FICHI (FICHETI)

La gran quantità, fino al '600, di coltivazioni di "fichi" (spesso detti "ficheti" in coltivazioni aggregate a "vigneti") era dovuta al fatto che per l'assimilazione di zuccheri (data la contrazione dell'apicoltura e della produzione di miele, molto più diffusa in epoca romana ed imperiale) per tutta l'età intermedia i ceti rurali e meno abbienti si valsero del frutto della pianta (appunto ricco di zuccheri) che tra l'altro, di per sè stesso, possiede notevole valore nutritivo e, essiccato, costituisce e soprattutto costituiva un alimento facilmente trasportabile nel corso di viaggi lunghi per via di terra e soprattutto per mare.
Grazie alla dott. Daniela Gandolfi dell'Istituto Internazionale di Studi Liguri di Bordighera è stato possibile consultare l'ottocentesca relazione del Gallesio sulla tipologia dei FICHI DEL PONENTE LIGURE che rimandano ad una vicenda agronomica antichissima (per quanto talora l'ambiente risultasse danneggiato da calamità varie con conseguente carestia) e dei quali è stato possibile visionare, sui "Disegni dell'Archivio Piuma - Gallesio di Genova" gli ESEMPLARI TIPICI NELL'AGRO TRA VENTIMIGLIA E SANREMO tra XVIII e XIX secolo, esemplari compunque che rimandano a tipologie colturali talmente antiche che sulla origine o introduzione non si hanno tracce nemmeno nel '200, periodo in cui la coltura di queste piante sembra già una costante di consolidata tradizione agricola.








Sulla base di un significativo e documentato lavoro di Pierluigi Cornacchia si può affermare che l'AMANITA MUSCARIA [fungo dai molteplici nomi ovolo malefico, uovolacio, agarico moscarico, tignosa dorata (in italiano), cocch velenus, cocch bastard (nel dialetto milanese), bolè brut, bolè fauss (nel dialetto piemontese),ovol matt (nel dialetto bolognese), coco mato (nel dialetto veneto)] è diffusa in Italia, specie al nord, ma malgrado ciò e benché le popolazioni contadine conoscano il fungo da secoli, pochissimi etnologi e antropologi hanno raccolto informazioni al proposito. Solo alcuni etnoiatri (studiosi di medicina popolare) hanno catalogato alcune notizie sugli avvelenamenti accidentali e sui rimedi popolari .

Nel XIX secolo, in Francia, l' Amanita muscaria era diffusamente consumata come alimento in forza di una preparazione che le toglieva le proprietà allucinogene. Secondo quanto confermano i micologi italiani dell'Ottocento, essa veniva analogamente usata anche nella penisola. Antonio Venturini, in due studi del 1842 e del 1856, conferma che l'Amanita era fungo ben noto agli uomini del suo tempo.
Nel lavoro del 1842 egli annotò: "Tutti i villici della riviera benacese e segnatamente quelli di Toscolano, di Maderno, di Gaino e di altre terre vicine, conoscono quanto quel fungo possa nuocere, se mangiato senza preparazione: ma non per questo essi lo temono, ché anzi lo vanno cercando e come fungo di conserva lo preferiscono a tutti gli altri".
I luoghi in cui nel 1800 era stato documentato l'uso dell' Amanita sono, per quanto è stato ricostruito, la provincia di Bergamo (Cima, 1826), lam località Gabbiano (MN) e il Bosco Fontana (Bianchi, 1907), le Groane a Limbiate; nei corriletti in Lomellina, nel bosco Rotone di Pavia e anche nel bergamasco (Spadolini, 1890), ai Campi Flegrei presso Napoli, dove un contadino, secondo la testimonianza oculare di F. Cavara, ne raccoglieva per cibarsene con assiduità, nei boschi e nelle conifere della Liguria, del Piemonte, della Lombardia, del Canton Ticino, del Veneto, della Venezia Tridentina, delle Marche, della Toscana, del Lazio, della Campania e della Sicilia dove cresce copiosissimo (Bresadola, 1932).
F. Cavara (1897) confermava che in Vallombrosa (Firenze) l'Amanita veniva comunemente consumata e affermava: "Posso assicurare, per relazione di molti, che in alcuni paesi di Toscana, per esempio sopra Pontassieve, nel tardo autunno questo agarico viene raccolto in quantità e messo a purgare in mastelli o bacinelle la cui acqua è rimutata ogni giorno, e ciò per 10 o 12 giorni, dopo di che viene ammannito alla stessa guisa degli altri funghi, mangiato e trovato eccellente. Occorre per ciò fare che la stagione sia fredda".
Tali informazioni sono state verificate direttamente sul campo. Nei paesi di Reggello, Saltino, Pian di Melosa e Vallombrosa sono state raccolte alcune testimonianze di anziani abitanti di quei luoghi. L'ovolo malefico, così lo chiamano correttamente da quelle parti, era abitualmente consumato dopo debite preparazioni (bollitura con aceto, conservazione sotto sale, spurgo con acqua corrente). Secondo le testimonianze, l'uso di cibarsi di questo fungo, durato fino all'inizio della seconda guerra mondiale, era dovuto unicamente a problemi di ordine economico
. Mentre venivano venduti sulla piazza di Firenze i funghi migliori e più buoni (i porcini per esempio), per l'autoconsumo si preferiva consumare l'Amanita muscaria.
L'Amanita muscaría era raccolta in maggio e ottobre: si conservata in "bigonce" (recipienti di legno di castagno) e messe a spurgare per 30-40-50 giorni. A.Venturi, nel suo lavoro del 1842, riferiva invece a proposito dell'uso che se ne faceva sul lago di Garda: "Nella nostra riviera si costuma far bollire l'agarico moscarico in un'abbondante quantità di acqua, e di metterlo dopo nella salamoja. Lo stesso si pratica in Russia e in Lapponia". Da tutto ciò sembra chiaro che l'Amanita muscaria, in Italia, è stata studiata solo sotto l'aspetto medico-farmacologico e botanico, mentre mancano studi di carattere sociologico e antropologico.
Sembra che in Liguria, nella zona delle Cinque Terre i contadini usassero cibarsi dell'Amanita muscaria avendo la precauzione di togliere la pellicola rossa che ricopre il cappello. Anche nel bresciano sembra che si consumasse il fungo dopo averne "squamato" il cappello. E lo stesso sembra avvenisse nelle vallate bergamasche.

Sull' uso alimentare e non voluttuario dell'Amanita, Paolo Mantegazza nel 1871 precisava: "Tra noi non si è mai studiata l'Amanita come sostanza inebriante, ma come veleno o come alimento; e le contraddizioni che si trovano nei diversi scrittori dimostrano la necessità che si ristudi più profondamente questa questione".

E' comunque probabile che da epoche remote, alcuni funghi dalle proprietà allucinogene, tra cui soprattutto l'AMANITA MUSCARIA, al pari di altre droghe potenziali (belladonna, mandragora, stramonio, cicuta, ecc.), sia stata usata per sfruttarne le potenzialità allucinogene.
Gli antichi procedimenti empirici delle popolazioni rurali che permettevano un uso alimentare scevro da pericoli di avvelenamenti fu quasi certamente preceduto da un contatto con il fungo in una dimensione più estesa e complessa.
Antonio Zencovich (pp. 117 e sgg.) ha incentrato il suo studio sul principio la magia, cui risulta connessa la cultura stregonesca, sia soltanto la parte superstite di un approccio con la spiritualità improprio delle religioni dogmatiche e rappresenti l'anello di congiunzione con obliate antiche religioni che, nelle più svariate parti del mondo e non escluso l'ambiente europeo, che comportavano, in forza delle sostanze allucinogene empiricamente assunte, un temporaneo abbandono dell'io e quell'autonoma ricerca individuale dei misteri dell'universo che, appunto il Cristianesimo (che è religione dogmatica e che come tale negando l'autoinvestigazione sanciva l'osservazione dei precetti sanzionati) finiva per relegare nella dimensione dell'eretico e consequenzialmente del diabolico, specificatamente di quel diabolico che poteva essere recuperato dalla stregheria in grado di sfruttare determinate competenze erboristiche come ad esempio, in merito all'Amanita muscaria, la proprietà del fungo di produrre a livello fisico forti effetti analgesici ed a livello mentale un effetto soporoso non meno efficace a fronte del necessario inebetimento per sopportare l'angosciante dolore della tortura inquisitoriale.
Del resto lo stesso Zencovich non manca di elencare le tracce superstiti di impiego di sostanze psicotrope nel contesto di svariate espressioni religiose.
Egli rammenta per esempio le testimonianze di Ovidio ed Erodoto a riguardo degli Sciti, dalle usanze prossime a quelle sciamaniche, per cui venivano acquisite nella loro cultualità le esperienze dei redivivi che narravano le visioni passate attraverso un viaggio extracorporeo reso fattibile da un coma tossicologico reso possibile dall'assunzione di sostanze tossiche.
Lo stesso autore [che accenna a quelle religiosità preromane cui l'Amanita muscaria poteva offrire, al pari di altre sostanze, il mezzo di disancoraggio dalla limitatezza del corpo in prospettiva di ricerche specifiche nella sfera dell'extraumano] si sofferma ampiamente sull'operato dei sacerdoti in India che facevano uso del soma ricavato da una pianta tuttora non identificata con chiarezza e della quale, in base ai testi vedici, si apprende che dava un succo "pieno di dolcezza e ricco di sapore" [lo Zencovich riporta in merito le dovute documentazioni e le ipotesi più aggiornate che portano, tra l'altro, a identificare il soma secondo alcuni con la canapa indiana e secondo ulteriori ricercatori con Asclepias acida].
