella famosa chiesa di San Petronio nella quale è solito che i Paontefici che si recano a Bologna ed i loro Legati, nei giorni stabiliti, svolgano tutte le funzioni ecclesiastiche ed ascoltino i divini Uffici.
I Lotofagi per esempio erano usi gettare in mare i loro defunti ritenendo che non avesse grande importanza il fatto che i corpi fossero disfatti dall'acqua o dal fuoco.
Gli Albani un tempo remoto ritenevano nefasto praticare i riti funebri.
I Sabei conservavano i corpi dei morti in mezzo ai liquami e quelli dei re li gettavano nelle latrine.
I Trogloditi legavano invece i corpi dei morti sì che la testa fosse congiunta ai piedi e li trascinavano via fra lazzi, risa e giochi fin a seppellirli casualmente senze giustificare in alcun modo il luogo dell'inumazione.
Gli Ircani non allevavano i cani ad altro scopo che a diforare quanti fossero usviti dalla vita.
Gli Ateniesi ebbero al contrario una cura estrema dei sepolcri e se qualche condottiero fosse stato negligente nell'onorare coi riti funebri i soldati caduti in guerra lo punivano con il supplizio estremo; grossomodo si comportarono allo stesso modo i Macedoni e presso gli Ebrei si ebbe cura di non lasciare insepolti nemmeno i corpi dei nemici.
Gli Egizi, che si rivelarono piuttosto modesti nell'architettura civile ad uso dei viventi, erano invece soliti edificare sepolcri superbi e a dir poco magnifici. Straordinario fu tra loro il caso delle piramidi destinate ad essere abitazioni sempiterne dei loro morti, in pratica vere e proprie sontuose abitazioni quasi destinate ad offrire rifugio per chi fosse destinato a soggiornare un poco prima di passare ad uno stadio più evoluto o comunque diverso dell'esistenza. Anche ora i medesimi egiziano curano i funerali in modo particolare e custodiscono in casa i propri morti.
I Persiani seppelliscono i loro morti dopo averli interamene cosparsi di cera poiché ritengono che in tal modo i cadaveri possano resistere più lungamente alla decomposizione.
I Sindi mettebano tanti pesci nei sepolcri dei morti secondo il numero dei nemici che questi avevano abbattuto; questo lo sappiamo sulla base dell'autorità di celio e di Cicerone grazie al lavoro di Io. Ravisius Testor in officina in tit. de vario inhumandi ritu fol. 227 dove si possono cogliere molte straordinarie notizie di vario genere e peraltro esistono, con altre ecezionali documentazioni, notizie di uomini che tornarono alla vita grazie all'opera del Cassaneo e precisamente il suo Cathalogus gloriae mundi in 2. parte, in 5. consideratione.
Da quest'ultima fonte apprendiamo la vicenda insolita di un tizio di Padova che aveva ordinato per testamento che una volta che fosse morto il suo corpo, senza lamentazioni ma piuttosto con manifestazioni di giubilo, fosse portato in chiesa: l'ordine suo non venne affatto rispettato e la persona fu ritenuta averlo dato in quanto folle (Gratian., novissime in discept. forens., cap. 298, nu. 6) e di conseguenza il Cassiano (in d. consideratione 5, in fine, cum Castren,) sancì pubblicamente che il testamento di quel cittadino di Padova, che pure era un dottore e che ordinò di fargli un funerale di lazzi e burle sino alla chiesa, era documento non degno di uomo ma di una bestia e quindi privo di valore.
Una motivazione di tali dispute risiede nel fatto che molto spesso i cadaveri non inumati di questi criminali rimangono allungo sospesi sui patiboli quale pubblico spettacolo e ammonimento dei cattivi: è peraltro noto che a chiunque venga somministrato il Sacramento della Penitenza debba essere concessa la sepoltura [glossa bibliografica].
Peraltro il Sacramento della Penitenza giammai si può negare ai condannati alla morte capitale nel caso che abbiano dato prove di vero pentimento anche se si sono resi colpevoli dei crimini più atroci [glossa bibliografica].
Lo stesso vale peraltro a proposito del Sacramento dell'Eucarestia secondo che viene approvato dai testi [glossa bibliografica] ed anche in tempo e condizione di interdetto ecclesiastico [glossa bibliografica].
In molti casi però, in base ad uso e costamanze, si è ottenuto di non somministrare, poco tempo prima dell'esecuzione, a quanti sono stati condannati a morte il Sacramento dell'Eucarestia così come neppure vien loro concesso il diritto di usufruire dell'Estrema Unzione sulla base della considerazione che quest'ultima si deve somministrare solamente a coloro che sono tormentati da estrema malattia del corpo, a causa della quale sono ritenuti in estremo pericolo di perdere la vita: e tutto ciò alla maniera che insegnano [diversi autori - glossa bibliografica].
Sulla base di siffati autori però se è vero, come risulta approvato dallo stesso diritto, che non si può negare a questi condannati a morte il Sacramento della Penitenza nè si può legittimamente negare la sepoltura, visto che queste due concessioni si danno contestualmente: ed anzi non può giustamente in alcun modo darsi la consuetudine di non concedere inumazione ecclesiastica ai giustiziati.
Addirittura si ritiene che i giudici che privino di questo beneficio i condannati a morte restino immuni dall'aver commesso un peccato [alla maniera che riportano altri autori ancora - glossa bibliografica].
Sulla base di altre interpretazioni [glossa bibliografica] nondimeno questi giusdicenti sarebbero in qualche modo da scusare e giustificare: nei testi di diritto criminale [glossa bibliografica] è peraltro spesso indicato che i cadaveri di Ladri tristemente famosi debbono essere uccisi su una forca eretta in quei luoghi dove perpretarono i loro crimini sì da costituire un esempiom e distogliere altre persone da commettere simili reati.
Peraltro l'interpretazione giuridica [glossa bibliografica] solitamente ritiene che non si debbano restituire ai congiunti i corpi dei giustiziati a morte: tale principio è altresì sanzionato da Cesare Augusto nel De vita sua al libro 10.
Non si negano però, in caso di richiesta esplicita, le ossa e le ceneri, in caso di rogo dei resti umani: è importante tuttavia che sussista il permesso dei giudici.
Infatti spesso per la gravità di determinati crimini è opportuno che i corpi in disfacimento di costoro rimangano esposti a guisa di ammonimento per quanto gli autori principali ritengono che non sia il caso di prolungare tale dimostrazione per un periodo di tempo superiore alla durata di un giorno [glossa bibliografica].
Si sostiene peraltro che anche quanti siano stati condannati all'esilio non possano essere condotti in quella città o stato donde furono cacciati da morti per esservi sepolti [ampia glossa bibliografica].
Si possono però, per una qualche benevola concessione del Principe offeso, riportare le ossa e /o le ceneri dell'esiliato nel luogo donde fu bandito, tenendo conto che le ossa e le ceneri non corrispondono all'essenza fisica del cadavere.
Altri interpreti però [glossa bibliografica] condannano questa opinione basandosi sul fatto che la pena permane inevitabilmente anche dopo la morte della persona esiliata [glossa bibliografica].
Per simile ragione si ritiene da alcuni di non doversi concedere sepoltura ecclesiastica ad alcun usuraio fino al momento che i suoi eredi non abbiano restituito quanto da lui maltolto, anche se l'usuraio in punto di morte li abbia obbligati a tale restituzione [glossa bibliografica].
Alla stessa maniera è colpevole un Monaco, se contrariamente al voto di povertà nel tempo della sua morte, di nascosto, abbia detenuto dei beni mondani: di conseguenza tale rligioso deve essere sepolto con le sue ricchezze in un letamaio [glossa bibliografica] a pubblica testimonianza del suo tradimento verso i voti alla maniera che ha scritto il Divo Gregorio nel I libro, dap. 55 dei Dialoghi.
Non si deve però privare allo stesso modo della cristiana sepoltura un religioso trovato morto ed in possesso di una borsa di denaro secondo che scrive il Barbosa [glossa bibliografica]; quest'ultimo autore afferma infatti cheche si può eccepire che quei denari non fossero suoi o che fossero lì accanto per qualche dimenticanza o negligenza. In effetti la maggior parte dei trattatisti concorda con tale opinione [glossa bibliografica] sostenendo che il religioso defunto potrebbe aver ricevuto il denaro in deposito da qualche secolare, non seguendo l'dea di chi [glossa bibliografica] reputa che, trovandosi una grossa somma di denari, si deve sempre pensare che ne sia stato proprietario colui presso il quale essa risultasse custodita.
Se poi un defunto, sospettato di essersi suicidato, viene trovato in un pozzo non si può negargli il diritto ad una sepoltura in terra consacrata visto che non si può dedurre in alcun modo se vi sia caduto accidentalmente o per scelta di morte come affermano alcuni interpreti [glossa bibliografica].
Pertanto la sepoltura ecclesiastica si nega, giustamente, a colui che si è ucciso per la grave colpa del delitto perpetrato anche se una persona si è data morte per fuggire od evitare uno stupro o qualche altro consimile offesa: si concede piuttosto di sopportare ogni sorta di male che cedere al peccato di togliersi la vita. La giustificazione del crimine di perpetrare il proprio omicidio non può in alcun modo essere giustificata dalla volontà di alienare qualsiasi altro crimine capitale così come provano tanti autori [glossa bibliografica]
Non solo costoro non devono venir inumati in terra consacrata ma alla loro stregua ci si deve comportare avverso i cadaveri di quanti, variamente, siano stati loro complici e conniventi alla maniera che sostengono gli interpreti [glossa bibliografica].
Nell'evenienza però che un eretico, prima della sua morte, abbia dato segni manifesti di contrizione e conversione alla vera fede cattolica, per quanto non possa essere scagionato dal delitto di eresia, può tuttavia venire seppellito in un luogo sacro. Però, onde evitare qualsiasi forma di scandalo ed altri incommodi per la Chiesa, bisogna tuttavia ammonire il vescovo che, nel caso che lo voglia, è in grado di assolvere chiunque dalla scomunica in cui incorse come afferma Paulo Layman nella sua opera moralis Theologia sotto la voce Sepultura sacra, vers. 'Si haereticus', f. 784, cap. I, num. 82.
Si esclude questa proibizione solo nel caso di chi sia caduto da cavallo facendosi avanti per esigere il dovuto da qualche debitore e che per tale accidente sia morto: resta condizione fondamentale che il defunto non si sia accostato al suo debitore coll'intenzione di combattere.
I Dottori della Chiesa in merito ai duelli ed ai tornei hanno sanzionato un'assoluta proibizione visto che a nessuno resta lecito praticare l'arte del duello o del torneo allo scopo di far dimostrazione della propria forza fisica e della sua guerresca virtù.
Tale pratica non si concede neppure se per ciò può derivare un qualche estremo pericolo del corpo e dello spirito ed anzi la sepoltura la si nega stando a certi autori [glossa bibliografica] anche a chi si pente per il terrore procurato agli altri.
La stessa fonte giuridica ritiene che sia da negare l'inumazione in terra consacrata pure nel caso che l'eventuale duellante destinato a soccombere, poco prima della morte, contrito per la sua mala impresa, abbia preso il Sacramento dell'Eucarestia.
Grossomodo lo stesso principio ha vigore nei confronti di chi muore partecipando ad una tauromachia, cioè combattendo nell'arena contro un toro secondo quanto suggerisce la Bolla papale Quinquagesima prima di Pio V che appunto inibisce la lotta circense contro tori od altre fiere: bolla che peraltro rende vano qualsiasi voto o giuramento fatto in merito alla partecipazioni a tali gare sì che se qualcuno dei partecipanti sarà morto non potrà in alcun modo fruire di cristiana sepoltura.
Se però il feto risulta morto e non venuto alla luce è opportuno aprire il ventre della donna, estrarre il feto e quindi inumarlo fuori del cimitero [ampia nota bibliografica].
Questa si deve invece concedere a quanti si siano pentiti ed abbiano confessato le loro colpe: in tale evenienza il loro corpo non può essere tenuto alla pubblica vista per più di un giorno ma deve essere deposto e quindi tumulato in un cimitero cristiano.
Di poi il sacco di cuoio dovrà esser scagliato nelle profondità del mare o, qualora il mare non sia vicino, lo si getti alle bestie alla maniera sancita la Legge unica, Codice a riguardo di quanti hanno ucciso i parenti od i figli.... e ciò si applica nei riguardi di chi abbia ucciso il padre, la madre, un nonno od una nonna come risulta scritto nella sopra citata legge.
Una volta nel caso che morisse qualche religioso onerato di debiti i suoi creditori chiedevano che dai suoi lasciti fosse esatto quanto necessario per soddisfare il loro credito: però nel caso che non si trovasse abbastanza danaro costoro impedivano che la persona in oggetto usufruisse di inumazione in terra consacrata. In seguito per sanzione pontificia si stabilì che i in tal caso i consanguinei del religioso morto, essendo debitore, dovessero prestare la cauzione di pagare il dovuto e finché non si trovasse un modo qualsiasi per soddisfare i debiti i resti terreni del religioso morto non venivano vristianamente sepolti: tuttavia si sostiene che il Pontefice abbia interpretato e sancito non sulla base del nostro corrente diritto ma secondo quello degli inglesi come anche affermarono alcuni interpreti [breve glossa bibliografica]. Sulla base invece del diritto comune e consuetudinario il corpo di un defunto non può essere interdetto da qualsiasi forma di cristiana sepoltura ed in effetti non si può nemmeno proprogarla fin tanto che i suoi congiunti abbiano saldato i creditori [glossa bibliografica].
