ANGELICO APROSIO

APROSIO, Angelico (Ludovico al secolo) nacque il 29-X-1607 da famiglia ventimigliese: i genitori, Marco e Petronilla, appartenevano a due rami del ceppo d’origine romano-imperiale degli Aprosio. Dopo la morte del fratello Beniamino, egli rimase solo figlio maschio ed i genitori lo fecero "applicare allo studio o di Legge o di Medicina". Il giovinetto preferì vestire l’abito degli eremitani di S. Agostino nel convento intemelio dell’ordine (19 marzo 1623). Il padre, a testimonianza di contrasti risolti, lo accompagnò a Genova "per fare il noviziato nel convento della Consolazione". Preso il nome religioso di Angelico, egli trascorse nella capitale ligure l’anno di noviziato trattenendovisi sino al 1626. Presto rivelò una certa indocilità a star troppo tempo nello stesso luogo e, vinte le riserve dei superiori, prese dimora in Toscana, a Siena, presso il Convento di S.Agostino.
Il soggiorno senese risultò importante per la formazione d’Aprosio.
A parte le amicizie che vi contrasse (con Annibale Lomeri, Francesco Buoninsegni e Girolamo Ubaldino Malavolti) in questa città Angelico maturò la scelta culturale per G.B.Marino, attorno al cui poema Adone, egli avrebbe in seguito edificato parte delle sue opinioni estetiche. L’assalto intellettuale alle cinque migliaia di stanze relative ai casi dell’infelice amante di Venere non fu solo interminabile fatica. Per il frate il vasto poema del Marino, oggetto nel secolo di amori e odi, finì col rappresentare un modello di cultura, di una cultura che il funambolismo linguistico e la frustrante erudizione sottraevano ad ogni fruizione plebea per trasformarla in previlegio di casta. A tal punto risulta sintomatico che Aprosio, sempre a Siena, sia entrato in contatto con l’accademismo che, spesso e volentieri, si combinava col marinismo e che, al pari di questo, portava avanti un giudizio aristocratico del fare poetico e critico, cioè erudito.
Qui divenne amico di Alcibiade Lucarini, docente di diritto, fondatore dell’ Accademia degli Uniti e, a Salerno, di quella degli Occulti: grazie al Lucarini ad Aprosio s’aprirono pure le porte dell’ancora più importante Accademia degli Intronati.
A Siena (1628), Angelico, tra gli scaffali della libreria di Gian Paolo Ardoi, s’imbattè nell’ Occhiale di TOMASO STIGLIANI, il "famigerato libercolo" in cui il poeta e critico di Matera aveva raccolto vari rilievi critici al poema ADONE di G.B MARINO, l'autore prediletto di Aprosio e nome massimo della cultura letteraria italiana contemporanea.
Lo scritto dello Stigliani andava suscitando reazioni accese e contrastanti in ambito senese, ma Luca Simoncini, unico erudito locale che tentò per le stampe una risposta critica, finì per essere burlato dalla cultura ufficiale. Aprosio, conscio della propria inesperienza, non osò invece avventurarsi in qualche disputa col più esperto erudito pugliese; attese invece con pazienza che, da Firenze, F.Girolamo della Ripa, "il Caprodosso", gli inviasse l’"Occhiale appannato", lavoro con cui il marinista Scipione Errico andava raccogliendo fama nelle accademie. Ricevuto il libro egli indirizzò subito a questo una lettera cordiale e adulatoria. Aprosio si vide quindi recapitare una prima affettuosa risposta dell’Errico (da Messina,15 luglio 1630): quel primo appuntamento epistolare avrebbe rappresentato l’inizio di un quarantennale sodalizio intellettuale, destinato a spegnersi solo nel 1670, colla morte del poeta siciliano. Ispirato dall’Errico Angelico scrisse allora la sua prima vera opera, "La Sferza Poetica" (contro lo Stigliani!), che tuttavia non potè far pubblicare dallo stampatore fiorentino Cristoforo Tomasini, con cui s’era accordato, per la peste portata dai Lanzi nel 1629-30.
Verso i 23 anni Angelico Aprosio venne incaricato dell’Ufficio di Lettore a MONTE SAN SAVINO, non lontano quindi da Siena [per quanto sia oggi comune della provincia di Arezzo], dove strinse amicizia con PIER FRANCESCO MINOZZI, bizzarro letterato, che gli insegnò i misteri di scritture cifrate, codici gematrici, alfanumerici e cabalistici (specialmente per siffatti interessi il MINOZZI sfiorò a più riprese la temuta accusa di ERESIA fin a doversi difendere PER LETTERE da subdole accuse mossegli da un predicatore zelante o malizioso avverso gli spiriti originali).
Nel 1634, desiderando rivedere la Patria lasciò la Toscana e rientrò a Genova per risiedervi sino al 1637. Qui strinse intima amicizia col futuro doge Alessandro Spinola, frequentò l’Accademia degli Addormentati, introdusse il Minozzi nelle grazie di Anton Giulio Brignole Sale e, inaugurando la propria attività di editore critico, ne curò in Milano, "alle spese di Carlo Ferrandi mercante libraro", la stampa delle Libidini dell’ingegno, discorsi di varia erudizione scritti e recitati nell’ accademia genovese. I confratelli genovesi non apprezzavano queste sue irrequietudini e, per ricondurlo ad una vita più tranquilla, cercarono d’assegnargli funzioni amministrative: ma Angelico, ancora preso dalla frenesia di viaggiare e conoscere, non accettò nemmeno la prestigiosa carica di Priore del Convento di S.Nicola di Chiavari, e riottenne licenza di congedarsi dal genovesato. Si recò a Pisa dove si aggregò al confratello Nicola Campiglia che, lasciata la reggenza dello Studio di S.Giovanni di Carbonara in Napoli, si recava a nuova sede nella città di Treviso. Il viaggio dei due religiosi fu infelice, tormentato da brutto tempo e squallidi soggiorni in osterie frequentate da ribaldi: giunto sano e salvo a Treviso (7 luglio 1637), Angelico si giovò di un’ottima accoglienza nel Convento di S.Margherita, dove dimorò per due anni, in gran parte dedicati agli studi, e dove pubblicò (1637) in numero limitato di copie, "Il Vaglio Critico" di Masoto Galistoni (suo pseudonimo) sopra il Mondo Nuovo di T.Stigliani.