Ancora Antonio Zencovich, estendendo la sua indagine all'America precolombiana, propone sulla scia di queste riflessioni il caso dell'uso rituale del tabacco e della coca nel'Impero Inca, un uso privilegiato e sacerdotale secondo le indicazione di un testimone oculare quale fu Joseph de Acosta nella sua Historia natural y moral de las Indias..., Siviglia, per Juan de Leon, 1590, p. 290.
Integrando anzi le acute riflessioni dello Zencovich non è da escludere che l'AMANITA MUSCARIA abbia potuto rappresentare, per quanto concerne il mondo europeo, il FUNGO MAGICO o FUNGO SACRO per antonomasia risultando, in arcaiche religioni preromane, il VEICOLO SCIAMANICO PER L'APPROCCIO CON LA DIVINITA' alla stregua di quanto si è potuto documentare con le recenti indagini sui FUNGHI SACRI o MAGICI AMERICANI usati nel contesto cultuale delle civiltà e religioni precolombiane.

Sulle esperienze contemporanee riferite nella letteratura micologica alle proprietà dell'Amanita muscaria basti ciò che scrivono Arietti e Tomasi "della diretta quanto involontaria esperienza del professor Valerio Giacomini, proprio al termine dei suo internamento in un campo di prigionia in Germania durante l'ultimo conflitto.
Approfittando di una certa libertà concessa dalle sopraggiunte truppe alleate, alcuni suoi soldati pensarono di integrare le ancor scarse razioni alimentari con un piatto di funghi raccolti nel vicino bosco, e come gli altri la sera ne mangiò anche il Giacomoni.
Appena coricato, e senza alcun disturbo gastrico malgrado lo stato di denutrizione, accusò non sgradevoli sensazioni di ebbrezza e di esilarismo: gli fu subito palese che i funghi ingeriti appartenevano all'Amanita muscaria, ma da buon conoscitore dei suoi effetti nelle regioni del nord, non se ne preoccupò, e attese semplicemente di potersi liberare dei principi attivi attraverso la diuresi.
Questa tesi trova poi conforto in uno scritto del dottor Teyro, apparso su La Domenica del Corriere, e richiamato dal noto micologo G. Ferri (1934) che lo commenta brevemente, riportando come segue le esperienze dell'articolista: "la scoperta non è mia; appartiene al dottor Gian Batista Grassi di Rovellasca, che, molti anni or sono, ha fatto degli esperimenti con questo fungo. La cosa mi ha tentato e, tempo fa, in una giornataccia di malumore, ho scacciato, con 20 grammi di agarico moscario fresco, ogni malinconia dalla mia mente, conquistandomi il più assoluto benessere, la più calma sensazione di voluttà, una grande limpidezza di pensiero e un'intensa volontà di lavorare, ciarlare, occupare mente e corpo. Una seconda volta ho aumentato la dose, una terza e una quarta ancora. Alla quarta volta, nello spazio di otto ore, ho preso circa 100 grammi (dico cento) di muscario fresco, e questa fiata l'effetto fu maggiore. Ho cantato, ballato, schiamazzato, riso; ho goduto di un'allegria pazza, sono stato felice. Ne ho somministrato a parecchi amici e l'allegria di quelle ore in comune è superiore a qualsiasi descrizione. Il dottor Grassi racconta poi di aver guarito con una cura di agarico muscario, un individuo che si era dato a profonda malinconia con inclinazione al suicidio!".
Dal,canto suo, il Ferri fa cenno nei termini seguenti di un caso cui si era interessato personalmente alcuni anni prima: "Si tratta di un falegname abitante a Milano, nei pressi di via Pietro Borsieri il quale nel pasto del mezzogiorno cu la consueta partita alle carte, assieme ad alcuni suoi compagni. A un tratto egli protestò perché qualcuna delle carte da giuoco gli era presentata completamente bianca (allucinazione muscarinica). Alle obbiezioni dei compagni egli diede subitamente in ismanie (delirio muscarinico), e distribuì qualche pugno ai suoi vicini; per cui venne da essi giudicato dapprima ubbriaco, poi impazzito. Ma chiamato d'urgenza un medico, mentre si discuteva sul da farsi, l'energumeno a poco a poco si tranquillizzò. Era cessata l'azione eccitante della muscarina sopra il suo cervello" (Arietti e Tomasi, 1969).







L 'esistenza dei funghi magici era rimasta per lungo tempo un enigma.
Nei due stupendi volumi di un classico dell'etnomicologia, Mushrooms, Russia and history (Pantheon Books, New York, 1957), gli autori, i ricercatori americani Valentina Pavlovna Wasson e suo marito R. Gordon Wasson, raccontano in prima persona della loro riscoperta, di cui furono anche i principali artefici.
Le prime testimonianze scritte dell'uso di funghi inebrianti in occasione di festività o nel corso di cerimonie religiose e di pratiche magiche di guarigione risalgono ai cronisti e ai naturalisti spagnoli del sedicesimo secolo, che si erano introdotti nel paese subito dopo la conquista del Messico da parte di Hernan Cortes. Uno di questi è il frate francescano Bernardino de Sahagun, il quale fa menzione dei funghi magici, descrivendone il loro effetto e il loro impiego, in alcuni passaggi della sua celebre opera storica, Historia general de las cosas de Nueva Espania, scritta tra il 1529 e il 1590.
Così egli descrive, a esempio, i festeggiamenti con i funghi per celebrare il ritorno a casa dei mercanti dopo un viaggio d'affari ben riuscito: Al tempo dei festeggiamenti, raggiunta l' ora di suonare i flauti, essi mangiavano i funghi. Non dividevano il cibo, non ancora; bevevano solo cioccolata nel corso della notte. Mangiavano i funghi accompagnandoli con il miele. Quando essi cominciavano a sortire l'effetto, c'erano danze e c'erano lacrime... Alcuni vedevano in una visione che sarebbero morti in guerra... alcuni che sarebbero stati divorati dalle bestie feroci... alcuni che sarebbero diventati benestanti e avrebbero comprato degli schiavi... alcuni che avrebbero commesso adulterio e sarebbero stati lapidati fino ad avere la testa sfondata... alcuni che sarebbero morti annegati... alcuni che avrebbero trovato la pace nella morte... alcuni che sarebbero precipitati dal tetto della casa... Tutte queste cose essi vedevano. Quando gli effetti del fungo cessavano, conversavano tra di loro e parlavano delle visioni che avevano avuto.
In uno scritto dello stesso periodo, il frate domenicano Diego Duran racconta che, durante i grandi festeggiamenti dell'anno 1502 in onore dell'ascesa al trono dell' imperatore azteco Montecuzuma II, vennero mangiati funghi inebrianti.
In un passo della cronistoria seicentesca di Don Jacinto de la Serna si fa riferimento all'uso di questi funghi in un contesto religioso: E capitò che un indiano di Tenango arrivò al villaggio... il suo nome era Juan Chichitòn... aveva portato con se certi funghi che aveva raccolto sulle montagne, e con essi commise una grande idolatria... Nella casa dove tutti si erano riuniti per celebrare la festa di un santo... venne suonato il teponastli (uno strumento a percussione azteco) accompagnato da canti che durarono tutta la notte. Passata la mezzanotte, Juan Chichitòn, che fungeva da sacerdote in quel solenne rito, dette i funghi a tutti i partecipanti perche li mangiassero, alla maniera di una Comunione, e poi offrì da bere il pulque... e così tutti quanti persero la testa, era uno spettacolo indecente.
In Nahuatl, la lingua degli Aztechi, questi funghi erano chiamati teonanàcatl, che può essere tradotto come fungo sacro.
Ci sono indicazioni che testimoniano di un uso cerimoniale dei funghi che si spinge fin verso l'era precolombiana.
Funghi in pietra sono stati rinvenuti nel Salvador, in Guatemala e nelle contigue regioni montagnose del Messico.
Si tratta di sculture in pietra raffiguranti un fungo con il cappello, sul cui gambo è scolpito il volto o la forma di una divinità o di un demone dall'aspetto animalesco.
Per lo più sono alti circa 30 centimetri. Gli esemplari più antichi risalgono al 500 avanti Cristo.
R.G. Wasson sostiene, con argomentazioni convincenti, che esiste un nesso tra questi funghi in pietra e il teonanacatl.
Se ciò fosse vero, vorrebbe dire che il culto dei funghi sacri, il loro uso magico curativo e religioso, è più antico di duemila anni.
Per i missionari cristiani gli effetti inebrianti di questi funghi, che provocavano visioni e allucinazioni, apparivano come opera del demonio.
Perciò tentarono, con tutti i mezzi che avevano a disposizione, di estirparne l'uso.
Il loro successo fu solo parziale, visto che gli indiani hanno continuato in segreto a utilizzare il fungo teonanacatl, che per loro è sempre stato sacro, fino ai giorni nostri.
Tutti i riferimenti all'uso dei funghi magici, presenti nelle antiche cronistorie, rimasero occultati nel corso dei secoli successivi, perché probabilmente si riteneva che fossero i prodotti di una fervida immaginazione e di un'epoca superstiziosa.
Ogni traccia dell'esistenza dei "funghi sacri" rischiò di andare perduta definitivamente quando, nel 1915, il celebre botanico americano W.E. Safford sostenne, in un discorso tenuto alla Botanical Society a Washington e in una rivista scientifica, la tesi perentoria della loro inesistenza e affermò che i cronisti spagnoli avevano scambiato il cactus della mescalina per un fungo.
