cultura barocca
TARABOTTI.HTM

LA SEMPLICITA' INGANNATA
[Edizione critica a cura di B. E. Durante - per visualizzare il testo cliccare qui]

DI
ARCANGELA TARABOTTI

LA SEMPLICITA' INGANNATA. di Galerana Baratotti [pseud. di Arcangela Tarabotti], In Leida, Appresso Gio. Sambix, MDCLIV.
Frà le VESTALI [continua a scrivere Suor Arcangela Tarabotti in questa sua straordinaria opera editata come La Semplicità Ingannata ma dall'originale titolo assai più emblematico de La Tirannia Paterna] di Roma, il numero delle quali era cosi picciolo, che si potea numerar sù le dita (& hora si trovano i millioni di donne rinchiuse) non era accettata colei, che non havesse trè fratelli maschi, il padre nobile, e casa in Italia. Se trasgredivano il voto di castità erano castigate con la morte, ma in capo a gli anni trenta dipendeva dal loro arbitrio il mutar stato [Cioè maturata tale età alle Sacerdotesse di Vesta era concesso di abbandonare lo stato sacerdotale ed optare per una vita di sposa e madre] . Benedetta legge, che doppo qualche [pagina 195] tempo rompeva l'eternità della displicenza, cagionata dall'esser tenute a viver sempre nella medesima forma. Più cognitione haveano gl'idolatri, che viveano secondo i precetti della Natura, che i Christiani, che douriano esser capaci della vera legge di Dio.
Adesso sia chi si sia, ò nobile, ò plebeo, s'appiglia alla minor spesa, e tutti hanno stabilito il loco alle lor donne, secondo che richiedono i loro proprii interessi, e non l'elettione, e volontà dell' infelici ingannate. Imagina, tù che leggi, qual miscuglio d'herbe sia in una raccolta di femine di diversè conditioni. Non hanno riguardo questi tali a'i danni communi, che rissultano da questo peccato.
Le guerre, le carestie, le sedittioni, le pesti, & ogn'altro sinistro incontro, sono tutto originate da questo abuso, che di continuo susurra
[pagina 196] nell' orecchio di Dio, per la vendetta delle povere innocenti, e voi novelli Faraoni, induratii cuori, non vi smarrite quando vedete nascerui bambine, perché di già nel vostro pensiero havete loro apparecchiata la tomba. Ch'attendete forse un nuovo Mosè, che con la verga di serpenti venga à flagellarui in quell'istesso modo, che percosse l'Egitto? Verrà, ve n'assicuro, se non in breve, ben ve n'avedrete nel giorno estremo. Alhora il vostro Angelo farà sentirui le vostre figliuole, che chiameranno vendetta, ne vi gioverà dire con menzogniera voce. Decimas do omnium, quae possideo , perché vi sarà fatto vedere, che le decime delle figlie, ch'offerite à Dio, si trasformeranno in voci, che grideranno vendetta contro di voi appresso quel trono, non più di misericordia, ma di giustitia, perche voi altri sarete stati cagione [pagina 197] delle loro trasgressioni circa le regole, con finta di volerle consacrar al sommo motore. Vi farà capaci, che 'l demerito d'operatione si indegna suggerisce à quella bontà, che non hà limite, l' aprir la terra, & à guisa di Datam, & Abiron farvi sommerger in abisso di miserie, & à sepellirui vivi nell' ardenti fauci d'Inferno, com'è avenuto ad altri, forse meno di voi macchiati d'ambitione, nel qual vitio voi trapassate quelli di gran longa, essendo questo uno de primi motivi, che vi sprona à cosi grave delitto, il cui eccesso non può esser à bastanza esagerato da lingua humana.
Frà di voi si trova chi per sua discolpa apporta, c'hoggi di è horamai tanto ascresciuta la malitia, ch'è necessario il chiuder le femine per levarle da'i soprastanti pericoli. Jo non sò come habbiate cosi poco cervello voi che fate tutti professione
[pagina 198] d'esser tanti Salomoni, mentre apportate in prova, à diffesa della vostra maluagità, certe ragioni da fanciulli, che non si possono sentir senza riso.
Voi adurrette à vostra scusa, che rinchiudete le donne, perché sono più invereconde, che mai siano state, e ch'essendo i peccati nel maggior colmo, che mai si fossero, esse ogni giorno più infedeli, e scelerate riescono. Stolti: e pur i costumi cattivi del mondo non hanno peggiorato in altro, se non in questo di far claustrali à forza quelle persone, alle quali sarebbe più cara, e più espediente la morte.
E qual sceleraggine hoggidi si pratica al mondo, che ne tempi passati, anzi nel medesimo principio del mondo non fosse in uso? Se discorriamo de gli homicidii, ch'ora sono in colmo (à noi pare) eccoci, che 'l primo, che nacque del
[pagina 199] ceppo d'Adamo, fù uccisor del proprio fratello, senza che v'intervenisse colpa di donna, & à chi in contrario adducesse l'homicidio fatto commetter da Davide per amor di Bersabea, si può prontamente rispondere, che non ella, ma la crudeltà della di lui natura, e 'l genio ambitioso, & inhumano furono cagione di cosi grave colpa.
Se de gli adulterii vogliam ragionare, un Ruben, qui ascendit super cubile patris sui , & il profeta tanto caro à Dio, ci fà vedere con l'antecedente esempio, ch'anche à quel tempo era praticato l'adulterio, c'hora pare germogli in abbondanza. Cosi fosse immitato quel santo Rè nella perseverante penitenza, come viene accompagnato nel peccato.
Non mancano nell' antiche scritture incesti, di Lot con le figliuole, e d' Amone con la sorella, Anche in quei tempi remoti
[pagina 200] si commettevano enormità immonde d'ogni sorte. Le inique città di Sodoma e Gomora, abbruggiate senza colpa di femine, il palesano [vedi anche la via al Mar Morto e le sue rive desolate sulla scia del percorso degli antichi Egizi che colà si recavano per raccogliere le sostanze necessarie ai loro processi di imbalsamazione = vedi ancora una stampa antica del Mar Morto - la distruzione divina della città di Sodoma ed ancora la descrizione dei Pomi di Sodoma nella narrazione ottocentesca del Visconte di Marcellus - analizza pure tra sodomia perfetta ed imperfetta ed altre colpe connesse alla distruzione di Sodoma, Gomorra, e delle altre città della Pentapoli = diverse interpretazioni specie in rapporto alla compartecipazione delle donne alla divina rovina di quelle città: più che la teologia i canoni giuridici ecclesiastici facevano compartecipi le donne della Pentapoli sia perché praticanti la sodomia con maschi onde evitare concepimento sia per partecipazione alla sodomia perfetta con altre donne sotto forma di "tribadi" ]

Quella Raab, che salvò le spie de gl'Israëliti, e Tamar parimente, che sotto habito meretricio ingannò il suocero, ci danno à conoscere, ch' in quei secoli non era carestia di chi vendesse la sua honestà.
Di latrocinii, bugie, sacrilegi, scisme, eresie, disobedienze verso Dio sono piene le sacre carte, che ne danno cognitione esser in quell' età primiere regnati numerosissimi i delitti, e particolarmente nell' ingratissimo popolo Hebreo. E' noto il poco rispetto portato à sacerdoti da quegl'impertinentissimi fanciulli della città di Samaria, che sgridavano dietro ad Eliseo. Ascende, ascende, calve . Gieremia fù lapidato dal popolo, e Zacaria parimente
[pagina 201] ucciso, della morte de quali sdegnato. S.D.M. si raccorda, e di bocca propria và dicendo verso l'infelice, e maledetta città. Hierusalem, Hierusalem, quae occidis prophetas, & lapidas eos. Questi esempii l'affermano, che non sono accresciuti i peccati, come poc'anzi hò detto, che nel solo genere di voler imprigionar à forza, perpetuamente, per fine indecenti, le suenturate donne. È una scusa vana, ed ipocrita il dire, che siano cresciuti i peccati, e poi per vietarli cagionarne numero maggiore, e di peggior conditione.
Voi, voi, che frà muri à forza racchiudete le femine, segnalate i nostri secoli d'una sceleraggine enorme, perchè non volete, ch'à nostri giorni manchinò tiranni, che tengano in ischiavitù i figliuoli d' Israele, anzi la vostra tirannide supera tanto più quella de gli Egittii,
[pagina 202] quanto che gl'Israeliti speravano d'esser pur una volta liberati dalla misericordia di Dio, E lusingati da speranza ardita Soffrir lunga stagion ciò, che più spiace . Ma le monache sforzate, senza sollievo di speranza, provano un dolore, che può dirsi eterno. Et acciò, che tù sdegnato dalla verità da me profferita, sempre da tutti mirata con occhio bieco, non vada susurrando le mie parole esser indrizzate contro il santo Concilio (come, ch'io credessi manchevoli le ordinationi loro, & in ispetie di quello di Trento) mi protesto con alta voce di sapere, che quei santi, & incorrotti Padri, adunati in sacro concistoro, inspirati dallo Spirito santo, che sourasta sempre ad ogni loro determinatione, instituendo i Monasteri di Monache, statuirono una santissima rissolutione, e stabilirono [pagina 203] un' instituto più divino, che humano.
Ma devono esser osservate le clausule cavate dalla loro dottrina, dettata dall' inspiratione celeste, la quale intende di quelle, che da se stesse, chiamate solamente da Dio, e non isforzate da gli huomini, si vogliono far Religiose, e che santamente stimano felicitarsi nel punto, che sono introdotte nella santa Religione, e piene di gratia celeste piangono, e sospirano d'esser col loro sposo ammesse in quel ritirato loco tanto bramato dalla Sposa.
Queste, beatamente ebre di Spirito santo, danno nome di Paradiso al Monastero, e chiamano la cella un cielo, in cui trashumanate si trasformano in Dio. Per Monache tali il concilio stabilì la clausura eterna, sicuri quegl'intelletti più che humani, ch'amara non fosse per riuscire la perpetua separatione da
[pagina 204] questo mondo à cuori cosi innocenti, e disposti di seguitar il loro Sposo in ogni honore. Che ciò sia vero, leggi le censure, e scommuniche fulminate da essi contro coloro, ch'ardiscono di persuadere alcuna al monacarsi.
Dà questo argomenta, ò huomo, quali castighi siano per cadere sopra quei maledetti da Dio, che non solo persuadono, ma con terribili minaccie, e con un rissoluto voglio, non curando, ne Dio, ne santi, sforzano le misere à pigliar habito religioso, mascherando i lor malvagi pensieri con decreti mal intesi, e peggio osservati de' pontefici, e de' concilii, coll' apportar sentenze del Concilio Tridentino, che piamente in ogni cosa operò, e tanto più in questa occorrenza, nella quale molto ben intese, ch'à Dio non si fà ingiuria maggiore, quanto violentar alle di lui creature quell' arbitrio,
[pagina 205] ch'ei concesse loro libero, & assoluto. In confermatione di questa mia verità sappiasi, che quando quei sacri Porporati rissolsero di ridurre à clausura i Monasteri, promulgarono un' editto, che quelle, che volontarie, non acconsentissero di chiudersi per sempre, potessero liberamente partire, senza che loro fosse imputato ad errore, ò dishonore veruno. Segno, anzi prova manifesta, & autentica, che in questo sagrificio non si devono offerire à Dio corpi sforzati, ma cuori innamorati.
Intenda pur ogn'uno, che l'empia esecution, ch'io vitupero, e detesto, in maniera alcuna pregiudica alle sempre giuste intentioni del successor di Pietro, Cardinali, Vescovi, e Concilii loro, da me riveriti con tutto l'animo, come eletti da Dio alla custodia, & indrizzo del Christianesimo.
[pagina 206] Andate pur, ò huomini ingannatori, sotto falsi pretesti di pietà, infettando le case di Dio, e i di lui claustri, riempendoli di gente violentata, come se doveste proveder di schiavi le galere. Fabricate pur bugie artificiose contro la libertà delle donne, & impiagate le loro conscienze con mortali colpi di disperatione.
Fate guerra all'innocenti con le vostre tristitie, à pregiudicio delle vostre mal nate carni, che finalmente poi il tutto rissulterà per l' inique anime vostre in incendii, e tormenti eterni.
Attendete pure ad ingannar le femine innocenti e buone, con false inventioni suggeritevi dal Diavolo, per non tralignar nello stile da lui tenuto nel deludere la nostra prima madre al principio del mondo.
Sapeva l' inimico dell' humana natura, che 'l sembiante d'huomo
[pagina 207] porta seco un' aria di bugiardo, é che le donne di qualche cognitione difficilmente prestano fede à quel mostro, che mai non porta in bocca altra verità, che quando confessa d'esser l'idea delle bugie, e perciò prese faccia di donzella per comprare una sicura fede à suoi detti: suppose forse anche, ch'Eva proveduta d'un' innata modestia, e vereconda pudicitia, non si sarebbe data à discorrere con huomini per non offendere il marito, e perciò n'è chi disse, che lo spirito perverso pigliò sembianza di verginella, che pura nell' animo, e sincera nel cuore non sà che profferire semplicetti, e veraci concetti, e cosi con le vostre solite aviluppate menzogne la indusse, sotto promesse di scienze, e di divinità, à mangiare del prohibito pomo.
Questi sono i soliti tratti dell' inventioni vostre, che vi fingete Zelanti
[pagina 208] dell' honore delle fanciulle, e sotto faccia mentita di placidezza nascondete le serpentine code della mala intentione, e le sozze defformità del cuore, non mancando d'affaticarvi, per far veder alle femplici gli honori di quell' Inferno, in cui le condennate, haver sembianza di delitia di Paradiso. Le ragioni, che per discolparui di vostri inganni, conoscendo la gravezza del peccato, asserite à nostro favore, ch'elle hanno cosi voluto, che l' opinione di voi era di volerle maritare, che per quanti tesori hà 'l mondo voi non commettereste cosi esecrando errore, sono empiissime, e falsissime.
O malvagi ipocriti, Diavoli veramente, perche sete non dissimili à lui nella fintione del sembiante, negl'insidiosi tradimenti, nelle bugiarde promesse, nel rimanente tutto, come meglio di me sapete,
[pagina 209] anzi sino il nome di demone, porta seco significato di maschio [N.d.R.: si ha in verità cognizione di qualche minore demone femminile] poiche il nostro sesso non merita, che nè anche nel suono delle parole sia attribuito titolo feminile a'i mostri d'Inferno. Voi però che fate conoscere in ogni attione la vostra diabolica natura, havete voluto dimostrarla ancora col chiamar i Diavoli con nome maschile. E pur pretendenti addossate ogni colpa del primo peccato d'Eva in noi innocentissime, e tutti gli scrittori non lascian di vituperarla, e lacerarla, facendola rea de crimine laesae Majestatis , ne s'accorgono pazzi, che parlano da troppo interessati, e che i loro fini son conosciuti per diretti ad isgravarsi di quella colpa, che tutta fù dell' huomo. Adamo solo, non Eva, hebbe la comissione di non mangiar del vietato frutto, dal che si cava, che 'l peccato di lui, non di lei rouinasse il mondo, poiche [pagina 210] che s'ella solo havesse peccato, non arrivava à noi il danno, come dicono i Teologi, & afferma S. Anselmo nel libro "de conceptu virginali" .
Da Adamo adunque fù cagionata la rouina nostra, che percio l'Apostolo dice. Per unum hominem peccatum intravit in mundum, & per foeminam gratia .
Il Fine del secondo libro della Semplicità Ingannata .
[pagina 211]
DELLA SEMPLICITA INGANNATA
LIBRO III