Il giovane erudito, che mosse severe critiche al poema stiglianeo del Mondo Nuovo, era tuttavia ancora molto insicuro di sé dopo la stagione rinascimentale lo spagnolismo andava conferendo alla società italiana connotati di provincialismo ideologico ed una propensione verso quel sincretismo compromissorio che avrebbe divorato talenti liberi ed appena emergenti: già buon esperto dei fatti della vita e convinto che in Italia, per qualsiasi letterato o pubblico personaggio, fosse altrettanto necessario l’apparire che il fare, Aprosio ebbe il suo colpo di genio e convinse il modesto stampatore trevigiano Righettini a sostituirsi, in fronte al volume, con un nome esotico, quello di "Wallop editore in Rostock", molto ad effetto, molto stimabile fra i sussurri e le grida delle Accademie italiane. Questo fu il suo primo passo per diventare, quasi dal nulla, un promotore culturale, un venditore di sapere, sempre ben mescolato alle esigenze intellettuali di volta in volta richieste dai ceti egemoni; il colpo gli riuscì bene: quei nomi stravaganti accesero curiosità e divennero un lasciapassare verso nuove corrispondenze...anche lo Stigliani rimase titubante.
Nel maggio del 1639 il frate intemelio riprese a viaggiare, accompagnando a Feltre, dove era stato trasferito, l’amico Jacopo Venza, già Priore di S. Margherita: la nuova residenza non gli piacque , soprattutto per il clima insalubre, e se ne allontanò alla prima occasione, il 30 luglio dello stesso anno. Ancora una volta seguì il Venza, destinato, per decisione imprevista dei superiori, alla carica di Vicario Generale della Congregazione di Dalmazia, nell’isola di Lesina. In compagnia di Paolo Benzoni, nobile veneto, castellano e camerlengo di Lesina, i due agostiniani, dopo una tappa a Rovigno nell’Istria, raggiunsero l’isola il 4 agosto 1639 e la trovarono semibarbara, priva di comodità, popolata da abitanti fin troppo dediti alle libagioni: Aprosio se ne fuggì presto il 10 dicembre imbarcandosi su una "Marciliana" di Chioggia che lo sbarcò in Venezia, dopo dodici giorni di viaggio, alle porte del CONVENTO DI SANTO STEFANO. dove trascorse le festività sino all’Epifania.
Rifiutata l’ospitalità del Nunzio Apostolico di Venezia Mons. Vitelli, Aprosio si trasferì presto al monastero di S.Cristoforo della Congregazione di S.Ortone; da qui si allontanò nel quaresimale del 1640 a predicare nel Trevigiano. Espletati i suoi doveri non tornò più a Merano ma raggiunse Chioggia, il cui convento era "miserabile ma ottimo per raggiungere i suoi fini": che erano quelli d’avvicinarsi a Venezia, la cui attrazione mondana e culturale si faceva sempre più forte nei suoi confronti.
Anche a Chioggia si occupò di lettere più che di preghiere; vi approfondì i contatti culturali cogli eruditi veneziani Loredano e Michiele, oltre che con lo stampatore Sarzina e col frate spagnolo Pietro Romero, della cui opera Venetia Evierna, presso il Sarzina, curò nel 1641 un’eccellente prima edizione. Il passo verso Venezia Aprosio lo compì, dopo la Pasqua, andando a prendere stanza definitiva nel CONVENTO AGOSTINIANO DI SANTO STEFANO in Venezia: e tutto ciò per intercessione del priore medesimo di S. Stefano, Leonardo Oca.
L’evento fece registrare qualche contrattempo e peraltro il priore di Verona s’arrabbiò per quella "fuga" da Chioggia: lo stesso Oca rimase stupito delle stranezze "del Ventimiglia" (così molti erano soliti chiamare Angelico), e pensò ch’avessero addirittura ragione quelli che lo soprannominavano "poeta", nel senso di "spirito bislacco".
Per evitare incidenti Aprosio si mise tranquillo per un pò: calmatesi le acque prese a uscire di Convento veneziano di S. Stefano per recarsi ad insegnare legge a nobili giovinetti veneziani.
La frequentazione delle case patrizie gli diede l’occasione di mettersi in contatto con importanti personaggi della politica, della cultura e della religione.
Pian piano APROSIO gustò i piaceri di un’esistenza sempre aperta ai contatti umani e divenne abituale frequentatore dei salotti letterari, ove dava prova della sua parlata elegante e leggeva stralci delle sue OPERE che furono di varia erudizione, bibliografiche, satirico-moralistiche, anche polemiche ma che evitarono l'autonoma cratività del letterato puro, prosatore o poeta che fosse, per quanto Angelico in parecchie digressioni riveli poi una certa propensione narrativa e benché, specie nei suoi ripetuti impegni accademici, non abbia mancato di leggere e far poi pubblicare qualche suo componimento lirico.
Venezia assunse ai suoi occhi il porto dell’Ideale, la sede migliore per la sua maturazione e per il suo successo. La città lagunare, regina, solo un pò decaduta, dell’arte della stampa, ancora nodo della cultura europea, centro importante di vita sociale e commerciale, lo avvinse fino al 1647, nell’arco di un soggiorno tanto felice quanto poi rimpianto. Qui strinse gratificanti amicizie con numerosi letterati che facevano capo alla libertineggiante Accademia degli Incogniti, che per una trentina d’anni (1630-1660) si sarebbe riunita attorno al nobile Giovanni Francesco Loredano. In questo ambiente Aprosio affinò le sue doti, organizzando in modo più concreto e lineare sia i suoi interessi eruditi che la produzione letteraria: intensificò inoltre il panorama dei suoi corrispondenti tra cui Lelio Mancini, Gaspare Scioppio, Leone Allacci e Jacopo Tommasini.
L’incontro più signficativo fu però quello con la tradizione tipografica veneziana; presto Angelico divenne un assiduo frequentatore dell’importante stamperia di Matteo Leni e Giovanni Vecellio acquistando dimestichezza coi più rinomati librai o editori di città come il Sarzina, il Combi, l’Hertz, il Ginamni, il Pavone, il Valvasense e quel Giovanni Guerigli che gli donò preziosi libri, italiani e stranieri, che furono nucleo della "Biblioteca Aprosiana"
.
La frequentazione degli Accademici Incogniti, ove si discuteva in libertà d’argomenti "proibiti", comprese certe licenze sessuali e intellettuali, influenzò la formazione dell’agostiniano intemelio.