Benché falsa, la tesi di Safford contribuì nondimeno a indirizzare l'attenzione della comunità scientifica verso l' enigma dei misteriosi funghi.
Fu il medico messicano Blas Pablo Reko che per primo entrò in conflitto con l'interpretazione di Safford. Egli aveva ricevuto indicazioni di un impiego recente di funghi in cerimonie religiose e di guarigione nelle remote regioni montagnose del Messico meridionale.
Ma solo nel 1936-381'antropologo RobertJ. Weitlaner e Richard Evans Schultes, professore di botanica all'Università di Harvard, riuscirono a scoprirne l'esistenza in quella zona; nel 1938 un gruppo di giovani antropologi americani, guidati da Jean Bassett Johnson, poterono assistere per la prima volta a una segreta cerimonia notturna con i funghi.
Questo avvenne a Huautla de Jimenez, capoluogo della regione mazateca nello stato di Oaxaca.
Gli studiosi parteciparono soltanto come spettatori, in quanto non fu loro permesso di mangiare la droga sacra.
Johnson riferì quell'esperienza in una rivista svedese (Ethnological Studies 9, 1939). In seguito le investigazioni sui funghi magici vennero interrotte.
Scoppiò la seconda guerra mondiale. Schultes, su ordine del governo americano, dovette occuparsi della produzione di caucciù nel territorio amazzonico, e Johnson fu ucciso durante lo sbarco degli Alleati in Nord Africa.
Furono i ricercatori americani Valentina Pavlovna Wasson e suo marito R. Gordon Wasson ad affrontare nuovamente il problema dal punto di vista etnografico. R.G. Wasson era un banchiere, vice presidente della J.P. Morgan di New York.
Sua moglie, morta nel 1958, faceva la pediatra. I Wasson iniziarono le loro ricerche nel 1953, nel villaggio mazateco di Huautla de Jimenez, dove quindici anni prima J.B.Johnson e altri avevano accertato l'esistenza ininterrotta dell'antico culto indiano del fungo.
Essi ricevettero alcune preziose informazioni da un missionario americano membro del Wycliffe Bible Translators, un certo Eunice V. Pike, che lì svolgeva la sua attività da molti anni.
Grazie alla conoscenza della lingua nativa e ai contatti pastorali con gli abitanti, Pike era in possesso di informazioni sul significato dei funghi magici che nessun altro aveva.
Nel corso di numerosi soggiorni a Huautla e nei dintorni, i Wasson poterono studiare in dettaglio l'uso corrente dei funghi e raffrontarlo con le descrizioni raccolte nelle antiche cronistorie.
Da ciò capirono che la fede nei "funghi sacri" era tuttora forte in quella regione.
Sta di fatto che i nativi continuavano a mantenere il segreto intorno al loro credo. Ci vollero perciò una grande accortezza e una abilità non comune per conquistare la fiducia della popolazione nativa e riuscire finalmente a gettare uno sguardo all'interno di quella dimensione sconosciuta.
Nella forma moderna del culto del fungo, le credenze religiose e le tradizioni antiche sono state mescolate con terminologie e idee cristiane.
Così accade sovente che i funghi vengano chiamati il sangue di Cristo, perchè essi crescono solo là dove è caduta una goccia del suo sangue. Secondo un'altra convinzione, i funghi spuntano dove una goccia della sua saliva ha bagnato il terreno, quindi è lo stesso Gesù Cristo che parla per il tramite loro.
La cerimonia con i funghi è una forma di consultazione.
La persona bisognosa di un consiglio o di cure, oppure la sua famiglia, interpella un "saggio" o una "saggia", sabio o sabia (curandero, curandera), in cambio di pochi denari.
Curandero può essere tradotto come sacerdote guaritore, poiché svolge contemporaneamente la funzione di medico e quella di sacerdote, due figure che si incontrano di rado in queste regioni remote. In lingua mazateca il curandero è chiamato co-ta-ci-ne, cioè colui che sa.
È lui che mangia i funghi durante la cerimonia, che si svolge sempre di notte.
Talvolta anche gli altri partecipanti al rito possono riceverli, benché è sempre il curandero che ne consuma una quantità maggiore.
L'azione è accompagnata da preghiere e implorazioni.
Prima della loro offerta, i funghi vengono affumicati sopra un catino in cui è stato messo a bruciare il copal (una resina simile all'incenso).
Nella completa oscurità, interrotta a volte dalla luce delle candele, mentre gli altri partecipanti se ne stanno distesi in silenzio su pagliericci, il curandero, in ginocchio o seduto, prega e canta rivolto a una sorta di altare su cui è posto un crocefisso, l'immagine di un santo o altri oggetti di venerazione.
Sotto l' effetto dei funghi sacri, immerso in uno stato visionario condiviso più o meno anche dai semplici osservatori, il curandero offre i propri consigli.
Nella cantilena del curandero, il fungo teonandcatl risponde alle domande che gli sono poste.
Esso dice se la persona malata vivrà o morirà o quali erbe sono necessarie per la cura; esso rivela il nome di chi ha ucciso una certa persona o di chi ha rubato il cavallo; oppure fa sapere come se la passa un parente lontano, e così via.
Le cerimonie con i funghi non assolvono solo questa funzione di consultazione; per i nativi esse rivestono anche un significato per molti aspetti simile a quello della Comunione per un cristiano credente.
Dalle parole degli indiani si capisce che per loro i funghi rappresentano il dono di Dio a un popolo altrimenti povero, senza dottori né medicine a disposizione; e siccome non possono leggere la Bibbia perché sono analfabeti, attraverso i funghi Dio può loro parlare direttamente.
Il missionario Eunice V. Pike riferiva anche le difficoltà incontrate a spiegare il messaggio cristiano, la parola scritta, a un popolo che crede di possedere un veicolo -il fungo sacro ovviamente -per ricevere in maniera diretta e chiara la volontà di Dio: sì, il fungo permette loro di gettare uno sguardo dentro il paradiso e di mettersi in comunicazione con Dio stesso.
La venerazione dei nativi per queste droghe sacre si manifesta anche nella convinzione secondo cui solo una persona pulita può mangiarle.
Pulito si intende qui in senso rituale, il che significa, tra altre cose, astinenza sessuale nei quattro giorni antecedenti e successivi all'ingestione dei funghi. Altre norme vanno poi osservate nella raccolta dei funghi.
L 'inadempienza di questi precetti può rendere pazza la persona che li mangia, o può addirittura ucciderla.
Nel 1953 I coniugi Wasson intrapresero la loro prima spedizione nella regione mazateca, ma solo nel 1955 riuscirono a superare la timidezza e il riserbo dei nativi, fino a essere ammessi come partecipanti attivi a una cerimonia con i funghi.
R. Gordon Wasson e l' amico fotografo Allan Richardson ricevettero i funghi sacri verso la fine di giugno del 1955 , nel corso di una seduta notturna.
Erano in assoluto i primi estranei, i primi bianchi, a cui fu permesso di prendere il teonanàcatl. Nel secondo volume di Mushrooms, Russia and history, Wasson descrive con parole estasiate come il fungo prese completo possesso di lui, benché avesse cercato di lottare contro i suoi effetti per rimanere un osservatore imparziale.
All'inizio vide delle figure geometriche variopinte trasformarsi poi in elementi architettonici. Seguirono visioni di splendidi colonnati, di magnificenti e armoniosi palazzi, degni di un mondo sovrannaturale, decorati di gemme preziose, vide carri trionfali sospinti dalle favolose creature di cui si fa cenno nella mitologia, e paesaggi di indicibile lucentezza.
Distaccata dal corpo e sfuggita alla presa del tempo, la sua anima ascese fin verso i domini della fantasia, circondata da immagini di una realtà più elevata e di un senso più profondo di quelle del mondo quotidiano.
L' essere, l'ineffabile, sembrava sul punto di venire alla presenza, ma l'ultima porta rimase serrata.
Questa esperienza costituì la prova decisiva, per Wasson, che i poteri magici attribuiti ai funghi esistevano realmente e non erano mere superstizioni.
Allo scopo di introdurre la nuova droga nella ricerca scientifica, Wasson aveva già preso dei contatti con il micologo Roger Heim di Parigi.
Unendosi ai coniugi americani in occasione di altre spedizioni nella regione mazateca, Heim potè condurre l'identificazione botanica dei funghi sacri.
Essi sono funghi prataioli appartenenti alla famiglia delle Strophariaceae, comprendente una dozzina di specie diverse mai prima classificate scientificamente, di cui il genere Psilocibe, rappresenta la parte più cospicua.
Il professor Heim riuscì persino a coltivarne alcuni esemplari in laboratorio.
Fu soprattutto il fungo Psilocibe mexicana a risultare adatto alla coltivazione artificiale.
Contemporaneamente agli studi botanici furono condotte anche le indagini chimiche, con lo scopo di estrarre il principio attivo allucinogeno e di renderlo disponibile in forma pura.










L. IUNIUS MODERATUS COLUMELLA
DE ARBORIBUS
I
Quoniam de cultu agrorum abunde primo volumine praecepisse videmur, non intempestiva erit arborum virgultorumque cura, quae vel maxima pars habetur rei rusticae placet igitur, sicuti Vergilio, nobis quoque duo esse genera surculorum, quorum alterum sua sponte gignitur, alterum cura mortalium procedit: illud, quod non ope humana provenit, materiae magis aptum, hoc, cui labor adhibetur, idoneum fructibus. [2] De hoc itaque praecipiendum est, atque id ipsum genus tripertito dividitur; nam ex surculo vel arbor procedit, ut olea, ficus, pirus, vel frutex, ut violae, rosae, harundines, vel tertium quiddam, quodneque arborem neque fruticem proprie dixerimus, sicuti est vitis.