Non si può non convenire con questa ultima interpretazione: se infatti è logico comunicare un vivente non è proibito fare lo stesso con chi sta per morire e in secondo luogo se a tal individuo, per quanto in stato di debitore, sono concessi tutti i Sacramenti non è fattibile negargli una cristiana sepoltura [varie glosse bibliografiche].
In terzo luogo le leggi di natura, l'umanità stessa, il pudore ed il benessere ambientale dello stesso Stato impongono che si debba procedere all'inumazione di un cadavere.
Se infatti è abbastanza facile privare qualcuno del sepolcro, tuttavia i superstiti giammai debbono esser tanto barbari da non dar prova di alcuno slancio d'umanità e con la buona volontà si trova sempre la cauzione per far sì che il corpo di un debitore non rimanga senza inumazione o questa venga dilazionata nel tempo, nel caso che il debito non sia stato pagato, sotta
In un primo momento erano sepolti, ma quando in seguito videro che i morti i quali erano stati sepolti, in periodi di guerra, per mero gusto di profanazione, venivano riportati alla luce quasi sradicandoli dai sepolcri, essi presero l'abitudine di bruciarne i resti.
In tale pratica non si seguiva un'identica costumanza: si racconta per esempio che nel contesto della famiglia Cornelia nessun individuo sia mai stato dato alle fiamme del rogo funebre prima del Dittatore Silla, che, personalmente, lasciò scritto che così si procedesse al suo rito funebre avendo pauro che nei confronti del suo corpo venisse fatto ciò che lui stesso aveva procurato ai miseri resti del rivale Mario.
Il corpo del re Numa Pompilio venne invece inumato in un Cenotafio, chiuso per via di una lapide, che, molto tempo dopo sul Gianicolo, Gneo Tarentio fece estrarre dal terreno essendo passati quattrocento anni dalla morte di quello: il Colle del Gianicolo a causa di piogge incessanti e violente era infatti stato quasi aperto da una grande fenditura.
Plinio
Si faceva inoltre notare dagli autori antichi che tra i Romani, quando qualcuno si ammalava gravemente e alla fine si trovava sul punto di morire, i parenti più stretti aspiravano colla propria bocca il suo estremo alito di vita. Inoltre costoro gli chiudevano gli occhi cosa che oggi come oggi si sostiene fosse proibite soprattutto ai figli secondo i dettami della legge Maevia come almeno sostengono Varo e Marcello quando appunto scrivono che essi non debbono chiudere gli occhi ai loro padri quando emettono l'estremo alito di vita: lavor. de prisco atque recenti more funerandi tit. 2, cap. primo, num. 26.
Comunque sia, una volta spirati i Vespillones cioè i becchini dei poveri e i lavatori dei cadaveri procedevano all'ultimo bagno dei corpi e li ricoprivano di unguenti.
Se si voleva procedere al rito dell'incinerazione conducevano un cenotafio fatto di legno o di altro materiale atteso che gli ottimati, i plebei, i nobili e le persone di modestissimo rango certamente non si avvalevano delle identiche usanze.
Quindi nel condurre il corpo del defunto, lavato ed unto, al cenotafio, come ancora ci rammenta Plutarco in problematis, ricoprivano questo di vesti candide che cospargevano di grassi profumati e di altre essenze.
Facevano i riti funebri con un'uso considerevole di vari apparati ed i figli, a capo nudo, dovevano seguire il padre: cosa che peraltro tuttoggi si rispetta in diverse parti del mondo conosciuto come si è potuto verificare in occasione dei funerali del supremo imperatore Carlo V, quindi di suo nipote, figlio del re Filippo II sovrano di tutte le Spagne ed ancora a riguardo di altri esimi personaggi che, con solenni apparati funebri, furono accompagnati sin al loro sepolcro.
Alle cerimonie funebri dei Romani partecipavano anche le figlie che procedevano con le chiome sparse: era una consuetudine di cui ha scritto Plutarco in problemate incipiente, quid est quod filij, atque in alio problemate inchoante, quid est, quod in luctu, apta est ad fletum excitandum.
Sulle ragioni dell'introduzione di simili cerimonie hanno poi discusso Asinio ed altri autori come precisa lavor. in d. tract. tut.2, cap. 3, nu. 81.
I Romani avevano poi la consuetudine di tagliare un dito al defunto e seppellivano quello per finalizzare il rito. A tal punto i becchini, che avevano prima lavato ed unto il cadavere e che successivamente lo avevano condotto sino al cenotafio, lo ponevano a terra.
A questo punto il consanguineo più stretto o in alternativa il migliore amico dell'estinto prendeva dal rogo una fiamma ed accendeva il fuoco destinato all'incinerazione.
Peratltro, a riguardo dei più anziani, era consueto suonare le trombe, mentre solitamente il rituale era accompagnato dalla musica dei flauti come almeno si apprende da Macrobio (in Somnis Scipionis lib2, cap.3) il quale sostiene che gli antichi in particolare erano convinti che le anime, ormai libere dal vincolo terreno del corpo, di nuovo si elevassero verso il cielo, donde giunsero, seguendo la melodia della musica.
Quanti si rendono responsabili di ciò non devono venire solamente puniti ma debbono essere obbligati alla restituzione, ai superstiti del defunto, di tutto quello che abbiano sottratto alla sepoltura.
Fa eccezione il solo caso che costoro abbiano sottratto qualsiasi oggetto alla tomba di qualche nemico di guerra [glossa]: in merito la letteratura sostiene che le lapidi sottratte alle tombe dei nemici si possano utilizzare in qualsivoglia maniera [altra glossa].
Quando invece si viola il tumulo sepolcrale di qualcuno che non sia stato un nemico ci si rende rei di un doppio crimine: in primo luogo si porta offesa ai vivi, custodi di tale sepolcro, ed in seconda istanza si manca di rispetto ai morti [altra lunga glossa].
Le fonti del diritto civile e quelle del diritto canonico sostengono tutte quante che contro chi commette questo tipo di furto è giusto procedere di legge.
Chi poi detiene il diritto di sepoltura in un determinato luogo possiede anche il diritto di impedire che altri siano sepolti nella stessa tomba [varie glosse].
Come altri autori ancora sostengono, visto che la tomba non è un albergo, se qualcuno vi è inumato illecitamente è giusto e lecito riesumarlo sempre che qualcuno dei sopravvissuti non paghi il giusto prezzo dell'inumazione [altre glosse].
Perciò non è giusto che nel luogo di cui qualcuno ha l'usufrutto come sepolcro venga inumato un altro defunto [glossa]: per questo non ci si deve meravigliare che se i sacri Imperatori, con loro editti, hanno ammonito a non disturbare il quieto riposo di qualsiasi defunto affidato ad una giusta sepoltura [varie glosse]: del resto sebbene seppellire i morti, scavare e ricoprire una fossa non sia un vero e proprio atto spirituale, ciò tuttavia risulta connesso ad una procedura che rimanda allo spirituale [glossa].
In qualche caso è anche stato detto che alcune anime sono apparse ai viventi per chiedere che in loro vece restituiscano quel maltolto che non ebbero il tempo di ridare ai legittimi proprietari o di cui si dimenticarono.
A siffatta questione risponde Sotus in 4. distin. 45 quaest. 2, art. 3 sostenendo che una restituzione di siffatto genere non può giovare ad alcun defunto qualora avvenga come non può danneggiarlo qualora al contrario non risulti espletata.
Dio infatti non punisce un individuo defunto se non in funzione di una colpa realmente commessa nella vita terrena: di conseguenza il defunto peccò non restituendo quando ancora era vivo o non peccò per qualche peculiare motivazione.
Se non peccò, ad esempio perché casulamente non fu in grado di restituire o possedette le altrui cose in buona fede, egli non risulta da punirsi nell'ultramondo.
All'opposto qualora scientemente si rese colpevole di un peccato, il defunto sarà punito per la pena di negligenza nel urgatorio: quindi dopo che avrà pagato il fio delle sue colpe potrà salvarsi sia che le altrui cose siano state rese ai legittimi proprietari sia che ciò non sia affatto avvenuto, atteso il principio che il reo è stato reso dalla morte inetto a colmare la sua colpa terrena e dato che la sua eterna salvezza non deve affatto dipendere dalla volontà di un'altra persona, vivente e in qualche modo delegata.
Del resto l'anima potrebbe risultare perpetuamente imprigionata nel Purgatorio se l'erede non si impegnasse a restituire: per la qual cosa nella circostanza che si potesse restituire il dovuto e non lo si facesse la responsabilità sarebbe da attribuire al sopravvissuto erede e non all'anima del defunto che non avrebbe nulla da temere.
E' tuttavia da precisare che la restituzione degli averi altrui ai legittimi proprietari non potrà giovare spiritualmente all'anima colpevole visto che la restituzione non costituisce una risoluzione di colpa e pena.
La soddisfazione è infatti un'opera buona, è per la precisione donare quanto è proprio ad altri che ne abbisognano, non restituire ad alcuno quello che di fatto è suo.
Le presunte apparizioni ai viventi di anime dei defunti sono forse da intendere richieste di anime afflitte e pentite che non chiedono tanto una restituzione in quanto tale ma una restiztuzione sotto forma di elemosina ai bisognosi [glossa bibliografica].
Le Sacre Scriture enumerano per la precisione tre generi di suffragi per i morti: l'Orazione, il sacrificio della Messa e l'Elemosina, aggiunte anche le buone opere e le Indulgenze che si riassumono sotto il titolo di Orazioni [segue vastissima bibliografia pp.80 - 81].
Da tutte queste considerazione e dalle letture degli interpreti ecclesiastici si evince con chiarezza che la restituzione del maltolto non rappresenta un suffragio e che pertanto non può essere di vantaggio spirituale ai defunti se almeno non segue a tutto ciò un'orazione, un sacrificio, un'elemeosina o qualche opera penitenziale.
Non vi sarà quindi da avanzar meraviglia se S. Agostino, nel libro I del suo De Civitate Dei al capitolo 12, biasima quelle grandi ostentazioni di lusso che fanno i ricchi nel corso dei loro funerali, dicendo che la pompa funebre costituisce in effetti un sollazzo per i superstiti più che un qualche aiuto per i defunti.
Vediamo infatti che secondo la letteratura non si deve concedere la facoltà di reiterare una pompa funebre se colui che ne gura la gestione si lascia andare a spese senza senso (glos. il l. si quis, § sumptus, ff. de relig. atque sumpt. funer.) o se l'apparecchio esteriore del funerale è più sontusoso di quanto sia ritenuto giusto (l. pen. ff. de eodem) ed anzi anche nel caso che sussista un considerevole credito della dote, colui che senza esplicito mandato del testatore o del suo erede abbia smodatamente spedo nell'organizzazione di un funerale è tenuto a rendere conto della sua attività sussistendo il legittimo dubbio che non abbia fatto tutto quanto per senso di cristiana pietà come dice il l. si quis § idem labeo, eod. de tit. de relig. & de sumptibus fun..
In merito a ciò ha assoluto vigore lo statuto del Principe che proibisce a riguarda della pompa funebre di indossare panni lugubri, di rivestire di stoffe nere le abitazioni di fare ostentazioni di altre solenni manifestazioni di cordoglio che non abbiano alcuna correlazione col rito dell'inumazione ecclesiastica e da cui non provenga nessun vantaggio spirituale o di altro genere alle chiese ed agli stessi chierici: principio che è stato chiaramente sostenuto da Felin. in c. Eccl. S. Mariae de cost. n. 12, Marta de Jurisditione par. 4 cent. 1 casu 54, nu. 467, Nald. in summa in ver. Statutum n.2, Antonin. Diana in tractat. de immunitate Eccl. resol. 64.
Pare comunque doveroso che tale forma di pompa funebre particolarmente sontuosa non debba essere condannata nel caso che essa possa in qualche modo giovare alle anime dei defunti, soprattutto quando gli uomini vi partecipano con sincerità per compatire il tragico evento della morte e onde pregare per i defunti, contribuendo anche ad ornare le chiese (c. defunctorum 13 q. 2.
ALOE
Per quanto poi concerne la cultura delle pompe funebri presso gli antichi romani ho poi già trattato al capitolo 7 di questo mio lavoro.
Quelli che si fanno redigere in merito dei testamenti, in questa nostra città di Bologna, hanno la consuetudine di farsi inumare indossando un saio di frati Cappuccini oppure, a seconda delle chiesa e dell'Ordine che l'amministra, di un altro Ordine religioso ancora.
La glos in c. dudum de sepult. afferma che tutto ciò è perfettamente lecito ma che per procedere a buon fine l'abito deve essere consentito su licenza dei Superiori di quel paricolare Ordine di cui ci si intende vestire da morti: tale saio deve essere collocato nella bara senza che vi siano altri abbellimenti come risulta sancito dalla Bullai particulari Sixti quarti di cui scrive il Lavor. de prisc. atque recenti funer. more tit. 2, cap. 1, nu. 112.
Nel caso invece che il testatore abbia inviato per il suo seppellimento il corpo del congiunto entro una semplice stuoia intrecciata di paglia e di giunchi, senza alcun vestimento e con soltanto una candela e contemporaneamente avrà imposto al suo erede di far la penitenza della privazione, anche se il morto contrariamente a tutto ciò sarà invece fatto inumare in modo onorifico secondo il livello della sua condizione socioeconomica, l'erede in causa non verrà privato della sua eredità stando a l. servo. § sin. ff. de leg. 1 Paul. Castrens. in l. quidam in suo ff. de condit. instit. num.3.