Non v'hà dubbio, che l'ingratitudine porti la corona soura di tutti i vitii, e sia il fondamento d'ogni
peccato, perché se questa non regnasse nel petto de gli huomini, più tosto ch'offendere un Dio, che gli hà in eccesso benefficati, mille volte perderebbero la vita. Almeno, ò ingratissimi, se in ogni vostra attione corrispondete cosi male a'i beneficii conferitivi da S.D.M. tralasciate d'esser ingrati verso Maria Vergine, col continuamente dir male, e trattar peggio il di lei sesso, quando non v'è chi possi negare, che la gratia entrasse nel
[pagina 212] mondo per mezo di lei, che ripiena di tanti attributi, e degna di tanti encomii, può vantarsi, e dire. Girum coeli circuivi sola, & profundum abyssi penetravi, in fluctibus maris ambulavi, & in omni terra steti, & in omni populo, & in omni gente primatum habui .
Questa fù madre di tutte le gratie, e come larga dispensatrice di quelle, ci aprì il varco chiuso per tanti secoli alla celeste Gierusalemme, e riempì questo nostro Emispero di luce vera, sgombrando le tenebre del peccato, e debellando la morte. Non si trovò profeta, patriarca, giudice, capitano, Rè, ò Santo, per innocente, per zelante, per grande, per giusto, e per valoroso, che fosse, atto à placar l'ira divina, originata dalla colpa del primo de gli huomini, ma fù di necessità, che col mezo d'una donna il mondo si raconciliasse con quel
[pagina 213] Signor. ch'alhora era Dio di vendetta.
Ella, per modo di dire, il trasse alle sue voglie, & à quella pace, mediante la quale aspiriamo alla conquista del Regno celeste, tanto desiata, e tanto necessaria all'humana specie. Fù nostra ambasciatrice, che con eloquenza di Paradiso, ne impetrò, non solo tregua à cosi longa guerra, ma ne ottenne anche lieta vittoria contro l'inimico infernale.
Come può dunque mai caderti in mente, ò mentitore, di chiamar la donna tuo danno, s'una eccellentissima, e perfettissima in ogni conditione, e virtù, ti solleva da quei danni, e pregiudicii, che tù col contraporti a gli ordini del supremo, havevi si largamente meritati? Con qual ardimento attribuise à noi titolo di timida, ò codarde quando una femina è stata di tanto
[pagina 214] valore, ch'accompagnata dalla sola gratia, girò per tutti gli spatii del cielo, e non hebbe tema di penetrar sino ne gli Abissi, anzi prode guerriera, cinta da ogni attributo divino, & armata di celesti virtù, calpestò, & infranse il capo al superbo serpente, in vendetta dell'inganno da lui machinato alla prima del sesso feminile? [vedi qui NOTA CRITICA].
Come negherai il dominio, che tiene una donna in cielo, & in terra, se tù confessi questa per imperatrice dell'universo? Non mai è stato, ò è per esser huomo alcuno assunto à tanti honori, e privilegi da S.D.M. quanto fù questa donna, in cui tanto si compiacque, che riempitala dell'istessa divinità, venne ad habitar per nove mesi nel purissimo chiostro del di lei sacratissimo ventre. La scelse per erario de più pretiosi tesori del cielo, la fece viva fonte delle sue gratie, e la giudicò mezo meritevole
[pagina 215] da placar l'ire sue giustissime. Vale più questa sola che tutti gli altri santi insieme, onde venne per lei arricchito il nostro sesso di maggiori gratie, e favori, che non hebbe in se tutta la natura humana, & angelica.
S'avidde quella gran Maestà, che con tutto c'havesse arricchito Adamo d'innumerabili prerogative, havendolo formato di forti membra, e fattolo assoluto padrone d'un Paradiso, ei nondimeno cosi facilmente s'accese à un cenno di semplicetta moglie, e che Noè suo caro generò il maledetto Cain scoperse, per bugiardo Abramo, nell' affermar al Rè Abimelech sua moglie essergli sorella. Davide il suo amato gli riuscì ambitioso, adultero, e micidiale. Mosè se gli fè conoscere per incredulo. Salomone, con tutto che fosse ripieno di quanto bene si può quà giù possedere, fù idolatra.
[pagina 216] Il Macabeo forte, e glorioso per tante vittorie, infine troppo credulo errò. In somma il motore del tutto prima che s'incarnasse, scoprì anche ne più giusti esser stata qualche macchia d'imperfettione, e con l'intelligenza sua divina non conobbe alcuno abile ad aprir quella porta, c'havea chiuso l'inobedienza d'Adamo.
Finalmente costante con l'amore verso l'huomo ingrato si rissolse d'elegger donna, che con verità potesse esser acclamata mulierem fortem , à confusione di cosi gran mostri d'ingratitudine, come sete voi. Questa fù Maria Vergine, costituita Regina degli Angeli, Sign. del Paradiso, Dominatrice del cielo, e della terra, al cui nome tremano i demoni, chinano i ginocchi le potesta, e riverenti l'adorano i Cherubini, i Seraffini, e tutti i Beati. O che honori eminenti ricevè questa
[pagina 217] gloriosissima donna, di cui Giovanni nell'Apocalisse hebbe à dire! Nec similis visa est, nec habere sequentem . Fù adorna di bellezze tanto eccellenti, che Dionisio Areopagita, contemplandola, stupeffatto esclamò: S' io non sapessi esservi Dio, adorerei costei per Dea. Fù cosi forte, che Salomone la descrive in forma d'un esercito ben ordinato: Terribilis ut castrorum acies ordinata . A' questa si può ben dire, che fecit viriliter . Adamo cadè a'i vezzi d'una frale, e lusinghiera beltà, & ella non solo fece resistenza, ma rovinò per sempre i fierissimi nemici. Recalcitrò a'i sensi, pugnò col Diavolo, e'l rimandò conquiso, e superato, conforme à quell' Oracolo: Et ipsa conteret caput tuum . Ella effettivò con l'humiltà sua la superba pretensione di quei sciocchi, che pazzamente si diedero à creder, di poter arrivar alle stelle con la temeraria [pagina 218] fabrica d'una torre, poichè giunse à sormontar i cieli, quando profondatasi nell' abisso della sua sommissione, espresse al messaggiero celeste quell' humile parole. Ecce ancilla Domini . Partorì la salute, e l'unico sollievo de' mortali, e se l'eterno Padre promise à chi primiero vidde l'arco celeste, che quello per lo avenire sarebbe stato segno della sua pace col mondo per anni cento, Arcum meum ponam in nubibus, & erit signum foederis inter me, & inter terram ; pace più gioconda assai, & eterna ne promise quando, signum magnum apparuit in coelo mulier amicta Sole .
In lei sola sul principio confidò la Trinità Santissima il mistero dell' Incarnatione, e per nove mesi fidò sigillato nel scrignetto dell' alvo suo sacratissimo il più pretioso tesoro del cielo, al dispetto di quelle lingue perfide, che gracchiando,
[pagina 219] con le loro solite bugie ci danno accusa di loquacità.
L'imprudente temerità degli huomini si prometteva l'esecutione di machine sognate, & impossibili, & una femina col solo riputarsi ancella del suo Signore, divenne una fortissima torre, che trappassò le stelle, e se ne fece corona. Turris fortissima Maria, quae aedificata est cum propugnaculis. Mille clipei pendent ex ea, omnis armatura fortium . E di qual armi non si troverà munita questa torre inespugnabile, se lo Spirito santo ne fù l'architetto, e 'l fabro? Fù questa non solo l' errario de secreti, e tesori di Dio, e torre, ch'arrivò à confinare col cielo, ma fù un tempio, in cui s'adorano tutte le maraviglie dell' omnipotenza.
Una delle cagioni, per le quali riuscì ammirando à tutto il mondo il tempio di Salomone fù, l'esser fabricato senza colpo di martello, e'l
[pagina 220] tempio vivo della Vergine Madre fù generato senza colpa di peccato. Ma non valica il mare di tanti meriti un debile palischermo, & io non devo pretendere di poter pensare una minima particella, non che spiegare l'immensità delle lodi di lei, di cui innamoratosi Dio, per più da vicino vagheggiare le gratie, e virtù sue, calò di cielo in terra, e d'incomprensibile ristrettosi in una breve massa di carne, salvò tutta la perduta humanità. Alla sola rimembranza di tanta Signora piego per riverenza i ginocchi à terra, & inarco per istupore le ciglia, poichè non gia perch'io mi persuadessi bastevole à far apparire una sola scintilla di si gran luce, ma perche à voi, ostinatamente insensati, si moderi quell' ardimento sfacciato, con che ardite sprezzar il sesso [vedi qui NOTA CRITICA], che non solo vi porta per nove mesi nel ventre, vi partorisce, & alatta, ma per [pagina 221] mezo del quale sete ammessi alla fruition della gloria, poichè dalla Regina Maria, come altrove dissi, vi fù aperta la porta del Paradiso, che da voi era stata con le vostre iniquità chiusa, mi son data, per cosi dire à lambir le glorie di Maria. Se questa gran donna non v'havesse liberati, cadereste tutti infelicemente ne gli honori d'Inferno, che però per le vostre continuate colpe non è per mancarui. Ben v'avedrete ne gli estremi periodi della vostra vita, quali aiuti vi sian di bisogno da quest' Avocata de' peccatori, che coronata di Stelle, servita da gli Angeli, & inchinata da'i mostri d'Averno, non lascierà d'esser misericordiosa, ancorche nol meritiate. Con quanto tormento vi vedrete in necessità della protettione d'una femina, che per esser il tipo della purità, e candidezza, non dourebbe ascoltar i sozzi preghi di chi in vita [pagina 222] non la conobbe, traffisse il suo figliuolo con mille colpi di colpe, e sempre insidiò al suo sesso con oltraggi mortali, i quali à molte, insieme con la disperatione, cagionano la dannatione eterna! In quel punto t'accorgerai quanto disdicano à madre casta figli lascivi.
Gl'innumerabili vostri peccati, ò huomini, trà quali il maggiore è quello dello sforzar Vergini à monacarsi, vi trasformerà in maniera l'anime, che si come sarete in tutto dissimili al figliuolo di Dio, ch'à maraviglia è bello, & amato da Maria, voglia S.D.M. che cosi voi non siate aborriti dalla Vergine, ch'è tutta bella per l'innocenza, e candida per la purità: onde non siate degni, che le di lei labra tutte pure implorino misericordia alle vostre opere sozze, e nefande, si che ve n'avenga l'acquisto del Paradiso. Neque
[pagina 223" adulteri, neque fornicarii Regnum Dei possidebunt. Nihil coinquinatum intrabit in Regnum coelorum" .
S. Ambrogio dice, che quando Christo è pregato dalla sua diletta madre, vien come necessitato à imprigionar la divina giustitia frà i cancelli della clemenza, e misericordia. Immaginati di qual ardentissimo affetto quella bontà infinita fosse innamorata in questa bellissima, e d'anima, e di corpo, se da un solo crine del di lei collo fù tirato giù dal cielo allà bassezza nostra. In uno oculorum tuorum, & in uno crine colli tui vulnerasti cor meum . Fù in guisa rapito, & allacciato in questo purissimo amore, che trentatrè anni peregrinõ ramingo per lo mondo. Hor pensa s'alle suppliche di questa sua diletta potrà non spegner l'ira sua, e deposte l'armi in quel bel seno, ivi non sopir tutto il furore giustamente contro i peccatori [pagina 224] concepito. Da quell'infocate viscere, che vestirono d'humane spoglie la Divinità, non saprà che diffonder gratie, & alla memoria di quel sacro latte, che succhiò dal virginal petto, non saprà deluviare che stille, anzi torrenti di pietà. Intenerito il suo amoroso cuore à guisa d'Asuero alle preghiere di questa gratiosissima Ester, discenderà dal trono della Maestà, e vezzosamente à lei rivolto dirà. Che chiedi, amatissima Sposa? Per te non c'è legge. Sei Monarchessa del mondo, dell' Inferno, del Purgatorio, e del Paradiso. Concedo la vita, e ciò che vuoi al tuo popolo. Tutti si salvino i tuoi devoti. Le tue dimande non hanno contradittione. Tutti devono ubidirti. S'io non isdegnai impicciolirmi, & esserti soggetto, come ben disse il mio Luca, & erat subditus illi, e tu un cosi dolce impero esercitasti sopra di me, che ben mostrasti [pagina 225] d'esser stata degna, che l' tuo ventre fosse capace di sostener quel peso, che per l'immensità si rende gravoso, & incapibile a gli stessi cieli. Quia, quem coeli capere non poterant, tuo gremio contulisti . Chiedi quanto vuoi, ch'à tè nulla si niega. Cosi l'innamorato Christo parla alla sua dolcissima madre, onde puoi ben conoscere, che da lei sola, ò peccatore, può venirti l'intercessione della gratia divina.
E tu sei cosi temerario, che sparli delle donne, mentre da una donna dipende ogni tua speranza? E tù unito con Salomone incolpi il sesso feminile di debolezza?
[vedi qui NOTA CRITICA] "Mulierem, ei disse, fortem quis inveniet?". Egli teco mente, perche s'è ritrovata donna, che in fortezza hà superato Sansone, & il famoso Ettore. Non ti pare, che fosse forte, & intrepida, se stabat juxta crucem (ò che costanza!) senza esser punto scossa, & atterrita da gl' [pagina 226] impeti dell'affanno, e da'i venti boreali, e strepitosi dell' acerba passione dell' unigenito suo? Intrepidezza non più sentita!
Si compiacque Iddio ne' primi tempi di farti veder tutti i pregi, virtù, privilegi, gratie, e vanti campeggiar nel sesso feminile vivamente in qual si sia genere. Le Sibille fan testimonio, se le donne habbiano goduto del dono della profetia, e che non sia mai stato meglio impiegato, che ne' loro intelletti. Quanti lor vaticinii, e predittioni verificate han dato di che maravigliarsi ad huomini di gran sapienza. La bellezza è cosi propria della femina
[vedi qui NOTA CRITICA] come dell'huomo il mentire, e l'invidiare. Non mancano dall' antiche memorie, e dall'istorie moderne prove efficaci d'ogni qualificata conditione di lei. Fù bellissima Rachele, feconda Lia, Micol fedele, la guerriera di Bettulia prode, [pagina 227] e valorosa, & Ester auttorevole. Ben s'avidde il giustissimo motore, che tante privilegiate conditioni, da lui concesse al donnesco stuolo, non valevano à diffender le femine dalle tue perfidie. Sentì le lagrime di Vasti Regina, senza colpa veruna repudiata dal superbo Asuero. Gli arrivarono all' orecchio divino i dolorosi lamenti di Tamar sforzata dal fratello, e poscia empiamente scacciata. Previdde la morte ingiusta della bella, e pia Mariane, sententiata dall'iniquo Erode, e da ministri di lui con tanta ferità esequita: onde risolse d'abbassar la tua fiera superbia, ò huomo, che pur ti douresti raccordar d'esser stato formato di trè onzie di terra, e perciò elesse una Vergine à sollevar dà pregiudicii tutta l'humanità, acciò che vegendoti, senza la di lei protettione, ignudo di meriti, sfornito di gratie, e bisognoso d'intercessione, lasciassi [pagina 228] cosi fiero orgoglio, & humile corressi à piedi di colei, il cui patrocinio t'è necessario, e che con l'humiltà riacquistò quanto era stato perduto dal demerito delle tue superbissime colpe. Questa innocente fanciulla à tua maggior confusione, và tutta giuliva cantando: "Quia respexit humilitatem ancillae suae, dispersit superbos mente cordis sui" . Ciò tutto fù operato da Dio, per verificar la promessa, c'havea fatto alla donna nella tua creatione. Che cosa più vi resta che replicare contro il glorioso sesso feminile, ò Filosofi, Poëti, scrittori, e dotti [vedi qui NOTA CRITICA] quando dal sommo bene è stato tanto inalzato, che senza l'intercessione d'una di noi, che fù Maria, vi sarrebbe per tutta l'eternità dinegata la beatifica visione della faccia, che fà beato il Paradiso? Se doppo che s'è incarnato il Verbo Eterno sono cessati tutti i flagelli, e le pene dovute al vostro [pagina 229] fallire, cessino anche le vostre lingue d'oltraggiare i vanti feminili, se non vogliono in breve haver da pentirsene senza frutto.
Se sei Christiano, raffrena le tue parole temerarie, e considera le qualità eminenti, e le prerogative eccellenti di lei, che fù mediatrice frà Dio e l'huomo. Ogni cuore, ancorchè barbaro, l'adori come unica cagione dalla salute di tutte l'anime, perche in altra guisa dissentirebbe dal giudicio divino, che l'hà esaltata à tanti honori, e grandezze.
Questa è cara a gli occhi del Padre eterno, grata al verbo, amata dallo Spirito santo, delitiosa a gli Angeli, e salutifera à mortali. "Paradisi portae per te nobis apertae sunt" , canta la Chiesa nel di lei felicissimo natale. In quefta favoritissima Principessa, e Madre dell' Altissimo, si scuopre in essenza un ristretto d'ogni
[pagina 230] virtù posseduta, e sparsa in tutti gli spiriti Angelici, & in tutti i santi del cielo uniti. Il sole di giustitia. Iddio la privilegiò di tanti fregi, ch'ella poteva vantarsi emula di lui, il che suegliò un bell' intelletto à scrivere: Aemula Solis Maria, la qual pur anche è chiamata Luna. Pulchra ut Luna, electa ut Sol .
O che cara emulatione passa frà questo Sole di giustitia Christo, e la Luna di purissimo candore Maria, nell' ardor dell' amore, nello splendor della santità, nel moto dell'operationi, nella sublime grandezza della dignità! Se questo Sole ecclissò i suoi raggi nel tingersi tutto di sangue sul monte Calvario, non mancarono à quest emula Luna le tenebre di mille acerbissimi dolori.
Aemula Solis adunque, che per concorrere col suo figliuolo alla nostra redentione, concorse seco anche
[pagina 231] ne'i dolori, e provò tutta la di lui passione nell' anima santissima.
S. Ambrogio dice, che tanto era l'affetto di lei verso l'human genere, che se le fosse stato offerto levar cosi estremi dolori al suo figlio, non haveria accettato il partito, perché conosceva, che non v'era altro mezo per la salute del peccatore, che 'l patimento, e morte del suo diletto. Mostrò d'esser degnamente eletta dall' immensa Sapienza per giudice, & arbitra frà 'l cielo, e la terra, frà 'l peccatore, e Dio, frà 'l peccato, e la misericordia. Ma dove mi trasportano i miei divoti ardimenti? La tua benignità, ò vergine sacratissima, conceda à questa mia rozza penna, e sozza lingua l'accennare una scintilla dell' immenso lume delle tue imperscrutabili qualità. M'è ben noto, ò tutrice nostra benignissima, che se tutti gli eletti del cielo, tutte le penne, e le lingue de
[pagina 232] famosi oratori, e poëti s'impiegassero alle tue lodi, non per tanto ne riuscirebbe spiegata una sola ombra già che tutta l'eternità non sarebbe tempo sufficiente, ne all' espressione, ne al numero di quegli encomii, che son dovuti al tuo merito. Il solo titolo di Madre di Christo confonde l'eloquenza de' più arditi, e fà conoscere, che gli oggetti divini non sono materia proportionata alle lodi di lingua terrena. Confesserei la mia temerità essersi meritata una caduta da Icaro, mentre che non solo al mio sterile, e basso, ma à più clevati intelletti è tolto l'animo à degnamente intesserti corona d'elogii ossequiosi: ma la devotione, con che 'l cuore ad ogni sillaba sospira la mia bassezza per inabile à lodarti, m'affida, conoscendo io la clementissima corrispondenza, con che incontri gli affetti riverenti de tuoi divoti.
[pagina 233] Supplicoti frà tanto, Vergine Benedetta, e castissima Madre, prostrata à piedi della tua pietà, à non haver riguardo alla debolezza del mio talento, ma con la tua solita benignità mirar l'ardenza della divotione, con la quale ti servo, e t'adoro. Apri, ò misericordiosissima, quella soave bocca, e profferisci à me la tua benedittione, della quale, inginocchiata à terra, humilmente si suplico, & in virtù della quale non sarò più ludibrio del Diavolo, ma restarò riempita di gratie celesti. Se dalle tue labra intatte, delle quali disse il Salmista, diffusa est gratia in labiis tuis , uscirà à mio favore un solo accento, non haurò onde temere dell'insidie di tutto l'inferno.
Ma torniamo, ò lettore, sù le prime carriere, dalle quali m'han deviate le devote obligationi, che devo all' Imperatrice de gli Angeli, e facciamo capaci i sapienti del
[pagina 234] mondo, ma ignorantissimi del viver christiano, che si mostrano tanto zelanti d'empir i Monasteri d'ogni qualità di gente, purché in gratia de lor commodi, e delle lor libidini liberino le lor case di femine vergini, e buone, per introdurvi donne scelerate, laide, & impudiche.
Dicono costoro, che non si muove una foglia d'albero senza dispositione della divina volontà, che Dio hà fatto nascere queste figliuole, e parenti, perche siano ristrette in un convento, e che 'l destino, che proviene dalle di lui imperscrutabili determinationi, le sforza à sottomettersi ad una perpetua carcere, perchè quando non havesse à succedere, S.D.M. oprerebbe, che non succedesse. O menzogne infami, che 'l Diavolo stesso non osarebbe di proferire. Io non nego, che se 'l voler di Dio, come Signore, e patron assoluto del tutto, facesse
[pagina 235] resistenza alle tue iniquità, non potresti commetterle, ma ben anche sò, che l'arbitrio, come t'hò fatto vedere, è libero, & indipendente per tutti.
Dicono di più che l'ingresso allo stato di Religione è sempre volontà di Dio, ma mentono, perché in niuno affare essi hanno riguardo al voler divino, ma solamente prendono consiglio da gl'interessi della lor borsa, e del loro scrigno. Queste sono vocationi inspirate in loro dallo splendore dell'oro, non da'i raggi dello Spirito santo. Non sono voci ministrate loro dal cielo, ma suggerite dal canto dell' argento, onde infelici non isprigionano i tesor dall' arche, ma imprigionano le mal nate innocenti, privandole del tesoro della luce di questo mondo.
Non fù mai chi si consigliasse col denaro, che non inciampasse in precipitii.
[pagina 236] Giuda si consigliò con la borsa, e risolse di vender per trenta danari il suo maestro, ch'era il tesoro, ò per dir meglio l'errario di tutti i tesori del cielo, e voi persuasi da medesimi consigli tradite le vostre sfortunate figliuole, e congiunte. Ad ogni modo non giungerete mai à poter dire, contenti sumus , perche chi non s'appaga del molto, malamente potrà contentarsi d'un poco avanzo. Non vi proffessate paghi delle molte entrate, che possedete, estimate di potervi satiare col avanzar una misera dote, mentre vi fabricate una catena d'oro, che serve à tenervi avinti inanzi il carro dell' avaritia, e vi strascina ad honorare i suoi trionfi, & andate continuamente cercando beneficii, entrate, & honori lucrosi. Ben si può dir di voi, come disse alla Luna una volta sua madre (e 'l rifferisce Plutarco in persona della genetrice di Cliombolo) [pagina 237] à cui havendo chiesta una veste, che bene le stesse; e come, poss'io, rispose, farti una veste proportionata, se tù non stai mai ferma in un sito, ma hora scema, hor meza, hor piena vai girando il tuo corso? Cosi come potete voi mai dire, contenti sumus , se l'ingordigia delle non mai satie voglie, congiunta alle scommuniche in che vivete, & insieme la sinderesi della conscienza, per la violenza usata in levarvi di casa le femine, vi tormentano in guisa, che non mai provate un'hora sola, anzi un sol momento di contentezza, e quiete, anzi sempre vi sentite infestati da una certa instabilità di desiderii, c'hora vogliono, hora detestano, e sempre nelle loro mutationi v'affligono, rendendovi somiglianti alla Luna, si che d'ogn' uno di voi può dirsi: "Stultus ut Lunae mutatur" [vedi qui NOTA CRITICA] .
Non crediate però, che quanto
[pagina 238] sin qui hò esagerato, sia effetto d'un poco savio desiderio di libertà di conscienza, & inclinatione di viver sfrenato, perche io dissento dal pensiero di coloro, che dicono esser bene, ch'ogn' uno à sua voglia si perda. Lungi dalla mia mente error cosi grave. Lodo che ciascheduno nel suo stato serva Dio, e viva santamente, si come in eterno esalterò i chiostri, che sono riempiti dalla vocatione divina di quelle fanciulle, che doppo haver pregato Dio longamente, dicendo, vias tuas Domine demonstra mihi , sentono accendersi nell'anima un santo furore, & affetto verso la Religione, che tutte giulive corrono à servire al loro Sposo, dicendo, che per si degno amante non Disdice à spirto bel cura servile . E perche chi ama assai, molto crede alla persona amata, e quanto è più grande l'amore, tanto maggiore è [pagina 239] la fede, queste trasformate tutte in ardentissime fiamme amorose per lo suo caro amante, che nella servitù dell' obedienza religiosa promette loro eterna pace, santamente e degnamente gli credono, averandosi in esse, che L'incredibile fà creder amore . Volentieri perciò s'allontanano dal procelloso mare del mondo, & attendono l'esecutione delle sperate promesse senza smarrirsi nelle durezze delle penitenze, e finalmente pure, e candide colombe volano a gli eterni godimenti del loro non in vano servito signore. Ma quelle ch'à forza rinchiuse affannosamente incolpano de loro patimenti quel destino, che non si trova, e Dio che permette, ma non concorre, vivono miserissime, e quasi scommunicate insieme co' loro tristi padri, e parenti. Il loro cuore non s'acheta frà chiostri, ma và machinando la [pagina 240] impossibile liberatione da quella prigionia, in cui devono morire.
Se l'insania de nostri intelletti per lo più suole desiare ciò, che più le vien vietato, Nitimur in vetitum semper, cupimusque negata , Immaginati come vivano quelle suenturate, rilegate in pochi palmi di terra, alle quali vien tolto mirare il circuito mõdiale, e che son necessitate ad appropriarsi quel motto, che per ostentatione della sua costanza sourapose ad un corpo d'impresa un ardentissimo amante, Semper idem . Stanno dilaniandosi frà la rabbia, c'hà lor cagionato
[vedi qui NOTA CRITICA] il morso della tua fellonia.
Se pur è vero, com'è verissimo, ch'alla violatione della clausura sian state fulminate dal sommo Pontifice le più strette, e rigorose scommuniche, nelle quali pur anche incorrono i complici, e fautori, qual
[pagina 241] maledittione non cadrà sopra coloro, che sono l'origine di tali pensieri? Voi, voi, ò capi di famiglie, sete scommunicati, onde non è poi maraviglia se le vostre case non godono mai hora di felicità, infette da questa pestilenza, che proviene dall' irata mano de' superiori ecclesiastici, dalla quale son state esterminate provincie, rovinati Regni, destrutte Republiche, e desolate città. Questa è la maggior pena, con che la Chiesa castighi, e mortifichi i suoi nemici. Quanti percossi da questa saetta hãno havuto calamitoso fine? Se bene i superiori ingannati da voi con un breve esame, che fanno alle figliuole, fingono di non saper gli abusi della vostra crudeltà, vi sia noto, che 'l deluder la loro intentione è cosa facile, ma 'l divin scrutator de'cuori non si lascia aviluppar da menzogne, & apparenze, perche [pagina 242] asiste, vede, & ascolta in ogni loco, nè sia qualsivoglia de' mortali fà operatione, che da lui non sia attentamente mirata, osservando sino i passi, e sentieri nostri, che facciamo si di giorno, come di notte. La sua vista comprende perfettamente il tutto, e non mai da noi s'allontana, perche in ogni clima, in ogni stanza più racchiusa, & in ogni sito più recondito ci vede. Senti Davide, che non trova riparo per sottrarsi dalla perspicacità de gli occhi divini. Si ascendero in coelum, tu illic es, si descendero in infernum, ades. Seneca, ancorche gentile, conobbe tal verità, quando disse. Non v'è cosa alcuna, ch'à Dio sia secreta. Sempre egli stà dentro all' animo nostro, e gli son noti, come presenti, tutti i nostri più profondi, & ascosti pensieri. Considera dunque, ò stolto, se ti sia per riuscir possibile il dar à credere à chi scorge tutti gl'interni de cuori, [pagina 243] che i tuoi motivi siano santi, e giusti, mentre sono empii, & enormi.