Nel corso di svariati incontri culturali egli si accostò al gusto dell’arte erotica e si tuffò nel contesto di vari, pruriginosi dibattiti sul mondo, per lui tanto misterioso quanto affascinante, della femminilità: a questo universo di conoscenze, pervaso di toni misogeni, lo condussero il Loredano e Scipione Errico, giunto a Venezia nel 1643: la scelta d’un deciso antifemminismo gli fu però suggerita dal caso di P. Michiele, Incognito ed autore dell’"Arte degli Amanti", che Aprosio, in una visita inaspettata (1643), trovò, nel suo castello di Pieve di Cadore, perduto schiavo d’amore nelle mani "...di quella che nelle sue Poesie chiama Donna, il cui vero nome era Apollonia, ferrarese di nascita...".
Così, un pò per indole ma soprattutto per voglia di primeggiare nei salotti, l’agostiniano prese a dire e scrivere contro le donne, specie contro le donne da poco, come era solito precisare, cioè le puttane, le concubine e un pò tutte le povere criste: in realtà voleva più far colore, suscitare "meraviglia" che procurar danni o fomentare polemiche...le donne comuni erano di fatto un ben comodo bersaglio per la sua penna iridescente che sapeva frugare e metter a nudo, con la scusa pietosa d’un predicar da moralista, tra i vizietti e viziacci della provincia veneta.
Ritenendosi protetto dalla sua condizione di religioso, Aprosio finì per calcare un pò troppo la mano sì che si trovò a rendere conto del suo agire proprio ad una femminella, seppur di non poco conto, la suora veneziana Arcangela Tarabotti.
Per sua "sventura" si trattava di una donna che, costretta ad entrare in convento per crude leggi di famiglia, era riuscita a far suo il sapere dei maschi e che ora sembrava voler riscattare il proprio sesso dall’inferno dei luoghi comuni...compresi quelli da, quasi due secoli, ormai ben codificati nel Malleus Maleficarum, la "Bibbia" dei cacciatori di streghe e Demoni.
La vicenda ebbe un suo retroterra ed anche un seguito.
In origine Angelico e la Tarabotti non erano stati in disaccordo, lei anzi gli ricercava consigli e pareri.....divennero antagonisti solo quando la suora criticò con successo la Satira contro le donne di F. Buoninsegni, amico toscano del "Ventimiglia" che sentì l’obbligo d’intervenire in suo favore, componendo l’antidonnesca Maschera Scoperta di Filofilo Misoponero in risposta all’antisatira di D.A.T. scritta contro la Satira del Sig. Francesco Buoninsegni.
Ma questo lavoretto (del 1645) non superò lo stato di manoscritto (solo recentemente è stato edito da E. Biga) in quanto la Tarabotti ne riuscì ad impedire la pubblicazione, già concordata col Valvasense. Tal delusione inasprì il Ventimiglia convinto di "quanti siano bestiali le donne e vendicative": parte della sua rabbia, sconfinante spesso nella Misoginia, si stemperò, ma un pò di veleno contro le femmine, specie se intelligenti od astute, gli rimase in corpo e venne travasato in un’opera piccante e antidonnesca, "Lo Scudo di Rinaldo" stampato, sotto pseudonimo di Scipio Glareano, in Venezia nel 1646 per lo Hertz.
Aprosio compì poi a Venezia un incontro importante per il suo futuro, quello col nobile genove Giuliano Spinola che, intendendo assumerlo come istitutore del figlio, lo esortò a tornare con lui a Genova. Aprosio rimase per un pò titubante perché doveva seguire la stampa, presso i veneziani Leni e Vecellio, della parte II del suo Veratro, opera che si sarebbe collocata conrilevo fra gli scritti di critica filomarinista del frate. Allorché lo Spinola, di tasca propria, fece sveltamente finire quel lavoro tipografico, Aprosio non avanzò più alcuna obiezione:, anche per curare la malaria, contratta in Dalmazia, l’agostiniano cominciava a sentire il bisogno di curarsi al bel clima ligure. Dapprima dovette accontentarsi di far spedire nel genovesato le trenta casse di libri messe insieme: quell’anno, il 1647, aveva il compito di recarsi in Lubiana, a predicarvi la Quaresima, ospite di Ottone Federico dei conti di Buchaim, Vescovo di quella Diocesi.
Espletati gli impegni Angelico rientrò un’ultima volta in Venezia, da dove, salutati gli amici, s’imbarcò col "postiglione" per Ferrara dove si intrattenne per alcuni giorni col Cardinal Dongo: lo accompagnava un servitore, assoldato a poco in Lubiana, che lo avrebbe seguito di città in città per rivedere antichi e sparsi amici.
Raggiunto lo Spinola in Piacenza, ANGELICO APROSIO avanzò l'idea di un suo antico sogno, quello di recarsi a Napoli e visitare il bel fiume SEBETO cantato dal suo amatissimo MARINO.
La rivolta antispagnola di Masaniello e la scomparsa dello Spinola lo fecero desistere, inducendolo a tornare presto in Liguria.
Raggiunse Rapallo, ove erano giunte le casse dei libri, e li portò a Genova, intendendo donarli al locale Convento della Consolazione: fra ripensamenti e peripezie alla fine però sistemò la biblioteca a Ventimiglia, dove fatti salvi alcuni viaggi per le prediche e l’espletamento in Genova di incarichi religiosi poco dopo la metà del secolo, trascorse il resto della vita intrattenendo vastissima corrispondenza epistolare, godendo peraltro dei favori di un vero e proprio mecenate, il patrizio genovese GIO. NICOLO' CAVANA (le lettere dei suoi corrispondenti si trovano nel "Fondo Aprosiano" della "Biblioteca Universitaria di Genova"): a Bologna, nel 1673 presso i Manolessi col titolo poco originale di La Biblioteca Aprosiana...passatempo...di Cornelio Aspasio Antivigilmi, pseudonimo anagrammato di Aprosio) in parte pubblicò il catalogo ragionato, con un’infinità di notizie erudite della sua raccolta libresca. Agitatore culturale, fautore di adunanze alla biblioteca passò gli ultimi anni quasi esclusivamente dedito alla cura della Biblioteca ed all'ordinamento dell’epistolario: la fama non diminuì ma indubbiamente la lontananza di Ventimiglia, per lui, rappresentò un limite alla voglia continua di viaggiare e conoscere. Negli ultimi anni gli diede molta consolazione la presenza di Domenico Antonio Gandolfo, che egli preparò qual suo successore alla direzione dell’Aprosiana: cosa che, di fatto anche se non formalmente, avvenne ancor prima del febbraio 1681 quando Aprosio, stanco e tormentato da malaria, chiuse la sua esistenza terrena ormai travagliata da periodici seri malanni.