Identica cosa si farà nell'evenienza che il morto non sia sepolto nella chiesa che scelse per sua elezione: Alba, cons. 48, n.6 afferma infatti che simile atto non risiede in una contravvenzione ai mandati ma ad una semplice omissione.
Secondo altre etimologie col termine CAPPELLA si vorrebbe indicare Cappella questa Chiesa perché contiene il Laos che al modo dei Greci indica il popolo, od ancora per il fatto che è destinata a capere cioè contenere le lodi a Dio od ancora, secondo altra versione, la si dovrebbe chiamare più pertinentemente CAPANNA per il fatto che può contenere solo poche persone e su tale ipotesi si legge in d. c. concedimus stando a quanto afferma Archidiaconus n.2.
Secondo molti il termine deriva dal fatto che col termine CAPPELLA si indica un luogo di proprietà privata eretto entro una CHIESA, luogo che deve essere consacrato a Dio e che dipense come elemento accessorio dalla stessa fabbrica religiosa che lo ospita: quando la Chiesa si arricchisce di tale struttura o per edificazione o per donazione a siffatta CAPPELLA spetta il diritto di GIUSPATRONATO alla maniera che scrivono gli interpreti del diritto canonico: Paulus de Cittadinis de Iure Patronatus 3, parte nu. 43, Borell. in controvers. 25, n. 2, Lambertinus de iure patronat. lib I, 6 art. 11 quaest. quaest. princi. 1 par. n.2.
Data tale condizione una CAPPELLA può essere dificata pure in un'abitazione privata come sostiene Innoc. in c. ex litteris, extra de Iure patronatus: è tuttavia necessaria l'autorità del vescovo come sostiene Lambertinus praedicto loco.
Nel caso che una CAPPELLA sia stata edificata per saldare una qualche forma di debito non potrà giammai esser venduta dai suoi edificatori e/ o dai rispettivi eredi secondo l'interpretazione di Bart. in l. Aufidius, ff. de previl. credit.
Ai giorni odierni sono dette CAPPELLE queste strutture architettoniche che si riscontrano all'interno delle Chiese e vengono concesse dai Religiosi e sono definite parti della Chiesa (così dopo Rotam Bertachin. in repert. in verb. Ecclesia): in svariate circostanze esse vengono utilizzate come un luogo sacro in cui effettuare una sepoltura al modo che sostengono tanti autori: Petrus de Ubaldus de Canonica Episcop. & parochiali in cap. decimo Canonicae Parochialis, n.5, Medices in tract. de sepulturis p.1, quaest. 18, nu. 2, Angel. Calvas. in verbo sepultura nu. 41, vers. Utrum illi qui habent Capellas, Armil. in verbo sepultura nu. 24 e finalmente Grilezonius cons. 154 nu. 13.
In tempi successivi i Religiosi non avranno alcuna facoltà di sopprimere tali cappelle e di stornare la loro dunzione quale luogo di sepoltura visto che questa nostra prerogativa in alcun modo ci può esser tolta senza nostra autorizzazione (l. id quod nostrum ff. de reg. Iur. atque Petrus de Ubaldus d.c. 10, nu. 4, Medic. in d. p. I quaest. 9, num 4, Paul. Layman. in Morali Theolog. in verbo sepultura vers. si quispiam pag. 782, Calvas. et Armilla locis supra citatis).
Ciò ha vigore anche maggiore nell'evenienza che nelle Cappelle loro concesse dei laici abbiano fatto un sepolcro per sè e per i loro di casa: la loro Insegna od il loro stemma di famiglia giammai potranno vinir erasi, Bart. in l. qui liberalitate ff. de oper. publ. precisando in merito a tale argomento che bisogna registrare che i Frati o i Religiosi non possono attribuire altra nominazione alla cappella di alcun defunto. Cepol. in tit. de servit. urb. praediorum cap. 71, n. 10, Lambert. in d. tract. de iure patron. lib.3, 4 art., quintae quaestionis princip. in fine dove così risulta scritto: 'troppe volte ho visto e ne sono rimasto impressionato che i resti dei fondatori di qyalche Cappella vengono esumati e dispersi senza alcun rito e nella mancanza di ogni diritto. Questo autore sostiene quindi che coloro i quali compiono tali azioni incorrono in quel tipo di censure in cui cadono tutti coloro che esumano illecitamente le ossa dei defunti dai sepolcri di lloro pertinenza.
Una volta poi che il Testatore avesse ordinato di erigere una Cappella si deve presumere che allude che tale onere debba essere sostenuto dai suoi eredi, al modo che interpretano Alex. post alios in l. com servis nu. 4, ff. de verb. oblig., Mantica de tacitis et ambiguis lib. 12, tit. 16, nu, 3.
Si riscontra altresì in decis. 598 p. I, divers. num. 6 che è cosa di estrema giustezza che le insegne e/o gli stemmi dei primigeni fondatori non vengano mai tolti da una cappella, come di comune accordo approvò dopo Anehar., Medices in d. tract. de sepulturis p. I, quaest, 16, nu. 38 sin alla fine del testo, laddove si afferma parere avverso contro quanti ritengono che si possano rimuovere le insegne dei Nobili per concedere il sito religioso ai non Nobili.
Per ultimo si può ancora menzionare Giovagn. cons. 8, lib.2, nu.22 nel punto in cui dice che tale operazione è severamente proibita agli stessi Rettori di tutte le chiese.
Nel caso dunque che ai membri di un casato sia stato concesso di avere le loro Insegne o stemmi dipinti nella cappella di una chiesa o di una cappella, la rimozione di siffatti ornamenti deve essere considerata alla stregua di un'ingiuria. Tutto questo si legge in una vasta letteratura: Roman. sing. 480, Menoch. in tract. de praesumpt. praesumpt. 59, n.2, lib.2, Barbos. de officio atque potest. Parochi cap. 26, num. 15, Lavor. de prisco atque recenti funerandi more tit.2 cap. 18, nu.19 che, in dettaglio, afferma che non solo tali insegne debbono rimanere onde permettere attraverso i secoli il riconoscimento della famiglia e per commemorarne i meriti ma anche allo scopo che quando amici e consanguinei vadano a visitare tale cappella presso Dio possano giustamente elevare le loro preghiere tenendo ben saldo il nome del casato e i suoi connessi diritti. E si vedano, per le identiche conclusioni sull'argomento, anche Menoch. de recuper. possess. remed. 15, nu. 48, quaest. 7 in fine, Gratian. in discept. c. 210, nu 32, 44, 49 e 49.
Approvano il concetto di dominio autori come Butr. cons. 6, nu. 13, Cassan de gloria Mundi p. I, quaest. 55, Seraphin. decis. 652, nu.2 inoltre affermano che in forza dell'Araldica e delle Insegne di famiglia sussista per i fondatori primigeni il diritto di tramandare il proprio ricordo fra le genti altri scrittori ancora come Molina post plures de primogen. lib. 2, cap. 14, num, 5, Fusar. cons. 175, nu. 10, Rpta penes Mart. And. decis. 5, nu. 11.
Dunque, nella circostanza che una CAPPELLA sia stata concessa quale sito di sepoltura entro una chiesa, resta lecito a chi ha ricevuto in godimento tale concessione di realizzarvi una sepoltura decorosa ornata anche con statue e immagini onorifiche anche nell'evenienza che nell'atto di concessione ciò non sia stato specificatamente espresso, alla maniera che sostengono vari interpreti tra cui Odofr. & Castr. in l. statuas, C. de relig. & sumpt, fun..
Tutto ciò può esser fatto per meoria di siffatto o siffatti benefattori come ancora si annota in l. I § sed & si servus, ff. de ventr. insp. Io. de Anania cons. 86, nu.2.
Sulla questione il Bolognin. in addition. nu. 3 aggiunge che tutto quanto deve essere perseguito tenuto conto dell'aspetto dell'architettura dei Templi eretti a Dio: Rustic. in tract. an & quando liberi in condit. positi sint cocati lib. 2, cap. 6, nu. 2.
Ancora più recentemente si è espresso sulla questione Baptista Charlinus in contr. forensibus cap. 37, nu. 17: e peraltro dalle antiche iscrizioni si può dedurre il suddetto diritto di giuspatronato alla maniera che viene ripresa in altri volumi di diritto canonico come glos. in c. cum causam, de probat. cap. ad audientiam de praescript. Lambert de Iure patr. lib. 2, p. 2, quaest. 10, ar. 9, Medic. d. quaest. 16, nu. 28, Mart. And. d. decis. 5, nu. 11.
Di conseguenza non risulterà giammai consentito al Rettore della chiesa od a chiunque altro alterare il prospetto della Cappella gentilizia o togliere da essa quelle insegne araldiche che rammentano attraverso il tempo la memoria dei defunti e quindi dei suoi edificatori: così almeno scrive Genuens. in praxi Archiepiscopali cap. 109, nu. 2 & 3.
Nelle Stature, negli Epitaffi possiamo constatare che restano documentate le dignità, le onoranze, le eccellenti gesta e le importanti imprese dei defunti, così ci ricorda Frac. Porcachus de funeralibus antiquis cap.7: in tale opera sono registati molti antichi epitaffi.
Presso Ezechiele cap. 26, n. 11 si legge che 'Le tue nobili statue sono disposte in varie parti della terra conosciuta. Cicerone all'inizio della seconda Orazione sulla Legge agraria, che riporta Tiraq. de nobilt. cap. 6, nu. 15, rammenta che non a tutti presso i Romani spettava il diritto di essere punbblicamente effigiati e ricordati tramite statue e dipinti ma soltanto a quelli che avessero meritato di ricoprire qualche magistratura.
Tiraquel nel luogo prima citato della sua opera così scrive e ciò sembra da iontendersi secondo i dettami del tex. in l. si staua, ff. de iniuria & famosis libellis e lì in particolare tenendo conto della glos. & DD: & in l. Iniuriarum la prima, § si quis in honoribus ff. eod..
Stando a queste menzionate fonti era lecito muovere causa per ingiuria contro chi asportasse dai sepolcri siffatti ornamenti commemorativi.
Per quanto una CAPPELLA non fosse dotata di un altare, per tutelarne i sacri diritti ed oneri sarebbe solo bastante che di altare risultasse fornita la chiesa ospitante come si evince da Io de Anan. cons. 24 e nelle stesso luogo
I monaci al pari degli altri religiosi non hanno facoltà alcuna di impedire che in una qualche chiesa vengano riposti o ridipinti non solo il Santo Crocifisso ma anche qualsiasi altra venerabile pittura che concerna l'ornamento e non l'alterazione estetica della chiesa medesima: come bene precisa Cepol. de servit. urban. praed. cap. 71, nu. 6.
PAOLO ZACCHIA, il più autorevole trattatista italiano di medicina legale del Seicento, nei casi di interventi chirurgici a rischio di vita, raccomandava che il chirurgo ricorresse al physicus
Il mancato adempimento di tale procedura configurava grave reato contra alterutram legem: "Sed in indagandis reliquis Chirurgorum erroribus, qui punitionem ab alterutra lege reportare deberent, satius est eundem ordinem sequi, quem in Physicorum erroribus servavimus. Primo ergo dubitari potest, an Chirurgus, ut Physicus, teneatur aegrotantes suos ad poenitentiae Sacramentum hortari, dicendumque videtur in eadem obligatione illum quoque esse, cum & juramento in doctoratu consequendo ad hoc sese obstringat; quod intelligendum quando solus curat, nam si adsit simul Physicus, videtur ab ea obligatione immunis; & ratio est, quia major videtur esse obligatio Physici ex hoc, quia morbi, qui Physici praesentiam requirunt, sunt magis periculo proximi, quam ii, quibus solus Chirurgus sufficit; cum ergo Physicus & sit primus in dignitate, & multo melius quam Chirurgus morborum pericula cognoscat, magis ad ipsum spectare videtur aegros ad confessionem hortari, quam ad Chirurgum, ubi ambo in eadem cura sint eodem tempore vocati; alias videretur incumbere hoc onus ei, qui primus vocatur" (Paolo Zacchia, Quaestiones Medico-Legales, Avenione, Ex Typographia Ioannis Piot, Sancti Officij Typographi in foro Sancti Desiderij, 1655, VI,I,ix, p. 398a.
Linneo classificò il mais (Zhea mais) tra le graminacee come riso, grano, orzo ma tale accostamento fu oggetto di critiche e vere polemiche tra i botanici, per i quali non apparivano abbastanza giustificativi i caratteri di affinità, e tali da accogliere l'affermazione dello stesso Linneo: De minimis non curat botanicus (Systema Naturae, 1735).
In questi ultimi anni è stato isolato nel Messico (Valle Tehuacan) un vegetale, il modesto progenitore selvatico dotato della primitiva spiga, di tipo graminaceo, da cui le popolazioni precolombiane
Di quest' albero e dei suoi frutti, e della bevanda che si produce, con precisione tratta Antonius Colmenerus de Ledesma, in Chocolata Inda, opusculum de qualitate et natura..., Norimberga 1644.
Il libro, originariamente in spagnolo, e tradotto in latino da M. Aurelio Severino Tarsese, con diverse dediche , è custodito nella
Civica Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia
In primo luogo - scrive l'autore, che dal nome pare piuttosto olandese che spagnolo - multum pinguis crassique humoris e cacacio extillata quod ipse meis oculis in Indis vidi dum eundem ad asperitatem oris leniendam colligerent foeminae.