Alhor, che tù dici che la Divina volontà chiama queste donne alla clausura, poiche senza l'assenso di Dio non si può ne pure trarre un solo respiro, vieni in un certo modo à profferire un'eresia, perche in tal guisa il volere dell' Altissimo verrebbe à concorrere nel farti un largo campo alle sceleratezze ch'eserciti, alle schiffezze che traffichi, & all' enormità che commetti, poiche col levarti l'inciampo delle donne modeste, non hai altro pensiero, che d'agiarti la strada alla facilità de'i peccati. S.D.M. t'ha dato il libero arbitrio, e t'agiunge la gratia, se la vuoi, ma se la sprezzi, permette, non sensa dolore (in quel modo però, che può dolersi Dio) che come bestia sfrenata tù corra al precipitio: onde nella perseveranza delle colpe perdi sovente anche il
[pagina 244] conoscimento per maggior tuo castigo.
Le regole, che i santi ministri assegnano à quelle fanciulle, c'han da coprirsi d'habito monacale, vogliono, che per esser ammesse alla Religione, preghino con supliche, e lagrime, e che prima, che si stabilisca la loro proffessione di Religiose, stiano gli anni intieri in prova, e riuscendo inabili siano poste fuori del Monastero in libertà. Queste esecutioni hoggidì non si praticano. Pur che si velino, il tutto và bene. Piangono, e pregano le infelici, ma le lagrime, e i prieghi restano sparsi in vano.
Seguono, & abbracciano lo sposo Giesù con le sole cirimonie, & apparenze esterne, e gli offeriscono la sol' ombra de'loro affetti, ma il cuore è rivolto al mondo. Quella infinita Bontà, si come è spirito, e verità, cosi vuole, e dourebbe esser
[pagina 245] servito in ispirito, e verità, con purità di cuore, non con finte, e corporali dimostrationi.
Ma voi, fallaci ingannatori dell' anime, siete i ministri di cosi artificioso vivere, e cagionate, che sotto a'i fiori di tali fintioni si nasconda la serpe della mala volontà.
O che malvagità, degna d'uno de più infocati fulmini del cielo, è la vostra d'andarui consolando con dire, che bisogna conformarsi col voler supremo, che non si può andar contro le stelle, che i pianeti astringono, come se voleste pretendere, ch'Iddio v'havesse à ritenere dal non peccare. Per questi vostri empii concetti, & inique operationi, vi fate simili à Caifas Pontefice, il quale nella congiura trattata contro Christo in quel maledetto concilio, per zelo della sua legge, e per coprir la sua mala intentione col mantello della publica utilità, disse,
[pagina 246] à quell' ingrata canaglia. Expedit vobis, ut unus moriatur homo pro populo, & non tota gens pereat . Volse inferire, che già era stata predetta, e che dovea succedere quella morte, la quale se non fosse stata esequita sarebbe perito tutto il popolo. Diabolica opinione, della quale voi vi servite per esemplare, perche se bene da Profeti, e Sibille era stata preconizata la morte dell'unigenito dell' eterno Padre, non per questo erano necessitati, ò sforzati quei cuori perfidi, à concorrere nella sentenza mortale, e nella rissolutione di tormentare, e cruciffiggere l'immacolato agnello. Tù pure à loro somiglianza vai falsamente dicendo, ch'à tutte le donne son destinati i Monasterii, per loro fabricati, ch'elle à ciò son nate, e che molto meglio è ch'una femina si racchiuda à servir à Dio più tosto, che vada in rouina un' intiera famiglia. Se 'l [pagina 247] Pontifice, e i decreti hanno determinato, ch'elle osservino perpetua clausura, non per questo, ò bugiardi, ciò deve esequirsi senza il concorso della loro volontà, ma voi v'appigliate alla scorza, non al midollo delle sante determinationi de gli Ecclesiastici superiori, che ben sanno, che non si deve servir à Dio con violenza. Fingete di non penetrare la sincerità di quegli ottimi decreti de'santi Padri, ma pure non potete negare à voi stessi, che non ci vuol forza nel servitio di quel Sign. ch'altro da noi non vuol, e che'l cuore, e che non c'è cosa per dilettevole, utile, e cara, ch'ella sia, che goduta sovente non satolli.
La variatione tanto gradita da ogn'uno, e cosi conforme alla natura è bandita per le monache, perche nel vivere, operare, trattare, dimorare, mangiare, e vestire sono sempre le medesime, onde in ogni luogo,
[pagina 248] & in ogni attione loro si può mettere il celebrato, e soprascritto motto. Semper idem . Che piu? Se qualche acerbo colpo di nemica fortuna ferisce le mal aventurate, non possono pure col girar la faccia ad altra parte sottrarsi dalla tirannia di quella crudele, perche in ogni banda la scorgono contraria à proprii destini, di modo che, se instabile à tutti i mortali si dimostra, alle sole Monache si rende invariabile nel male, perch'essendo immutabile lo stato loro, conviene, ch'ella ancora non mai si cangi in favorevole per esse: onde non possono pure assaggiare una particella di quel bene, che suole apportare a gli altri con la sua incostanza [vedi qui NOTA CRITICA].
Ora sequendo, per avicinarmi alla fine al mio primo sentimento, trovo, che non solo nell' antico testamento come hò di già ampiamente fatto vedervi, Iddio non
[pagina 249] commandò, ne astrinse alcuno ad usare una tal tirannia, ma che venuto nel pellegrinaggio di questa valle di miserie, non gli spiacque di trovar molte femine erranti per le città, e contrade, anzi conferì loro moltissime gratie, cosi corporali, come spirituali, mentre andava promulgando la sua legge. Rimettè ad alcuna i peccati, riempì altra di gratia, ad altre rese la sanità [vedi qui NOTA CRITICA], e di nissuna si trova, ch'egli si scandalizasse di vederla per istrada, anzi quando fatigatus ex itinere sedebat supra fontem , stava attendendo la gentile Samaritana, per darle à bever di quel fonte perenne, di quel pozzo profondo, anzi di quel vasto mare, le cui acque levano per sempre la sete à chi ne gusta. Il pietosissimo Redentore attende la bella donna, non la sforza, ò violenta, ne pur la chiama, ò invita, ma patientemente la stà aspettando, assetato di quell'anima [pagina 250] smarrita dietro le lusinghe del senso, sin ch'ella ivi capiti à caso, ne le concede la salutifera acqua, se di propria bocca non la dimanda. Domine da mihi hanc aquam . Non isdegnò conferirle la sua misericordia, ancorch'ella fosse vagabonda. O donna singolare, che nata frà quella pessima gente Samaritana, che per esser la peggior del mondo, indusse Dio à mandarle per castigo de' di lei peccati gli orsi, e i leoni à sbranarla sino ne' proprii letti, sola conoscesti il vero lume, e nell'acque trovasti da inebriarti del vino della gratia, del quale fù chi santamente disse, bibite amici, & inebriamini carissimi , e non di quello in quo est luxuria . O donna di cuor libero, e d'ingegno docile, che con la tua sede incomparabile, credendo, e confessando Christo per Dio seminasti con le tue parole nella Samaria la fede, onde quei popoli dicevano. Iam [pagina 251] "propter tuam loquelam credimus, ipsi enim audivimus, & scimus, quia hic est verè Salvator mundi" .
Ne gli affari della salute, e della fede le femine furono sempre le prime à conoscere, confessare, e dar la dovuta gloria al Monarca de' cieli. Ne solo il confessarono, e predicarono quando fù veduto nascere, far miracoli, e morire per la commun redentione, ma anche prima che nascesse predissero, e predicarono la di lui venuta. La venerabil vecchia Elisabetta visitata da Maria esclamò, cantando in queste profetiche voci. Et unde hoc mihi, ut veniat mater Domini mei ad me? La Sibilla Tiburtina riuscì di tanto pregio, auttorità, e sapienza, che fè chinar le ginocchia d'Ottaviano Augusto nell'adoratione del Bàmbino Giesù in braccio alla Vergine, facendogliele veder in mezo d'un cerchio di luce sù nel cielo, mentre ch'egli
[pagina 252] superbo della vastezza del suo impero volea publicar quell' editto à tutti noto, di voler esser adorato per Dio. Che vi pare di quella gran profetessa Anna, che vixerat in templo octoginta annis à virginitate sua in jejuniis, & orationibus, obsecrans Deum , e sempre munita d'un' incorrotta fede, non mai si partì dal tempio, si ch'à gara di quel beato Cigno Simeone meritò di stringersi al seno il figliuolo dell' eterno Padre, anzi fù la prima ch'intuonò le lodi del nato Redentore.
Che replicherai, ò bugiardo, à queste non favole, ma veraci, e sacre historie, mentre con tuoi disprezzi procuri di privar noi del meritato decoro, e stima, e perciò meglio esequire hai sepellito frà le mura de' Monasteri qualcheduna, che se fosse libera, & aiutata da studii, con lingua veridica, e penna fedele saprebbe far conoscere al mondo
[pagina 253] tutto le perfidie della tua tirannia? O con quanto più di livore invidioso, che di verità sincera dai titolo d'animal' imperfetto alla femina, mentre tù col pelo sopra la faccia, apunto come nella ferità de costumi, cosi anche nella ruvidezza del volto, imiti gli animali brutti, e per renderti in tutto, e per tutto simile anche à quell'irragionevoli, cui la natura hà proveduto di corna, hai studiosamente mendicata inventione d'inalzare, apunto in forma di corna, quei peli, i quali tù hai ambitioso, che soura la bocca, se non soura del capo ti stampino un carrattere, che ti contrasegni per un perfetto animale.
Ogni qualvolta ch'in leggendo m'incontro in qualche concetto inventato dalla tua non buona volontà contro il nostro sesso, bisogna, che non senza sdegno mi vada confirmando in quel verissimo pensiero,
[pagina 254] che tengo scolpito nella mente, che quando uno sia oratore, ò poëta, scrive in pregiudicio delle donne, altro non sappia dire che bugie, e l'ingegno di lui altro non sappla partorire, che aborti d'invidie, non parti di giustitia [vedi qui NOTA CRITICA]. Odasi il Sign. Gio. Franc. Loredano, gloria delle moderne lettere, maraviglia dell' universo, e Sole che ne raggi delle sue chiare virtù, gli occhi del mondo tutto stanno fissamente rivolti con diletto, qual mendicata ragione apporti nel suo Adamo, del non trovarsi sù le sacre scritture la morte d'Eva. Dice egli, che non si deve ramentar la morte di colei, che non meritò giamai di nascere. O con quanto più ragionevole, veritiero, aggiustato, e men stiracchiato concetto poteva, e dovea dire, che non si trova, ch'Eva giamai morisse, per che meritò d'esser creduta immortale. In somma il livore de gli huomini [pagina 255] và di continuo studiando di sofisticare con menzogne à pregiudicio del merito feminile, del quale non dice male con biasimi si frequenti per altro, che per un' affetto invidioso, già che conoscendo di non poter sourastar con le qualità, vuol rimaner superiore con la lingua.
Si come si và propositatamente dicendo, che donna altro non significa che danno, perche non si dice, che significhi dono di Dio, delitia del mondo, Dea de gli huomini, a'i quali dispensa gratie, e che femina altro non significhi che felicità, mentre vien dall'Ecclesiastico à bocca aperta confessato, che in quel sito, ò in quella casa, dove non si ritrova una femina, non può esser che miseria, & infelicita. Vbi non est mulier, ingemiscit egens . La tavola pur anche di Cebete ci rapresenta la felicità sotto sembianza di donna.
[pagina 256] Le femine, ò huomini, non cangieriano i loro minimi attributi lodevoli con l'infinità di quelli, ch'à voi follemente par di possedere, poiche elleno sono state dichiarate per più degne di voi sino dal primogenito de cieli, alhor che per colpa delle vostre colpe s'era compiaciuto di mischiar la divinità all' humanità. Ritrovata una donna in adulterio, forse accusata da quei medesimi, che l'havean procurata rea, il misericordioso Signore atterì gli accusatori con dir loro. Qui sine peccato est vestrum, primus in illam lapidem mittat . Costoro si viddero come condennati di colpevoli, quando attendevano la sentenza mortale contro alla vita di colei, c'havea peccato, forse più per tedio delle loro sollecitudini, che per propria inclinatione.
S'hora la pronontia divina esprimesse à voi, che sete ministri di Satana,
[pagina 257] quello che sincero nell'animo, osservante della mia legge, tutto catolico, e pio, spronato da puro zelo, mondo di vitii, per la sola esaltatione del mio nome, e senza frode rissolve di conservar frà due mura la castità delle sue figliuole, sia il primo à chiuderle, che mi contento. Ah che tutti fuggireste con le faccie impallidite di paura, ò arossite per vergogna, & elle andrebbero libere, protette dall'istessa suprema giustitia.
Non mai si troverà in un' huomo quella fede immutabile della Cananea, ch'assordando il cielo, gridava frà la moltitudine de gli Apostoli, e delle turbe. Miserere mei, Domine, filî David. Filia mea male à Demonio vexata . Cosi meritò, benche vagabonda, e troppo sollecita d'esser esaudita da quell' amoroso petto, che godendo di sentirsi replicar i preghi, doppo la negativa, e'l'asprezza
[pagina 258] di parole rigorose, le fè sentir la dolcezza del sollievo, onde oltre la gratia della sanità della figlia [vedi qui NOTA CRITICA] "fiat tibi sicut vis" , ottenne quel glorioso encomio: O mulier magna est fides tua ! Quasi ammirò, ch'ella non prevaricasse con la fede, la quale era poco conosciuta da molti de gl'infidi astanti. Gareggiò parimente di fede con questa gran donna quell' altra felice Emoroissa, che cacciata trà gli Apostoli, e Farisei, piena di modesta vergogna, non ardiva d'avicinarsi à parlar con Christo, ma frà se stessa andava dicendo. Si tetigero tantum fimbriam vestimenti ejus, salva ero . Fù sempre il sesso feminile una fermissima pietra, che servì à stabilire i fondamenti della fede christiana. M'abbondano gli esempii, co' quali à bastanza resta provata questa mia indubitabile propositione.
Frà tante, che mi sovengono,
[pagina 259] non devo tacere il nome, e merito dell' Apostola dilettissima di Christo, che peccatrice entrò in casa del Fariseo, alhora ch'ei frà i conviti se ne stava famelico della di lei conversione, e non temè frà tanta gente, & in loco esposto gettarsi à quei santi piedi, lambirli, & ongerli con aromati, e pretiosi unguenti. O che ferventissimo amore! Non s'aresta per la tema de rimproveri, che da molti potean esserle fatti. Non cura la mormoratione di Giuda, simile à te nel fingere, che simulava motivi di buona conscienza ciò, ch'era impulso di sozza avaritia, mentre si mostrava geloso della dissipatione del pretiosissimo unguento, ma intrepida per l'affetto, & immobile per la fede e contrittione, non mai cessò d'inaffiar la misericordia del suo Signore con l'onda delle lagrime, & asciugar quei santi piedi co' suoi capegli, sin che non hebbe meritato [pagina 260] d'udire. Remittuntur tibi peccata . Queste, & altre infinite, femine furono vedute da quegli occhi divini per le strade, piazze, e luoghi publici infrà moltitudine di gente, e pure non impose al suo Vicario Pietro, che dovesse legarle, ò chiuderle, come hoggidì si costuma, perche questa non è volontà di Dio, ma inventione della sola humana malitia, per ingannarle; anzi egli apparì à Maddalena, doppo la sua resurrettione, sù una publica strada. Dic nobis, Maria, quid vidisti in via?
Qui non mancheranno in campo i tuoi soliti sofismi, e inventioni, per mezo delle quali valeresti à trovar ombra, anche dove non è corpo, & attribuirai il zelo di questa fede feminile, che tutta è santa, e pia, ad una credulità, che tù vai ingiustamente publicando per propria, e connaturale al sesso donnesco. Il
[pagina 261] cuor delle donne non è come voi pensate, e descrivete, cosi facile à dar credito ad ogni leggiero, e falso susurro. Credono con ogni prontezza nella santa Chiesa, ne punto vacillano in quella fede, che non ammette dubbii. Non danno ne gli eccessi solo che nell'amar Dio, nel darsi alle virtù, & ad ogni sorte di pie, e sante attioni, benche il livore de gli huomini non tralasci di predicarle senza mediocrità in qual si sia affetto. Ma poco credito acquistano, ò huomini, anzi non huomini ma fiere, le vostre menzogne, & à chi non hà intieramente offuscato l'intelletto è noto, che non v'è frà di voi chi non infetti di mille bugie anche l'istessa verità. La vostra pretensione folle, e leggiera vi persuade, che non solo ogni donna creda alle vostre spasimate fintioni, ch'insidiosamente le andate dipingendo, ma ad una sola occhiata casuale, e [pagina 262] non artificiosa ad un semplice moto accidentale, ad un sorriso naturale d'una giovane vi promettete gran cose, e vi vantate per assoluti padroni del di lei cuore, e volontà.
Questa è un espressa pazzia, perche andate argomentando, che i pensieri delle femine siano tali, quali sono i vostri osceni, & indiscreti, ma v'ingannate di gran longa, che quando credete d'esser adorati, i risi e guardi sono indrizzati à deridere, & ammirare le vanità delle vostre pretensioni. Sansone troppo credulo il provò, cosi il provassero tutti coloro, che troppo facili à credere al lor proprio immaginato merito, pensano di farci languire d'amore, alhor che dourian raccordarsi, che i successi de gli Adoni, e de' Narcisi sono sempre favolosi, e mortali. S'egli non havesse supposto amore in Dalida, non saria cosi miseramente perito. Anche il famoso,
[pagina 263] e prode capitan Sisara fuggitivo dalla battaglia, lasso dalle fatiche, e bramoso di salvarsi la vita, doppo essersi rinfrescato co' cibi, diedesi à riposar le stanche membra in casa d'una sua cara, che con le proprie mani il fè passar dal sono alla morte, col trappassargli le tempia con un fierissimo chiodo. In si misera guisa perì l'infelice per haver troppo creduto d'esser amato. Da cosi vana leggierezza apparate, quanto siate atti à prestar fede in quell' occorrenze, nelle qualè il credere è male espresso, perche voi non impiegate la vostra credenza in voci di predicatori, confessori, evangelii, e cose appartenenti alla santa, e verace fede, ma trabocchate ne gli empii concetti de gli eretici, Luterani, & apostati, assentendo a'i perfidi pensieri di Pelagio, ch'asseriva, che l'anima possa salvarsi senza la gratia, anzi sete Ateisti, che non [pagina 264] conoscendo, ne credendo Dio, confondete scioccamente gl'interessi del cielo con quelli della terra.
Ingiuriate pur le donne con rimproveri di credulità inopportuna, e soverchia, che non per tanto darete loro ad intendere, che le imbavarate d'habiti religiosi per loro meglio, anzi saran sempre salde, e stabili nell' opinione, che per poter liberamente scialaquar nelle vostre schiffezze, & immergerui nel lezo di peccati tanto sozzi, che mandano il fetore sino alle nari dell' Altissimo, le imprigionate in un'inferno che non falsità descrivete sotto forma di Paradiso.
Ma qui sento avisarmi da quella modestia, ch'è propria d'ogni donna, ch'io non devo ingolfarmi nel torbido mare delle vostre sordidezze, onde voglio, che la penna voli ad altro discorso, in cui si descriva una particella delle vostre crudeltà,
[pagina 265] e fierezze, dalle quali non fù sicuro, ne pur lo stesso Dator della vita morto da voi, e dal pietoso sesso feminile pianto con tante lagrime, e compatito con tante tenerezze. Dà chi fù, huomini perversi, tradito, tormentato, & ucciso il nostro Redentore? Da gli huomini certo. Frà i dodeci Apostoli eccoti un Giuda iniquo, che per avaritia lo tradì. Pietro lo negò, e tutti gli altri si fuggirono. Se non fosse la riverenza, che devo portare al Vicario di Christo, alla Pietra sopra la quale fù fondata la Chiesa, direi, che nella negatione di Pietro si ravisa il costume di voi altri huomini, ch'è Lunga promessa con l'attender corto . Egli doppo haver promesso à Christo, in quella misteriosa cena intrepido, & ardente, un' eternità di costanza in seguitarlo, etiamsi oportuerit me mori tecum, non te negabo , [pagina 266] non potendo il genio proprio de gli huomini deviarsi dal suo corso, ancorche egli havesse una santa, e determinata volontà di non negar il suo maestro, fece conoscere, ch'è cosi commune à tutto il vostro sesso la leggierezza, instabilità, e bugia, ch'anche dove si tratta di non abbandonar Dio, un Principe de gli Apostoli, triplicatamente il nega. "Non novi hominem" . Perdonami, Apostolo, e Vicario di Giesù, se faccio comparatione di te con gente cosi infida, che non è poi simile à te nel ravedersi de' falli. Tù ad un solo guardo del tuo amato Signore uscisti da quell' abominata corte, & amaramente piangesti il tuo peccato. Flevit amarè . Ma hora gli huomini pertinaci nel male, perseverano nel male sino alla morte nelle sceleragini, ne pure con le minaccie divine possono esser tratti dalle sentine delle loro empieta, onde poi [pagina 267] restano sepolti nelle fauci d'inferno, ch'apunto è degno sepolcro di chi sepellisce vive creature batezzate.
Ma torniamo à vedere qual fosse chi diede la morte al redentor nostro. I Principi de Farisei, gli Scribi, i Sacerdoti, i Pontefici, i testimonii falsi, i giudici furono i personaggi, che commandarono, e fecero veder al mondo la lugubre e tenebrosa tragedia de' stratii mortali del Salvatore. Gli oltraggi, insulti, derisioni, e battiture crudeli, alle quali non sarebbe stato resistente la durezza d'un sasso, la carne recisa à pezzi dalle sferzate, la chioma barbaramente sterpata dal capo, e la barba dal mento, e l'impositione d'una pesantissima Croce sul dorso all innocentissimo Agnello, non d'altri furono opra, che dell' huomo ingrato, che nel maneggio della passione del suo Dio, si palesò
[pagina 268] per lo più fiero, non che per lo più ingrato, & imperfetto di tutti gli animali.
In contrario le donne lo compatirono, il piansero, l'accompagnorono sino all' ultimo sospiro, esalato da lui sopra la Croce. I cuori delle femine di Gierusalemme, benche fossero madri, figliuole, ò spose di quei cani, ò che l'havean condennato, ò 'l tormentavano, s'intenerirono à spettacolo si crudele, e piansero il loro Dio non conosciuto da voi, che vi vantate instrutti di tutte le profetie, e sapienze: e benche il riguardo d'incontrar la satisfattione de lor cari, e congiunti havesse dovuto vietar l'entrata alla pietà, il lume nondimeno del vero bene, che sempre regna ne' petti feminili, cavò loro il pianto da gli occhi in tanta copia, che l'istessa salute del mondo scordatasi del peso sotto del quale s'aggravava l'humanità
[pagina 269] santissima di Christo, vinta da tenerezza tale, rivolse quella faccia, come di sole ecclissato dalle percosse, da sputi, e dal sangue verso di loro, e disse. Filiae Ierusalem nolite flere super me, sed super vos ipsas flete, & super filios vestros . Ponderiamo un poco queste misteriosissime parole. Non dice super filias, ma super filios , perche de' figliuoli maschi è deplorabile il natale, bestiale la vita, e per lo più infelice la morte.
Super vos , disse, per inferire, che dourian le donne lagrimare per esser genitrici de gli huomini, che son cagione di tutti i mali del mondo.
Reproborono per quanto puotero le femine le querele, & accuse date contro l innocenza dell' humanato Signore.
Mandò la moglie di Pilato un messo al suo marito sedente nel tribunale, pregandolo à favore del
[pagina 270] giustissimo. Nihil tibi, & justo illi , conoscendo la sua innocenza.
Quelle che compatirono, non furono mosse da interesse nissuno, ma per sola naturale inclinatione al bene, che le spingeva, à dolersi, & impiegarsi alla protettione d'un Dio, che nella scena del mondo appariva vestito come il più scelerato, e feccioso huomo della terra.
Quando finalmente la mansuetissima vittima dell' eterno Padre fù sollevata sù l'altar della croce, altro ristoro, e consolatione non hebbe, che 'l vedere la fortezza, e costanza di chi l'havea con suoi purissimi sangui vestito dell' humanità, e l'intrepidezza della Discepola amante, accompagnata nel compatirlo con l' altre Marie, ch'assisterono allo spettacolo dolorosissimo, che si rappresentò nel teatro del monte Calvario a gli
[pagina 271] occhi del cielo impietosito dall'ingiurie, che vedeva patire al suo Facitore. Con animo cosi generoso ivi dimoravano, che non si raccordando d'haver quelle fiere de' soldati, satelliti, e carnefici à lato, ne curando l'armi, che ferocemente ignude risplendevano loro in mano, ò temendo de' pericoli, che correvano vicine all'insania, e ferità di quei mostri, tutte cuore, e piene d'un' immutabil fermezza, ancorche impetrite dalla doglia, e dalla maraviglia per cosi disusate crudeltà, non mai l'abbandonorono.
Confondasi dunque, e resti mortificata in eterno la bugia delle vostre lingue, ch'opprimono per deboli, e piene di diffetti le donne, mentre le operationi parlano in contrario.
Fortissime si fecero conoscere nella morte di Christo, & alhora che gli Apostoli si diedero alla fuga,
[pagina 272] elle fermissime asistorono con tanta costanza [vedi qui NOTA CRITICA], che può dirsi di loro quel che cantò Boetio.
Nos saltem nullus potuit pervincere terror,
Ne nostrum comites prosequeremur iter
.
E come son elle deboli, se facean fronte alla stessa morte, e se tali si dimostrarono sempre, non che nella passione in ogn' altra occorrenza ancora? Chi negherà in oltre, che fortissima non fosse Giudit, che con istupendo ardire troncò il capo ad Oloferne, e liberò la sua patria da un'assedio mortale? La Regina de Messageti Tomiri, con qual valore ottenne la vittoria contro Ciro superbissimo Rè? Con quali prodezze non si contrasegnò Pantasilea Regina di quelle, che per esser Amazoni, meritano realmente il nome di donne, sotto Troja, come racconta il veridico Darete Frigio?
[pagina 273] In historie infinite risplende registrata la feminil fortezza, con che mille volte habbiam vinti, e soggiogati Rè, Imperatori, e potentissimi eserciti.
Se poi i maggior savii sian stati superati, e fatti preda del valore della bellezza feminile, dicalo Davide, Sansone, e Salomone, che ne suoi proverbii, parlando d'una di noi, disse: "Multos enim vulneratos devicit, & fortissimi quippe interfecti sunt ab ea"
[vedi qui NOTA CRITICA] Come già t'hò fatto conoscere apertamente, moltissime donne corraggiose asisterono con fortezza da scoglio a gli horrori della passione, e morte del figliuolo di Dio, ma frà gli Apostoli un solo si mostrò costante [vedi qui NOTA CRITICA], & intrepido, che fù Giouanni, il quale per la sua Virginità merita d'esser tolto dal numero di voi altri huomini sempre impudichi, e lascivi, & annoverato nel [pagina 274] numero del nostro sesso, che porta per carrattere indelebile la modestia, honestà, e pudicitia eterna [vedi qui NOTA CRITICA].
Ben osservò in questi il moribondo Christo una fortezza insolita, & altamente il premiò col lasciarlo in sua vece per figliuolo alla Vergine. Ecce filius tuus, & ecce mater tua . O gratia, o dono singolare, & encomio maraviglioso, che nella brevità di poche parole chiudi tutte le lodi, che potessero capire ne studiati volumi de più eloquenti oratori!
Adoro l'integrità tua, e la tua fermezza, ò Giovanni Santo, e ti supplico à ferirmi il cuore di quell'amore, e di quei dolori, con che sequisti, e sentisti l atrocità delle pene del tuo diletto Maestro. Opera, ch'io, come tù, camini se non cosi vicina, al meno da lungi le pedate di lui, onde in qual parte adherisca à quella santa persuasione.