[3] Arborum et fruticum docebimus cultum, si prius devitibus praeceperimus.
DE VITIARIO FACIENDO.
Qui vineam vel arbustum constituere volet, seminaria prius facere debebit; sic enim sciet cuius generis vitem positurus sit. Nam quae pretio parata disponitur, certam generositatis fidem non habet, quoniamdubium est, an is qui vendidit legendis seminibus adhibuerit diligentiam; tum etiam quod ex longinquo petitur, parum familiariter nostro solo venit, propter quod difficilius convalescit alienum exterae regionis. [4] Optimum est itaque eodem agro, quo vitem dispositurus es, vel certe vicino facere seminarium, idque multum refert loci natura. Nam si colles vineis vel arbustis occupaturus es, providendum est, ut siccissimoloco fiat seminarium et iam quasi ab incunabulis vitis exiguo adsuescat humore; aliter cum transtuleris de humido in aridum locum, viduata pristinoalimento deficiet. [5] At si campestres et uliginosos agros possidebis, proderit quoque seminarium simili loco facere et vitem largo consuescere humore. Nam quae ex sicco in aquosum agrum transfertur, utcumque putrescit. Ipsum autem agrum, quem seminario destinaveris planum et sucosum, sat eritbipalio vertere, quod vocant rustici sestertium. Ea repastinatio altitudinishabet plus sesquipedem, minus tamen quam duos pedes. Iugerum agri vertituroperis quinquaginta. [6] Collem autem et clivosum modum iugeri, sed ne minus duobus pedibus alte, repastinaveris operis sexaginta: vel si eodem loco, quo vineam ordinaturus es, facere voles seminarium, tribus pedibus alterepastinabis iugerum operis octoginta; ita tamen si neque lapis neque tophusaut alia materia difficilior intervenit, quae res quot operas absumat parumcertum est. Nos autem de terreno loquimur. II
QUALIA SEMINA ET QUANDO LEGAS.
Peracta repastinatione, mense Februario vel prima parteMartii semina legito. Sunt autem optima, quae de vitibus notatis leguntur. Nam cui cordi est bona seminaria facere, circa vindemiam vites, quae etmagnum et incorruptum fructum ad maturitatem perduxerunt, rubrica cum aceto, ne pluviis abluatur, permixta denotat, nec hoc uno tantummodo anno facit, sed continuis tribus vel pluribus vindemiis easdem vites inspicit, an perseverentesse fecundae; tum enim manifestum est generositatis vitium, non anni ubertate fructum provenire.
[2] Si conpluribus vindemiis eundem tenorem servarint, ex eiusmodi vitibus lecta semina multum bonumque vinum praebebunt. Nam qualiscumque generis uvae, quae integrae et incorruptae ad maturitatem perveniunt, longe melioris saporis vinum faciunt quam quae praecipienturaestu aut alia de causa.
III
QUEM AD MODUM SEMINA ELIGAS.
Semina autem eligito grandi acino, tenui folliculo, paucisminutisque vinaceis, dulci sapore. Optima habentur a lumbis, secunda abhumeris, tertia a summo vertice vitis lecta, quae celerrime conprehendunt et sunt feraciora, sed aeque celeriter senescunt. Pampinaria sarmenta deponi non placet, quia sterilia sunt. Locis pinguibus et planis et humidis praecoquesvites serito, raris acinis, brevibus nodis, inbecillas (nam tali generivitium eiusmodi ager aptus est);
[2] locis aridis et macris et siccis vitem sero maturantemet validam crebrisque acinis. Quod si pingui agro validas vites deposueris, pampinis magis eluxuriabuntur, et qualemcumque fructum tulerint, ad maturitatem non perducent; rursus inbecillae exili agro celeriter deficient exiguumque fructum dabunt. Unumquodque genus vitium separatim serito; ita suo quodque tempore putabis et vindemiaveris.
[3] Semina cum novello sarmento deposita cito conprehendunt et valenter crescunt, sed celeriter senescunt; at quae vetere sarmento panguntur, tardius convalescunt, sed tardius deficiunt. Semina quam recentissima terrae mandare convenit. Si tamen mora intervenerit, quo minus statim serantur, quam diligentissime obrui tota oportet eo loco, unde neque pluvias neque ventos sentire possint. Plantaria facito ab exoriente ad decimam lunam et a vicensima ad tricesimam.
[4] Haec vel melior est vitibus satio. Sed cum seras, frigidos ventos vitato.
DE MALLEOLIS.
Malleolum sic deponito. Virgam malleolarem non ampliusquam sex gemmarum esse convenit, ita tamen sunt, si brevia internodia habent. Eius imam partem quam in terram demissurus es, acutissima falce iuxta nodum, sic ne gemmam laedas, rotunda plaga amputato et statim fimo bubulo linito:tum in terram bene pastinatam et stercoratam rectum sarmentum defigito, ita ut ne minus quattuor gemmae abscondantur. [5] Pedale quoquoversus spatium sat erit inter seminarelinqui; cum conprehenderint, identidem pampinentur, ne plura sarmenta, quam debent, nutriant. Item quam saepissime fodiantur, ferro ne tangantur. Vicensimo et quarto mense resecentur, post tricesimum et sextum mensemtransferantur.
DE VINEIS CONSTITUENDIS.
In agro requieto vineam ponito. Nam ubi vinea fuit, quodcitius decimo anno severis, aegrius conprehendet nec umquam roborabitur. [6] Agrum antequam vineis obseras, explorato qualis saporis sit; talemenim etiam gustum vini praebebit. Sapor autem, sicuti primo docuimus volumine, conprehendetur, si terram aqua diluas et, cum consederit, tum demum aquam degustes. Aptissima vitibus terra est harenosa, sub qua constitit dulcis humor, probus consimilis ager, cui subest tophus, aeque utilis congesta et mota terra. Sabulum quoque, cui subest dulcis argilla, vitibus convenit. Omnis autem, qui per aestatem finditur ager, vitibus arboribusque inutilis. Terra inferior alit vitem et arborem, superior custodit.
[7] Saxa summa parte terrae vites et arbores laedunt, ima parte refrigerant, et mediocri raritudine optima est vitibus terra;sed ea, quae transmittit imbres aut rursus in summo diu retinet, vitanda est. Utilissima autem est superior modice rara, circa radices densa. Montibus clivisque difficulter vineae convalescunt, sed firmum probumque saporem vini praebent. Humidis et planis locis robustissimae, sed infirmi saporisvinum nec perenne faciunt. Et quoniam de seminibus atque habitu soli praecepimus, nunc de genere vinearum disputabimus.
IV
GENERA VINEARUM.
Vites maxime gaudent arboribus, quia naturaliter in sublime procedunt, tunc et materias ampliores creant et fructum aequaliter percoquunt. Hoc genus vitium arbustivum vocamus, de quo pluribus suo loco dicemus. Vinearum autem fere genera in usu tria sunt, iugata, humi proiecta et deinde tertia, (quae) est a Poenis usurpata, more arborum in se consistens. Id genus conparatum iugatae quadam parte deficitur, quadam superat. [2] Iugata plus aeris recipit et altius fructum fertet aequalius concoquit, sed difficilior est eius cultus; at haec ita constitutaest, ut etiam arari possit, eoque ubertatem maiorem consequitur, quod saepiuset minore inpensa excolitur. At quae protinus in terram porrecta est, multum, sed non bonae notae vinum facit. Vinea optime repastinato agro ponitur, nonnunquam tamen vel melius quibusdam locis sulcis committitur; interdumetiam scrobibus deponitur. Sed, ut dixi, repastinatur iugerum in altitudinem pedum trium operis octoginta;
[3] sulcum autem terrenum altum duorum, longum septuagintauna opera effodit; scrobes ternarios, id est quoquo versus pedum trium, una opera facit XVIII. Vel si cui cordi est laxius vites ponere, scrobesquaternarios, id est quoquo versus pedum quaternum, una opera duodecim facit, vel bipedaneos quoquo versus una opera viginti effodit. Curandum autem est, ut locis aridis et clivosis altius vitis deponatur quam si humidis et planis. Item si scrobibus aut sulcis vineam posituri erimus, optimum erit anteannum scrobes vel sulcos facere.
[4] Vinea, quae angustissime conseritur, quoquo versus quinque pedum spatio interposito ponitur, inter septem vel octo pedes, quae rarissime, (vel, ) ut etiam facile arari possit, inter denos pedesconstituitur. Haec positio vinearum modum sine dubio agri maiorem occupat, sed valentissima et fructuosissima est. Cum semina depones, imum scrobemvel sulcum bidentibus fodito mollemque reddito. Vitem, quam ponis, facut ad Orientem spectet adminiculo religata. In imo scrobe lapides circapondo quina ita ponito, ne vitem premant, sed iuxta radices sint.
[5] Praeterea post haec vinaceae heminam uvae albae innigra, uvae nigrae in alba ponito, atque ita scrobem vel sulcum cum instercorata terra ad medium conpleto. Triennio deinde proximo paulatim scrobem velsulcum usque in summum conpleto; sic vites consuescent radices deorsumagere. Spatium autem radicibus, qua repant, lapides praebent et hieme aquamrepellunt, aestate humorem praebent; vinaceae vitis radices agere cogunt. Quoniam praecepimus, quem ad modum vites ponendae sint, nunc culturam earumdocebimus.
V
DE CULTURA VINEARUM.