Evidentemente egli aveva individuato, viaggiando nelle isole caraibiche, l'uso del burro di cacao per lenire le screpolature epidermiche.
Per la quantità di grasso viene confermato dall'industria moderna che il contenuto dei semi ne rappresenta metà del peso.
Una preoccupazione del Colmener, come di altri autori del secolo, verte l'esser in cacacia calorem humiditatemque in grado intenso, cum pariter in illo sit siccitas et frigiditas, a causa della presenza contemporanea, egli spiega, di diversi componenti che renderebbero il cacao tanto caldo quanto freddo, tanto secco quanto umido.
Dopo di ciò l'autore finalmente passa a cose concrete, e spiega che i semi sono macinati, chocolata potione conficienda, dum maturescit in fructis; ma se permansus glutiatur, mangiato acerbo, alvam obturat!
L'uso delle nocciole, avellanae nuces (il cioccolato con nocciole è già preparato nel 1600) pare sia riferibile ad indicazioni farmacologiche: bilis avellanam sequitur, sed roburat alvam... veneris et a furnis liberat offa caput: libera dal peso alla testa.
Come si prepara la cioccolata?
Methodus conficiendi: prima i semi siano tostati (... ante coquantur) poi macinati, ed il prodotto nuovamente riscaldato, ma ne vehementior supponatur ignis, ut butirrosus nimio
calore effervescens humor effondatur, a fuoco lento, perché il troppo calore fonderebbe l'umore butirroso.
Gli indigeni, scrive Colmenerus, per fare torte mescolano cacao e farina di polenta (mais): Acolla vocant Indi massam ex mais farina collectam, quam deinde chocolata immiscunt.
Quanto poi alla bevanda ... primo quidem modo diluitur chocolata cum aqua frigida... igni admovetur cum saccharo.
Pertanto si può dire che la maniera di preparare la bevanda e la cioccolata in tavolette non ècambiata, a parte il processo di fermentazione a cui sono sottoposti i semi (a mandorla, una cinquantina per ogni frutto che si sviluppa sul tronco e sui rami maggiori dell'albero) al fine di ridurre l'elevata quantità di sostanze tanniche-astringenti ed amare.
Si tratta di quindici capitoli scritti da Johannes Eusebius Nierembergius Madritensis [gesuita celeberrimo quanto stimato naturalista] nel De Arbore Cacai.
Il testo ci informa prima sul chili, ab Hispanis peper indicum vocatus, e quindi sul mais (pag. 48).
De Tlaolli, Maiziove, de qua portionibus et placentarum generibus (... genere di focacce) parari soliti sono gli indigeni.
... Tlaolli quod nostri frumentum indicum, Haitiani vero maizium appellant, vesciuntur loco panis, se ne cibano in luogo del pane.
...Chicha est vinum es maizio vino di mais, qua inebriantur Barbari. Tundunt et molitunt duabus petris (tra due pietre) maiziarum admista aqua, inde fit massa quedam. Foemina qua molit sumit per intervalla particulam et mandit (... di tanto in tanto ne mastica un poco) rursus ojicit in massam (cioè lo risputa nell'impasto).
Ecco il punto sul processo enzimatico: Dicunt pro fermento id esse et causam iucundae acredinis.
In preve la ptialina della saliva provoca l'idrolisi degli amidi del mais, avviandoli alla fermentazione, come avviene con gli zuccheri dell'orzo (birra) e dell'uva (vino) che producono alcol, iucundae acredinis.
Il libretto edito nel '600 attesta la conoscenza e l'uso del termine fermentazione, corretta espressione per indicare fenomeni biologici già noti, sebbene interpretati e precisamente spiegati solo due secoli più tardi".
Un libretto dal piccolo inconsueto formato 8 x 15 rilegato in pelle bianca, ci porta dal 1600 una testimonianza un poco strana sul tè: 'Ambrosia Asiatica, seu de virtute et visu herbae the sive cia... Auctor Simon de Molinariis genuensis..., Typis Antoni G. Franchelli MDCLXXII'.
Dopo numerose pagine di dedica e di elogi al cardinale Lorenzo Raggio, ed una prefazione 'ad Lectorem, il Molinari ci ragguaglia sulla Cina, province di Suchuen e Pukiang, e sull'alchimista 'Hoangtro, nomine primum apud eos in hac arte (quella del tè) floruisse ferunt bis mille quingentis annis ante adventus Domini... illum parentem habuisse Sem, filium Noe...'.
Bella cosa che un cinese, esperto del tè intorno a 2500 anni a.C., abbia avuto antenato Sem, figlio di Noè.
Dopo i ragguagli sul nome, che è per 'Sinenses et Malakiani the, Japanenses et Tonkinenses t'sia...' ci informa che '... flores sunt albicantis coloris, odore levi et fragranti nostris rosis simillimi'.
E riferisce il testo italiano di un gesuita che era stato in Oriente: 'P. Bartolus de visu chà haec habet verba: ... si bee il cia, qual è un herba colà famosissima la cui decotione conforta molto e rinvigorisce lo stomaco, e l'han in così gran conto che altro che vasa pretiosa non adoprano per stemperarlo e berlo... Volendo onorare qualche forastiere il conducono alla stanza della casa destinata a condire il beveraggio del Ciàdetto da essi Cianiù, cioè a dire acqua calda per il tè'.
Siamo dunque alla celebrata cerimonia del tè, legata ai riti del buddismo zen, riassunto di ideali estetici di perfezione.
Anche di un altro gesuita, Bernardino Giomaro, sono riferite analoghe informazioni.
Quanto al cianù in lingua giapponese d'oggi è chà no yu, costruzione inversa, per 'acqua calda del te'.
La bevanda poi la considerò, per esperienza personale, un infuso di fieno, al più utile a coltivar rotiferi e infusori.
Ma i giapponesi la considerano umai, deliziosa, Okakuro Kazuko, nel Libro del Tè, scritto nel 1906, dice: '... uomini nei quali non vi è tè', per indicare persone senza sensibilità,... senza sale in zucca, diciamo noi.
Il Molinari riferisce anche brani di storia cinese, come la truce vicenda dinastica accaduta appena trent'anni prima della stampa del libro: 'Latronis eiusdam sinensis Licungzio nomine de provincia Suchuè immanentem audaciam... extinctam iarn in expugnatione urbis Peking', e deposto il monarca Zungchi... 'coronatum in regale Palatio stantem, nulla spe superstite salutis,... perempta (uccisa) suis manibus unica dilecta filia ne in sui (dell'usurpatore) ludibrium duplici morti interiret, conscito sibi laqueo de viminibus ab arboris prunorum regi viridari pependit (s'impiccò) anno 1644'.
Si tratta degli inizi dell'ultima dinastia, durata fino al 1912.
Ma sono riferite anche ricette farmaceutiche, con varie droghe, assieme agli infusi di te: '... Perevium corticis, vulgo Cinna (china) tutissimum... periodicae et malignae febris flagellum... quinimo, de hoc eodem cortice prius inscriptum opus a doctissimo Sebastiano Bado, nostrae civitatis medico celeberrimo'...
Amene gratuità si intrecciano nel testo, fino a consigliar ricette come la seguente, pei casi 'calamitosis ac deplorabilibus appoplexiae ac paralisis effectis', che trarranno beneficio dal tè, purché '... addito illi scrupulum I extracti cranii humani', da prepararsi come segue: 'Recipe: pulveris aut limaturae crang humani recentis et violenta morte...'. La qual ricetta ci scoraggia a proseguire nella lettura del Molinarius.
Questo singolare autore, sulla diffusione del tè in Europa scrive: 'Huius herba notitia reduces ad nos mercatores Batavi exposuerunt sub annum 1649... potionem vero ab iisdem quidem habuimus primo Amstelodami modo'.
Veramente ben 122 anni prima il veneziano G.B. Ramusio, in Della Navigatione e Viaggi (Venezia 1550), nel capitolo Chai Katai aveva mostrato come il tè fosse ben noto a Venezia.
Anche Paolo Boccone, contemporaneo del Molinari, essendo viaggiatore cd autentico naturalista aveva stampato a Parigi (1672) Recherches et observations naturelles ed Icones et Descriptiones variorum Plantarum, con riferimenti alla pianta del tè.
Comunque entrambi il genovese Molinari ed il palermitano Boccone precedettero di un secolo l'importantissimo e metodico Linneo (1753) nella descrizione del tè.
Nel 1658 comparve a Londra su Mercurius Politicus una prima inserzione pubblicitaria per il tè: '... venduto alla Sultanes Head Coffee House, in Sweeting Plant...'.
L'importazione in Europa fu monopolizzata tra il 1600 cd il 1850 dalla Compagnia delle Indie.
Dopo la legge che tassava il tè (tea act, 1773) il monopolio inglese giocò un ruolo politico, in America, con l'episodio di ribellione della colonia americana, sarcasticamente detto 'Boston tea party'.
AItro celebre capitolo della storia del tè è quello della great tea race (1866) tra le velocissime navi a vela in gara da Foochow a Londra, doppiando India e Africa in giomi novantanove: tra gli undici clippers sono ricordati il Tae Ping, il Cutty Sark, l'Ariel.
Il tè contiene caffeina intorno al 3 per cento che ha effetto stimolante, e lievi delicati aromi: la droga è costituita dalle foglie della pianta di tre anni.
Sono distinte le prime, le seconde e le terze foglie, classificate in petoe (germoglio) in suchong ed in congou.
L'orange pecoe sono i germogli spezzati (broken pecoe) non ancora maturi, di color giallino.
Naturalmente da regione a regione varia la coltivazione e variano i tipi di prodotto: i tipi fondamentali sono due, la varietà sinensis, a foglia stretta e sottile, e la assamica, a foglia più larga.
Anche le maniere di preparare il prodotto sono due: la cinese per il tè verde, con torrefazione, o per il tè nero (foglie prima asciugate, poi torrefatte); e la maniera europea, che comporta una sorta di pasterizzazione, dopo l'appassimento delle foglie, con una riduzione del peso del 45 per cento circa.
Il tè delle carovane
viaggiava dalla Cina alla Russia (onde era noto anche come te russo) entro imballaggi semiaperti, per 18 mesi, con speciale accrescimento dell'aroma.
Heinrich Schlieman (1822 - 1890) che scoprì le rovine della città di Troia (1873) e le tombe dette degli Atridi a Micene, dalla povertà era giunto alla ricchezza con il commercio dell'indaco. Destinò le sue fortune ed il suo ingegno alle appassionate ricerche archeologiche.
Con il commercio del tè si arricchì Thomas Lipton (1865 - 1931) dopo che, tornato dall' America dove aveva lavorato come tramviere, aprì una drogheria nella nativa Scozia. Importava tè, caffe ed altri 'coloniali', e finì con l'acquistare una piantagione a Ceylon, per avere un prodotto con marchio Lipton, che ancora esiste.
Di un altro mercante di tè conosciamo il celebre nome e le vicende, e specialmente ammiriamo l' opera: Sir Thomas Hanbury, il fondatore dei Giardini di Capo Mortola.
Da Londra, all'età di 23 anni, nel 1855 viaggiò per la Cina, a Shanghai.
In quel tempo l'Impero Celeste era sottoposto alla pressione degli occidentali per l'apertura dei porti e dei mercati: francesi ed inglesi avevano persino iniziato una campagna militare, raggiungendo Shanghai (1857) mentre senza soste si susseguivano le rivolte popolari.
Nel 1860, con il trattato vessatorio di Tientsin, gli occidentali ottennero concessioni e territori, come i russi, che si impadronirono della regione del fIume Ussori.
In precedenza gli inglesi avevano imposto l'oppio indiano, addirittura con una guerra (1840) che li portò ad occupare Hong Kong e Canton.
Hanbury dunque aveva raggiunto la Cina nel periodo delle grandi sollevazioni popolari e dell'espansione imperialista inglese e della repressione attuata dalla monarchia Manchu, sostenuta dagli oc cidentali.
In dodici anni Hanbury si arricchì divenendo padrone di un vasto real estate, proprietà immobiliari a Shanghai.
La sua fortuna venne favorita dalle disastrose condizioni politiche della Cina in disfacimento, ma non ebbe nulla a che fare (contro le illazioni infondate) con il vergognoso commercio dell' oppio... e degli schiavi.
Anzi, in proposito è da ricordare che, rientrato in Europa, ebbe l'iniziativa umanitaria di costituire un'associazione contro la diffusione dell'oppio.
Dopo il 1867 si stabilì a Capo Mortola sviluppando la straordinaria impresa del parco di acclimatazione botanica intorno alla Villa Orengo.
Thomas Hanbury aveva certamente lo spirito del benefattore e del mecenate, come attestano le sue opere sociali: un acquedotto, le scuole nelle frazioni di Mortola, di Latte, con fabbricati nuovi sul terreno donato, ed altre iniziative= [tra cui non si può far a meno di menzionare il grande contributo per la salvaguardia della Biblioteca Aprosiana e la realizzazione dei Giardini pubblici di Ventimiglia
Era persona di abitudini correnti, semplici, spiritoso e bonario: è raccontato un episodio del finto sdegno, umoristico, che esternò con un negoziante di Ventimiglia, il quale aveva annotato un suo acquisto di alimentari sotto il nome di Tamburi, erroneamente, invece che T. Hanbury".