[pagina 275] Fac tibi secundum exemplar, quod in monte monstratum est .
Ma non c'ingolfiamo tanto in provar la fortezza del dõnesco sesso, che non ci ramentiamo altre virtù. Parliamo della loro carità, e discorriamo del lor merito, già che la fierezza de gli aspidi, il veleno de basilischi, e le doppiezze delle volpi sotto scorza humana, non ponno à sufficienza esser descritte da una femina.
Oh Dio! con che compassione, ansia, dolorosi homeri, e guancie imperlate di lagrime, ch'angustiavano loro l'amoroso pensiero, andavano, à guisa di tortorelle raminghe con flebili voci cercando il lor morto, & adorato Signore.
Caminavano tutte sospese, e per la doglia lasse, talhora si rendean bisognose di riposo, e sedenti stavano spiando, & attendendo di vedere, e sentir ciò che tanto bramavano,
[pagina 276] vano, ne punto vacillavano nella fede, come facean quei Discepoli, che caminavano verso Emaus ambigui, e dubbiosi della rissurrettione, e non come Tomaso, che per credere hebbe di bisogno della testimonianza del proprio tatto, ma stavano certe d'haver tantosto à veder resuscitato quegli, à cui il tutto è possibile. Pure il testifica l'Euangelio medesimo, che prima che spuntasse l'Aurora dall' Oriente, elle anhelanti, e con passi veloci andavano cercando il lor bene, anzi per non abbandonarlo, ancorche sepolto, sedevano sul monumento piangendo. Mulieres sedentes ad monumentum lament abantur flentes . Sò che qui non è per mancare chi mi derida, perche in prova delle sante tenerezze delle femine io porti il pianto loro, poiche non è maraviglia, che si veda l'humidità sù gli occhi à chi hà le lagrime famigliari, [pagina 277] & à sua voglia scaturienti dalle pupille. Ma sovenga à questi derisori fallaci, ch'anche gli huomini, anzi lo stesso Dio ancora hanno fatto pompa di lagrime, quando han voluto mostrare un' affetto intenso, & in noi essendo sempre gli affetti in eccellenza, sono anche in pronto le lagrime.
Pianse il Salvatore sù l'amico Lazaro. Lacrymatus est Iesus . Pianse alla veduta della città di Gierusalemme, immaginando la di lei distruttione, onde il testo dice. Videns civitatem flevit super illam . Se'l benedetto Christo seppe, e volse piangere, adunque le lagrime non son sprezzabili, le quali sono un sollievo della Natura, & un' antidoto per isgravar il cuore dalle passioni tormentose.
Siami lecito il mischiar accidenti profani ad historie sacre. Lagrimò Serse sopra il suo numeroso
[pagina 278] esercito, considerando alla morte, che dovea succedere di tanta quantità di gente.
Più d'una volta pianse il Grande Alessandro, conosciuti gli errori delle sue pazzie, e le morti de gli amici. Non isdegnò Platone di descrivere il cordoglio suo, e de suoi discepoli nella morte del loro caro maestro, con queste parole. Plerique nostrum, dice egli, eousque retinere quodammodo lacrymas potueramus, at postquam bibentem vidimus, & bibisse, ulterius non potuimus .
Sono le lagrime da Heroe, e proprie a gli animi benigni, solamente disprezzate da petti inhumani, e da coloro, che sono simili alle belue, come apunto per lo più è la maggior parte de gli huomini, essendo in uso le lagrime non solo appresso i più gran Principi ch'appresso i più gran Letterati, come stimate giuste, e necessarie
[pagina 279] per sollevamento de casi sinistri della Fortuna.
Ma in prova, che voi siate tutti crudeli, non troverai, che niun huomo habbia pianto nella passione del Redentore, ma ben troverai chi di loro crudelmente gli habbia somministrato dolori, e straccii, si che 'l mal compatito innocente, che sempre gradisce, e rimunera l'amor, e la fede de suoi devoti, corrispose alla nostra pietà in modo, che si compiacque d'apparir prima à Maria, & à Maddalena, ch' a gli Apostoli, & ad altri suoi diletti, per contrasegnare il nostro sesso di si glorioso vanto, risserbando in fine di farsi vedere risuscitato a gli huomini, da'i quali era stato tradito, abandonato, crociffiso, e morto. Queste non si ponno già negare per vere glorie del sesso feminile, poiche ricevono in contracambio raggi di Paradiso dalla divina gratitudine.
[pagina 280] Non sia chi ci voglia oscurare cosi gloriose prerogative col dire, oh'essendo le donne d'assai parole, quella Maestà risuscitata apparse prima à loro, perche più veloce volasse la fama della sua resurrettione, essendo piene le scritture delle tue loquacità congiunte à mill' altri vitii, oltre che questa tua pretensione di saper gli occulti pensieri di Dio, è un' agiunto alle tue temerità, perch'è un dirlo ambitioso, e bisognoso, che fosse publicata la sua resurrettione, quasi che mancassero mezi alla di lui omnipotenza da palesarla in un sol momento à tutto l'universo.
La statua del Dio Arpocrate, non bene stà sotto figura d'huomo, poich' essi palesano non solo ciò, che sanno, ma si vantano, e publicano anche ciò che vorrebbero, che fosse, e l'aditano come verità infallibile, e Euangelio. Per contrario
[pagina 281] à gran ragione i prudentissimi Romani dipinsero la Dea Argirona con le labra chiuse, volendo inferire, che la donna più dell' huomo è atta al silentio, come anche la stessa Natura ne fà fede nelle cicale, frà le quali le femine non mai s'odono, & i maschi gracchiano strepitosamente sino alla morte. Non perche S. D. M. havesse concetto, che noi fossimo loquaci, palesò prima à noi, ch'a gli huomini d'esser resuscitato, ma per dar qualche condegno premio, & honorare la pietosa carità di chi l'havea fedelmente accompagnato alla morte, l'havea compianto, compatito, unto, e devotamente in lui credette, anche doppo ch'era stato sepolto.
Alle preci d'una donna, che fù il primo, e total fondamento della Chiesa, volò lo Spirito santo dal cielo nel Cenacolo, alhora, ch'ella, essortando, disse alla Scuola Apostolica,
[pagina 282] Oremus in simul . A si ardenti preghiere scese la colomba celeste sotto forma di lingue di foco, à disseminar in quel Beato Concistoro una sapienza, & eloquenza divina. Cosi fù sparsa per tutto il mondo la fede Catolica da gli Apostoli, che se per conditione erano idioti, & ignoranti, per gratia riuscirono eruditissimi, & intelligenti; di modo che la vera eloquenza di cielo fù tirata dal Paradiso in terra da una donna, e le infelici dell' empietà di questi secoli vengono tacciate di soverchiamente loquaci.
Chi con occhio e mente disinteressata, e senza malitia invidiosa considera gli attributi, e gratie concesse dall' eterno Benefattore alle donne, tutti li vedrà situati in loro in grado eccellente. La liberalità hà il suo centro ne petti feminili, si come l'avaritia ne gli huomini, i quali ingolfati in cosi tenace vitio
[pagina 283] comettono tanti gravi peccati. Quel tristo di Giuda volea, che l'unguento, con che la pentita Maddalena ungeva i piedi à Christo, fosse venduto per ritrarne avaramente il denaro, e per contrario mulieres emerunt aromata, ut venientes ungerent Iesum .
O quanto hebbe caro il Signoro nostro queste espressioni d'amore, e di carità nelle donne, sino ad effettuare nel seno di Caterina Senese con le proprie mani una di quelle ferite amorose, e soavi, che tutto dì vanno follemente vantando i pazzi, e lascivi amanti del mondo, & al fare con essa lei un real cambio di cuore, e per questo poi egli è cosi pietoso à peccatori, perche tolse di petto à questa sua Cara un cuore pieno d'affetti pietosi, e tenerezze misericordiose, col quale và soffrendo senza vendetta, e con troppa clemenza le offese di voi
[pagina 284] altri scelerati, e pessimi suoi offensori.
Non solo nel nuovo Testamento, ma nell' antiche Scritture stanno registrate gloriose memorie della liberalità magnanima delle sempre generose, e virtuose donne. La Regina Saba regalò Salomone con doni di tanto prezzo, che di lei dice il Testo. Dedit ergo Regi centum viginti talenta auri, & aromata multa nimis, & gemmas pretiosas. Non sunt allata ultra aromata tam multa, quam ea, quae dedit Regina Saba Regi Salomoni . Ma che? La liberalità è una delle meno lodabili qualità delle femine. Non v'è virtù, sia ò interna, ò esterna, ch'in elle non habbia la sua naturalissima sfera. L'humiltà, la santità, la prudenza, e sopra tutto la modestia sono non accidenti, ma sostanze del nostro sesso, e se sono accidenti, sono accidenti inseparabili dal sogetto.
[pagina 285] E qual maestosa modestia dovea risplendere in faccia à Maria, quando che frà i carnefici, e sattelliti seguace del suo tormentato figliuolo, non incontrò in petto cosi rozzo, che non divenisse riverente alla di lei modesta gravità? Gli Hebrei, che crociffissero il figliuolo, non nocquero, ne pure con un scherno solo alla madre.
Ben'era di dovere, ch'ella, ch'era il timone della combattuta nave di Pietro, c'hà patite tante sinistre fortune da contrarii venti di persecutioni, scisme, & heresie, e che pur tuttavia ne patisce da gli ostinati peccati, frà le tempeste di quei barbari Giudei, restasse illesa, ne fosse chi havesse ardimento di stender la mano per oltraggiarla, ò la lingua per offenderlà.
Sù di nuovo la mia ardita penna, voli per l'ampio cielo delle lodi di Maria, poiche il suo solo nome
[pagina 286] porta tanto di gloria al nostro sesso, che taciti, e muti di vergogna dourian restar gli huomini per sempre [vedi qui NOTA CRITICA].
Volse il parto di si gran Madre farci conoscere, che la maggiore e più pretiosa gioia dell' errario suo dovea partialmente esser stimata. Le fece perciò lampeggiar in volto un lume, che generava ossequio in chi la mirava, acciò ch' ogn'uno la riverisse, & ammirasse come maraviglia di Dio. Andò non solo libera dal peccato, ma fù terrore, ruina, e distruttione di lui, si che poi non è da stupirsi s'ella si dimostrò come armata d'armi diffensive contro quelle feroci belue incrudelite in odio, e scherno dell' istessa Divinità.
Ah! che questo fù uno scherzo, per cosi dire, in paragone de stupori, e miracoli dell' Omnipotenza Divina, che s'ammirorono nella
[pagina 287] Vergine, già che colei, ch'era stata riverita, e servita dall' istesso suo Creatore, ben anche dovea esser rispettata dalle di lui più scelerate creature.
Se 'l sangue, vita, patimenti, e martirii de santi dierono i fondamenti all' inespugnabile fortezza della Chiesa, l'immacolatissima Avocata de' peccatori fù la prima pietra fondamentale, che servì di base per istabilire tutta la sicurezza di si importante fabrica.
S'ella non sparse il sangue frà martirii, l'impiegò in vestir d'humane membra, & in nutrire l'humanato Dio, e participò tanto della di lui passione, che mille volte morendo martire in vita, meritò d'esser chiamata Regina Martyrum . Da queste prerogative di Maria, che fù donna, rissulta tanta gloria al nostro sesso, c'homai dourebbero gli huomini intrometter la sfacciatezza,
[pagina 288] con che aviliscono le donne tutte, descrivendole per l'idea d'ogn' imperfettione con discorsi non veri, e fondati in aria, che sono meri capriccii delle loro teste suentate.
Non si può già sentire à discorrere più partialmente di quello, che fà Gioseffo Passi ne suoi donneschi diffetti. Che sconci concetti, che aplicationi oscene, mordaci, & improprie all' integrità del merito feminile non vi si leggono?
Costui hà scritto del sesso donnesco con tanta sfacciatagine, e con cosi giudicioso sentimento, che sarebbe degno d'esser fatto Rè di quei pazzi, che dal Garzoni son radunati nel suo Hospitale
[vedi qui NOTA CRITICA].
. Ma forse hà tralasciato di dargli questa meritata mortificatione, perche non deve mai haver lette le fatiche di quel dicitore, à cui sarebbe stata meglio per madre una vipera, ch'una [pagina 289] donna, se poi dovea con tanto disprezzo trattare di chi gli diede l'essere.
Pur anche un' altro Auttore moderno, di cui stimo bene passar sotto silentio il nome, con satirica e viperea lingua, in una sua detestabilissima opera và mendicando improperii, & inventando ignominie contro il nostro sesso
[vedi qui NOTA CRITICA]. Ma quanto bugiardo, altretanto malignamente parla contro le donne, in particolare nella quinta Lettera, registrata in quell'infame Libro, c'hà meritato di morire prima di comparire alla luce del mondo.
Non è però maraviglia, ch'opponga macchia alla Divinità delle feminili conditioni colui, c'hà osato di metter la sacrilega lingua ne più Catolici interessi, non portando rispetto ne anche al sommo, e Santissimo Pontefice, e pregiudicando con la penna al Christianesimo
[pagina 290] tutto, forma accenti vituperevoli contro tutti i Cardini di Santa Chiesa, & in obbrobrio di tutta Roma, senza tralasciar di copertamente mordere con quei quattro denti di pulice, da lui mentovati nella sua vigesimasettima lettera, e risserbati per un maligno chi si sia de Principi, e Grandi, che in terra sono una sembianza di Dio, e come tali potran rissentirsi con castighi contro costui, mentre io non posso vendicarmene, che con la sola penna.
Si mostra cosi sceleratamente mordace, ch'essendo d'habito, ma non già di costumi religioso, si serve di tratti tali, che 'l rendono degno da paragonarsi à quel Sergio Monaco, che seppe cosi bene imprimer nell' humane menti le sue false opinioni.
Questo ingrato doppo haver fatto un epilogo di tutte le imperfettioni,
[pagina 291] che mendacemente egli suppone in quel sesso, da cui è stato partorito, inoltrandosi col discorso senza lume di verità inciampa in un sproposito, che promoverebbe il riso in una pietra inanimata. Asserisce che secondo la dottrina di Pitagora si deve credere, che l'intelletto sia il genio dell' huomo, e non potendo negare, che la donna habbia intelletto, dice, ch'ella deve dirsi il genio reo in contraposition del buono, e che se 'l titolo di genio reo s'attribuisce à Demoni, come à quelli, che sono destinati à rimovere ogni nostro bene, le di loro operationi saranno anche nella donna, come quella, che cagiona ogni precipizio nel mondo.
Queste son propositioni cosi apertamente bugiarde, che non ricercano, ch'io m'affatichi per contradir loro, se non col replicare quelle stesse veridiche prove, con
[pagina 292] le quali hò fatto conoscere, che la femina sia sempre promotrice d'ogni bene, e non mai cagione di male. Solo souragiungerò, che 'l Genio, e i Demoni, come altrove hò detto, vengono significati sotto nome maschile, come quelli, che più all' huomo, che alla femina son proprii, e simili in particolare nelle male operationi.
Pur anche mentre hà malignato contro la donna dicendo, ch'ella sia simile alla vite, è caduto in gravissima inconsideratione, nulla applicandosi, come irragionevole ch'egli è, che similitudine tale riesce gloriosa al sesso femineo, essendo che dalla vite sostegno dell' humana vita si spreme il più pretioso liquore, ch'accresca fomenti à quei calori, che danno la sostanza alla conservatione vitale.
Ben è simile la vite alla donna, poiche se quella doppo la fecondità
[pagina 293] è risserbata alle fiamme, la femina doppo una feconda gioventù, e doppo haver con suoi parti arricchito il mondo d'individui, ardendo nelle fiamme del Divino amore, e piangendo con lagrime apunto vitali, gli enormi peccati de gli huomini, opera ch'essi non habbiano à rimaner ad ardere trà i fuochi d'inferno, da loro colpe ingiuste tante, e tante volte meritati.
Non, com'egli, con la sua solita bugiarda e maligna interpretatione testifica, i Romani flagellavano i loro cittadini con verghe di vite, per significare, che 'l cielo habbia dato la donna per lo maggior castigo del mondo, ma ben si per far conoscere il dominio, ch'ella tiene sopra l'indiscreto animal dell' huomo, e se talhora con esso lui aviticchiandosi, fatta tutta lacci, il lega, e l'imprigiona, ciò è stato destinato dalla Divina
[pagina 294] Omnipotenza, perche apparisca l'auttorità suprema, ch'ella possiede sopra di lui, ch'apunto non è degno d'altro, che di prigionie, e di lacci.
Non è poi verità, che l'huomo, come palo a vite, serva d'appoggio alla donna in quella guisa, che questa penna và descrivendo, ma più tosto à lei s'avicina, per farla con le insidie di mille inganni cadere, quando l'habbia sedotta ad appoggiarsi à lui.
Ad un' intelletto vivace, che sinistramente voglia adoperarsi, non mancano chimere, & inventioni per alterar i sentimenti delle cose, e ridurre à remotissimi significati le più pure eruditioni.
Da questo nasce, che 'l bell' ingegno di costui habbia interpretato falsamente l'uso delle donne di Tartaria, che per lo più pretioso lor ornamento portavano sul capo
[pagina 295] un piede humano. La giusta, e vera interpretatione di quest' uso è, che la femina, come veloce, e pronta alla ottime operationi, corre sempre con piedi multiplicati la carriera della virtù, tenendone uno unito alla mente, acciò possa caminar le strade del ben operare con sicurezza, e senza invilupparsi ne gl'intricati laberinti, ch'apunto dal maledetto genio de gli huomini, che sempre s'oppongono al ben fare, e tendono insidie e reti all' innocenza donnesca, le sono di continuo preparati.
È dunque falsissima la di costui interpretatione, ch'essendo la donna priva d'ingegno non habbia gloria maggiore, che starsi sogetta all' huomo, mentre il suo maggior tormento è 'l considerarsi sottoposta alle tirannidi, e capricii inhumani de gli huomini.
Oltre à tutte queste mal fondate
[pagina 296] machine, erette da questo auttore, à pregiudicio della nobiltà feminile, egli apporta che i Romani vedendo comparir sù le publiche piazze, ò inanzi à tribunali una femina, s'atterrivano come d'un infausto prodigio.
Veramente questo è un' argomento conveniente alla di costui ignoranza, inclinata à deprimer quelle, che meritan d'esser a gli ultimi gradi d'estrema lode esaltate. Era pusillanimità, e cecità de' Latini lo spaventarsi all' aspetto d'una donna, e fingersi un' infausto corvo colei, che per ogni rispetto è sempre una candidissima colomba. Dobbiam più tosto dire, che s'atterrivano del bellissimo aspetto d'una femina, perche forse la credevano un' Angelo, mandato dal cielo à castigarli dell' ingiustitie, che come iniqui, e scelerati commettevano ne' tribunali.
[pagina 297] In somma questi scrittori e Poeti bugiardi, vanno tutto dì con le loro false inventioni abbassando, e vilipendo le donne, ma ad ogni modo in fine i loro detti fallaci rissultano in lor biasimo, e vituperio, perche quei vitii, che in noi suppongono, e che non mai regnarono in petti feminili, sono ricettati dalla costoro erronea conscienza: onde poi ne discorrono per pratica, e scienza.
Egli è pur il grande ardimento il tuo, ò huomo, il biasimarci continuamente, quando che tù sei la sentina di tutte le sceleragini. Ben il conobbe chi diede nome maschile al peccato, come pur anche sotto nome di maschio fù chiamato quell' horrendo drago, veduto da Ezechiele, habentem oculos septem, & cornua septem .
E se bene i sette peccati mortali misticamente significati in questo
[pagina 298] animale son nominati con voce di significato feminino, ad ogni modo son parti di questo mostro, partoriti da esso, si come sempre dall' huomo provengono tutti i motivi del mal operare.
Per la stessa cagione le più cospicue, e famose virtù vengono sotto nome di femine invocate, come Fede, Speranza, Carità, Fortezza, Temperanza, e Castità, Cosi pure l'istessa Chiesa Romana Catolica, & Apostolica, come anche le maggiori dignità del mondo vengono con titoli di Santità,Maestà, ò Altezza chiamati, perche il solo suono di significato feminino vale ad aggiungere qualche cosa di maestoso, e grande a'i più sublimi gradi, e carichi, che si possano ambire nel mondo.
Salomone, che fù il più savio di tutti gli huomini, & Alessandro Magno, la cui fortezza non morirà
[pagina 299] giamai nelle memorie de' secoli, conobbero, e riconobbero con tanti ossequii il merito delle donne, e tanto s'abbagliarono ne' splendori delle loro amabili conditioni, che in alcune occorrenze, per sottoponersi, & adherire à questo sesso, si scordarono, l'uno della sua sapienza, l'altro delle sue vittorie, senza ch'è noto ad ogn'uno, con qual eccesso di riverenza di rispetto, e d'amore trattarono con le loro madri ne'i maneggi de'i lor Regni, e ne'i negotii più ardui, & importanti.
Gl'istessi Poëti, che quasi per obligata, & à loro naturale antipatia, di quando, in quando vanno mal trattando con vituperii il sesso donnesco, finsero, che Vulcano nascesse senza madre, perche sciancato, brutto, & affumicato è un vero ritratto, e figura dico loro, che sprezzano le donne. Deh tralasciate
[pagina 300] homai, intelletti non sani, d'impiegare tutta la speculatione in oltraggio di quel sesso gentile [vedi qui NOTA CRITICA] senza il quale non potete nascere. Vengano un poco alla luce del mondo i principali Monarchi, è Rè della terra, senza esser partoriti da una femina.
La madre terra, che produce tutte le cose, l'Eternità, la Providenza, che da gli antichi era adorata come Dea, son donne.
Il vostro ingegno hà apunto similitudine con quello de gl'ingannevoli alchimisti, ma in guisa diversa, perche questi promettono di trasformare il mobile Mercurio in oro, & argento, ma voi tentate di mutar l'oro delle feminili virtù, non in instabile Mercurio, ma in vilissimo piombo, ò altra più vil materia.
O che alchimia odiosa à Dio! Furono di costumi simili à voi quegl'Ipocritoni,
[pagina 301] che in casa del Fariseo mormoravano di Christo, perche si lasciava toccar da mani peccatrici, e poi non s'aggravavano la conscienza nell' esser carichi di tutte le malitie, malvagità, & sceleragini possibili.
Trattenete le figliuole in un crudo carcere, acciò non cadano in qualch'errore, & il fate per adagiarvi meglio nelle dissolutezze. Le condennate, ancorche innocenti, in prigioni perpetue, per posseder liberamente le loro sostanze, e non v'accorgete, che venite à farvi partecipi de'loro falli.
Non vi fù gia dal Signore concessa [a voi uomini] auttorità cosi grande, ma ve l'arrogate con una potenza usurpata da voi stessi, ò per meglio dire dalla vostra superbia, ch'emula l'arroganza di Lucifero.
Ah! che se bene conosceste, e consideraste la vostra viltà, non
[pagina 302] v'inalzareste à voler dominar tirannicamente, & empiamente le altrui volontà. Sovengavi, miseri, di quel gentil animale, ch'invaghitosi delle sue lucide, e colorite piume, e della loro varietà, e bellezza insuperbitosi, forma un' occhiuta sfera, di cui gonfio, e fastoso, và facendo pomposa mostra de' privilegi concessigli dalla Natura, niente rammentandosi della defformità de'piedi, ma se poi volta il guardo alle parti inferiori, e s'avede, che la loro bruttezza non corrisponde a'i pretesi vanti, doppo un strepitoso grido, mortificato, e vergognoso abbassa il fasto delle penne, e s'accorge, che consistendo la sua superbia nelle piume, è fondata sù una leggierezza. Voi pure, ò vanagloriosi, applicati à quel stato di superiorità soura la donne, il quale vi sete usurpato, mirando voi stessi adorni di molti doni, come della libertà, dominio, [pagina 303] signoria, e manegi di stato, havendone scacciate esse con empia tirannia inlecita à Christiani, gonfii di superbia, vi vantate di posseder soli tutte le gratie, pavoneggiandovi di poter à voglia vostra condennar nel sepolcro le vostre istesse viscere, prima che mojano.
Abassate un poco, ò sciocchi, gli occhi al vostro niente, à quella poca terra, di che sete formati, à quei sozzi piedi delle vostre operationi, tutti infangati nelle tenaci palludi di vitii, e conoscendovi cloache di peccati, non ascondete, à guisa del pavone, le vanità de vostri pensieri, ma ritiratevi frà boschi, entro una spelonca à far penitenza, e non siate più arditi di levar la faccia al cielo, come indegni di mirarlo per tanti eccessi commessi. Ma è vanità il credere, che se immitate un' animale nella pretensione,
[pagina 304] il vogliate immitare anche nella cognition di voi stessi.
Sete peggiori d'ogni fera. Ben con voce di veridico, e canoro cigno l'asserì l'Ariosto.
Tutti gl'altri animai, che sono in terra,
O che vivon quieti, e stanno in pace,
O se vengono à rissa, e si fan guerra,
A'la femina il maschio non la face.
L'orsa con l'orso al bosco sicur' erra,
La leonessa appresso il leon giace,
Col lupo vive la lupa sicura,
Ne la giovenca hà del torel paura
.
Ma l'huomo, più crudele di qual si voglia animale, s'applica di continuo à tiranneggiar empiamente la femina, la quale non sicura, ma timida, e tremante stà, mal certa della vita appresso questi infidi, & iniqui, che si vantano d'atterrirla con una sola bieca guattatura.
[pagina 305] Non cura il pellicano la vita per conservarla à suoi parti, e quando altro non puote, dà loro in alimento il sangue.
Non abbandonano mai le colombe i figliuoli, se non sono in istato di procacciarsi il vito. Gli orsi, le tigri, le vipere, i basilischi, & ogni più cruda, velenosa, & indomita fiera alimenta, e teneramente ama i suoi concetti, non distinguendo da maschio à femina. Solo, solo l'huomo, che d'ogni belua è più spietato, e più crudele d'ogni mostro, signoreggiato, & accecato dall' avaritia, tormenta il corpo, e danna forse l'anima delle sue carni, chiudendole vive nella tomba.
Le giuste esagerationi, e maledittioni contro tanto eccesso, douriano esser profferite da altra lingua, ò segnate sù le carte da altra penna che la mia. Perche, che può fare ò dire una donna innocente, di cuor
[pagina 306] pietoso, posta à fronte della vostra crudeltà, & inesperta del vostro Diabolico vivere, giovane studente per sola sua dilettatione, ma senza haver precedenti fondamenti di lettere.
E' impossibile, che sappia descriver i vostri errori, & empietà colei, ch'è stata sempre lontana dal praticarle.
Qual maraviglia dunque, che ne miei rozi, e semplici detti si scoprano molti mancamenti ? Se la verità, ch'io professo, anzi sò certo di profferire in ogni mio detto, non mi servisse d'ombra per ricovrarmi, io stessa biasimarei il mio ardire, come temerario, per haver preteso d'ingolfarmi à descrivere quelle tiranniche barbarie, che meritarebbero i fulmini d'una lingua di Demostene.
Se non hò concetti scelti, li hò almeno reali, e sinceri, che in altro
[pagina 307] mio Libro, che frà poco si farà vedere alla publica luce del mondo, compariranno con la stessa loro natia semplicità à dimostrarti, che ne' luoghi fabricati dall' interessata tua fraude, regnano tutte le pene d'Inferno, perche ivi non manca un fiume peggior di Cocito, che formano le lagrime dell' infelici dannate [N.d..R.: può qui giovare anche leggere il Richiedei].
Sonovi il sasso di Sisiffo, il tormento di Tantalo, con mill' altri crucii, è martirii, tanto più penosi, quanto che non son favole immaginate, ma verità, pur troppo continuamente pratticate da quelle suenturate donne, à cui tocca il dipendere da gli inganni della tua crudeltà.
IL FINE.
[Tarabotti, Arcangela , La semplicità ingannata, Leida: Gio. Sambix; Elzevir, Daniel and Jean, 1654]





















