Vineam novellam omnis gemmas agere sinito. Simul atque pampinus instar quattuor digitorum erit, tum demum pampinato et duas materias relinquito: alteram quam vitis constituendae causa submittas, alteram subsidio habeas, si forte illa ordinaria interierit; hanc rustici custodem vocant. Proximo deinde anno, cum putabis vitem, meliorem unam virgam relinquito, alteras tollito. Tertio anno vitem, in quam formam voles, dum tenera est, conponito.
[2] Si iugatam eris facturus, unam materiem submittito, ita ut duas gemmas, quae sunt proximae a terra, falce acuta radas, quone iam possint germinare et deinde tres sequentis relinquas, reliquam partem virgae amputes. Sin autem vitem in se consistere voles, sicut arbori brachia submitti patieris et dabis operam, ut in orbem quam rotundissime formetur. Nam praeterquam quod speciem habet sic conposita, tum etiam minus laborat, cum undique velut aequilibrio stabilita in se requiescit. Sat erit autem, cum primo brachia submittuntur, singulas gemmas singulis sarmentis relinqui, ne protinus onere gravetur. [3] Post hanc putationem lectis sarmentis bidentibus alte aequaliter vineam fodito vel, si ita late disposita erit, arato. Ab Idibus Octobribus oblaqueare incipito, ante brumam oblaqueatam habeto. Per brumam vitem ne colito, nisi si voles eas radices, quae in oblaqueatione apparebunt, persequi. Tum demum optime amputabis, sed ita ne codicem laedas, sed potius instar digiti unius a matre relinquas et ita radicem reseces. Nam quae protinus abraditur, praeterquam quod vulnus viti praebet eoquenocet, tum etiam de ipsa cicatrice plures radices prorepunt.
[4] Itaque optimum est exiguam partem relinqui atque ita summas partes, quas aestivas rustici appellant, resecare; quae sic resectae inarescunt nec ultra vitibus obsunt. Possunt etiam suboles perbrumam caedi, eo magis quod frigoribus exstirpatae minus recreantur. Peractaoblaqueatione ante brumam tertio quoque anno macerati stercoris, ne minus sextarios binos ad radices vitium posuisse conveniet, praeterquam columbinum;quod si quo amplius quam heminam posueris, viti nocebit. Post brumam deindeoblaqueationem circumfodito.
[5] Ante aequinoctium vernum, quod est octavo Kal. Apriles, oblaqueationem adaequato. Post Idus Apriles terram ad vitem aggerato. Aestate deinde quam potes saepissime occato. Iugerum vineae quinque operis oblaqueatur, quinque foditur, tribus occatur. Iugerum valentis et iam constitutae vineae, quattuor operis putatur, sex adligatur.
[6] Arbusto nihil eiusmodi potest ante finiri, quia in aequalitas arborum non patitur operis iusta conprehendi. Quibusdam placet vitem proximo anno translatam non putare, sequenti deinde anno purgare et unam virgam, quam submittamus, ad tertiam gemmam resecare, tertio deinde si vitis recteconvaluerit, una plus gemma submittere, quarto duas gemmas proximae putationi adicere atque ita quinto demum anno vitem iugare. Hunc eundem ordinem culturae nos quoque experti conprobavimus.
VI
DE RESECANDA VETERE VINEA ET PROPAGANDA.
Veterem vineam, si in summo radices habebit, resecare nolito; alioquin etiam novellam vineam, quae ex resectione enata fuerit, inutilem habebis, prima parte terrae natantibus radicibus, neque fructumuberem percipies et nihilominus celeriter consenescet. Eiusmodi itaquevinea, si non peraridos habet truncos et flecti potest, factis sulcis optimesternitur atque ita renovellatur.
[2] Sin autem usque eo exaruit, ut curuari non possit, primo anno summatim, ita ne radices eruas aut laedas, oblaqueato eam etstercus ad radices addito atque ita putato, ut paucas et certas materias relinquas, et fodias diligenter et saepius pampines, ne omnino supervacua sarmenta nutriat.
[3] Sic exculta longas et firmas materias creabit, quas sequenti anno scrobibus inter ordines factis propaginabis ac deinde triennio, cum convalescat, saepius fodies matremque ipsam onerabis; nihil in posterumprospicies ei, quam sublaturus es. Posterum (in) annum matrem radicitustolles atque ita novellam vineam ordinabis.
[4] Sin autem vetus vinea dumtaxat generis boni radicesalte positas habebit, ita ut oblaqueatae non conspiciantur, eam vineam circa Kal. Martias, antequam reseces, oblaqueato et protinus, cum alte oblaqueaveris, sic resecato. Quattuor digitos ab radicibus trunci relinquitoet, si fieri poterit, iuxta aliquem nodum serrula desecato et plagam acutissimoferro delevato. Deinde minutam terram mediocriter stercoratam ita superponito, ut adobruto trunco ne minus tres digiti terrae super plaga sint;
[5] hoc idcirco, ne sole inarescat et ut melius materia scitet percepto humore, quem terra praebet. At quae mali generis et infructuosavinea est summasque partes eiuncidas et exesas habet, si radices eius satisalte positae sunt, optime inseretur ita, ut oblaqueata et nudata pars ima secundum terram sic amputetur, ne cum aggerata fuerit, supra terram exstet.
VII
DE PROPAGATIONE.
Propagationum genera tria sunt in usu maxime: unum, quovirga edita a matre sulco committitur, alterum, quo ipsa mater prosternit uratque in pluris palos per suas virgas dividitur, tertium, quo vitis finditurin duas vel tres partes, si diversis ordinibus deducenda est. Hoc genus tardissime convalescit, quia vitis divisa medullam amittit. Et quondam genera proposuimus, unumquodque qualiter faciendum sit, demonstrabimus.
[2] Virgam cum a matre in terram deprimere voles, scrobem quoquo versus quattuor pedum facito ita, ut propala non laedatur alteriusradicibus. Deinde quattuor gemmas, quae in imum scrobem perveniunt, relinquito, ut ex his radices citentur. Reliquam partem, quae continens matri est, adradito, ne supervacua sarmenta procreet.
[3] Diversae autem, quae supra terram exstare debent, ne passus fueris plus quam duas aut ut maxime tres gemmas habere. Reliquas, quae in terram absconduntur, exceptis quattuor imis fac adradas, ne insummo radices vitis citet. Hoc modo propagata celeriter convalescit ettertio anno a matre separabitur. sin autem ipsam vitem sternere voles, iuxta radicem ita, ne ipsam laedas, curiose fodito et vitem ita subplantato, ne radicem abrumpas. Cum eam statueris et videris, quousque possit pertingere, sulcum facies unum, in quem vitem integram demittas; deinde ex eo sulco quasi ramos fossarum facies, per quos, uti quaeque virga postulavit, propaletur, atque ita terra adoperies.
[4] Sin autem vitis exiguam materiem habebit et in diversosordines deducenda erit neque aliter potuerit palos, ad quos perducitur, pertingere, quam ut diffluvietur, curabis, ut quam acutissima falce abea parte, qua bifurca est, findas eam et item ferro acuto plagam emendes, sicubi inaequaliter findi videbitur; sic deducta poterit in plures ordinesdividi.
[5] Non inutilis est etiam illa propagatio, quam nos repperimus, si quando in ordinem vitis deest neque est tam procera virga, quae cum in imum scrobem demissa fuerit, retorqueri et erigi supra terram possit. Brevitatem ne reformidaveris, sed qualemcumque virgam, cuius cacumenin imum scrobem pervenit, deprimito et obruito. Deinde gemmas, quae secundum ipsam matrem sunt, submittito, ut materias a superiore parte citent.
Tum demum post triennium a matre amputato et ad suum palum eam partem, quam a matre praecideris, reducito et caput vitis facito. Propaginis scrobem minime triennio paulatim conpleto. Summas radices praecidito, crebre fodito.
VIII
DE INSITIONE.
Cum vitem inserere voles, optimi generis sarmenta fructuaria, tum cum gemmas agere incipient, vento austro a matre praecidito. Sarmentum, quod inseris, de summa vite sit rotundum, bonis crebrisque nodis. Tres deinde nodos integerrimos relinquito; infra tertiam gemmam ex utraque parte duorum digitorum spatium in modum cunei tenuissimo scalpello acuito, ita ne medullam laedas.
[2] Vitem deinde, quam insiturus es, resecato et plagam levato atque ita findito et paratos surculos in fissuram demittito eatenus, qua adrasi sunt, ita ut cortex surculi corticem vitis aequaliter contingat. Quicquid inserveris, ulmi diligenter libro vel vimine ligato luto subacto paleato oblinito plagam et adligato, ne aqua ventusve penetrare possit; deinde supra lutum muscum inponito et ita deligato. Ea res praebet humorem nec inarescere sinit.
[3] Infra insitionem et adligaturam falce acuta levitervitem vulnerato ex utraque parte, ut ex his potius plagis humor defluat, quam ex insitione ipsa abundet; nocet enim nimius humor nec patitur surculos insertos conprehendere. Quibusdam antiquorum terebrari vitem placet atqueita leviter adrasos surculos demitti, sed nos meliore ratione hoc idemfecimus. Nam antiqua terebra scobem facit et propter hoc urit eam partem, quam perforat; praeusta autem pars raro umquam conprehendit insertos surculos.
[4] Nos rursus terebram, quam gallicanam dicimus, huic insitioni aptavimus; ea excauat nec urit, quia non scobem, sed ramentafacit. Itaque cauatum foramen cum purgavimus, undique adrasos surculosinserimus atque ita circumlinimus. Talis insitio facillime convalescit. Igitur secundum aequinoctium perfectam vitium insitionem habeto; humidaloca de uva alba, sicca de nigra inserito.