Il seme ha una faccia convessa ed una piana solcata da una linea mediana, di colore dal grigio al verde azzurrognolo e al verde oliva, avvolto in un sottile tegumento argenteo (e torrefatto e macinato in polvere serve per preparare la bevanda). Esso, oltre a grassi, zuccheri, cellulosa e sostanze azotate, contiene un importante alcaloide, la caffeina.
La PIANTA DEL CAFFE' è originaria dell'Etiopia (della vasta regione di Caffa per la precisione) ma ha avuto rapida e antica diffusione in altre regioni dell'Africa orientale, crescendovi allo stato spontaneo grossomodo fra i 1000 ed i 1300 metri di altitudine.
Tra il XIII ed il XIV secolo il CAFFE' venne importato in ARABIA sudoccidentale ove se ne sviluppò la COLTIVAZIONE e parallelamente l'uso della BEVANDA preparata con i SEMI TORREFATTI.
La tradizione degli ARABI ne attribuisce la scoperta ad un pio personagggio dello YEMEN che se ne sarebbe servito per prolungare le VEGLIE MISTICHE.
Successivamente i grani furono esportati in EGITTO e da qui verso COSTANTINOPOLI.
Un poco più tardi, dalla seconda metà del Cinquecento, soprattutto per iniziativa dei mercanti veneziani il CAFFE' penetrò in EUROPA ove fu accolto ora con apprezzamento ora con palese avversione.
Francesco Redi ne scrisse un giudizio tanto negativo quanto in definitiva vago:"Beverei prima il veleno / che un bicchier che fosse pieno / dell'amaro e reo caffè: / colà tra gli Arabi / e tra i Giannizzeri / liquor s' ostico / sì nero e torbido / gli schiavi ingollino. /..../ E se in Asia il Musulmanno / se lo cionca a precipizio / mostra aver poco giudizio.
All'opposto presso la Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia si trova un'opera di Antonio Fausto Naironi (edita a Roma, per i tipi di Michele Hercole nel 1671) il cui stesso titolo, al contrario, sottolinea già di per sè i pregi terapeutici della bevanda: Discorso della salutifera bevanda del Cahvé o vero café...trasportato dalla latina alla lingua italiana da fr. Fréderic Végilin....
Il contrasto fra le opinioni era dovuto alla ragione che nei primi tempi di vita in Europa il CAFFE' era considerato soprattutto per le supposte PROPRIETA' CURATIVE COME PIANTA OFFICINALE.
L'alcaloide dei semi che la bevanda contiene (appunto la menzionata CAFFEINA) poteva essere utilizzato dalla NUOVA MEDICINA del XVII secolo per esercitare un'azione eccitante sul sistema nervoso delle persone depresse o afflitte da melanconia, per stimolare la respirazione, innalzare il tono del cuore, incentivare la funzionalità diuretica.
Inoltre abbastanza presto all'azione stimolante della CAFFEINA nel campo della MEDICINA LEGALE venne riconosciuta un'effettiva qualità terapeutica contro i temuti e non affatto rari AVVELENAMENTI DA NARCOTICI.
Naturalmente i medici scienziati (come il Redi) avevano potuto intuirne od esperimentarne le risultanze negative in occasione di un uso smodato quando possono verificarsi convulsioni e depressioni dell'attività cerebrale (erano queste le prime intuizioni sul CAFFEISMO -intossicazione acuta o cronica da CAFFE'- caratterizzato da irrequietezza, dilatazione della pupilla, cardipalma, affanno, tremore, vertigini e delirio).
La sostanza di questo dibattito scientifico si coglie leggendo un saggio dell'illuminista milanese Pietro Verri ove è scritto:"...Il caffè rallegra l'animo, risveglia la mente, in alcuni è diuretico, in molti allontana il sonno, ed è particolarmente utile alle persone che fanno fanno poco moto, o che coltivano le scienze...E si raccontano de' casi ne' quali coll'uso del caffè si son guarite delle febbri, e si son liberati persino alcuni avvelenati da un veleno coagulante il sangue; ed è sicura cosa che questa bibita infonde nel sangue un sal volatile, che ne accelera il moto, e lo dirada, e lo assottiglia, e in certa guisa lo ravviva".
A prescindere da alcune inesattezze scientifiche la sostanza del discorso del Verri è esatta e conta ancora di più per informarci che lo scopo primario della DIFFUSIONE DELLA BEVANDA (un poco come fu il caso del tabacco e del tè) fu di ORDINE TERAPEUTICO ancor prima che edonistico.
Molti ritengono che essendo VENEZIA il primo IMPORIO EUROPEO per la commercializzazione del CAFFE' le prime (e peraltro celebrate) BOTTEGHE DEL CAFFE' (ove si poteva degustare la bevanda) siano comparse proprio nella città lagunare.
Secondo quasto scrive il Verri (ibidem) le cose in origine non sarebbero tuttavia state così: "...Nell'Oriente era in uso la bevanda del caffè sino al tempo della presa di Costantinopoli fatta da' Maomettani, cioè circa la metà del secolo decimo quinto; ma nell'Europa non è più di un secolo da che vi è nota. La più antica memoria che se abbia è del 1644, anno in cui ne fu portato a Marsiglia, dove si stabilì la prima PRIMA BOTTEGA DI CAFFE' aperta in Europa l'anno 1671...".
Pietro Verri sembra davvero informato: per quanto la VENEZIA del XVIII secolo fosse destinata ad acquisire gran fama per le sue celebri BOTTEGHE DEL CAFFE' (ricordiamo al proposito che Carlo Goldoni diede ad una delle sue commedie il titolo di La Bottega del caffà) e tra questi locali veneziani si ricordano tuttora per la fama raggiunta in ogni ambiente alcune BOTTEGHE DEL CAFFE' tra cui quelle dette Al Re di Francia, Alla Regina d'Ungheria e finalmente Quadri.
Però nessuno di questi locali, per quanto famosi, può vantare un'antichità simile a quello della BOTTEGA DEL CAFFE' DI MARSIGLIA menzionata con tanta precisione da Pietro Verri: e la cosa non pare di poco conto, è ancora una conferma che la VASTA AREA GEOGRAFICA che va dal Rodano a tutto l'attuale territorio di Imperia fu per millenni una specie di PORTA D'ACCESSO DELL'OCCIDENTE per tutta una serie di eventi, trasformazioni ed influenze interagenti da ogni angolo del MONDO CONOSCIUTO.
Da allora la malattia è definita HANSENIASI o Morbo di Hansen ed i malati Hanseniani.
Anche se la malatita è perfettamente curabile ancora oggi le si accompagna spesso un pesante stigma sociale che vede le persone che ne sono affette, anche se guarite completamente, considerate "diverse" e socialmente emarginate.
Il citato stigma o marchio sociale dipende dal retaggio della paura secolare per una malattia cha a lungo ha evocato terrore a causa dell'incurabilità e delle tremende mutilazioni che provoca. In effetti le deformità provocate dall'hanseniasi sono devastanti ed inconfondibili ed esclusivamente una cura precoce e tempestiva può evitarle.
Subito dopo il contagio il bacillo inizialmente, distrugge i nervi periferici provocando insensibilità; successivamente attacca i tessuti causando le mutilazioni. Se non trattata provoca danni progressivi e permanenti a pelle, nervi, arti ed occhi.
Solo nel 1940, con il dapsone, si cominciò ad avere una cura, ma il farmaco andava assunto per tutta la vita ed aveva il solo effetto di rallentare l'avanzata della malattia.
E' dai primi anni '80, con l'introduzione della polichemioterapia (rifampicina, clofazimina e dapsone), che finalmente dalla lebbra si può guarire.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità - OMS raccomanda la polichemioterapia dal 1981.
Da 5 a 20 anni è il periodo d'incubazione del bacillo che causa la malattia.
Da 6 mesi a dua anni dura il periodo di trattamento farmacologico.
Si stima che più di 6 milioni di persone subiscano oggi le conseguenze fisiche e sociali della malattia.
L'OMS, nella Guida all'eliminazione della lebbra come problema di salute pubblica pubblicata nel 1997, definisce caso di lebbra una persona in corso di trattamento farmacologico con una o più delle seguenti caratteristiche:
- ipopigmentazione o lesioni rossastre con una definita riduzione della sensibilità;
- danni ai nervi periferici; manifesta riduzione di sensibilità e mobilità di mani, piedi e del volto.
La definizione non include persone che abbiano disabilità conseguenti alla malattia.
La comunità internazionale considererà la lebbra vinta quando cesserà di essere un problema di salute pubblica.
L'OMS ha stabilito che l'hanseniasi non costituirà più un problema di salute pubblica quando si ridurrà la proporzione del numero dei malati in una comunità a livelli molto bassi, precisamente al di sotto di un caso su 10.000 persone.
Secondo l'OMS con la prevalenza di un caso su 10.000 c'è la tendenza della malattia ad estinguersi, ed un'eventuale ripresa è altamente improbabile.
E' la stessa OMS però a dichiarare: "Dal 1991 sono stati fatti più progressi che nei 15 anni precedenti.
Circa 10 milioni di persone sono state curate con la polichemioterapia (multi drag therapy MTD). La prevalenza è diminuita dell'85% raggiungendo 1,4 per 10.000 abitanti e la lebbra è stata eliminata come problema di salute pubblica in 98 paesi.
Alla fine del 1998 c'erano nel mondo 820.000 iscritti nei registri di trattamento e circa 800.000 nuovi casi erano stati individuati.
Il progresso fatto, però, non è misurabile con le semplici statistiche in quanto le pene da alleviare e le sofferenze umane non sono misurabili.
La prevalenza della lebbra nei 10 paesi più endemici è ancora di più di 4 volte al di sopra della soglia indicata dall'OMS.
Su questi paesi grava circa il 90% del fardello lebbra.
Sono molteplici i fattori che determinano questa situazione: in particolare l'intensità di trasmissione della malattia; i limiti geografici che non consentono un'adeguata copertura con la polichemioterapia. In alcuni paesi influiscono le problematiche civili e la precarietà delle infrastrutture sanitarie.
E' importante notare che esistono un notevole numero di casi nascosti, come emerge dalle ricerche fatte in base alle campagne di eliminazione.
Le ragioni di questi casi nascosti sono complesse e vanno da un accesso inadeguato alla diagnosi ed al trattamento alla paura di mostrare i primi segni della lebbra, con un ritardo nell'inizio del trattamento, per le conseguenze sociali che ne potranno derivare.
Questo ritardo può avere conseguenze devastanti sul piano individuale e familiare, l'avanzata della malattia, infatti, provoca deformità progressive ed irreversibili che spesso conducono all'esclusione sociale".
"Circa nel mese di agosto del 1579 arrivarono a Genova alcune navi provenienti dalla Sicilia, ove prima aveva infierito la peste, e avendo sbarcate merci stimate sane, mentre invece erano infette perché in quel regno l'epidemia durava da molti mesi. scoppiò in quella città la peste e vi durò per più d'un anno. Infatti le fu accordato il libero commercio da Ottavio Farnese duce di Parma e Piacenza verso il fine di settembre dell'anno seguente.
Al principio di questa epidemia alcuni individui di Taggia, di Ceriana e di Cipressa, introdussero il contagio in queste regioni.
In Taggia però scoppiò in altro momento.
Infatti alcuni, indossate delle vesti comperate per andarsene nel giorno della SS. Trinità, subito si ammalano essi e i loro vicini di casa.
Il magistrato sospetta che sia peste; i malati vengono esaminati; e scoperti i bubboni li fa uscire dalla città con quanti avevano con loro parlato.
Per tal modo i decessi si limitarono a una ventina di persone appartenenti a cinque o sei famiglie e l'epidemia fu troncata: ne sia grazie a Dio, che colpendo risana e spinge al miglioramento e riconoscenza alla commissione di vigilanza di cui facevano parte i nobili signori Bonifacio Pasqua, Benedetto Ardizzone, Vincenzo Vivaldo fu Giovanni, il priore reverendo padre Clemente di cui parleremo e altri.
In Ceriana, Cipressa e Costarainera e altrove la peste infierì tanto che appena si salvò la terza parte degli abitanti come constatai io stesso poco tempo dopo: so che rimasero in trecento.
In Cipressa morì colpito dal contagio il reverendo padre Pietro Bosco che fu più sollecito della salute spirituale dei fedeli: come giustamente si dice dell'uomo saggio.
Mi fu narrato un fatto che sembra quasi un prodigio. Prima che ancora si parlasse di epidemia, tutti i fanciulli di Ceriana si partirono dal loro paese senza guida e senza sapere ove andassero e giunsero a Taggia. I ragazzi di Taggia vedutili (non sappiamo il perché) con sassate e con altri brutti modi li scacciarono. La popolazione lamentò questo fatto ma poi vide la volontà di Dio che per la loro salvezza fece subito tornare questi ragazzi a casa loro.
In tante calamità il nostro convento ( dei Domenicani di Taggia) fu per un anno senza priore perché non era ammesso l'accesso in Taggia per paura del contagio".
Fu suo, infatti, il primo approccio scientifico alla prevenzione del vaiolo, malattia virale gravissima di cui si hanno tracce già nel secondo millennio a. C. in mummie egizie e in cronache cinesi.
In Europa comparve solo nel sesto secolo d. C. e prese il nome dal latino varius (maculato, in riferimento all'aspetto della pelle dei malati).
Nel Cinquecento fu portato in America dai conquistatori spagnoli, e nel solo Messico uccise oltre tre milioni di indigeni.