Spirito acuto, capace di affrontare culturalmente e con cognizione di causa uomini acculturati la Tarabotti è pur sempre figlia del suo tempo e della sua collocazione ideologica; in questa anche frenetica ma giustificata lotta indubbiamente femminista non valica, come quasi tutti al suo tempo, i limiti dell'ordine sociale sì che le sfuggono altre e ben più gravi situazioni della femminilità violata; si potrebbe qui parlare delle donne diverse, delle maritate contro voglia e via discorrendo per giungere fino a quegli estremi che solo una rara genialità avrebbe potuto cogliere, quella, su tanti fronti, delle donne schiave veri e propri oggetti, non più esseri umani.


Passi Giuseppe poeta ravennate, nacque nel 1569 e morì nel 1620. Fece parte di varie Accademie tra cui l'Accademia degli Informi di Ravenna con il nome Ardito. Nel 1616 divenne monaco camaldolese con il nome di Pietro. Vedi: Indice biografico italiano. A cura di Tommaso Nappo, Paolo Noto. 3. ed. corr. ed ampliata.
La Tarabotti allude qui alla sua opera I donneschi diffetti, Milano : nella stampa del quondam Pacifico Pontio, 1599 - [32], 222 pagina ; 8° di cui esiste una coeva ristampa intitolata I donneschi diffetti nuouamente formati, e posti in luce, da Giuseppe Passi ... Con tre tauole; la prima delle cose contenute nell'opera, la seconda de gli auttori, e la terza delle cose notabili. ... In Venetia : appresso Iacobo Antonio Somascho, 1599 - [32], 296 [i.e. 306] pagina ; 4°.