INFRUCTUOSAS VITES FECUNDAS FACERE.
Vites, quae exiguum dant fructum, aceto acri cum cinerearrigato ipsumque codicem eodem cinere linito.
[5] At si fructum, quem ostendunt, ad maturitatem non perducunt, sed, priusquam mitescant uvae, inarescunt, hoc modo emendabuntur. Cum instar ad erui amplitudinem acini habuerunt, radice tenus vitem praecidito, plagam acri aceto pariter ac lotio veteri permixta terra linito eodemque radices rigato, saepe fodito. Materias (sic) citabit eaeque fructumperferunt.
IX
UT UVAE ACINORUM GENERA CONPLURA HABEANT.
Est etiam genus insitionis, quod uvas tales creat, inquibus varii generis ac saporis colorisque reperiuntur acini. Hoc autem ratione tali efficitur: quattuor vel quinque, sive etiam plures voles, virgas diversi generis sumito easque diligenter et aequaliter conpositasconligato, deinde in tubulum fictilem vel cornu arte inserito, ita ut aliquantum exstent ab utraque parte easque partes, quae exstabunt, resolvito, in scrobem deinde ponito et terra stercorata obruito ac rigato, donec gemmas agant. [2] Cum inter se virgae cohaeserint, post biennium aut triennium facta iam unitate dissolves tubulum et circa medium fere crus, ubi maxime videbuntur coisse, vitem serra praecidito et plagam levato terramque minutam aggerato, ita ut tribus digitis alte plagam operiat; ex eo codicecum egerit coles, duos optimos submittito, reliquos deicito; sic uvae nascentur, quales proposuimus.
AGIGARTA.
[3] Ut autem uvae sine vinaceis nascantur, malleolum findito ita, ne gemmae laedantur, medullamque omnem eradito; tum demum in se conpositum conligato, sic ne gemmas adlidas, atque ita terra stercorata deponito etrigato. Cum coles agere coeperit, saepe et alte refodito. Adulta vitistales uvas sine vinaceis creabit.
X VINEAM QUO MODO PUTES.
Vindemia facta statim putare incipito ferramentis quamoptimis et acutissimis; ita plagae leves fient neque in vite aqua consistere poterit, quae simulatque inmorata est, corrumpit vitem vermesque et aliacreat animalia, quae materiam exedunt. Plagas autem rotundas facito; namcelerius cicatricem ducunt.
[2] Sarmenta lata, vetera, male nata, contorta, omnia haec praecidito; novella et fructuaria et interdum subolem idoneam, siiam superficies parum valebit, submittito brachiaque conservato. Quam celerrime poteris, putationem perficito. Arida et vetera, falce quae amputari non possunt, acuta dolabra abradito. In agro macro et sicco vineam inbecillamante brumam putato; quam partem non deputaveris, circa Kal. Februariasrepetito. Ab Idibus Decembribus ad Idus Ianuarias ferro tangi vitem et arborem non convenit.
[3] Cum vitem putabis, inter duas gemmas secato; namsi iuxta ipsam gemmam secueris, laborabit nec materiem citabit. Cicatrix autem semper deorsum spectet; ita neque aqua neque sole laborabit humorem querecte capiet. In agro crasso validaque vinea plures gemmas et palmas relinquito, in exili pauciores. Sicubi in vite brachium desiderabitur, falce acutas emel aut bis eo loco alte instar digiti mucrone ferito. Brachium quam vis longum cave totum tollas, nisi si totum arverit.
DE FOSSURA.
[4] Vineam novellam ante brumam oblaqueatam habeto, utomnes imbres limumque concipiat. Vites arboresque, quo citius ablaqueaveris, erunt valentiores. Sed quaecumque in clivis erunt positae, ita ablaqueandaesunt, ut a superiore parte secundum codicem lacusculi fiant, ab inferioreautem pulvilli altiores excitentur, quo plus aquae [5] limique contineant. Vinea vetus neque oblaqueandaest, ne radices, quas in summo habet, inarescant, neque aranda, ne radices abrumpantur. Bidentibus saepe et alte fodito aequaliter et stercore velpalea conspargito solum ante brumam vel, cum circum ipsam vitem summatim ablaqueaveris, stercorato.
XI
DE PAMPINATIONE.
Vineam quam putare tam bene pampinare utile est; nam et materiae, quae fructum habent, melius convalescunt et putatio sequentis anni expeditior, tum etiam vitis minus cicatricosa fit, quoniam quod virideet tenerum decerpitur, protinus convalescit. [2] Super haec quo melius maturescat, ante dies decem, quam vinea florere incipit, pampinatam habeto. Quicquid supervacui enatum fuerit, tollito. Quod in cacumine aut in brachiis natum erit, decerpito, dumtaxat quae uvam non habebunt. Cacumina virgarum, ne luxurientur, demutilato. Uvas, quae meridiem aut occidentem spectabunt, ne praeurantur, suo sibipampino tegito.
XII
Simulatque uva variari coeperit, fodito tertiam fossuram et cum iam maturescet, ante meridiem, priusquam calere incipiet, cum desierit, post meridiem fodito pulveremque excitato; ea res et a sole et a nebula maxime uvam defendit. Lutulentam terram neque arare neque fodere oportet, quia valde durescit et finditur.
[2] Bidentibus terram vertere utilius est, quam aratro. Bidens aequaliter totam terram vertit; aratrum praeterquam quod scamna facit, tum etiam boves, qui arant, aliquantum virgarum et interdum totasvites frangunt. Finis autem fodiendi vineam nullus est; nam quanto saepiusfoderis, tanto uberiorem fructum reperies.
XIII
NE RUBIGO VINEAM VEXET.
Palearum acervos inter ordines verno tempore positos habetoin vinea. Cum frigus contra temporis consuetudinem intellexeris, omnisacervos incendito. Ita fumus nebulam et rubiginem removebit.
XIV
NE FORMICA VITEM ASCENDAT.
Lupinum terito et cum fracibus misceto eoque imam vineam circumlinito vel bitumen cum oleo coquito, eo quoque imas vites tangito: formicae non excedent. XV
NE SORICES UVAS COMEDANT.
Vites, quae secundum aedificia sunt, a soricibus aut muribus infestantur. Id ne fiat, plenam lunam observabimus, cum erit in signo Leonisvel Scorpionis vel Sagittarii vel Tauri et noctu ad lunam putabimus.
NE VOLUCRA VITEM LAEDAT.
Genus est animalis, volucra appellatur; id fere praeroditteneros adhuc pampinos et uvas. Quod ne fiat, falces, quibus vineam putaveris, peracta putatione, sanguine ursino linito; vel si pellem fibri habueris, in ipsa putatione, quotiens falcem acueris, ea pelle aciem detergeto atqueita putare incipito. Quoniam de vineis abunde diximus, de arbustis praecipiamus.
XVI
DE ARBUSTIS.
Vitem maxime populus alit, deinde ulmus, deinde fraxinus. Populus, quia non frondem idoneam habet, a plerisque inprobatur. Ulmusautem, quam Atiniam vocant rustici, generosissima est et laetissima multamquefrondem habet, eaque maxime serenda est locis pinguibus vel etiam mediocribus;sed si aspera et siticulosa loca arboribus obserenda erunt, neque populusneque ulmus tam idoneae sunt quam orni; eae autem silvestres fraxini sunt, paulo latioribus tamen foliis quam ceterae fraxini, nec deteriorem frondemquam ulmi praestant.
[2] Caprae quidem et oves vel libentius etiam hanc frondemadpetunt. Igitur qui arbustum constituere volet, ante annum quam deponanturarbores, scrobes faciat quattuor quoquo(versus pedum. Postero) annodeinde circa Kal. Martias in eandem scrobem ulmum et populum vel fraxinumdeponat, ut si ulmus defecerit, populus vel fraxinus locum obtineant. Siautem utraque vixerint, altera eximatur et alio loco disponatur. Arbustuminter quadragenos pedes dispositum esse convenit; sic enim et ipsae arboreset adpositae vites melius convalescent fructumque meliorem dabunt. Segetesetiam, quae [3] in eo erunt, minus umbra laborabunt.
[4] Arborem, quam deposueris, saepius circumfodito, quocelerius adolescat, et triennium ferro ne tetigeris. Conpletis sex et trigintamensibus, ad recipiendam vitem formaris, supervacuos ramos amputabis, alternabrachia in modum scalarum relinques alternisque annis putabis; sexto anno, si iam firma videbitur, maritabis hoc modo. Ab ipso arboris crure pedalespatium intermittito; dein sulcum in quattuor pedes longum, in tres altum, in dupondium semissem latum cum feceris, patiere minime duobus mensibuseum tempestatibus verberari.
[5] Tum demum circa Kal. Martias vitem de seminario neminus decem pedum sternito et adminiculato arborique iungito; eam proximoanno ne putaveris, tertio vere ad unam virgam redigito paucasque gemmasrelinquito, ne, antequam inualverit, in altitudinem repat. Cum deinde amplumincrementum habuerit, per omnia arboris tabulata disponito materias, itatamen ne vitem oneres, sed certa et robustissima flagella submittas. Arbustivamvitem quam putare tam alligare diligenter oportet. Nam in eo fructus maximevis consistit diutiusque perennat, quae firmis toris et idoneis locis religataest. Itaque omnibus annis convenit subsequi putationem, ita ut tori renoventuret vitis per idoneos ramos disponatur.
XVII
DE OLIVETO.