Le molte notizie che Angelico Aprosio ebbe sui fermenti culturali dell'Europa scandinava parzialmente li recuperò dall'opera De Unicornu Observationes Novae. Accesserunt de Aureo Cornu Cl. V Olai Wormio Eruditorum Indicia, Patavij, Typis Cribellianis, 1665, in 8°.
Tale pubblicazione costituisce peraltro la prosecuzione delle Osservazione nuove de Unicornu, Padova, per il Crivellari, 1645 ove il Ventimiglia venne menzionato come antiquario e possessore di una discreta collezione numismatica greco - romana (di cui nulla più si seppe ma che verisimilmente andò persa o rubata in tempi indeterminabili, mentre molti libri e quadri vennero distrutti per accendere i fuochi, quando le truppe Austro-Sarde del barone Novatin, durante la guerra di successione al trono imperiale di Vienna, di metà XVIII secolo, trasformarono il convento di N. S. della Consolazione (o di S. Agostino) in un avamposto fortificato contro i forti intemeli tenuti dalle truppe tranco-ispane del maresciallo Bellisle: vedi B. Durante, Guida di Ventimiglia, Cavallermaggiore, 1990, p.79.

Dalla lettura dell'aprosiana Sferza poetica del 1643 si apprende tuttavia come il frate, molto attento ai fermenti eruditi del centro nord europeo si fosse messo anticipatamente in relazione con l'erudito danese Olaf Worm grazie ai servigi del medico-letterato danese Thomas Bartholin (Copenaghen 1616 - Hagensted 1680) professore di anatomia ed eccellente scienziato empirista che per primo descrisse in modo completo, pur dovendo rivendicare la priorità di tal scoperta con un'annosa polemica, la complessità del sistema linfatico.
Di T. Bartholin, residente a lungo per studio in Padova (ove per la prima volta ne vennero italianizzati nome e cognome nella forma TOMMASO/TOMASO BARTOLINI) , alla Biblioteca Universitaria di Genova [B.U.G., in Fondo Aprosio / Manoscritti Aprosiani, Mss. E.VI.7), si conservano 13 cordialissime lettere all'Aprosio, che vanno dal 1642 [la prima del 12-XI-1642, edita in Biblioteca Aprosiana pp. 147-148: presso lo stesso manoscritto genovese si conservano altresì una lettera (1654) del fratello Erasmus Bartholin, scienziato ed ottico -Roskilde 1625 / Copenaghen 1698-, e 25 lettere del figlio di Thomas, Kaspar Bartholin -Copenaghen 1655 / 1738, illustre antomista che nel volume De Ovarijs Mulierum et Generationis Historia, Roma, 1677 descrisse le ghiandole vestibolari della vulva che da lui prendono nome: di quest'ultimo, che venne citato con merito da Stefano Lorenzini nelle sue Osservazioni intorno alle torpedini del 1678 per il De nervorum usu in motu musculorum epistola apparsa in Oligeri Jacobeai, De ranis observationes, Parisii, apud L. Billaine, 1676 nella C.B.A. o Civica Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia si conserva però solo il volume De tibis veterum, Roma, per il Moneta, 1677] al 1662, e che accompagnano il dono di vari volumi, ove l' Aprosio era celebrato non solo come erudito ma in particolare quale "esperto d'arte e numismatico": Thomas Bartholini Casp. F. Anatomico Aneurismatis dissecti Historia. Accedit Iohannis Van Horn ejusdem argumenti Epistola: Viro illustrissimo atque Reverendissimo P. Angelico Aprosio Vintimiglia Magno Musarum Ornamento, Panormi, apud Alphonsum de Isola, 1644 (in 8°).
Alla C.B.A. si conservano altresì di THOMAS BARTHOLIN varie opere di contenuto medico come: De medicina Danorum (Hafniae, s.e., 1646), De luce animalium (Lugdunum Batavorum, s.e., 1647), De angina puerorum epidemica, (Lutetiae-Par., Olivarij de Varennis, 1646), Apologia pro vasis lymphaticis (Hafniae, s.e., 1654).
I riferimenti aprosiani alla cultura nord europea sono vastissimi.
A guisa d'esempio basti citare che lo "Scudo di Rinaldo II" si avvale di un apparato bibliografico più aggiornato di quello delle altre opere moralistiche aprosiane e molto spesso di respiro internazionale.
Tra gli autori stranieri più menzionati oltre ai Bartholin ed a Giano Gruterus (Jan Gruter-1560 / 1627), il filologo olandese di cui Aprosio consultava i 2 volumi delle Inscriptiones antiquae totius orbis romani (1603), compaiono il Gronovius (Johan Friederich Gronow -1611 / 1671) il filologo e classicista olandese cui il Ventimiglia dedicò il cap.XIX della Sferza Poetica e di cui rimangono tre lettere nei manoscritti aprosiani di Genova (anni 1641-1670, B.U.G., Mss. E. VI.4.: in una lettera di Mss. E. II. 2 del 16 / III / 1671 Antonio Magliabechi informò Aprosio della morte del Gronovius (avvenuta il 28 / XII / 1671 ).
Lo stesso bibliotecario mediceo, fungendo da intermediario culturale, mise poi in contatto epistolare Angelico Aprosio col figlio del Gronovius, Jacob Gronow (1645 -1716), filologo ed autore del Thesaurus Antiquitatum Graecarum (12 tomi, 1697 - 1702): si evince tutto ciò dall'analisi di due lettere, degli anni 1674 e 1678, custodite ancora alla B.U.G, Mss. E. VI. 4.
E' comunque sempre nel campo delle scienze che lo studio dei contatti aprosiani può riservare sorprese rilevanti.
Le sue conoscenze ci vengono proposte dalle stesse opere che eruditi e INVESTIGATORI SCIENTIFICI gli inoltravano onde essere celebrati dalla sua penna: e quando, per gli effetti dello spazio o del tempo che dividono, Aprosio non era in grado o non aveva potuto contattare personalmente od in linea epistolare alcuni grandi o comunque illustri SCIENZIATI e CLINICI si premuniva, interpellando magari i loro discepoli o vecchi amici od ancora prosecutori delle ricerche di quelli, onde poter sistemare nella sua biblioteca le pubblicazioni che quegli eruditi scienziati avevano dato alla luce, anche nelle terre più remote del continente (meriterebbe in dettaglio poi un'analisi specifica il breve rapporto fra Angelico Aprosio e l'anatomista danese STENONE in cui l'elemento erudito e scientifico si carica di emotività vista l'appassionata, moralistica figura dello Stenone]