Raab: una prostituta di Gerico che nascose le due spie di Israele, e così fu liberata dalla distruzione della città sotto Giosuè (1) Gios 2:1-21; 6:17, 22-25; Eb 11:31; Giac 2:25. Si sposò con Salmon, e fu la madre di Boaz, la nuora di Rut, e la trisavola di Davide Mt 1:5.


Che gli uomini ricorrano ad inganni per sedurre le donne non è esclusiva postulazione della Tarabotti; tuttavia Aprosio non si lascia sfuggire come in campo amoroso le donne non siano da meno degli uomini e cita un ESPEDIENTE, congiuntamente elaborato (non senza successo da uomini e donne) per giustificare una gravidanza indesiderata, fuori o prima del matrimonio, e purtroppo anche alcuni casi di incesto: quella che nella descrizione aprosiana pare una burla fantasiosa, infarcita di fraudolenze, era invece ai suoi tempi, e lo sarebbe rimasto a lungo, sin alla contemporaneità tra le frange meno accolturate della popolazione, un boccaccesco esempio per risolvere una sì sgradita complicazione esistenziale>la stessa proposizione dell'espediente di fuga dalla disapprovazione e dalla punizione in fondo non ha sesso cioè non nasce dall'uomo più che dalla donna, anche se nessuno dei due ne resta escluso.


Nel lavoro "on line" Dizionario di eresie, eretici, dissidenti religiosi, confessioni cristiane non cattoliche, nuovi movimenti religiosi di ispirazione cristiana sotto voce leggesi:
"Gioviniano di Roma (scomunicato ca. 390, m. ca. 405) e giovinianisti
Gioviniano fu un monaco della fine del IV secolo, oppositore dell'ascetismo monastico, soprattutto femminile, propugnato da San Girolamo, che attaccò il monaco con il suo libro Adversus Jovinianum.
A riguardo, G. affermava che, agli occhi di Dio, non c'erano diversità tra le varie condizioni del Cristianesimo, per esempio una vergine non aveva maggiori meriti di una moglie e il digiuno non era meglio dell'assunzione di cibo nella giusta maniera.
Bastava che ogni azione, per pur peccaminosa che fosse, si chiudesse rendendo grazie a Dio: il fatto di essere battezzati rendeva immuni dal peccato.
Sembra che un suo discepolo fosse il vescovo ariano di Milano (355-374), Aussenzio, a sua volta maestro di Elvidio, e come quest'ultimo e Bonoso di Sardica, G. aderiva al pensiero degli antidicomarianiti o antimariani, che negavano la verginità di Maria, affermando che la sua purezza fosse andata persa con il parto.
Egli fu condannato nel 390 da un concilio a Roma indetto da papa Siricio (384-399) e da un sinodo a Milano voluto dal vescovo Sant'Ambrogio, successore di Aussenzio.
G. morì ca. nel 405".



Locuz. nom. Campo damasceno : luogo vicino alla città di Damasco in cui, secondo una tradizione, sarebbe stato creato il primo uomo.
[1] ? Simintendi, a. 1333 (tosc.), L. 10, vol. 2, pag. 240.14: Egli è uno campo chiamato Damaseno ottima parte della terra di Cipri; la quale gli antichi vecchi sacrificaro a me, e comandarono che questa dote fosse data a' miei templi| . Traduce Ov., Met., X 644-45: Est ager, indigenae Tamasenum nomine dicunt, / telluris Cypriae pars optima, prob. influenzato dall'espressione qui segnalata, non ancora att. ma evidentemente già in uso.
[2] Niccolò da Poggibonsi, p. 1345 (tosc.), cap. 116, vol. 1, pag. 249.12: Et ivi si è uno campo, che ha tutta la terra rossa, e chiamasi il campo Damasceno ; et ivi Iddio, al principio ch'ebbe fatto lo cielo, e la terra, col sole, in V dì, e lo VI dì, nel detto campo, formò Adamo a sua similitudine...
[3] Boccaccio, Esposizioni, 1373-74, c. IV (i), par. 41, pag. 180.10: Adamo fu, sì come noi leggiamo nel principio quasi del Genesì, il primiero uomo il sesto dì creato da Dio e fu creato del limo della terra in quella parte del mondo, secondo che tengono i santi, che poi chiamata fu il Campo damasceno
[4] Sacchetti, Sposizioni Vangeli, 1378-81, (fior.), Sp. 16, pag. 165.20: Che viene a dire Adamo? Viene a dire 'rosso', però che Adam fu fatto nel campo Damasceno di terra rossa.
[5] Leggenda Aurea, XIV sm. (fior.), cap. 51, Passione G. Cristo, vol. 2, pag. 452.14: Nel luogo comunale fu fatto Adamo, cioè nel campo Damasceno presso a Damasco.
[6] Cronaca volg. isidoriana, XIV ex. (abruzz.), pag. 115.26: Et sì come in questo loco se scrive, Deo formao lo dicto Adam de luto et de terra in uno campo el quale sta mo ad presso alla cità de Damasco ne le parti de Ierusalem, et però mo se chiama lo campo Damasceno .


Tamar è un personaggio biblico, sposa di Er, figlio di Giuda figlio di Giacobbe. Morendole il marito, secondo l'obbligo della legge ebraica del levirato, sposa il fratello del marito, Onan. Secondo la legge del Levirato i figli che ne avrebbe avuto non sarebbero stati considerati suoi ma del fratello Er, dunque Onan non volle averne, e ricorse al metodo anticoncezionale del coitus interruptus. Per questo monito JHWH punì Onan facendolo morire. Seguendo la legge del levirato, Giuda avrebbe dovuto dare a Tamar il suo terzo figlio, Sela, che però era troppo piccolo. Quando questi crebbe, Giuda fece finta di dimenticarsi di Tamar. Non fu così invece, per Tamar. Questa si finse prostituta e accolse nel suo letto Giuda stesso. Da lui partorì Perez e Zerach, e Giuda dovette riconoscere il suo peccato. Gesù di Nazaret è discendente di Perez.


Re Salomone [ Da Wikipedia, l'enciclopedia libera]> Il Re Salomone è stato uno tra i primi e più importanti re d'Israele. Il suo regno è datato approssimativamente dal 970 al 930 a.C. Era figlio del re Davide e Bath-Sheba (Betsabea), che era stata moglie di Uria l'Hittita. Il suo regno viene considerato dagli ebrei come un'età ideale, simile a quella del periodo augusteo a Roma. La sua saggezza, descritta nella Bibbia, è considerata insuperabile[1]. Durante la sua reggenza venne costruito il Tempio, che divenne leggendario per le sue molteplici valenze simboliche.
Il Vecchio Testamento narra che una sera, mentre l'esercito israelita stava assediando una città degli Amorrei, Davide era rimasto a Gerusalemme. Così vide Betsabea che stava facendo un bagno e vedendo la sua bellezza si unì a lei [vedi qui NOTA CRITICA] Ma questa era già sposa a Uriah, uno dei generali dell'esercito di Davide, che in quel momento era in guerra. La donna rimase incinta, e per evitare lo scandalo, Davide fece in modo che Uriah fosse coinvolto in un'azione bellica rischiosa ed infatti questi rimase ucciso in una sortita. Davide potè quindi prenderla in moglie, ma il bambino morì poco dopo. Dopo dolorose vicende, dalle conseguenze del peccato, la coppia ebbe un nuovo figlio, primo di altri tre, che chiamarono Salomone. Ma le conseguenze del peccato non finirono qui, tanto che ci furono la congiura di Absalom e quella di Adonijah, che spodestò per qualche tempo Davide.
Prima della sua incoronazione, nelle scritture non si sa nulla di più. Salomone divenne re per designazione divina (1 Cr 22:9), e la congiura di Adonijah (Adonia), suo fratellastro, accelerò solo i tempi. Il primo atto del nuovo corso fu la messa a morte del fratello e di Joab, generale di Davide, per la congiura, e di Shimei per il tradimento verso il padre[2]. Ci fu anche l'importante destituzione dalla carica di sommo sacerdote Abiathare a favore di Tsadok. Il punto di snodo del regno di Salomone fu la richiesta a Dio di dargli la sapienza, necessaria secondo lui per governare un popolo. Dopo questo fatto la sua potenza e ricchezza divennero leggendarie. Nel 976 a.C. iniziò la costruzione del Tempio (1 Re 6:1) che terminò nel 969 a.C. (1 Re 6:28), impiegando circa sette anni. Questo dato è importante per capire la grandezza di Salomone, poiché Erode impiegò quarantasei anni nell'ampliare il Secondo Tempio (Gv 2:19), non riuscendo, forse, a riportarlo allo stato originario.
Come ogni altro re di quel periodo, prese a circondarsi di mogli, sia per motivi politici, dato che poteva così stringere alleanze con i popoli vicini, sia per dimostrare il proprio potere. Ma così attuò anche una decadenza spirituale all'interno di Israele, dato che ogni nuova moglie adorava dèi diversi, e anche Salomone prese ad adorarli. Il fatto portò alla decisione divina di dividere il regno in due parti, ma solo dopo la morte di Salomone, una a Roboamo, il discendente legittimo, che avrebbe dovuto regnare sulle tribù di Giuda e Beniamino, e una a Geroboamo, che regnò su tutte le altre, creando il regno di Israele
. L'autore dei due Libri dei Re dà un esempio significativo della sapienza di Salomone.
Nel mondo antico doveva essere una cosa abbastanza comune chiedere il giudizio del re, in quanto veniva a mancare la suddivisione moderna dei poteri. Quindi i regnanti erano i giudici supremi, a cui venivano rimandati i casi più difficili. Un esempio è la vicenda, molto più in là nel tempo, di Paolo di Tarso, che chiede di essere mandato dall'imperatore, in quanto cittadino romano. E il caso a cui si trovò di fronte Salomone doveva essere davvero una situazione ingarbugliata. Due prostitute gli vennero poste dinanzi. Costoro gli raccontarono che, avendo partorito l'una a pochi giorni dall'altra, dormivano nella stessa casa. Accadde che, una notte, uno dei due bimbi morì e, secondo l'accusa, una delle donne scambiò suo figlio morto con quello vivo dell'altra. Così, dopo aver sentito varie volte litigare le due, Salomone si fece portare una spada e si avvicinò al bambino, facendo credere che lo avrebbe tagliato a metà per darne una parte a ciascuna. In questo modo Salomone capì subito quale fosse la vera madre, non quella che approvava questo giudizio, ma quella che per amore del figlio implorò che fosse dato all'avversaria per non ucciderlo. In questo modo Salomone capì chi era la madre: quella disposta a rinunciare al figlio per farlo vivere.
Le notizie su Salomone si diffusero in Oriente, tanto che molti "potenti" di allora vollero metterlo alla prova, così gli facevano visita e gli portavano doni. Per inciso, tuttora i capi di Stato si fanno visita tra loro, non certo per proporre enigmi, ma per stringere relazioni, e facendo questo non mancano di sicuro cerimoniali e scambio di doni. Ci viene proposto nella Bibbia l'incontro con la regina di Sheba. Questa era probabilmente un regno situato nell'attuale Yemen, comunque sembra che non ci sia una connessione certa con l'Etiopia. A Salomone vengono attribuiti due salmi, la maggior parte del libro dei Proverbi e due libri del canone. Visto che non c'è accordo tra gli studiosi liberali e quelli di orientamento conservatore, in linea di massima si può dire che i primi negano la paternità al re d'Israele di queste opere, mentre i secondi gliele attribuiscono.
Queste sono: L'Ecclesiaste o Qoelet
Il Cantico dei Cantici
I Proverbi
= Pr 1-22:16; Pr 25-29 , probabilmente raccolti al tempo del re Ezechia
I salmi 72 e 127
Inoltre viene indicata nel prologo del libro deuterocanonico Sapienza la paternità a Salomone, ma in questo caso sia gli studiosi liberali che quelli conservatori sono d'accordo nel negarlo.



N.d.R.: in effetti il vecchio Aprosio, nonostante la sua pregressa fama di antifemminista e maschilista non mancherà alla fine di segnalare, alla stregua della Tarabotti seppur non con la stessa sua veemenza, questi difetti degli uomini sia come amministratori della cosa pubblica sia quali padri-padroni all'interno della famiglia.


N.d.R.: il violarle usato dalla Tarabotti allude prioritariamente al tema delle monacazioni forzate ma sottintende un discorso, che di fatto poi si snoda nell'opera, su tante sopraffazioni maschili a danno delle donne sia sessuali che comportamentali che ancora intellettuali; nel caso di Angelico Aprosio, prescindendo dalla sua futura disputa con Arcangela e dal suo reale ma enfatizzato e soprattutto giovanile antifemminismo, bisogna ricordare che nella "libertina" Venezia il frate ebbe una fama poco opportuna, e non si può dire quanto meritata, per un religioso, quella cioè di risultare sensibile al fascino femminile e forse d'essersi anche innamorato cosa contro cui, per evidenti e comprensibilissime ragioni, provvide a scrivere e pubblicare alcune pagine che paiono soprattutto un'accorata e prudenziale autodifesa; ed a rigor di logica nel clima corrente di riforma del confessionale e della severissima persecuzione degli ecclesiastici resisi rei di sollicitatio ad turpia era quanto meno opportuna tenendo pur conto che il reggente Campiglia, da sempre in relazione con il potente Nunzio Apostolico Francesco Vitelli, lo aveva pubblicamente apostrofato del titolo di poeta nel senso di spirito irrequieto, non ancora ben inquadrato nella vita ecclesiastica.


N.d.R.: come fra tanti anche scrive anche il domenicano di Brescia Paolo Richiedei : in merito al tema delle monacazioni forzate si legga comunque quanta divergenza di idee esistesse fra gli interpreti; al proposito del controverso Tractatus Monalium... di F. Pellizzari si consulti il Quesito XI (p. 170, n. 189) della Sezione III del Capitolo V ed ancor più leggasi il Quesito 33 del cap dibattutao II, sezione I della stessa opera: è comunque da dire che nel contesto di XVI-XVII secolo lo stesso matrimonio risulta ancora codificato secondo ferree leggi di famiglia e quasi sempre orchestrato, specie per le donne delle classi medio-alte nel genovesato -qui preso come esempio emblematico- al pari che negli altri Stati italiani, dall'opera di autentici padri-padroni che a favore del maschio primogenito non si esimevano dal penalizzare oltre le femmine anche i figli maschi cadetti: sull'argomento può altresì esser utile -data la trattazione in italiano- la lettura di questo altro testo di Paolo Richiedei benefattore e corrispondente dell'Aprosio: Aprosio, occorre sempre rammentarlo, in quanto a lungo Vicario per la Diocesi intemelia dell' Inquisizione o Sant'Ufficio, tra altre cose, non poteva esimersi dall'affrontare questi problemi e curò sempre contatti ed approfondimenti in materia: non casualmente fu in contatto epistolare e culturale addirittura con Kaspar Schoppe l'erudito tedesco che, tra gli ultimi, ascoltò le parole finali di Giordano Bruno e ne assistette alla morte sul rogo (per onestà intellettuale e rigore scientifico bisogna qui rammentare che, pur tenendo conto degli elogi per il suo saggio procedere dei Grandi Inquisitori di Genova, non risulta aver mai ceduto ad eccessi inquisitoriali nel contesto di quell'organismo giudicante del Santo Ufficio su cui oggi si confrontano due sostanziali correnti di pensiero al segno che, attualmente, si può parlare di una aspramente combattuta battaglia culturale in merito ad una più o meno supposta leggenda nera dell'Inquisizione)].