Olea maxime collibus siccis et argillosis gaudet; at humidiscampis et pinguibus laetam frondem sine fructu adfert. Melius autem truncisquam plantis olivetum constituitur. Magoni placet siccis locis olivam autumnopost aequinoctium seri ante brumam; nostrae aetatis agricolae fere vernumtempus circa Kal. Maias servant.
[2] Oportet autem scrobem oleae quoquoversus pedes quaternospatere, in imum scrobem lapidem glareamque abicere, deinde super terramquattuor digitorum inicere, tum arbusculam deponere ita rectam, ut quodscrobe exstiterit, in medio sit, arbusculam autem a tempestatibus tueridiligenter adminiculando et terram, quae in scrobem reponitur, stercoremiscere.
[3] Oleam decet inter sexagenos pedes disponi, ut spatiumin latitudinem crescendi habeat; nam quae in proceritatem extenduntur, evanidae fiunt parumque fructus ferunt. Optima est oleo Liciniana, posiasecunda oleo, escae orchites. Sunt et regiae et radii non sine specie nequeoleo neque esui tam gratae quam quas supra diximus. Si oleam posueris eoloco, unde quercus effossa est, emorietur, ideo quod quidam vermes, quiraucae dicuntur, in radice quercus nascuntur eique maxime semina oleaeconsumunt. Si in olea unus ramus aliquanto ceteris laetior est, nisi eumrecideris, arbor tota fiet retorrida.
[4] Omnes arbusculas prius quam transferas, rubrica notareconvenit, ut, cum serentur, easdem caeli partes aspiciant, quas etiam inseminario conspexerant; alioquin frigore vel calore laborabunt ab iis partibus, quas contra consuetudinem sub alio aere positas habuerint.
XVIII
DE POMARIO CONSTITUENDO.
Priusquam pomarium constituas, quam magnum habere voles, circummunito macerie aut fossa, ita ut non solum pecori, sed nec hominitransitus sit nisi per ostium, dum adolescant semina. Nam si saepius cacuminamanu praefracta aut a pecore praerosa fuerint in perpetuum corrumpuntur.
[2] Generatim autem arbores disponere utile est, maximene inbecilla a valentiore prematur, quia nec viribus nec magnitudine suntpares neque pariter crescunt. Terra, quae vitibus apta est, eadem quoqueutilis est arboribus.
XIX
DE SCROBIBUS FACIENDIS.
Ante annum quam poma disponere voles, scrobes fodito. Ita sole pluviaque macerabuntur et quod posueris cito conprehendet. Sedsi quo anno scrobes feceris, etiam semina ponere voles, minime ante duosmenses fodito scrobes, postea stramentis eos inpleto et incendito. Quolatiores patentioresque scrobes feceris, hoc erunt laetiores uberioresquefructus.
[2] Scrobis clibano similis esto, imus quam summus patentior, ut laxius radices vagentur ac minus frigoris minusque aestate vaporis perangustum ostium intret, tum etiam clivosis locis terra, quae in eum congestaest, pluviis non abluatur.
[3] Arbores raris intervallis serito, ut cum creverint, spatium habeant, quo ramos extendant. Nam si spisse posueris, neque infraquid serere poteris nec sic ipsae fructuosae erunt, nisi intervulseris. Itaque placet inter ordines quadragenos pedes minimumque trigenos relinqui.
XX QUOMODO SEMINA LEGAS.
Semina lege, ne minus crassa, quam manubrium est bidentis, recta, levia, procera, sine ulceribus, integro libro. Ea bene et celeriterconprehendunt. Semina si ex arboribus sumes, de iis potissimum sumito, quae omnibus annis bonos et uberes ferunt fructus. Observabis autem abhumeris, qui sunt contra solem orientem, ut eosdem decerpas. Sed si cumradice plantam posueris, incrementum ei (mai)us futurum quam ceterissenties.
[2] Arbos insita fructuosior, quam quae insita non est, id est, quam quae ramis aut plantis ponitur. Priusquam arbusculas transferas, rubrica vel alia qualibet re signato, ut isdem ventis, quibus ante steterunt, constituas eas, curamque adhibeto, ut ab superiore et sicciore et exiliorein planiorem, humidiorem, pinguiorem agrum transferas. Semina trifurcamaxime ponito; ea exstent supra terram tribus pedibus. Si in eodem scrobeduas aut tres arbusculas ponere voles, curato, ne inter se contingant;nam ita vermibus interibunt.
[3] Cum semina depones, dextra sinistraque usque in imumscrobem fasciculos sarmentorum brachii humani crassitudine deponito, itaut supra terram paululum exstent, per quos aestate paruo labore aquam radicibussubministres. arbores aut semina (cum) radicibus autumno serito circaIdus Octobres. Taleas et ramos vere, antequam germinare arbores incipiunt, deponito. Sed ne tinea molesta sit seminibus ficulneis, in imum scrobemtaleam lentisci, ita ut cacumen eius deorsum spectet, obruito.
XXI
QUANDO FICUS SERENDA SIT.
Ficum frigoribus ne serito. Loca aprica, calculosa, glareosa, interdum et saxeta amat. Eiusmodi agro cito convalescit, si scrobes amploset idoneos feceris. Ficorum genera, etiam si sapore et habitu differunt, tamen uno modo, sed dispari loco pro differentia agri seruntur. Locis frigidiset autumni temporibus aquosis praecoques serito, ut ante pluviam fructumdeligas; locis calidis hibernas serotinas serito. At si voles ficum quamvisnon natura seram facere, cum grossuli minuti erunt, fructum decutito; itaalterum edet fructum, in hiemem seram differet maturitatem.
[2] Nonnunquam etiam, cum frondere coeperint arbores, cacumina fici acutissimo ferramento summa amputare prodest. Sic firmioresarbores et feraciores fiunt. Semper proderit, simul ac folia agere coeperitficus, rubricam amurca diluere et cum stercore humano ad radicem infundere; ea res efficit uberiorem fructum et fartum fici speciosius et plenius.
XXII
DE CETERIS POMIS.
Nucem Graecam serito Arcturi signo vel circa Kal. Februarias, quia prima gemmascit. Agrum calidum, durum, siccum desiderat. Nam in locisdiversis eiusmodi natura si posueris nucem, protinus putrescet. Ante quamnucem deponas, in aqua mulsa, ne nimis dulci macerato; ita iucundiorissaporis fructum, cum adoleverit, praebebit et interim melius atque celeriusnascetur.
[2] Ternas nuces in trigonum statuito, parsque acutiorinferior sit, quia inde radices mittit, nuxque a nuce minime palmo absitet anceps ad Favonium spectet. Omnis nux unam radicem mittit et simplicistilo prorepit. Cum ad scrobis solum radix pervenit, duritia humi coercitarecuruatur et extensa in modum ramorum alias radices emittit. Nucem Graecamet Avellanam Tarentinas hoc modo facere poteris.
[3] In quo scrobe destinaveris nuces serere, terram minutamin modum semipedis ponito ibique semen ferulae iacito. Cum ferula fueritenata, eam findito et in medullam eius sine putamine nucem Graecam velAvellanam abscondito et ita adobruito. Hoc ante Kal. Martias facito, veletiam inter Nonas et Idus Martias. Hoc eodem tempore iuglandem et pineamet castaneam serere oportet.
XXIII
Malum Punicum vere usque in Kal. Apriles recte seritur. Quod si acidum aut minus dulcem fructum feret, hoc modo emendabitur. Stercoresuillo et humano et lotio humano veteri radices rigato. Ea res et fertilemarborem reddet et primitivos annos fructum vinosum, post vero etiam dulcemet apyrinum facit. Nos exiguum admodum laser cyrenaicum vino diluimus etita cacumina arboris summa oblevimus; ea res emendavit acorem malorum.
[2] Mala Punica ne rumpantur in arbore, remedio placuit, lapides tres si, cum seres arborem, ad radicem ipsam conlocaveris. At siiam arborem satam habueris, scillam secundum radicem arboris serito. Aliomodo, cum iam matura mala fuerint, ante quam rumpantur, petiolos, quibuspendent, intorqueto. Eo modo servabuntur etiam anno toto.
XXIV
Piros autumno ante brumam serito, ita ut minime dies quinqueet viginti ad brumam supersint. Quae ut sint feraces, cum iam adoleverint, alte ablaqueato et iuxta ipsam radicem truncum findito. In fissuram cuneumpineum tedae adicito et ibi relinquito; deinde obruta oblaqueatione cinerem supra terram spargito.
XXV
Mala aestiva, cydonea, sorba, pruna post mediam hiememusque in Idus Februarias serito. Morum ab Idibus Februariis usque in aequinoctium vernale recte seres. Siliquam Graecam, quam quidam ceratium vocant, item Persicum ante brumam per autumnum serito. Amygdala si parum feracia erunt, per forata arbore lapidem adigito; ita librum arboris inolescere sinito.
DE SEMINARIO FACIENDO.
[2] Omnium autem generum ramos circa Kal. Martias in hortis, ubi et subacta et stercorata terra est, per pulvinos arearum disponereconvenit, deinde cum tenuerint, danda est opera, ut dum teneros ramulos habent, veluti pampinentur et ad unum stilum primo anno semina redigantur; et cum autumnus incesserit, ante quam frigus cacumina adurat, omnia folia decerpere expediet et ita crassis harundinibus, quae ab una parte nodos integros habent, quasi pilleolos induere atque ita a frigore et gelicidiisteneras adhuc virgas tueri. Post quartum et vicesimum deinde mensem, sivetransferre et disponere in ordinem voles seu inserere, satis tuto utrumque facies.
XXVI
DE INSITIONE.