"Sul versante di ponente della Valdichiana, contrapposto a Cortona ed adagiato su di un monte prospiciente la valle del torrente Esse, si erge MONTE SAN SAVINO, antichissimo borgo nel quale sono stati rinvenuti molti segni di civiltà etrusca nel corso degli scavi condotti a fine '800 (loc. Castellare, Pastina e Vertighe) dall' insigne archeologo G.F. Gamurrini.
Fecero seguito - come ricorda l' illustre poeta savinese Giulio Salvadori: "il paesello romano di Area Alta, indizio dell' impero di Roma distesosi sulla Penisola; lo stanziamento dei barbari Goti sulle due colline di ponente contigue al Castellare; la pieve che raccolse in un solo popolo queste genti diverse sotto il comune nome cristiano...tutto fino all' albore della civiltà nuova, a Carlo Magno e alle sue donazioni, e il fatto palese che segnò il nuovo giorno col trasferimento della pieve sul colle già occupato da Roma".
Ciò accade sul finire del secolo XII, mentre la storia di MONTE SAN SAVINO va progressivamente assestandosi lungo quel cammino che fu comune a molti paesi toscani: diviso anch' esso nelle due fazioni di guelfi e ghibellini, questi ultimi vi ebbero il sopravvento allorchè Monte San Savino venne in potere degli Ubertini signori di Arezzo.
Ma, una volta passato sotto la giurisdizione fiorentina e guelfa nel 1306, gli aretini, delusi del perduto potere su quel fondamentale avamposto che si incuneava nel sud dello Stato di Siena, incalzarono sempre più da presso Monte San Savino, finchè il Vescovo d' Arezzo Guido Tarlati, per vaer il Monte dato asilo ai guelfi, ne fece abbattere, nel 1325, come si legge nella Cronica del Villani, le mura castellane: "... nell' anno dopo agli 11 maggio vi cavalcò il vescovo medesimo con le sue genti e trasse dal castello tutti gli abitanti, che erano più di mille, e fece disfare la terra".
Già dall' anno 1337 Monte San Savino era di nuovo abitato e passò dapprima sotto il dominio di Perugia, poi sotto quello di Siena e quindi (1384) di nuovo sotto quello di Firenze che vi mandò potetstà e vicari per l' amministrazione della giustizia.
Monte San Savino conobbe il suo massimo splendore nella seconda metà del '400 e nel '500 quando fiorì in questa Terra il nobile ramo della famiglia Ciocchi-Di Monte, originaria di Firenze e ricca di famosi giureconsulti e prelati come il cardinale Antonio, uno dei più influenti porporati del Rinascimento, carissimo a Giulio II e intimo dei papi di casa Medici.
Al nostro paese questi cercò ognora di assicurare la protezione medicea, finché suo nipote Giovanni Maria Di Monte fu eletto pontefice nel 1550 assumendo il nome di Giulio III.
In seguito a questo evento il duca di Toscana Cosimo I De' Medici donò la città di Monte San Savino - assieme a Gargonza, Alberoro e Palazzuolo - col titolo di contea al fratello del papa Balduino di Monte.
Estintasi nel 1569 con il figlio di Baldovino, Fabiano, la famiglia Di Monte, la cittadina tornò, pur continuando a mantenere diversi privilegi, sotto Firenze e nel 1570 divenne sede dell' importante vicariato di Valdichiana.
Una nuova infeudazione vide passare Monte San Savino a partire dal 1604 sotto i marchesi Orsini che lo tennero fino al 1643 allorché esso divenne feudo personale (fino al 16679 di Mattias De' Medici, fratello del granduca Ferdinando II.
Ne divenne quindi principessa la stessa consorte di Ferdinando II, la granduchessa Vittoria della Rovere.
Alla morte della "magna ducissa" (1694) seguì un periodo di reggimento autonomo di Monte San Savino.
La cittadina passò definitivamente sotto il diretto dominio granducale nel 1748: il motu proprio dell' 8 febbraio di quell' anno ne faceva una nuova comunità con residenza di un vicario regio.
Quindi, con il Regolamento del 14 novembre 1774, Monte San Savino aggregava alla propria comunità, oltre ai "popoli" di Alberoro, Gargonza e Palazzuolo anche quello di Montagnano.
In epoca napoleonica, allorchè la Toscana venne divisa in tre grandi dipartimenti - dell' Arno, dell' Ombrone e del Mediterraneo - governati da un prefetto e da alcuni ufficiali, Monte San Savino fu compreso nel dipartimento dell' Arno.
Al plebiscito del 1860, su 1635 elettori savinesi, 1594 si dichiararono a favore dell'annessione della Toscana al Piemonte, 23 contrari, mentre i voti invalidati furono 18.
Al referendum istituzionale del 2 giugno 1946, i voti per la repubblica furono 3231, quelli per la monarchia 1758, i non validi 481, tra cui 413 schede bianche.
Con proprio decreto (22 luglio 1991) il Presidente della Repubblica ha concesso a Monte San Savino l' ambito titolo di Città, che viene accordato "a comuni insigni per ricordi, o monumenti storici... che abbiano convenientemente provveduto ad ogni pubblico servizio ed in particolare modo all' assistenza, istruzione e beneficenza".