N.d.R.: la differenza tra la visione realistica della Tarabotti, che sostanzialmente affronta il problema globale della condizione femminile, ed il quadro edenico della vita claustrale, intesa però quale meditata e libera scelta esistenziale, si può cogliere nell'opera d'un amico e corrispondente d'Aprosio vale a dire il Conte Bernardo Morando che nel suo contriformistico romanzo La Rosalinda celebra quale momento sempre e reiteratamente sublime, contro realtà antitetiche che, col caso della "Monaca di Monza" pur strutturato su un evento storico, diventeranno iperfenomeno letterario l'evento della monacazione in clausura (Passaggio dal Secolo alla Religione) della protagonista il cui nome dà titolo al romanzo (capitolo X): parecchio tempo dopo queste postulazioni del Morando l'intemelio Angelico Aprosio non vedrà più così ottimisticamente il mondo gestito dagli uomini e giungerà a formulare delle considerazioni in cui la raggiunta consapevolezza delle responsabilità maschili, sia nella vita pubblica che nel privato, sotto forma di violenza (psicologica ma anche fisica) avverso i figli, risulterà esser saldamente entrata nel suo bagaglio culturale e ideologico].


N.d.R.: la Tarabotti già nella Prefazione dell'opera postula il valore della donna in generale e quindi non si soffermerà solo sulla donna colta o sulla donna comune ma sorprendentemente estenderà il suo giudizio anche sulla donna guerriera cioè capace di dominare l'uomo: Aprosio in teoria avrebbe potuto restare spiazzato da tale assunto ma in effetti sempre entro certi limiti atteso che era un paladino dell'Adone del Marino e che secondo il mito di Adone proprio una donna, per quanto dea cioè Venere, svolgeva un ruolo egemonico seppur in campo amoroso rispetto ad un uomo passivo vale a dire Adone, personaggio su cui peraltro il frate raccoglieva tutto il possibile comprese opere di fatto altrove irreperibili come l'Adone Idillio di Ettore Martinengo].


N.d.R.: qui la Tarabotti pare riprendere un suo personale problema fisico: una constatazione che tardivamente e senza menzionare il suo caso specifico fece anche l'Aprosio: nello Scudo di Rinaldo I egli dedicò (ma è da dire che era anche artificio non raro nella epocale letteratura della bellezza bizzarra) il capitolo 42 alla "celebrazione" delle donne Gobbe.


N.d.R.: a proposito di Semiramide si può menzionare una sorprendente ma giustificata convergenza Tarabotti - Aprosio: e del resto esistono chiare prove che Aprosio avesse tenuto presso di sè, per volontà della Tarabotti, la di lei Tirannia Paterna poi Semplicità Ingannata traendone anche qualche spunto ed informazione.
Cleopatra affascinò sia Aprosio che il discepolo Gandolfo per l'abilità politica e per certe voci su una presunta sua propensione per le novità scientifiche, poi applicabili anche alla guerra navale, come quella dell'uso di nuotatori subacquei, quelli che all'epoca d'Aprosio eran detti marangoni (marangon) e che il Gandolfo ebbe poi ben a conoscere in Genzano ai "Castelli Romani" impegnati vanamente nella ricerca di quei supposti reperti archeologici nel Lago di Nemi che alla lunga si sarebbero, molto tempo dopo, rivelati, le due grandi navi da divertimento dell'imperatore Caligola.


N.d.R.: la clausura comportava una quasi totale segregazione dal mondo con cui si potevano avere contatti limitatissimi previo, come scrive il Pellizzari, specifiche licenze e il ricorso alla Ruota; è quasi superfluo rammentare la vicenda della Monaca di Monza anche per la trasposizione letteraria che ne fece Alessandro Manzoni costituisca in Italia il più clamoroso evento connesso alle tragiche vicissitudini di una monacata per forza e dei procedimenti di legge avverso i suoi reati amorosi e criminali: giova altresì ricordare che le Leggi criminali di Genova, sppur nel contesto di un rapporto spesso non facile tra legge dello stato e leggi ecclesiastiche comportano, come tutti gli Stati Italiani di cui possono costituire un'esemplificazione, una serie di norme avverso perpretatori di sacrilegi e in dettaglio stupratori di suore ed ancora rapitori di suore.


N.d.R.: sarebbe stato interessante poter leggere dissertazioni della Tarabotti sul mondo romano, sulla sua più sofisticata scolarizzazione, sulla fioritura di grandi biblioteche, sulla superiore acculturazione della donna e sulla sua partecipazione ad una vita sociale in cui l'apparato iconografico corredato da scritture anche pubblicitarie era inferiore solo a quello dell'epoca "moderna": e certamente la suora avrebbe tratto ulteriori motivi di contestazioni avverso gli uomini se avesse conosciuto la partecipazione anche attiva della donna ai sistemi organizzativi dei Collegia, alla vita del teatro e dell'anfiteatro, con la contestuale frequentazione anche promiscua dei complessi termali e la partecipazione alla stessa pratica del gioco d'azzardo, cose tutte impensabili nel XVII secolo: ma ai suoi tempi la conoscenza "spicciola" della classicità era ancora allo stato embrionale!


La Tarabotti elenca un numero abbastanza limitato di scrittrici, probabilmente rifuggendo dall'accumulazione per non intorpidire la sua prosa; certamente dalle sue citazioni restano fuori letterate che sarebbero ben comparse nell'elenco come donne colte quelle che variamente ebbe modo di citare l'Aprosio e che si affermarono od erano note ai tempi in cui la suora veneziana era viva e culturalmente attiva.
Non si astiene certo dal menzionare MODERATA FONTE la cui opera principale fu una difesa delle donne a fronte degli uomini e delle loro prepotenze: certo le sarebbe giunto estremamente gradito citare Elena Lucrezia Cornaro Piscopia la prima donna a laurearsi in Italia e nel mondo, ma Piscopia, pur in gran parte vissuta nel XVII secolo, nacque troppo tardi, quando ormai al crepuscolo era l'esistenza di Arcangela.
Può invece in qualche modo segnalarsi il fatto che la suora veneziana non abbia ricordata l'alessandrina ISABELLA SORI un'opera della quale (al momento se ne conosce un solo esemplare custodito all'intemelia Biblioteca Aprosiana, scrisse un'opera non particolarmente pungente a difesa delle donne ma nelle quali si sofferma a sottolineare la costanza palesata in tante occasioni dalle donne, nonostante certe contrastanti e maschiliste opinioni.


N.d.R.: Nella Controversa età intermedia al pari di altri individui non socialmente egemoni e/o dominanti la DONNA era istituzionalmente relegata
ad un marcato RUOLO DI SUBORDINAZIONE NEL CONTESTO DEL SISTEMA SOCIALE INIZIANDO PROPRIO DALLA FAMIGLIA PATRIARCALE E MASCHILISTA e per estrema ratio anche di fronte a casi di VIOLENZA FISICA PATITA la sua credibilità quale TESTIMONE veniva sottoposta a un' incredibile sequenza di VERIFICHE ATTE A VALUTARNE L'ATTENDIBILITA'.
Nella sua coraggiosa polemica contro due particolari supposte equazioni costruite intorno alle donne e cioè le equazioni DONNA E SUPERSTIZIONE (WOMAN AND SUPERSTITION) - DONNA E SUBORDINAZIONE (WOMAN AND SUBORDINATION) [a loro volta amplificazioni e variabili di due colpevolizzanti e generaliste equazioni di base, tra loro interagenti = DONNE E LORO SENSUALITA' finalizzata ad una SMODATA RICERCA TRAMITE QUALSIASI ESPEDIENTE, ANCHE MAGICO, DEL LUSSO E DEL PIACERE] al di fuori delle interpretazioni di canonisti ed esegeti in merito al Peccato Originale ed alla supposta maggior colpa di Eva rispetto ad Adamo (col rischio comunque evidente di metterne in discussione i contenuti proprio in forza delle sue riflessioni e prove) l'essenza di molte riflessioni nella Semplictà Ingannata di SUOR ARCANGELA TARABOTTI sulla PRESUNTA INFERIORITA' FEMMINILE DI RIMPETTO ALL'UOMO a causa di una supposta debolezza ed indecisione caratteriale delle donne è caratterizzata da un processo di rovesciamento sì da attribuire all'arbitrio maschilista la scelta di demotivare l'autonomia donnesca sotto una responsabilità di incostanza-incoerenza che la suora si sforza, non senza efficacia, di ribaltare a danno degli uomini.
Le postulazioni della veneziana scorrono però sulla linea, forse da lei nemmeno percepita, di problemi psicosomatici, spesso però destinati a pericolose enfatizzazioni nella direzione di forme di possessione diabolica od in manifestazioni di magia nera: tutti argomenti scottanti che all'epoca possono attirare le mai gradite curiosità degli Inquisitori del Santo Ufficio.
Molto più semplicemente ma con un rigore che ne onora l'intelligenza la Tarabotti è semmai attenta ad una lettura meno contorta e complessa del problematico rapporto uomo-donna: entro una sorta di sillogismo ella non nega che le donne siano più fragili degli uomini sotto il profilo intellettuale, idiote le definisce con crudezza, ma non per indole o particolarità intellettuali ma (adducendo qualche altrui conforto intellettuale) per volontà degli uomini che tenendole in stato di incultura ed ignoranza così più facilmente ne possono controllare vita e scelte senza correre il rischio d'esser da quelle sopravanzati una volta che siano state poste in grado di arricchirsi culturalmente [cosa peraltro vera fuor di qualsiasi possibile contestazione come dettano documenti inoppugnabili sulla istituzionale limitata formazione culturale delle donne e su una istruzione mediamente elementare e pratica a fronte di quella riservata agli uomini almeno sino al tardo XVIII secolo].
Questa scelta difensiva-offensiva obbliga la Tarabotti a misurarsi con il bagaglio erudito più esteso neppure trascurando postulazioni connesse a temi vari di natura psicosomatica, argomento pressoché non percepito od ancora embrionalmente sentito all'epoca, che si estendono dalla lunaticità ed imprevedibilità sin ai difetti caratteriali e le vere e proprie malattie mentali: ed ha ragione perchè molte donne e molte suore sono emotivamente squassate od illanguidite al suo tempo dalla malinconia - mania, su cui poco o nulla al suo tempo si sa oltre le postulazioni ippocratiche, ma che oggi ben è noto che sono sinonimi della depressione, una patologia nella maggior parte dei casi a lei noti dipendenti dalla costrizione maschile e dalla susseguente mancanza di libero arbitrio sino al segno di diventare oggetti passivi nel letame dell'ignoranza o di reagire drammaticamente come nel caso letterario, ma storicamente comprovato, della Monaca di Monza.
Della salute e della cura dei corpi parla spesso nelle sue opere anche l'Aprosio: dell' Ospedale de' Pazzi (letteriamente creato dal Garzoni), oltre che in questo suo testo Arcangela Tarabotti, ne parla ancora l'Aprosio a pagina 18 della sua Grillaia: un Aprosio che giungendo, magari tardivamente ma comunque giungendovi!, a definire per le monacate a forza la vita claustrale un vero e proprio inferno esistenziale dimostra di aver aperto, più di altri, gli occhi sul problema della donna nel suo tempo.
Fuor di letteratura ed a titolo esclusivamente documentario per Genova, punto di riferimento di questa indagine, si può parlare qui del variegato complesso socio assistenziale e specificatamente del sistema ospedaliero: tenendo però conto dell'arduo e periglioso sistema viario della Liguria ogni comunità di un certo rilievo era fornita di un proprio ospedale: fu questo anche il caso di Ventimiglia e suo "capitanato" e proprio tra i promotori e fautori della Biblioteca Aprosiana nel suo repertorio biblioteconomico Angelico Aprosio celebra tal Iacopo Gini, Missere, o sia Governatore dello Spedale di Ventimiglia non un direttore sanitario ma un amministratore della struttura, cui, accedevano comunque, i medici di servizio pubblico.
L'arretratezza di simili strutture assistenziali non ne impediva comunque la valenza e l'utilità: a riguardo della medicina per le donne qualche risultato si andava già ottenendo dal secolo precedente anche se, ai giorni nostri, tutto pare esclusivamente sospeso su interventi demolitori e/o cruenti dalla cura del cancro agli interventi di ginecologia ed ostetricia di grande rilievo anche giuridico in merito al delicatissimo momento del PARTO [tuttavia l'IGIENE COME PRIMA FORMA DI PROFILASSI risultava ancora posta in secondo piano = in merito alle MONACHE si leggano (da La Regola Agostiniana per le Monache di Paolo Richiedei e volendo approfondire le singole voci si consulti qui il testo integralmente digitalizzato con indici oderni) le sezioni specificatamente riguardanti il BAGNO e la CURA DELLE MONACHE) ed ancora si consultino qui le STRUTTURE DI RICOVERO E ASSISTENZA PER LE DONNE miranti principalmente non alla formazione culturale e/o professionale ma al recupero morale per via della preghiera e di esempi edificanti di quelle donne perdute, immorali, abbandonate, disperate allo sbando nella società del tempo].
Eppure rispetto al passato nel '600 la sanità aveva fatto molti progressi e sulla scorta della Scienza Nuova ulteriori ne avrebbe compiuti: gli ospedali poi non erano più semplici ricettacoli e/o dormitori per disperati ma costituivano pur sempre per l'epoca case di cura: erano utili in particolare nel caso di moria di Peste ed al proposito si possono rammentare anche i Lazzaretti antemurali contro la diffusione estrema di una pandemia: poche città comunque potevano vantare un sistema assistenziale imponente al pari di Roma e di questo ci dà menzione in una sua opera Bartolomeo Piazza proponendone un elenco ragionato e documentario degli ospedali romani davvero interessante e comunque utile per farsi un'idea delle strutture assistenziali dell'epoca vissuta da Aprosio.
Tutte le informazioni giungono rilevanti ma tra queste vale la pena di ricordare un ospedale per i pazzi, due ospedali in cui espressamente si citano le donne come pazienti (uno in effetti a finalità veramente curative ed un secondo più equirabile ad un ricovero) e l'elenco degli ospedali nazionali, cioè dei nosocomi eretti nella città centro della Cristianità dai vari Stati per la cura dei loro sudditi: tra questi non mancava un OSPEDALE DE' GENOVESI al cui riguardo Bartolomeo Piazza, in altra parte del suo volume (Trattato VIII, capo VIII) cita poi la CONFRATERNITA GENOVESE che ne aveva cura insieme ad altri organismi di pertinenza della "nazione genovese".
La monumentale opera redatta da Bartolomeo Piazza giunge oggi utile anche perchè, trattando di tutti i dettagli di Roma nel XVII secolo affronta anche un problema connesso alla questione femminile vale a dire che propone l' elenco ragionato e documentato di tutte le associazioni che all'epoca si prendevano cura delle donne in varia difficoltà esistenziale ed economica, un repertorio che giunge ancora oggi utile consultare per approfondire in via documentaria sia il sistema assistenziale a favore delle donne sia la sua peculiarità ideologica che esemplarmente si rispecciano in altri consimili organismi sparsi fra i tanti Stati in cui era suddivisa l'Italia.

























































Nonostante il sostegno di una letteratura femminista che faticosamente si andava affermando (occorre però dire che anche la scienza medica sempre più stava affrontando il tema della MEDICINA PER LE DONNE) con le postulazioni ora di queste ora di quelle letterate in questa sua opera la suora veneziana Arcangela Tarabotti si trovò ad affrontare, cosa che magari ora sfugge, un enorme problema filosofico e teologico sostenuto da tante grandissime autorità sia pagane che cristiane da rendere la sua impresa un vero e proprio teorema di coraggio intellettuale.
Come si legge qui sotto, negli stralci ripresi da due studiose quali Giovanna Visini e Gisela Bock, la complessità delle speculazioni della Tarabotti dipende soprattutto dallo straordinario urto con una visione intellettuale maschilista che è stata in grado di far convergere l'opinione di Aristotele, il filosofo pagano per eccellenza e per varie postulazioni condivisibile secondo la cattedrale ideologica della cristianità, sull'INFERIORITA' DELLA DONNA RISPETTO ALL'UOMO con le acquisizioni (RUOLO DELLA DONNA QUALE MADRE: SUE RESPONSABILITA' NEL PARTO, MOMENTO BASILARE PER LA CONTINUAZIONE DELL'UMANITA' IN GENERALE E DEL PROPRIO CASATO IN PARTICOLARE) delle varie correnti della filosofia cristiana tenendo conto del fatto che, a monte di ogni riflessione a favore della donna, si poteva sempre ergere lo spettro di EVA la donna giudicata rea secondo le Sacre Scritture d'aver violato il comandamento di Dio prescindendo dalla volontà del proprio compagno e semmai "perdendolo assieme a tutto il genere umano" in virtù di una persuasione dipendente dall'ostentazione
della BELLEZZA e dell'ELEGANZA
elementi di
******SENSUALE PERDIZIONE******
che i moralisti attribuirono istituzionalmente al
FASCINO FEMMINEO
al punto di coinvolgere emozionalmente anche quell'esemplare biblica postulazione di rettitudine e saggezza che fu
SALOMONE
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"...Aristotele (IV sec. A.C.) ....utilizza la metafisica e la storia naturale per dimostrare che il maschio ha il ruolo predominante nella procreazione perché apporta la forma, l’impronta del divino, mentre la donna non mette a disposizione che la materia, indeterminata e passiva. E’ lui il principio generatore e motore, l’artefice attivo. L’uomo trasmette l’anima, il principio divino che fa dell’essere vivente un umano. Aristotele afferma nella Metafisica che E’ l’uomo quello che genera l’uomo e aggiunge anche la donna è generata dall’uomo. E’ lo sperma che causa la germinazione, la donna non genera da sé essa non possiede la stessa anima del maschio, cioè l’anima cognitiva.
Aristotele sa bene, però, che la donna è comunque necessaria alla procreazione come ricettacolo del seme maschile e quindi non se ne può fare a meno. Tuttavia pur dovendo accettare questo fatto increscioso, riesce a salvare la superiorità maschile affermando che la donna è un maschio menomato, il risultato di una debolezza maschile, come se lo sperma non fosse abbastanza forte da formare i mestrui, che sono la materia messa a disposizione dalla donna. Alberto Magno e Tommaso d’Aquino continueranno a pensarla in questi termini. Nella Summa contra gentiles, San Tommaso sostiene che l’uomo ha una ragione più perfetta e una virtù più solida. Da Aristotele, passando per la cultura giudaico-cristiana (anche se il messaggio di Gesù era assolutamente rivoluzionario per quanto riguardava la condizione delle donne), fino ai Padri della Chiesa, alla scolastica Medievale, e all’Illuminismo, la donna viene sempre esclusa dal mondo luminoso della coscienza e relegata al mondo degli impulsi oscuri e pre-razionali della natura e dell’incoscio..." [Dott.ssa Giovanna Visini, A.R.A.T.- Associazione Rebirthing Transpersonale -saggio on line Coscienza e Spiritualità...e le donne?]
Gisela Bock, Le donne nella storia europea - Dal Medioevo ai nostri giorni, Laterza, Roma-Bari, 2003 [2001] emblamaticamente poi scrive nel suo lavoro: "...Nel tardo Medioevo e anche - in Italia - nel primo Rinascimento, fu rilanciata la questione della natura umana. Nel suo scritto pionieristico De dignitate hominis (1486) Giovanni Pico della Mirandola parlava degli uomini: Dio aveva rivolto solo ad Adamo le parole in base alle quali l'uomo è libero di seguire la propria natura e di scegliere la propria vita. La tesi della dignità umana era rivolta contro la più vecchia dottrina della DE MISERIA HUMANAE CONDITIONIS, formulata da papa Innocenzo III: La miseria riguardava soprattutto le donne. I Padri della Chiesa avevano attribuito ad Eva la colpa del peccato originale e identificato con le donne la sessualità e il peccato.
Per Tertulliano la donna era la porta di ingresso del diavolo... e per Agostino la sessualità, anche coniugale, era un peccato.
Secondo Girolamo, era possibile evitare il peccato solo vivendo in assoluta castità, poiché l'amore dell'uomo per la donna, personificazione del male e della tentazione, non poteva essere compatibile con l'amore di Dio e quindi costituiva una minaccia per la salvezza dell'anima dell'uomo.
Gli uomini che desideravano la salvezza dovevano guardarsi dalle donne, le donne da se stesse.
Tertulliano e Crisostomo si chiesero cos'è la donna? e risposero a questa domanda con un lungo elenco di difetti: nemica dell'amicizia, male necessario, tentazione naturale, minaccia della casa, danno dilettevole, natura del male. Una rigida polarizzazione fra i sessi era assolutamente consueta; nella sintesi fra Aristotele e la Bibbia operata dalla scolastica questa polarità (attivo-passivo, forma-materia, spirito-carne, bene-male, valore-indegnità ecc.) venne leggermente attenuata, ma in sostanza la donna, che Aristotele considerava un errore della natura, rimase anche per Tommaso d'Aquino un uomo malriuscito o incompleto (mas occasionatus). A dire il vero sia Tommaso che Aristotele sottolinearono l'importanza del ruolo domestico della donna (il primo insistette anche sul fatto che entrambi i sessi fossero stati creati a immagine e somiglianza di Dio e pertanto fossero entrambi suscettibili di salvezza), ma solamente a condizione che fosse l'uomo a detenere il potere. Dalla considerazione che la donna fosse indispensabile [in primis per la continuazione della specie umana] non derivava necessariamente la sua parità di rango. Il mas occasionatus era destinato a rimanere a lungo nella sua condizione, per quanto discussa essa fosse.






