Ovunque si presentasse, il vaiolo causava epidemie con migliaia di morti; chi si salvava, rimaneva orribilmente sfigurato.
Già dall'antichità in Cina, in Arabia, in Etiopia e nel Caucaso c'era l'uso di inoculare ai ragazzi il liquido proveniente da lesioni di individui che avevano contratto il vaiolo in forma lieve.
Questa pratica causava una malattia per lo più a decorso benigno e salvava da infezioni successive: si era visto, infatti, che chi aveva già avuto il vaiolo, non lo prendeva più.
Tale metodo si diffuse all'inizio del diciottesimo secolo in varie corti europee e in seguito si estese alle popolazioni.
Questa tecnica in Italia fu introdotta dal medico Giovammaria Bicetti De' Buttinoni: a livello europeo però tale scelta medica venne originariamente introdotta a baneficio di sua figlia, e sull'esperienza maturata in Medio Oriente, dalla moglie dell'ambasciatore inglese in Turchia Lady Wortley Montague.
Tale metodo venne però ostacolato dalla facoltà teologica di Parigi e visto con perplessità da molti studiosi, ma più che altro il suo fallimento fu dovuto al fatto che la malattia trasmessa direttamente da braccio a braccio era vaiolo vero e proprio, e poteva dar luogo anche a epidemie.
La pratica, nonostante l'accoglienza entusiastica di alcuni, come il Parini che le dedicò un'ode nel 1765 (L'innesto del vaiolo), fu abbandonata, anche perchè proprio alla fine del Settecento si sparse la notizia che usando pus del vaiolo delle mucche si ottenevano ottimi risultati senza correre rischi.
E' a questo punto che s'inserisce il lavoro di Jenner.
Egli, da giovane, aveva sentito una contadina dire che non avrebbe contratto la malattia perchè aveva già preso il vaiolo vaccino: era questa, infatti, la voce che girava per le campagne.
L'occasione di mettere in pratica le sue teorie Jenner la colse quando una mungitrice s'infettò con il vaiolo delle mucche e sviluppò delle pustole sulle mani.
Egli prelevò dalle lesioni del materiale che il 14 maggio 1796 inoculò nel braccio di un ragazzo sano di circa otto anni.
Dopo una settimana, questi cominciò a star male: lamentava dolori all'ascella, poi sensazioni di freddo e mal di testa, ma dopo qualche giorno tutti i disturbi scomparvero.
Per vedere se il ragazzo si era effettivamente immunizzato, Jenner un mese e mezzo dopo gli inoculò del materiale preso da una pustola di una persona malata di vaiolo: il piccolo non si ammalò.
La prova fu ripetuta successivamente, sempre con lo stesso risultato.
Lo scienziato compì molti altri esperimenti simili e ne dedusse che un individuo infettato con la malattia delle mucche viene preservato dal più temibile vaiolo umano.
Ovviamente Jenner, con le conoscenze del tempo, non poteva sapere che il successo del suo esperimento era dovuto al fatto che il virus dei bovini e quello dell'uomo hanno in comune alcune sostanze (antigeni) capaci di suscitare nel nostro organismo reazioni difensive: gli anticorpi prodotti in seguito all'inoculazione del vaiolo vaccino proteggono dunque anche da un'eventuale infezione dell'altro virus.
Se Jenner è stato il primo ad aver fatto una vaccinazione interpretandola con rigore scientifico, solo un secolo dopo Louis Pasteur riuscì a capire che tale pratica si poteva generalizzare per prevenire vari tipi di malattie mediante l'inoculazione di germi opportunamente attenuati.
Per questo motivo il termine "vaccino", che originariamente indicava il vaiolo dei bovini, è ora usato per qualsiasi sostanza capace di produrre immunità specifica nei confronti di una data infezione.
Nel 1798 Jenner rese pubblici i propri studi.
Ben presto, però, fu attaccato da varie parti: si sosteneva che l'immunizzazione con il vaiolo vaccino non era una sua invenzione, bensì era già stata applicata altre volte.
Egli si difese dichiarandosi il vero scopritore del metodo.
In realtà prima di lui altri avevano fatto le stesse osservazioni.
Jenner aveva forse copiato l'idea?
Chissà !
Gli va comunque riconosciuto il merito di aver affrontato per primo il problema con spirito scientifico e di aver collaborato a diffondere la vaccinazione, salvando moltissimi dalla malattia che per secoli aveva terrorizzato intere popolazioni.
Nel maggio 1980 l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato scomparso il vaiolo: si tratta della prima malattia infettiva debellata dall'uomo.
Quindi la vaccinazione ormai non si usa più: per ogni evenienza, tuttavia, esistono ancora depositi di vaccino.
Per evitare che il virus del vaiolo possa uscire casualmente o per fini terroristici dai laboratori in cui è studiato, la sua conservazione viene autorizzata solo in due strutture di ricerca, in Russia e Stati Uniti.
Da tempo si discute se debbano essere eliminati anche questi ultimi ceppi.
[bibliog. : saggio di Anna Buoncristiani su "La Stampa", 21 dicembre 1998.
Nell'uomo provoca l'idrofobia (avversione all'acqua).
Una volta penetrato nella cellula nervosa, come ogni altro virus "si impadronisce" del materiale genetico di questa per moltiplicarsi, pur senza distruggerla completamente.
Il virus rabbico alberga abitualmente nella saliva degli animali infetti, tramite la quale si trasmette ad altri animali e all'uomo attraverso il morso.
Ma può bastare il contatto della saliva con una pur piccola ferita (ad es. quando l'animale lambisce il suo "amico") a che si stabilisca l'infezione.
Cani, gatti, volpi e pipistrelli sono i più frequenti responsabili della trasmissione.
Una volta penetrato nell'organismo umano, il virus rimane nel punto d'ingresso per un certo periodo, senza però moltiplicarsi.
Dopo alcune ore, esso percorre per via centripeta (cioè dalla periferia verso il cervello) i nervi periferici, sino a giungere a quelle stazioni intermedie che sono i "gangli nervosi".
E' nelle cellule nervose di questi gangli che esso si moltiplica, invadendo poi il sistema nervoso centrale.
A questo punto l'idrofobia si manifesta in tutta la sua gravità, e diviene irreversibile.
Da parte sua l'organismo cerca di difendersi producendo anticorpi contro il virus, i quali possono essere evidenziati con speciali prove sul siero.
Dopo un periodo silente di incubazione di 18-90 giorni (è più breve nei bambini che negli adulti, e quanto più la sede del morso è vicina alla testa), intorno alla ferita compare una reazione infiammatoria, ha inizio la fase prodromica con febbre, cefalea, perdita dell'appetito, vomito, insonnia, tachicardia, dilatazione delle pupille, difficoltà nella deglutizione.
A questo punto insorge la cosidetta "fase neurologica acuta", con ipersensibilità agli stimoli esterni, e nella quale -tipicamente- la semplice vista dell'acqua provoca convulsioni generalizzate, donde il nome di "idrofobia".
Le manifestazioni tendono ad aggravarsi sempre più, sino alla comparsa di spasmi faringei e di paralisi in varie parti del corpo.
Ad ogni contrazione il soggetto emette bava dalla bocca e suoni rauchi dalla gola, che ricordano il latrato del cane.
E' durante una di queste crisi che il soggetto può morire, mantenendo in genere integra sino all'ultimo la coscienza.
E' molto raro che la malattia possa regredire.
Non esiste un trattamento specifico nè efficace dell'idrofobia anche se nell'antichità si proposero "cure miracolose" avverso questa terribile malattia: le sole misure con le quali si può aiutare il paziente sono di supporto, per mitigare quanto più possibile i disturbi respiratori, cardiovascolari e neurologici.
Qualche vantaggio può derivare dalla somministrazione di gammaglobuline iperimmuni e di interferon.
Meno difficile risulta la prevenzione, che è ovviamente legata alla profilassi negli animali: maggiore è il numero degli animali vaccinati, minori sono le opportunità di infezione.
Una volta che il soggetto è stato morso (il che va sempre denunciato), per prima cosa occorre procedere alla toletta accurata e alla disinfezione della ferita, nonchè alla vaccinazione antitetanica (il tetano è sempre in agguato).
Se il morso è nelle parti alte del corpo (ad es. in testa), si pratica al più presto possibile la somministrazione di gammaglobuline iperimmuni.
Se si cattura il cane che ha morso, si può tralasciare ogni altro intervento, lasciando il cane in osservazione per una decina di giorni e stando attenti a che non compaiano in esso segni di rabbia: Se questi sopravvengono, ci si comporta allo stesso modo di quando il cane è un randagio e non sia stato catturato: oltre alle suddette misure, si procede alla somministrazione di una della varie forme di vaccino oggi esistenti, tutte a base di virus attenuati.
Il vaccino di uso più comune è quello inattivato con una speciale sostanza detta "beta-propiolattone": implica la somministrazione intramuscolare di sei iniezioni (da praticare, oltre la prima, al terzo, settimo, quattordicesimo, trentesimo e novantesimo giorno).
Questa vaccinazione conferisce un'imunità (dopo un paio di settimane) che giunge sino a tre anni.
Con il vaccino antirabbico, realizzato per la prima volta dal chimico francese Louis Pasteur nel 1885, e con i successivi perfezionamenti, la rabbia subì una certa sconfitta per una cinquantina di anni, ma ora sta di nuovo dando segno di sè.
Anche se nei Paesi industrializzati i casi di idrofobia sono ormai rarissimi, aumenta il numero degli animali infetti.
Tra altri luoghi lo troviamo citato in questa lettera al padre Galileo di Virginia Galilei
(1600 - 1634) ormai fattasi suora:
10 novembre 1629
Amatissimo Signor Padre.
Mi dispiace in estremo il sentire l'indisposizione di V. S., e tanto più perché ordinariamente è più travagliata quando viene da noi; e ardirei di dire, se credessi indubitatamente che questa gita tanto le nocessi, che più presto mi contenterei di privarmi di vista tanto cara e desiderata; ma veramente ne incolpo molto più la contraria stagione. La prego ad aversi cura più che sia possibile.
Non poteva Suor Luisa mia aver maggior gusto quanto che vedendo che V. S. faccia capitale (se bene in piccola cosa) della nostra bottega; solo ha timore che non sia l'ossimele di quella esquisitezza ch'ella vorrebbe, dovendo servire per V. S. Gliene mandiamo once V come domanda, e se più gliene bisognerà siamo prontissime; ma perché ordinariamente si suol temperare con siroppo di scorza di cedro, anco di questo gli mandiamo, acciò veda se gli gusta: e, se altro gli occorre, dica liberamente. La ringrazio dei ritagli, e caso che n'abbia più, mi saranno gratissimi, e ancora io non lascierò di mandarle qualche amorevolezza per la Porzia [governante di Galileo]. Gli mando un poco di marzapane, che se lo goda per mio amore, e la saluto insieme con Vincenzio e la Cognata, della quale molto mi duole che si ritrovi in letto, e se gli bisogna qualche cosa ch'io la possi servire, lo farò molto volentieri.
Nostro Signore doni a tutti la sua santa grazia.
sua figliuola Affezionatissima
S. Maria Celeste
Il medico spagirico veronese del XVI secolo Z. T. Bovio la citò spesso nelle sue opere (sotto l'esito latineggiante SQUINANTIA) come causa di gravi patologie, specie per i fanciulli e le persone meno resistenti, proponendone varie forme di cura.
La sintomatologia è rappresentata essenzialmente da dolore, che si accentua nell’inspirazione profonda, con gli atti della tosse e con i movimenti del torace.
Il dolore, riferito come acuto e lancinante, è in genere unilaterale, sebbene possa irradiarsi alla spalla e all’addome: è provocato dallo sfregamento dei foglietti pleurici infiammati durante i movimenti respiratori.
Solo il foglietto pleurico parietale, che riveste la parete toracica, è innervato, e quindi responsabile della sintomatologia dolorosa.
Se alla fase di pleurite secca (o fibrinosa) segue un versamento pleurico, la falda liquida interposta fra i due foglietti ne attenua l’attrito e conseguentemente si ha la netta riduzione del dolore.
Il paziente assume posizioni obbligate di decubito, che consentono il minor attrito fra le due superfici pleuriche e quindi la minima insorgenza di dolore.
Inoltre, sempre al fine di ridurre il dolore, il paziente riduce la profondità della respirazione.
La pleurite può rappresentare un evento patologico primario (virale, batterico, autoimmune in corso di lupus eritematoso sistemico ), oppure seguire a una polmonite o a processi tubercolari o tumorali (primitivi o secondari a carico della pleura) o a infarto polmonare.
Sul piano morfologico, la pleurite viene distinta in secca (o fibrinosa), sierofibrinosa, emorragica, purulenta ( empiema ).
Nella pleurite fibrinosa, il versamento è assente e si ha un essudato ricco di fibrina, che riveste i foglietti pleurici.
Il dolore puntorio è sempre presente. In fase cronica, la fibrina può formare delle aderenze fra i due foglietti, limitando la dinamica respiratoria.
La pleurite sierofibrinosa è caratterizzata da versamento essudatizio di varia entità.
La pleurite emorragica è caratteristicamente su base tubercolare o tumorale.
La pleurite purulenta può provocare saldatura delle due superfici pleuriche e gravi alterazioni della dinamica respiratoria.