"Questa cotanto antica, e per tutti i riflessi rispettabilissima Terra", scriveva il cronachista locale R. Restorelli nella seconda metà del '700, in un elenco forse alquanto arido e tedioso ma significativo del gran numero di nobili personaggi e dell'illustre passato che Monte San Savino poteva già vantare a quella data "ha dato alla luce una continuata e non interrotta serie di conti e nobili personaggi che, celebri per dignità ecclesiastiche, per armi e per lettere, viePpiù la illustrarono e degna la resero di eterna memoria.
Si leggano i suoi Annali, ed in essi troveremo un pontefice, tre eminentissimi porporati, diciasette prelati, quattro vicari generali, un decano, sei canonici, due generali, con due abbati mitrati, un gran maestro, un commendatore e tre cavalieri dell'ordine gerosolimitano, un internunzio di Francia, due conti e signori di questa Terra e suo territorio, coll'impero mero e misto cum gladio potestatis, un generale dell' Armata imperiale ed ecclesiastica, un gentiluomo di camera del serenissimo Gran Duca di Toscana, uno scultore ed architetto, quattro pittori, un pubblico precettore dell'Archiginnasio di Roma maestro dell'E.mo Francesco cardinale Barberini, due bravissimi giureconsulti e celebri avvocati in Roma, un auditor fiscale del serenissimo principe Mattias governatore di Siena, ed altri pressochè innumerevoli".
Lo scultore ed architetto cui accenna il Restorelli è il celebre Andrea Contucci, detto Il Sansovino, formatosi artisticamente a Firenze alla bottega del Pollaiolo e, dal 1513, sovrintendente alla costruzione della basilica della Santa Casa di Loreto.
Opere d'arte del Sansovino si conservano anche a Monte San Savino, in particolare nella chiesa di Santa Chiara.
Resta da fare cenno ad almeno quattro altri importanti personaggi che, ovvi motivi cronologici, restano fuori di questa elencazione: Salomone Fiorentino (1743-1815) "il primo ebreo che figuri nella letteratura italiana", poeta del quale la critica moderna celebra soprattutto le tenere elegie scritte in memoria dell' amata moglie Laura; lo scienziato Giuseppe Sanarelli (1854-1940), senatore del regno, cui si devono fondamentali studi sul morbo della febbre gialla o tifo itteroide; Gian Francesco Gamurrini (1835-1923), aretino ma operoso a lungo in Monte San Savino e per Monte San Savino, uno dei fondatori della moderna etruscologia, ordinatore delle prime raccolte etrusche di Arezzo e di quella del Palazzo della Crocetta a Firenze (attuale museo archeologico) e di Villa Giulia a Roma; e Giulio Salvadori (1862-1928), poeta e studioso di letteratura, critico e giornalista, educatore e docente universitario presso la Cattolica di Milano, tra le cui più importanti produzioni poetiche si segnalano Minime (1882), il Canzoniere civile (1889) e Ricordi dell' Umile Italia (1918).

Gli EBREI sono stati presenti a MONTE SAN SAVINO in due periodi distinti: dal 1421 al 1571 con banche di prestito su pegno, e dal 1627 al 1799 inizialmente con un banco di prestito su pegno e subito dopo con una comunità vera e propria.
Il documento più antico in nostro possesso che attesta la sottoscrizione di "capitoli" ovverosia di una convenzione per l'apertura di un banco di prestito risale al 1427: in quell'occasione Firenze, facendosi interprete delle esigenze esposte dalla comunità savinese, concede a Bonaventura da Terracina la "condatta" (si trattava, in sostanza, di una filiale dei da Terracina) di un banco di prestito al Monte per sei anni, poi rinnovata successivamente. Quindi, con ogni evidenza, gli ebrei prestatori giungevano - di mercoledi, giorno di mercato settimanale - a Monte San Savino dalle loro comunità di Prato, Firenze o Pisa, per ivi fare ritorno al termine del mercato. Non avevano perciò - di regola - dimora stabile in paese, fatta eccezione per il periodo della condotta di Laudadio De Blanis e figli (seconda metà del XVI sec.) che, portati dai Di Monte, ebbero stabile residenza.
Dopo che un decreto granducale del 1570-71 ghettizzò tutti gli ebrei della Toscana facendoli convergere a Firenze e a Siena, anche quelli montigiani furono costretti al lasciare il paese e solo nel 1627 - Monte San Savino era allora feudo di Bertoldo Orsini - torneranno a stabilirvisi: in quell'occasione la famiglia Passgli e soci sottoscrissero dei "capitoli" specifici che li autorizzavano al prestito, a costruire un luogo di culto e a tenere un cimitero proprio.
Si formò allora la vera e propria comunità.
Alcuni studiosi di storia ebraica italiana hanno sottolineato, per spiegare l'insediamento degli ebrei a Monte San Savino e il suo sviluppo, come quella savinese - al pari di altre (Pitigliano, Sorano, Lippiano) - fosse una comunità di confine, una specie di luogo-rifugio in cui gli ebrei dell'Italia centrale riuscivano a mettersi al sicuro dalle vessazioni di cui erano fatti oggetto da parte della Controriforma.
La comunità montigiana si svilupperà progressivamente e prospererà fino al "Viva Maria", movimento reazionario di tipo sanfedista che, inneggiando al ritorno del granduca, vedeva con profonda avversione l'occupazione francese nella quale la comunità ebraica aveva invece riposto speranze di emancipazione. Costretti a lasciare il Monte , gli ebrei si diressero alla volta di Firenze e Siena: in quest'ultima città alcuni ebrei savinesi si trovarono coinvolti nell'eccidio che fu perpetrato ai danni degli ebrei ivi residenti o rifugiatisi, ed alcuni vi perirono. Due nomi di ebrei montigiani illustrarono la nostra cittadina: l'uno il già citato Salomon Fiorentino, l'altro Giuseppe ebreo: quest'ultimo, convertitosi alla fede cristiana nel 1559 assumendo il nome di Fabiano Fioghi, divenne, sotto la protezione dei pontefici dell'epoca, professore di lingua ebraica nel collegio dei neofiti (cioè dei convertiti) di Roma e fu autore di un saggio teso a confutare la falsità dell'ebraismo in nome della verità cristiana.