Omnis surculus inseri potest, si non est ei arbori, cui inseritur, dissimilis cortice; si vero fructum etiam eodem tempore fert, sine ullo scrupulo optime inseritur. Tria autem genera insitionum antiquitradiderunt: unum, quod resecta et fissa arbore recipit insertos surculos;alterum, quo resecta inter librum et materiem admittit semina, quae utraque genera verni temporis sunt; tertium, cum ipsas gemmas cum exigua corticein partem sui delibratam recipit, quam vocant agricolae emplastrationem;hoc genus aestatis est.
[2] Quarum insitionum rationem cum tradiderimus, a nobisquoque repertam docebimus. Omnes arbores simulatque gemmas agere coeperint, luna crescente inserito, olivam autem circa aequinoctium vernum usque inIdus Apriles. Ex qua arbore inserere voles et surculos ad insitionem sumpturuses, videto, ut sit tenera et ferax nodisque crebris, et cum primum germinatum ebunt, de ramulis anniculis, qui solis ortum spectabunt et integri erunt, eos legito crassitudine minimi digiti; surculi sint bisulci.
[3] Arborem, quam inserere voles, serra diligenter exsecato ea parte, quae maxime nitida et sine cicatrice est, dabisque operam, nelibrum laedas. Cum deinde truncam reddideris, acuto ferramento plagam levato;dein quasi cuneum ferreum vel osseum inter corticem et materiem, ne minus digitos tres, sed lente dimittito, ne laedas aut rumpas corticem.
[4] Postea surculos, quos inserere voles, falce acuta ab una parte eradito tam alte quam cuneum demisisti, sed ita ne medullam neve alterius partis corticem laedas; ubi surculos paratos habueris, cuneum vellito statimque surculos demittito in ea foramina, quae cuneo adactointer corticem et materiem facta sunt. Ea autem fine, qua adraseris, surculos demittito ita, ut sex digitis de arbore exstent. In una autem arbore duosaut tres ramulos figito, dum ne minus quaternum digitorum inter eos sit spatium. Pro arboris magnitudine et corticis bonitate haec facito.
[5] Cum omnes surculos, quos arbor patietur, demiseris, libro ulmi vel vimine arborem adstringito; postea paleato luto bene subacto oblinito totam plagam et spatium, quod est inter surculos usque eo, utduobus digitis insita exstent; supra lutum muscum inponito et ita adligato, ne pluvia dilabatur.
[6] Si pusillam arborem inserere voles, iuxta terram abscidito, ita ut sesquipedem a terra exstet. Cum deinde abscideris, plagam diligenter levato et medium truncum acuto scalpro modice findito, ita ut fissura trium digitorum sit. In eam deinde cuneum, quo dispaletur, inserito et surculos ex utraque parte adrasos demittito, ita ut librum seminis libro arboris aequalem facias. Cum surculos diligenter aptaveris, cuneum vellitoet arborem, ut supra dixi, alligato et oblinito; dein terram circa arbore maggerato usque ad ipsum insitum. Ea res a vento et calore maxime tuebitur.
[7] Tertium genus insitionis, cum sit subtilissimum, non omni generi arborum idoneum est, et fere eae recipiunt talem insitionem, quae humidum sucosumque et validum librum habent, sicuti ficus. Nam etlactis plurimum remittit et corticem robustam habet. Optime itaque ea inseriturtali ratione.
[8] Ex qua arbore inserere voles, in ea quaerito novellos et nitidos ramos. In his deinde observato gemmam, quae bene apparebit certamque spem germinis habebit; eam duobus digitis quadratis circumsignato, ut gemma media sit, et ita acuto scalpello circumcisam diligenter, ne gemmam laedas, delibrato. Item quam arborem inserere voles, in ea nitidissimum ramum eligitoet eiusdem spatii corticem circumcidito et a materie delibrato. Deindein eam partem, quam nudaveris, gemmam, quam ex altera arbore sumpseras, aptato, ita ut ante emplastrum circumcisae parti conveniat.
[9] Ubi haec feceris, circa gemmam bene vincito, ita ne laedas; deinde conmissuras et vincula luto oblinito, spatio relicto, qua gemma libere germinet. Materiem quam inseveris, si subolem vel supraramum habebit, omnia praecidito, ne quid sit, quo possit avocari aut cui magis quam insito serviat. Post unum et vicesimum diem solvito emplastrum. Hoc genere optime etiam olea inseritur. Quartum illud genus insitionisiam docuimus, cum de vitibus disputavimus; itaque supervacuum est hoc locorepetere iam traditam rationem terebrationis.
XXVII
Sed cum antiqui negaverint posse omne genus surculorum in omnem arborem inseri et illam quasi infinitionem, qua nos paulo anteusi sumus, veluti quandam legem sanxerint, eos tantum surculos posse coalescere, qui sint cortice ac libro et fructu consimiles iis arboribus, quibus inseruntur, existimavimus errorem huius opinionis discutiendum tradendamque posteris rationem, qua possit omne genus surculi omni generi arboris inseri.
[2] Quod ne longiori exordio legentes fatigemus, unumquasi exemplum subiciemus, qua similitudine quod quisque genus volet omni arbori poterit inserere.
OLIVAM FICO INSERERE.
Scrobem quoquo versus pedum quattuor ab arbore olivae tamlonge fodito, ut extremi rami oleae possint eam contingere. In scrobem deinde fici arbusculam deponito diligentiamque adhibeto, ut robusta etnitida fiat. [3] Post triennium aut quinquennium, cum iam satis amplum incrementum ceperit, ramum olivae, qui videbitur nitidissimus, deflecteet ad crus arboris ficulneae religa atque ita amputatis ceteris ramulis ea tantum cacumina, quae inserere voles, relinquito; tum arborem fici detruncato plagamque levato et mediam cuneo findito.
[4] Cacumina deinde olivae, sicuti matri inhaerent, utraque parte adradito et ita fissurae fici aptato cuneumque eximito et diligenter conligato, ne qua vi revellantur. Sic interposito triennio coalescet ficus olivae, et tum demum quarto anno, cum bene coierit, velut propaginis ramulos olivae ramos a matre resecabis. Hoc modo omne genus in omnem arborem inseritur.
XXVIII
DE CYTISO.
Cytisum, quod Graeci aut zeas aut carnicin aut trypheren vocant, quam plurimum habere expedit, quod gallinis, apibus, ovibus, capris, bubus quoque et omni generi pecudum utilissimum est, quod ex eo cito pinguescitet lactis plurimum praebet ovibus, tum etiam octo mensibus viridi eo pabulo uti et postea arido possis. Praeterea in quolibet agro quamvis macerrimo celeriter conprehendit omnemque iniuriam sine noxa patitur.
[2] Mulieres quidem, si lactis inopia premuntur, cytisum aridum in aqua macerari oportet; cum tota nocte permaduerit, postero dieexpressi suci ternas heminas permisceri modico vino atque ita potandumdare; sic et ipsae valebunt et pueri abundantia lactis confirmabuntur. satio autem cytisi vel autumno circa Idus Octobres vel vere fieri potest.
[3] Cum terram bene subegeris, in modum olerum areas facito ibique velut ocimum semen cytisi autumno serito; plantas deindevere disponito, ita ut inter se quoquoversus quattuor pedum spatio distent. Si semen non habueris, cacumina cytisorum vere disponito, stercoratam terramcirca aggerato. Si pluvia non incesserit, rigato quindecim proximis diebus. Simul ac nouam frondem agere coeperit, sarrito. Post triennium deinde caeditoet pecori praebeto.
[4] Equo abunde est viridis pondo quindecim, bovi pondo viginti ceterisque pecudibus pro portione virium. Potest autem etiam circasaepem (agri satis commode ramis cytisus seri, quoniam facile conprehenditet sustinet iniuriam.) Aridum si dabis, exiguius dato, quoniam maioresvires habet, priusque aqua macerato et exemptum paleis permisceto. Cytisum, quod aridum facere voles, circa mensem Septembrem, cum semen eius grandescereincipiet, caedito. Paucis deinde horis, dum flaccescat, in sole habeto. Deinde in umbra adsiccato et ita condito.
XXIX
DE SALICE ET GENISTA.
Salicem et genistam crescente luna vere circa Kal. Martias serito. Salix humida loca desiderat, genista etiam sicca, utraque tamen circa vineam opportune seruntur, quoniam palmitibus idonea praebent vincula.
DE HARUNDINE.
Harundo optime seritur, quos alii bulbos, alii oculos vocant. Simulatque terram bipalio repastinaveris, radicem harundinis acutafalce praesectam inpendenti pluvia disponito. [2] Sunt, qui harundines integras sternant, quoniam exomnibus nodis strata harundines emittat. Sed fere hoc genus evanidam exilemque et humilem harundinem adfert. Melior itaque satio est ea, quam prius demonstravimus. Placet autem omnibus annis, simul harundinem cecideris, locum alte et aequaliterconfodere atque ita rigare.
XXX DE VIOLA. Violam, qui facturus est, terram stercoratam et repastinatam ne minus alte pedem in pulvinos redigat. Atque ita plantas annotinas scrobiculispedalibus factis ante Kal. Martias dispositas habeat. Semen autem violaesicut olerum in areis duobus temporibus seritur, vere vel autumno. Coliturautem modo eo, quo et cetera olera, ut runcetur, ut sarriatur, ut interdum etiam rigetur.
DE ROSA. [2] Rosam fructibus ac surculis disponi per sulcos pedales convenit per idem tempus quo et viola. Sed omnibus annis fodiri ante Kal. Martias et interputari oportet. Hoc modo culta multis annis perennat.