[SANIHELP.IT - Anno. 4 - n. 12
SAB 20 MAR 2004]
***********SONNO - SOGNO - POSSESSIONE DIABOLICA - DEMONE INCUBO - DEMONE SUCCUBO***********
di cui si può vedere la variegata e terrifica
CASISTICA PROPOSTA DA M. A. DEL RIO SUI
DEMONI DEL SONNO E DEI SOGNI
DAI VARI NOMI A SECONDA DELLE DIVERSE CULTURE:
DEMONI INCUBI E SUCCUBI - NIGHTMARE - "EPHIALTES" - "INCUBUS" - "LA PESADILLA" - "LA COQUEMARE" ECC.
Col tempo, specie in epoca medievale la MALATTIA (VEDI QUI L'INDICE) non mancò di esser giustificata quale PUNIZIONE DIVINA PER UNA COLPA PROPRIA O DELLA FAMIGLIA: da qui, specie nei paesi mediterranei, si sviluppò, a livello di cultura popolare la consuetudine di nascondere dalla famiglia la malattia di un congiunto, come EFFETTO DELLA MALVAGITA' DI UN DEMONE MALIGNO O DI UN DIO PAGANO DIVENUTO DEMONE PER EFFETTO DELLA CRISTIANIZZAZIONE o quale ARTIFICIO DI MAGIA NERA ("FATTURA DIABOLICA") [sotto forma soprattutto di MALEFICIO DELLE MALATTIE] praticata da STREGHE, FATTUCCHIERE o MASCHE, specie in caso di malattia inspiegabile come una FORMA EPIDEMICA [ma anche un'impotenza a procreare, la tendenza ad abortire, la MALATTIA MENTALE nelle forme più temute, secondo gli AFORISMI DI IPPOCRATE, la MELANCONIA/MELANCOLIA o MANIA, che non sempre ma di frequente era la DEPRESSIONE, ma che si ritenne a lungo effetto d'un MALEFICIO DIABOLICO: quando invero non se ne tentarono altre spiegazioni, magari con la
TEORIA DELLE SIMPATIE ED ANTIPATIE COSMICHE
connessa al principio della
LEGGE UNIVERSALE DI ATTRAZIONE E REPULSIONE E/O DEL MAGNETISMO E DELLA POTENZA DELL'UNIVERSO
od ancora tramite
la discussa
TEORIA DEGLI AFFETTI E DELLE PASSIONI [TEORIA DELLE INCLINAZIONI]
, e di conseguenza la
NEVRASTENIA OSSESSIVA,
non compresa e quindi dimensionata quale conseguenza di un indeterminato
********************************CANCRO********************************
, la MALATTIA che i DEMONI e le STREGHE avrebbero frequentemente scatenato contro le loro VITTIME od ancora più direttamente rimandata a quel campo assolutamente soprannaturale delle POSSESSIONI DIABOLICHE (INDEMONIATO - INDEMONIATA) entro cui primeggia in qualche modo la figura del "LUPO MANNARO O LICANTROPO OD UOMO LUPO" pur analizzata dal XVI secolo per opera di MEDICI ILLUSTRI nel tentativo di darne
una giustificazione naturalistica qual "FOLLIA LUPINA".
[vedi comunque, per un approfondimento sulla varietà delle patologie di natura psichiatrica, qui, la malattia mentale nella interpretazione che ne darà F. Puccinotti nelle sue celebri Lezioni di Medicina Legale]
***Per un discorso più completo sull'argomento si possono anche consultare la voce RESTRICTIO MENTALIS e soprattutto le voci settoriali ENERGUMENI - LUNATICI - PAZZI EPILETTICI - DEMONIACI OD OSSESSI della voce "IRREGULARITAS" della BIBLIOTHECA CANONICA... del padre francescano Lucio Ferraris: vi si evince come ancora tra fine XVII secolo e primi XVIII secolo, sia per la Chiesa che per lo Stato, tante forme di ISTERISMO fossero connesse a
"POSSESSIONI DEMONIACHE" SI' DA COMPORTARE COME ULTIMA RISORSA IL RICORSO AD "ESORCISMI ORDINARI E/O STRAORDINARI".
Un'ideazione poco scientifica ma in linea coi tempi per giustificare tutte le forme di pazzia comprese quelle insodabili ai mezzi dell'epoca, quelle che, al modo che si legge in altra parte dell'OPERA DEL FERRARIS potrebbero collegarsi al mondo dell'insondabile nei momenti in cui ogni individuo è maggiormente indifeso cioè nel contesto del
***RIPOSO TOTALE QUANDO, NELL'OTTICA DEL TEMPO, DEMONI ED ALTRE ENTITA' POTEVANO PRENDER POSSESSIONE D'UN UOMO E SOPRATTUTTO D'UNA DONNA MENTRE DORMIVANO***
sì da alimentare tutta una letteratura canonica e per nulla dedicata all'evasione (fenomeno questo datato recentemente per interazioni tra letteratura orrorifica e cinamotografia dell'"Horror") incentrata sulle interferenze nell'intreccio fra
SONNO E SOGNI DEI "DEMONI DEI SOGNI" QUALI: INCUBI, SUCCUBI, "EPHIALTES" - "LA PESADILLA" - "LA COQUEMARE"
Consapevole dell'esistenza di radicate postulazioni mediche sull'inferiorità fisica e psicologica correnti a riguardo della donna quell'agguerrita antagonista di A. Aprosio che fu Arcangela Tarabotti, nel contesto della sua discussa opera "La Semplicità Ingannata" (o "Tirannia Paterna", comunque uno scritto avverso l'uso delle "monacazioni forzate") non disperde come vaniloquio il teorema che le donne possano esser lunatiche, mobili, imprevedibili ma, dopo aver più volte sottolineata la pazzia di parecchi uomini, finisce per associarli alle donne affermando che se a queste si dà l'appellativo di lunatiche con altrettanta ragione ad un buon numero di uominin si potrebbe assegnare quello di lunatici.
L'apparente equazione, costruita con indubbio garbo retorico, cela però una ben oliata trappola antimaschilista: della pazzia di tanti uomini han parlato poeti ed eruditi ma qui conta poco, essendosi per lo più trattato di giuoco di cultura. Conta invece il fatto tutta questa opera della Tarabotti si è in qualche modo "solidificata" sul principio della femminea mutevolezza [p. 37 ], quasi fosse esclusiva del sesso muliebre: ed invece la sagace suora veneziana, procedendo per via di continui confronti e prestiti ora biblici ora mitologici, giunge a pagina 236 a suggerire anche per gli uomini l'idea di lunaticità, ma a ben guardare d'una lunaticità diversa da quella delle donne (che gli uomini stessi ed i loro maschilisti dottori sottolineano piuttosto quale mutevolezza caratteriale attese le peculiarità del sesso), potremmo dire (ma le parole della Tarabotti ben suggeriscono l'idea) di una lunaticità affatto caratteriale o congenita per natura del sesso
Un bel teorema (qualcosa certamente superiore ad un mero sillogismo) disegna qui la Tarabotti...forse fin troppo fine per tanti suoi altezzosi interlocutori, ma che non può esser sfuggito a lettori attenti quale Angelico Aprosio! una di quelle tante organizzazioni concettuali della suora che meritano d'esser citate: soprattutto per la qualità, in lei evidente a differenza che in tanti suoi interlocutori (a dire il vero Aprosio compreso!) di "rimasticare fin alla nausea luoghi comuni" variamente ereditati, senza dar loro, come la suora riesce a fare, rinnovata linfa entro un nuovo e manierato contesto adatto alla polemica in essere.
SCIENZA ALCHEMICA.
L'ELIXIR (che infusa su un minerale avrebbe proprietà di trasmutarlo) e la PIETRA FILOSOFALE son stati fine ultimo della vita di generazioni di "ricercatori" e attualmente J. Bergier nota che le conclusioni di scienziati moderni hanno rivalutato molte "leggende" fra cui quella della
TRASMUTAZIONE DEI METALLI
e dell'
******ACQUA******
, anche sotto forma di
****FONTE DELLA GIOVINEZZA****,
stretto tema alchimistico connesso all'antichissimo culto delle sorgenti [peraltro per la valle del Nervia e non solo nel Ponente Ligure].
In tal contesto forse la figura più sconvolgente per quanto enigmatica resta sempre quella del polacco
"*********MICHAEL SENDIVOGIUS*********
Alla trasmutazione, alla rinascita, all'inizio d'un nuovo ciclo ripreso da vari autori, non ultimo Federico Gualdo (Gualdi)] si collegano comunque oltre che la SPAGIRIA paracelsiana le tematiche terapeutiche connesse, al modo che scrisse Aprosio, ai temi dell'
UNGUENTO ARMARIO e/o della POLVERE SIMPATETICA,
connessi alle poderose quanto controverse speculazioni del
THEATRUM SYMPATETICUM
e più estesamente dell'
ASTROLOGIA,
ed in merito a ciò Aprosio non avrebbe evitato ogni sorta di contatti intellettuali, anche con personaggi quasi entrati nel mitologhema dell'esoterismo e della ricerca sul paranormale come l'eruditissimo gesuita
ATHANASIUS KIRCHER
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Molti reputano che l'unico interesse dei conquistadores spagnoli, dopo la scoperta del Nuovo Mondo (America - Americhe), fosse l'asservimento delle popolazioni amerindiane
non tanto come conclamato a titolo giustificativo per una civilizzazione che li allontanasse da barbare usanze come quella dei sacrifici umani e di sangue agli dei (e del resto
la cultura del sangue per quanto non cruenta era ben nota anche in Europa ed era stata addirittura rielaborata dal primigenio contesto religioso per via di una speculazione filosofica che la collegava ai teoremi del magnetismo universale e della possanza dell'universo)
ma per far schiavi e soprattutto depredare gli antichi imperi precolombiani d'oro ed argento: e non casualmente minima fu l'attenzione posta verso le assai meno ricche popolazioni precolombiane dell'America settentrionale, destinata in tempi posteriori a diventare drammatica con la fame di terra negli Stati Uniti d'America e l'insorgenza della così detta Questione della Nazione Indiana.
Senza ulteriori digressioni o riflessioni per sostenere il precedente discorso a titolo esemplificativo, tra le opere che si sono proposte qui, basta scorrere le pagine digitalizzate e multimedializzate coi necessari collegamenti ipertestuali della drammatica
************RELAZIONE DI ALVARO DI TOROZOMOC DELLA CONQUISTA DELL'IMPERO AZTECO************
e quella della ancor più antica
************RELAZIONE DELLO XERES IN MERITO ALLA CONQUISTA DELL'IMPERO INCA************.
E tuttavia, alla radice di tanto accanimento, di tante lotte, di tante ricerche oltre che l'indubbia insaziabile fame di oro ed argento (ben simboleggiata dalle continue spedizioni per individuare
il leggendario la ricerca del leggendario EL DORADO di cui
si legge anche nelle pagine di una preziosa e poco nota relazione di Fernando d'Oviedo esploratore e storico del Re di Spagna)
v'era, asfissiante, la
RICERCA PURE DI ALTRO.
Era epocale il TERRORE AVVERSO LA MORTE (DEATH - FINIS VITAE) giustificato da tante calamità e dall'impotenza delle cure conosciute.
Per conseguenza era divenuta altrettanto ossessiva la ricerca di una qualsiasi via di fuga dalle MALATTIE e, data la credenza epocale, anche da MORBI FRUTTO DI ARTIFICI MAGICI quanto, per superstiziosa correlazione, da MALATTIE PER POSSESSIONI DIABOLICHE AVVENUTE SPECIE DURANTE IL SONNO TRAMITE DEMONI INCUBI, SUCCUBI, "EPHIALTES", "LA PESADILLA", "LA COQUEMARE".
Così sulla scia di improbabili speranze ma anche della SCOPERTA DI NUOVE ED IMPORTANTI PIANTE CURATIVE si sparse la voce, ritenuta sempre più attendibile in forza di fantasiose testimonianze, che in quelle LONTANE E MISTERIOSE CONTRADE DEL NUOVO MONDO esistesse addirittura la FONTE DELL'ETERNA GIOVINEZZA o comunque una FONTE CAPACE DI FAR RINGIOVANIRE in pieno ossequio ad una delle tante varianti di quella ricerca di imperitura giovinezza letterariamente sublimata da Goethe nella
***LEGGENDA DEL DOTTOR FAUST***.
In dipendenza di queste dicerie, cui davasi spesso credito assoluto anche da parte di eruditi e medici, come scrisse F.C. MARMOCCHI in un VOLUME di una sua poderosa RACCOLTA DI VIAGGI il conquistatore spagnolo
Juan Ponçe De Leon,
conquistatore di Portorico e scopritore della Florida, andò specificatamente alla ricerca di una
FONTE LA CUI ACQUA AVREBBE RIDONATO LA GIOVENTU',
[the search for the most precious treasure, the source of eternal youth - la búsqueda del tesoro más precioso: la fuente de la eterna juventud]
una favola questa appunto sostenuta da vaghe basi alchemiche, una favola capace di alimentare ben altre investigazioni sull'eterna giovinezza e comunque una favola che spesso divenne follia, come quella che governò la mente ormai insana, proprio nel XVII secolo, della tragica e transilvanica
CONTESSA E. BATHORY.