Sull'antico Palio savinese, detto di Santa Maria d'Agosto perchè si svolgeva il 15 di questo mese, si hanno notizie documentate solo dal 1471, anche se la manifestazione è certo più antica.
Questa non era una corsa contradaiola, aperta bensì a cavalieri provenienti da diverse località il cui bando avveniva nella piazza ialta donde moveva la sfilata lla volta della Ruga Maestra.
In uno splendido insieme di colori, di addobbi e di movimento - in cui risaltavano, oltre ai cavalieri e al popolo infesta, i maggiorenti della comunità, i trombetti, i tamburini e i soldati tenuti a mantenere l'ordine - al suono del campanone della torre del palazzo pretorio i cavalieri si portavano quindi alle mosse slanciandosi su un percorso che comprendeva quasi sicuramente la costa del Mulino.
La consegna del palio al vincitore concludeva la gara, mentre la festa continuava per tutta la giornata.

Anche il Gioco del pallone col bracciale, che è assai probabile che fosse praticato a Monte San Savino già verso la fine del '500, incontrò il favore di numerosi appassionati praticanti.
Proprio a Monte San Savino, ove nacquero giocatori di fama anche nazionale come Agostino e Augusto Frullani e Dante Ulivi, fra gli altri.
Sport di tipo sferistico, si svolgeva in un campo apposito provvisto di un muro d'appoggio in cui si incontravano due squadre (ciascuna composta da terzino, spalla e battitore).
Dopo la battuta il pallone veniva colpito al volo o al primo balzo alternativamente dalle due squadre fino a quando il palleggio cessava per un fallo o per volata (in quest'ultimo caso la palla, di battuta o di rimessa, andava di là dalla linea di fondocampo, resa imprendibile agli avversari.
Inizialmente praticato nella Piazza Ialta, il gioco del "pallone grosso" si svolse a partire dalla fine del '700 in un apposito campo costruito fuori porta San Giovanni lungo le mura castellane.
Veri e propri specialisti erano gli artigiani savinesi che fabbricavano i palloni ed i bracciali (i cosidetti "pallonari") ben presto conosciuti ed apprezzati in campo nazionale" NOTIZIE DESUNTE DAL SITO INFORMATICO UFFICIALE DEL COMUNE DI MONTE S. SAVINO].







Nato a Venezia nel 1571 LEONE MODENA frequentò assiduamente la casa del ricchissimo mercante veneziano SIMONE COPIO.




Scrive ancora Antonio Zencovich (pp.38 sgg.): "Passiamo ora a descrivere il contenuto dell'OPERA [di G. B. Della Porta] che, anche a un sommario esame, appare ben diversa da quella del Delrio. In effetti la materia che passava sotto il termine di "magia naturale" aveva poco in comune con i malefici e in particolare con la magia nera, essendo costituita in primo luogo da un insieme di norme di interesse pratico utili nei piu vari campi delle attività umane - dall'agricoltura, all'allevamento, all'economia domestica - nonché da osservazioni sui fenomeni insoliti della natura, le quali servirono a preparare il terreno alla moderna scienza sperimentale.

Verso l'inizio del primo libro l'autore descrive le qualità richieste a chi vuole dedicarsi a quell' arte.
Ne risulta un'immagine del "mago" visto non tanto nel ruolo del mistico ispirato, quanto del sapiente artigiano, che assomma in se le capacita proprie di tutte le altre specializzazioni:

Bisogna che sia consumatissimo nella filosofia e dottissimo... che non sia ignorante della Medicina... Bisogna esser ancora molto intelligente della natura dei semplici, cioè non semplice herbolaio, ma gran investigatore delle piante... Ne men bisogna haver esatta congnitione di metalli, di minerali, delle gioie e delle pietre. Oltre a ciò... sapere l'arte del distillare... ciop come si cavino le semplici acque, le spiritose, l'olii, le gomme e l'acque gommose, e le quinte essenze... Bisogna ancora che sappia delle Matematiche e principalmente l'Astrologia... Sappia ancor molto della Prospettiva... come s'ingannino gli occhi... e come si possano veder chiaramente quelle cose che si fan di lontano... Sia ancora... molto industrioso, e mecanico delle sue mani.

Vengono quindi enumerate le cause naturali su cui si fondano gli effetti meravigliosi, quali la simpatia e antipatia reciproca delle cose, le influenze celesti e le virtù proprie dei corpi e dei luoghi, comprese quelle "segrete", che il sapiente deve essere in grado di rilevare attraverso l'osservazione attenta della forma.
Ciò vale in particolare nel caso delle erbe medicinali, a proposito delle quali si insegna il modo di raccoglierle e lavorarle nei posti e nei tempi opportuni; l'ultimo capitolo tratta delle combinazioni dei "semplici" che, uniti insieme in modo opportuno, sono in grado di operare con maggior efficacia.

Il libro successivo MAGIA NATURALE [del Della Porta ] affronta dapprima il tema della generazione spontanea degli insetti i quali, secondo gli antichi, nascrebbero dalla putrefuzione di animali più grandi, secondo la regola che, se è vile la specie di questi ultimi, altrettanto lo sarà quella dell'insetto generato: così dal cavallo, più nobile, si produrrebbero le vespe, mentre dalle spoglie dell'asino verrebbero fuori gli scarafaggi.
Si parla poi degli incroci tra animali, compresi quelli che vedono coinvolto l'uomo, dai quali avrebbero origine i mostri.
Ma non sempre essi sono conseguenza di simili unioni, derivando non di rado della forza di suggestione: si riferiscono perciò casi di donne che partorirono figli pelosi per aver osservato l'immagine di S. Giovanni Battista col vello nel momento del concepimento; o col labbro leporino, per essersi imbattute in lepri durante la gravidanza.
Di conseguenza, a quelle che vogliono avere discendenti ben formati, si suggerisce di tenere sempre davanti agli occhi immagini di Cupidi, Adoni e Ganimedi.
Sarebbe pure possibile definire il sesso del nascituro, sapendo che la metà destra del corpo è più calda e quindi provvista di caratteristiche maschili, mentre quella sinistra è tendente al freddo.
La donna che voglia generare dei maschi dovrà fare in modo che il seme vada a finire nella parte destra dell'utero, voltandosi in maniera adeguata durante il rapporto.
Avendo invece a che fare con animali, si potrà legare il testicolo opposto del maschio: operazione che a quei tempi, a quanto pare, si faceva con i tori.
Bisogna poi tenere conto dell'influenza dei venti poiché, quando essi sono meridionali, ci si deve aspettare il concepimento di femmine, mentre il contrario avviene con quelli settentrionali, più stimolanti.

Il terzo libro [libro della MAGIA NATURALE del Della Porta] tratta degli incroci tra vegetali e del modo di produrre frutti migliori, grandi, profumati, teneri, senza semi o privi di scorza esterna.
Sarebbe pure possibile ottenerne di doppi, o compresi uno dentro l'altro, o con forme particolari: ai tempi, una curiosità proposta nei hanchetti era rappresentata da quelli in forma di testa umana o animalesca, ottenuti lasciandoli sviluppare dentro appositi stampi.
Il quarto insegna l'economia che con poca spesa habbia le cose domestiche et havuto le conservi, descrivendo le migliori regole per la raccolta dei frutti e le tecniche di conservazione degli alimenti mediante miele, vino, strutto, aceto, vinacce o vino distillato: in grado, quest'ultimo, di conservare qualunque sostanza anche per secoli.
I due successivi si occupano, rispettivamente, della trasmutazione dei metalli attraverso l'alchimia e della fabbricazione di pietre preziose.
Il settimo [libro della MAGIA NATURALE del Della Porta ], di ben 59 capitoli, è dedicato alla calamita e alle sue meravigliose proprieta che eccitavano in modo particolare la fantasia dei curiosi di allora. Parlando della bussola, viene riferita la leggenda secondo cui essa sarebbe neutralizzata dai vapori dell'aglio e, di conseguenza, fosse vietato mangiarne a chi, sulle navi, era addetto allo strumento, affinché non venisse a imbriacarsi la lancetta. Ma io - seguitava l'autore - avendo fatto esperienza di questa cosa l'ho ritrovate false, che non solo i fiati e i rutti di coloro che hanno mangiato agli non bastano a far che la calamita non feci l'ufficio suo, ma ongendola tutto di succo di agli, così facea le sue operationi come se non fusse stata di aglio bagnata; d'altronde, avendo ascoltato l'opinione dei marinai, si era sentito rispondere che si trattava di parole di vecchiarelle e loro, in genere, si sarebbero fatti ammazzare piuttosto che privarsi di quell'apprezzato alimento.
Nell'ottavo libro il Porta tratta della materia medica, a cominciare dai sonniferi quali la mandragora, lo stramonio e la belladonna, che trovano impiego pure come allucinogeni in grado di far impazzire gli uomini per un giorno: una persona di sua conoscenza, dopo averne fatto uso, si persuadeva di tramutarsi in pesce o in uccello e muoveva le braccia come se stesse nuotando sott'acqua, oppure le agitava quasi avesse avuto le ali e batteva in terra con i denti convinto di avere il becco.
Per quanto riguarda i medicinali di uso più corrente, si sofferma sui rimedi alla podagra, al mal francese (sifilide), alla peste e alle ferite, proponendo quindi uno dei soliti unguenti "magici" per guarire da ogni malattia.
Alla fine della sezione descrive gli antidoti contro la fascinatio, l'amore e l'invidia.
Passa quindi alla cosmetica e al preparati per tingere i capelli, eliminare i peli o - al contrario - farli crescere, togliere le lentiggini, schiarire la pelle, fare che diventi vellutata o risplenda come argento.
Accenna anche a formule delittuose per conseguire effetti opposti, cui ricorrevano le donne per vendicarsi delle rivali: allo scopo di far cadere i capelli, li aspergevano con un liquido estratto dalle salamandre, mentre per fare venire la pelle a pois, facevano bere alle malcapitate del vino in cui erano stati tenuti a macerare degli stellioni (genere di lucertole).
Il decimo libro, corredato da alcune figure, tratta della distillazione, argomento affrontato dal Porta anche in un testo specifico. Il successivo si occupa dei profumi o "acque odorate" e quello dopo ancora dei fuochi d'artificio.
Il tredicesimo della siderurgia e di come si possa temprare il ferro o farlo diventare più tenero, nonché preservarlo dalla ruggine.
II quattordicesimo fornisce consigli per i banchetti, al fine di meglio presentare i cibi e condire le carni in modo gustoso; insegna inoltre come prevenire l'ubriachezza, concludendo con alcuni maligni suggerimenti per scacciare le persone sgradite, come quello di impedire loro di deglutire somministrando, prima del pasto, del vino corretto con belladonna.
Il quindicesimo rivela i trucchi per catturare gli animali con il veleno o facendoli ubriacare.
Il successivo rivela i segreti degli inchiostri simpatici e gli espedienti per nascondere le lettere dentro gli oggetti piùimpensati.
Il diciassettesimo tratta di lenti e specchi, compresi quelli ustori.
Il diciottesimo del grave e del leggiero e di come mescolare liquidi di peso specifico diverso, oppure separarli, in particolare nel caso del vino, allo scopo di farlo ritornare puro una volta che lo si sia riconosciuto per annacquato. Viene descritta anche una burla per convitati, consistente in un vaso in cui l'acqua e il vino non si mescolano e vi si possa bere, alternativamente, l'uno o l'altro liquido.
Si arriva così al penultimo libro, intitolato dei Segreti dell'aria e dell'acqua: vi si parla di congegni idraulici e pneumatici e in particolare di orologi ad acqua e fontane a pressione.
L'ultimo, senza tema, espone varie curiosità che non hanno trovato posto nelle sezioni precedenti; verso la fine vengono rivelati alcuni inganni al quali sono soliti far ricorso i falsi maghi.
Segue, in fondo al volume, la Chirofisionomia, il cui intento dichiarato è di riscattare la materia contro i Chiromanti che con impure e vane osservationi havevano sporcata questa Scienza, la quale si dimostra fondata sopra naturali congetture e si condannano le vane e ridicole inventioni de gli Impostori.