Queste postulazioni su siffatto
campo del paranormale non erano, per certi versi, neppure estranee ad una cultura ufficiale mediamente perseguita e strutturata su FILOSOFIE PROIBITE E DANNATE od ancora sulle basi di una SCIENZA ALCHEMICA OSCILLANTE VERSO LA MAGIA NATURALE MA VERTENTE SU UN PRINCIPIO DI POSSANZA MAGNETICA DELL'UNIVERSO NON RIFIUTATO DALLA STESSA CHIESA DI ROMA: un principio o meglio un'energia custodita in specifici prodotti con specifici componenti sì che dalla mummia vera d'Egitto, dall'energia del sangue, dall'usnea del teschio, dal vetriolo romano e molto altro sarebbero derivati ad esempio, ma non solo, "polvere simpatetica" ed "unguento armario"
E così le indagini su cui si è sopra parlato non furono esclusiva, come qualcuno potrebbe credere, di "scienziati folli" o addirittura di mercanti di meraviglie ed imbonitori ma ebbero interpreti di grande valore e tanti altri studiosi ancora se ne occuparono oltre per specifico interesse anche per ragioni erudite
non esclusi tre illustri personaggi del Ponente Ligure nel XVII secolo tra cui
contestualmente
GIAN DOMENICO CASSINI e DOMENICO ANTONIO GANDOLFO, direttamente e/ indirettamente, attratti dalle ricerche magiche ed alchemiche romane sul prolungamento dell'esistenza già ruotanti attorno alla figura
di
Maria Cristina di Svezia angosciosamente impegnata -nell'illusione di salvarsi da invecchiamento e morte- nella ricerca del leggendario Alkaest:
mentre per altra via il terzo fra questi e in un modo o nell'altro il loro maestro cioè
ANGELICO APROSIO IL "VENTIMIGLIA"
-già reputato un'autorità nel campo dell'ASTROLOGIA specie per i suoi studi sulle cause astrali della micidiale PESTE BUBBONICA DEL 1656 - '57-
si interessò non solo di Esoterismo e Stregheria
od in senso più settoriale di casi specifici poi divenuti cartini della letteratura orrorifica come quello della Licantropia dei Lunatici - come pure
nelle sue instancabili investigazioni sulla diversità estrema di mostri diabolici, di "parti mostruosi", di
mutanti e addirittura
di uomini-bestia secondo l'interpretazione della zooantropia di Jusepe Gonzalo de Salas -
ma giunse al punto di interessarsi anche della singolarissima vicenda del Conte Dracula e in senso più lato tanto del tema del sangue benefico e/o del sangue malefico quanto di quello dei non morti o piuttosto delle morti apparenti anche se occorre immediatamente precisare
che tutte queste investigazioni spesso spinte all'estremo comprese le ricerche sul tema del VAMPIRO per l'eruditissimo agostiniano di Ventimiglia si collocavano in una prospettiva più
vasta ed in gran parte connessa ai suoi doveri di Vicario dell'Inquisizione spesso impegnato ad analizzare questioni delicatissime di SACRILEGI, PROFANAZIONI, ILLECITE PROPOSIZIONI, MAGIA NERA, INVOCAZIONI DEL DEMONIO, POSSESSIONI E RELATIVI ESORCISMI, ECC. (anche in merito CIMITERI E VIOLAZIONE DI SEPOLCRETI COMPRESI I PROCESSI LECITI O NON DI INUMAZIONE ED "IL DIRITTO O NON DI SEPOLTURA IN TERRA CONSACRATA) tutti argomenti non di poca importanza in un'epoca di dilagante superstizione.
E proprio una FALSA CREDENZA IN RELAZIONE A VAMPIRISMO E CULTURA DEL SANGUE importata
da avventurieri e/o marinai provenienti dalle Americhe l'agostiniano, in verità piuttosto riflessivo e mai cedevole alla gretta superstizione, sarebbe riuscito a demistificare in forza anche dei suoi contatti con missionari operanti nelle Americhe e comunque forniti di dettagliate pubblicazioni come questa qui digitalizzata per il riconoscimento di forze diaboliche, streghe, demoni e per attivare difese ed esorcismi: eppure la credenza andava prendendo piede alimentata dalla fantasia dei menzionati avventurieri superstiti da tante avventure nel Nuovo Mondo e più che mai convinti di essersi imbattuti (oltre che in Guerriere Amazzoni ed in Streghe e addirittura Streghe Antropofaghe) in una variante di
VAMPIRO AMERICANO
connesso dalla superstizione ora alla figura del SERVO DELL'ANTICRISTO NELL'IDEA DI UN'IMMINENTE APOCALISSE ora a quello del DIABOLICO UNTORE da cui avrebbero -a dire anche d'alcuni medici- contratto malattie terribili e prima ignote come la Sifilide.
Comunque a riprova di tali interessi epocali per siffatti temi sospesi tra realtà, magia, orrorifico, credulità popolare, indagini scientifiche ed ecclesiastiche vale la pena di rammentare qui che addirittura un grande interprete del soprannaturale e delle connivenze diaboliche qual fu MARTIN ANTONIO DELRIO (DEL RIO) nelle sue "DISSERTAZIONI SULLA MAGIA", con altre analoghe questioni più facilmente confutabili, dovette affrontare con estremo rigore il quesito se il DEMONIO POTESSE RIDARE LA GIOVINEZZA AD UN VECCHIO, a dimostrazione che quella del De Leon non era stata reputata una fantasia ma che aveva goduto di credito dissertò appunto di UNA FONTE CHE SI DICEVA ESISTENTE NEL MONDO NUOVO -OVE PERALTRO SI PARLAVA DI INDIANI GIUNTI AD ETA' INCREDIBILI- E CHE AVREBBE AVUTO IL POTERE DI RIDARE LA GIOVINEZZA AD UN UOMO ANZIANO.
Il DEL RIO, autore di grande fama e stimatissimo da A. Aprosio, esternò tutto il suo scetticismo su questa notizia ma non si espose più di tanto a confutarrla: per lui molte cose erano possibili in forza di interventi demoniaci e molto poteva derivare in fondo dalla pratica dell'
ALCHIMIA di cui cercò di tracciare una storia (Lib.I,Cap.V,Quest. IV) finché, codificata tal "arte" per categorie, scrisse :"[l'A.] in verità è ritenuta lecita dal diritto civile e viene anzi ascritta fra le arti di quanti lavorano nel campo dei metalli" introducendo però, col contributo di interpreti ecclesiastici e autori laici, un' interpretazione giuridica, da non sottovalutare, per cui [dato il "parere d'esperti orefici...secondo i quali l'oro degli alchimisti (salvo interventi demoniaci: ma su ciò in Genova per esempio poteva investigare solo l'Inquisizione: cap. 89, lib. II degli Stat. Crim.) di per sè non può essere che falso e quindi da non immettere sul mercato...di modo che li si dovrebbero incolpare del reato di fabbricazione di moneta o metalli falsi e adulterati"]: sicchè gli "alchimisti fabbricatori di oro falso commerciato per vero ", dalla giustizia di Genova dovrebbero punirsi come Falsari >c. 31 del l. II degli Statuti.
"...le Lamie confessano cose incredibili ed assolutamente impensabili, come l'aver raggiunto in volo il luogo dei raduni sacrileghi, l'essersi congiunte carnalmente col demonio, l'aver più volte suscitato contro uomini, animali e cose le terrifiche forze della natura ostile. Risposta: Siamo invece riusciti a dimostrare che tutto quanto confessato non risulta impossibile al diavolo e pertanto i buoni Cattolici debbono prestar fede a tal genere d'affermazioni. 2: I peccati delle Lamie paiono piuttosto restringibili al puro pensiero, ai desideri più oscuri ma non realizzati: la Chiesa, come del resto alcun tipo di giudici, non deve quindi addivenire ad una punizione avverso queste donne. Risposta: Ho presupposto appena adesso un falso ragionamento; come infatti ben si sa son da punire tutte quelle meditazioni che han lo scopo di finalizzarsi in azioni straordinarie, magari sotto forma dei più vergognosi crimini. 3: la congenita fragilità del sesso femminile e ancor più l'età avanzata dovrebbero essere una giustificazione onde evitare un inasprimento di inchieste, torture e pene. Risposta: Sostiene con giustezza Iulius Clarus, peraltro rifacendosi alla consueta prassi giudiziale, che la vecchiaia non costituisce ragione idonea per sminuire la severità delle pene in occasione dei crimini più gravi: tuttavia ci si sbaglia a pensare che solo gli anziani possano incorrere in tal genere di peccato e che sian lor compagne soltanto le donne da poco conto: pertanto il sesso non può rappresentare alcun tipo di giustificazione in crimini d'eresia o nel campo di delitti terribili.4 : Le Lamie si debbono in verità paragonare piuttosto alle sonnambule o forse ancor meglio a donne che, nel sopore del sonno, confessano colpe assurde, che appartengono alle farneticazioni della loro mente turbata. Risposta: In verità non son mancati casi di fattucchiera e saga che han più volte ammesso, sotto giusto interrogatorio, d'aver perpetrato da sveglie ed in perfetta consapevolezza i loro misfatti, come patti diabolici, coiti satanici, infanticidi, danneggiamento di messi ed armenti: ma del resto ritengo che siano in genere da punire anche quelle che si limitano a meditare le proprie malazioni nei sogni, tenendo altresì conto del fatto che prima d'averle sognate le hanno evidentemente premeditate e che, dopo le visioni oniriche, si son date a farne comunicazione ad altri col folle motivo di trarne guadagno, prestigio e piacere".
La letteratura ecclesiastica inquisitoriale (da fine '500 ben sunteggiata dallo stesso DELRIO), ma comunque non estranea alla trattatistica giuridica dei vari Statuti criminali dei Paesi europei e no, parlava spesso di infanticidi per magia ma curando sempre di inquadrarli nel discusso ecumene della femminilità (il crescente fenomeno di infanticidi rituali, a rigor di verità, non era estraneo a determinate superstizioni ed usanze oscene di provenienza idolatrica mai del tutto disperse nel vecchio continente specie in aree dalle condizioni di estrema arretratezza culturale e parimenti, seppur in tempi abbastanza recenti, al lugubre fenomeno che si sarebbe sempre andato ramificando, fino a sublimarsi in una sorta di religione del potere, attraverso lo sviluppo, anche anacronistico, di sorprendenti sincretismi religiosi nel nuovo continente: specie in ambito ispano-americano e soprattutto nell'area caraibica ove si fusero, per esempio nella relativamente tarda e poco nota "Santeria" ma ancor più nel magismo della religione haitiana del "Vudu", espressioni cultuali dell'ortodossia cristiano-cattolica e sopravvivenze rituali dell'Africa Nera, derivanti ad esempio dal complesso pantheon degli dèi cosmici dei Fon dell'antico regno del Dahomey od ancora dall'ambiente spirituale di divinità, come i Petro, erroneamente giudicate un tempo di ascendenza creola ma piuttosto derivanti, per via di instancabili mediazioni culturali e rituali, dal pantheon dei Kongo in Africa centrale): "...Alcune (streghe ma nel senso di Lamie ancora sottolinea con precisione intenzionale lo stesso DELRIO) si muovono del tutto apertamente, con sfrontata sicurezza, a caccia di vittime. Sono soprattutto quelle che cercano di sorprendere per via qualcuno sì da consegnarlo alle furie di un demone o che soffocano fra materassi e cuscini infanti e bambinelli colti nel sonno inermi, senza custodi. Ma esistono pure quelle forsennate che uccidono i fanciulli conficcandogli un ago dietro le orecchie, come fece quella perfida ostetrica Elvezia di cui fa menzione nel Malleus lo Sprengerio. Risultano comunque innumerevoli i malefici compiuti da fattucchiere contro i bimbi: quando si tratta di neonati esse preferiscono rapirli dalla culla per nutrirsene o far uso a pro d'unguenti delle loro misere carni....ai più grandicelli propinano invece un qualche filtro pernicioso che li uccide all'istante o li macera crudelmente di lenta consunzione [reato contemplato nel capo X del libro II degli Statuti Criminali di Genova del 1556] ed alcune di loro, come già narrarono Quinto Sereno, Ovidio e lo stesso Festo Pompeo (parlando specificatamente di figure arcane dai connotati delle Lamie ed in alcun caso di Maghi Vampiri: anche se qui il DELRIO cede alle lusinghe dei suoi studi eruditi e profani), giungono al segno di succhiare il sangue di questi poverelli...e per testimoniare che tal loro feroce costumanza è tuttora in vigore torna utile leggere quanto ha scritto il Chieza nella sua Descrizione delle Indie (parte II, carta 196) su un gruppo di Malefiche (ma ancora nel senso di Streghe-Vampiro o Lamie) scoperte a Panama e ree d'aver ucciso dei fanciulli bevendone per intiero il sangue" (e quest'ultima riflessione è solo il codicillo di un incredibile teorema in cui sono correlati magismo e superstizione, misoginia e sovrapposizioni culturali così resistenti a livello di tradizione popolare da "assemblare" in una sola entità femminea i caratteri infausti della puttana, della mitica strix atra, di Lamia e Strega, di espressione femminile del Vampiro pregna di sconcertanti attributi di sensualità contorta, senza escludere gli estremi perversi di pedofilia, pederastia, zoofila e persino di coprofagia (nutrirsi di feci umane durante un rapporto sessuale contro natura) se, in un'ulteriore ipotesi di scambio tra rapporti letterario-mitologici e culturali e come in fondo suggerisce una certa ed anche medievaleggiante iconografia delle Lamie, senza neppur troppo osare si accosta la Strega-Lamia alla figura mitologica sempre femminile e sempre oscena dell'Arpia].