Trattando di SUOR ARCANGELA TARABOTTI scrittrice veneziana così svisceratamente impegnata contro le tragiche equazioni DONNA E SUPERSTIZIONE (WOMAN AND SUPERSTITION) e DONNA E SUBORDINAZIONE (WOMAN AND SUBORDINATION) e per conseguenza logica apertamente ed estesamente non senza pericolo a difesa sia della DIGNITA' FEMMINILE CONTRO OGNI ABUSO DI FAMIGLIA, DAI MATRIMONI COATTI ALLE MONACAZIONI FORZATE, IN NOME DEL DIRITTO ALL'AMORE, DELLE LIBERE SCELTE DI VITA, DELL' EQUIPARAZIONE GIURIDICA, DELLA MATERNITA' VOLUTA (compreso a pro della propria competitività intellettuale e possibilità di pubblicazione un paritetico DIRITTO ALLA GIUSTA ISTRUZIONE, SENZA CENSURE DI SORTA NELLA LIBERTA' DI LETTURE) è opportuna una premessa in qualche modo metodologica. Noi talora erriamo vagliando la storia con eccessiva fiducia nel presentismo: giudicare il passato coi parametri del nostro presente può indurre alla retorica se non a qualunquismo e soprattutto a gravi errori critici: quanto oggi è oggetto di discussioni (per esempio la giovanile libertà sessuale) nel passato poteva esser oggetto di repressioni sanguinose e, mutatis mutandis, quanto per noi è gravissimo ancora in un particolare passato poteva costituire una colpa minore.
Così, prima di ogni altra postulazione, giova precisare che la
POSIZIONE DELLA TARABOTTI A FAVORE DI UN'EMANCIPAZIONE della
DONNA [che nel
COMPLESSO SISTEMA DELL'ETA' INTERMEDIA risultava relegata nel campo delle possibili DIVERSITA' E/O VARIABILI ESISTENZIALI
e che specificatamente per l'allora
DUPLICE DIRITTO
o più precisamente per il
"DIRITTO DELL'UNO E DELL'ALTRO FORO" - CIOE' PER I TRIBUNALI SIA LAICI CHE ECCLESIASTICI]
TALE EMANCIPAZIONE COSTITUIVA
una ABNORMITA' CONCETTUALE IN QUANTO SCARDINAVA UNO STATO DI COSE RITENUTO IMMUTABILE E CHE PARTENDO DAL PENSIERO DI ARISTOTELE SI ERA FORTIFICATO SU CONSIDERAZIONI LAICHE E NON e rischiava di vanificare la millenaria accettazione di un RUOLO SUBORDINATO DELLA DONNA NEL CONTESTO DEL MICROSISTEMA DELLA FAMIGLIA E QUINDI DEL MACROSISTEMA DELLO STATO, sì che l' alterazione di questo RUOLO (alla DONNA per esempio non era neppure riconosciuta piena attendibilità quale TESTIMONE IN CAUSE CIVILE E/O PENALI) avrebbe rappresentato un probabilmente INSUPERABILE AFFRONTO ALLA COMPATTEZZA SECOLARE DELLO STATO.
Per chiudere queste riflessioni in modo emblematico è opportuno menzionare
DUE CONDIZIONI ESISTENZIALI CHE CONTRIBUISCONO AD INTENDERE COME ALLA RADICE DELLA PERSECUZIONE DEI COSI' DETTI "ADULTERATORI DEL SISTEMA SOCIALE" NON STAVANO LE SOLE "DONNE RIBELLI".
La prima è quella secondo il DIRITTO INTERMEDIO del
***************BESTEMMIATORE***************
che, proprio perché OFFENDENDO GRAVEMENTE LE ISTITUZIONI (STATO E CHIESA) LE POTEVA MINARE ALLA BASE INNESCANDO RIVOLTE DESTABILIZZANTI, era ritenuto passabile di PENE ESTREMAMENTE GRAVI, assai più di molti altri REI E/O CRIMINALI come quegli OMICIDI ed ASSASSINI che TOGLIEVANO LA VITA AD UN PROPRIO SIMILE ma contestualmente non ERANO IN GENERE SOSPETTABILI DI INTENDERE CON CIO' VIOLARE LA SACRALITA' E L'INDISSOLUBILITA' DELLE ISTITUZIONI.
Sullo stesso piano, con la COMMINAZIONE DELLE PENE PIU' GRAVI E SPESSO DELLA PENA CAPITALE, stavano
***************SODOMITI ED OMOSESSUALI***************.
E l'OMOFOBIA cioè l'avversione estrema istituzionale per OMOSESSUALITA' - ERMAFRODITISMO - TRANSESSUALITA' era motivata dal fatto che tali comportamenti esistenziali costituivano nell'idea epocale un ATTENTATO ALLA COMPATTEZZA, RIGIDITA E IMMUTABILITA' DELL'ELEMENTO PORTANTE DI TUTTE LE ISTITUZIONI cioè dell'intangibile
FAMIGLIA PATRIARCALE
Dell' intellettuale e scrittrice veneziana ELENA CASSANDRA TARABOTTI poi SUOR ARCANGELA TARABOTTI già il titolo di una sua opera, qui digitalizzata e analizzata sotto il profilo critico, è emblematico delle enormi difficoltà che la donna si trovò ad affrontare: SEMPLICITA' INGANNATA (ed infatti non casualmente questo titolo definitivo abbastanza fraintendibile aveva alla fine -con altri interventi riduttivi- resa possibile la stampa dell'opera, indubbiamente pungente ed acuta, il cui titolo originario o TIRANNIA PATERNA già molto più apertamente esplicativo dei contenuti poteva innescare pericolose riflessioni se non plausibili attacchi alla
FAMIGLIA GOVERNATA DA UN PADRE CUI L'ATTRIBUZIONE DI TIRANNO AVREBBE SOTTRATTO VALENZA MORALE E PUBBLICA, CON DECREMENTO DEL SACRALE ISTITUTO DELLA FAMIGLIA STESSA E PER ESTENSIONE DELLO STATO, DI CUI ERA STRUTTURA PORTANTE.
Un ULTERIORE E PROFONDO CONTRIBUTO ALL'INTERPRETAZIONE DELLA RIVOLUZIONE IDEOLOGICA E DESTABILIZZANTE DELLA TARABOTTI è stato quindi proposto di recente atteso che son state edite (2005) le interessanti LETTERE FAMILIARI E DI COMPLIMENTO ad opera di due studiose statunitensi Lynn Lara Westwater e Meredith Kennedy Ray per i tipi di Rosenberg & Sellier, Torino, 2005.
Le lettere familiari e di complimento vennero pubblicate a Venezia da Guerigli nel 1650 e come scrive l'autrice della prefazione della moderna edizione italiana Gabriella Zarri tale raccolta "apre uno spiraglio affascinante sia sui rapporti della suora con letterati, politici e diplomatici dell'epoca, sia sul modo in cui ella volle costruire la propria immagine pubblica e rispondere ai suoi detrattori".
L'opera è dedicata All'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Giovan Francesco Loredano cui nella lettera 172, a pag. 227, Arcangela definisce la sua vita in monastero come un inferno de’ viventi.
La Zarri recuperando le postulazioni delle due studiose americane precisa: "l’idea generalizzata che il monastero fosse considerato un carcere dalle monache è [...] una costruzione letteraria e storiografica. E’ vero piuttosto che alla finalità religiosa dei monasteri si erano ben presto sovrapposte ragioni economiche, culturali e sociali che ne avevano trasformato l’istituto e la funzione nella società, così che nel periodo basso medievale e moderno le istituzioni monastiche formavano un nesso inscindibile con le famiglie e il potere feudale o cittadino. Erano insomma un’estensione della famiglia patriarcale, un contenitore per l’eccedenza demografica, ma anche un solido centro di potere e di possibilità di auto-realizzazione per le donne".
Arcangela Tarabotti, sempre secondo Gabriella Zarri sarebbe quindi un testimone eccellente di questa situazione: "tra le prime a dare consistenza letteraria all’immagine del monastero come carcere [considerazione ripresa da Diderot per La Religiosa e dal Manzoni per la Monaca di Monza]a Tarabotti mostra proprio attraverso le Lettere quanto il carcere fosse in gran parte metaforico.
Attualmente si stanno rivedendo molti luoghi dell'anticlericalismo tracciato sulla direttrice dell'illuminismo ed alimentato da certe correnti dell'ottocentesco romanticismo: per esempio è sostanzialmente da verificare sotto il profilo storico e critico la vicenda di Pietro Arbues, il maestro d'Epila, poi beatificato nonostante una sinistra fama, anche letteraria, di grande inquisitore del regno di Granada.
Questo è solo un caso connesso all'Inquisizione Cattolica e, soprattutto, in merito all'Inquisizione Romana è inevitabile dire che è stata demonizzata, a torto od a ragione questo è un altro discorso, senza valutare seriamente le azioni perpetrate dalla non meno severa Inquisizione dei riformati e/o protestanti. Così, gradualmente, su basi che risultano però in gran parte da verificare, si sono sostanzialmente evolute due correnti di pensiero che si contrappongono nella così detta questione della Leggenda nera dell'Inquisizione.
Lo stesso in fondo si propone in merito al teorema delle monacazioni forzate; ciò che dice la Zarri è inoppugnabile: per quanto verisimilmente non fossero queste le intenzioni contenute nei deliberati sulla clausura delle monache della Sessione XXV (3-4 dicembre 1563) del Concilio di Trento, precisamente al Capitolo V, le monacazioni ed anche le monacazioni forzate erano con il tempo divenute un sistema di CONTROLLO SOCIALE: l'obbiettività critica impone però di rammentare che la Chiesa Romana, formalmente non valutava questa menzionata forma di CONTROLLO SOCIALE e che, oltre a vigilare e pubblicare TESTI SPECIFICI onde tutelare le fanciulle da COSTRIZIONI AD OPERA DELLE FAMIGLIE (di cui si era consapevoli e su cui si concedeva però qualche ECCEZIONE sulla quale oggettivamente nell'epoca attuale E' LECITO DISCUTERE O MENO), contestualmente mirava, ma in campo maschile, a salvaguardare i RELIGIOSI preoccupandosi della SELEZIONE DI GIOVANI VERAMENTE CONVINTI E PREDISPOSTI all'esperienza del NOVIZIATO.
Parimenti è anche vero, come sempre annota la Zarri, che le suore potevano nel '600 corrispondere come la Tarabotti con i più vari interlocutori.
Ma questo alla Tarabotti, ed ad altre donne fatte suore per costrizione di famiglia, tutto ciò poteva non bastare, nemmeno il ricevere in parlatorio persone più o meno accreditate: in merito a ciò si possono leggere La Regola Agostiniana per le Monache di Paolo Richiedei [soprattutto dal testo trentesimo] ed ancora il discusso Tractatus de monialibus di F. Pellizzari [soprattutto dal capitolo quinto].
La Tarabotti per tutta l'opera de La Semplicità Ingannata mira piuttosto a condannare l'ormai istituzionalizzata sopraffazione maschile, l'ignoranza in cui sono tenute quasi tutte le donne, il giudicarle colpevoli principali del peccato originale, certe supposte ambiguità della loro natura strutturalmente tendente all'inganno e del loro comportamento in materia sessuale e non, il negarne l'autonomia esistenziale quali donne complete e capaci di libere scelte costruttive, la minima considerazione in cui si tiene il sesso donnesco sotto il profilo caratteriale, igienico, sanitario ed assistenziale [ Oltre che alcuni testi specifici per le religiose come quelli sopra citati e qui digitalizzati del Richiedei e del Pellizzari per una più ampia disanima della tematica specifica e pure ai fini di una esauriente analisi del mondo ecclesiale inteso anche nei suoi epocali, strettissimi rapporti con la società tutta resta fondamentale la consultazione -qui proposta in via multimediale- di opere di grande respiro quali l'EXAMEN ECCLESIASTICUM di F. Potestà e lo smisurato elenco di VOCI ESPLICATIVE registrate nella monumentale BIBLIOTHECA CANONICA di L. Ferraris].
Occorre rammentare che in questa sua opera l'autrice non nega il valore della monacazione e dell'esser suora in un convento che inibisca i rapporti umani con il mondo esterno: contrariamente a certe postulazioni la Tarabotti riconosce il valore della monacazione di clausura ma lo restringe, giustamente, a quelle donne che, per indole, sensibilità e spiritualità, desiderano realmente farsi monache di clausura (libro I, p.18).
La clausura può invece diventare un inferno non metaforico per tutte quelle donne che non aspirano alla segregazione ma piuttosto a realizzarsi quali spose e madri ma è anche un inferno, cioè un tormento inenarrabile in quanto imposto contro il libero arbitrio, anche per tutte quelle altre donne che, al pari della Tarabotti aspirano a crescere intellettualmente sin a conseguire una giusta parità con gli uomini o, si conceda quello che non è né colpa né peccato, a quante più semplicemente mirano a primeggiare in società per fascino, eleganza e bellezza proprio alla stregua di tanti uomini che competono fra loro onde
superarsi in virtù guerresche ed abilità militare
.
E' indubbio, come lascia intendere la Zarri, che, nel monastero, tante monache di clausura possono godere di una formazione intellettuale altrimenti improponibile per le femmine data l'epoca [sempre molto controllata però: vedi P. Richiedei = in particolare il fondamentale Testo sessantesimo] ma è altrettanto vero che Arcangela è una donna di intelletto e volontà superiori che trae spunto dal suo dramma personale, la monacazione forzata, per esorcizzare da antesignana, a tutto tondo, una vera e propria sorte di femminismo che dia alle donne la potenzialità di confrontarsi pariteticamente con tutti gli uomini.
Per l'epoca i suoi discorsi sono utopistici ma senza pregresse utopie certe conquiste, lentissime, sarebbero state irrealizzabili, per le donne quanto più estesamente per il paritetico riconoscimento degli inalienabili diritti umani: analizzando peraltro tutta la produzione della Tarabotti si nota inequivocabilmente che non la monacazione forzata è il problema delle donne ma che ne costituisce solo un aspetto contro quello strapotere maschile e maschilista che fa paura anche a lei ma che per indole innata si sente di dover combattere.
Come per esempio non attribuire ad un momento di debolezza di Arcangela la stesura del Paradiso Monacale opera così lontana dalle sue postulazioni innate?
E proprio la Zarri in merito scrive: "...La prima opera che Tarabotti riuscì a pubblicare non fu però una condanna della monacazione forzata ma uno scritto di tono ben diverso, il Paradiso monacale (Venezia, Oddoni, 1643). Celebrazione del monastero per le donne che possedevano una vera vocazione religiosa, e preceduto da un Soliloquio a Dio in cui l'autrice si professa convertita alla vita religiosa, il Paradiso , parziale ritrattazione dell' Inferno , fu per motivi evidenti meno controverso delle prime sue opere e dunque più facile da pubblicare [N.d.R.: ma la Zarri qui non dice che la stesura di questo lavoro fu in qualche modo coatta, per garantirle una sorta di riabilitazione, sotto la spinta di tante opere di persuasione fra cui la più importante e decisiva fu quella del cardinale Ferdinando Cornaro cui l'opera venne peraltro dedicata]. Con il Paradiso la suora sì guadagnò l'ammirazione dei letterati, a Venezia e altrove, attestata dai numerosi componimenti encomiastici che accompagnarono il volume. Ma le lodi non durarono a lungo: si trasformarono in polemica quando la suora pubblicò una seconda opera, L'Antisatira (Venezia, Valvasense, 1644). Del tutto diversa dal Paradiso , L'Antisatira , che Tarabotti diceva di aver composto solecitata da dame nobili (lettera 207), fu una risposta semiseria al Contro il lusso donnesco , satira menippea del senese Francesco Buoninsegni, che prendeva di mira la vanità delle donne. Tarabotti ribaltava garbatamente le accuse dello scrittore toscano, non mancando di sollevare anche il problema dell'istruzione delle donne. Nonostante il tono leggero, L'Antisatira , per l'enfasi posta sulla vanità e sull'ipocrisia maschili, fu accolta con ostilità da parte di alcuni letterati a Venezia. Tale reazione negativa culminò in attacchi alla suora per alcuni errori presenti nel Paradiso e in accuse che non fosse ella la vera autrice dei suoi libri; troppo diversi nello stile - si sussurrava - erano il Paradiso monacale e L'Antisatira perché potessero essere uscite dalla stessa penna. Infuriata, Tarabotti cercò di difendersi contro queste calunnie: Poca pratica di scrivere debbono aver certo questi tali , scriveva adirata al cognato Giacomo Pighetti, mentre si maravigliano che lo stile del Paradiso sia differente da quello dell' Antisatira , onde mostrano di non sapere che lo stile va diversificato in conformità delle materie (lettera 113). Rifiutandosi di farsi intimorire dai suoi critici, Tarabotti perseverò nello scrivere in difesa delle donne, continuando ad inserirsi pienamente nella querelle des femmes letteraria e culturale della Venezia seicentesca.
Il filo d'Arianna delle Lettere familiari e di complimento ci permette piuttosto di seguire, in forza delle tante lettere registrate le preoccupazioni e le coraggiose alzate di ingegno di questa donna singolare e per certi versi encomiabile, forse grazie, anche, ad un carattere non facile a domarsi.
E di conseguenza il cammino lungo il "filo d'Arianna" continua a confermare la sostanza del pensiero della Tarabotti cioè il riscatto della donna a fronte della presunta ma non vera superiorità maschile cosa per cui continua a farsi dei nemici.
Sempre dalle Lettere familiari e di complimento della moderna citata edizione ( pagina 81) in una epistola All'Illustrissima Signora Guid'Ascania Orsi si legge:
"Le cortesissime essibizioni di Vostra Signoria Illustrissima, congiunte all'umanità de' Suoi cari e adorabili concetti, rapiscono i sentimenti di chi professa servirLa in maniera che Ella possiede tutti gli affetti delle Sue serve. Tanto accade a me, Illustrissima Signora, perché, vedendomi eccellentemente onorata della grazia, dell'affetto, e degli onori di così gran dama, mi sento tormentato il cuore per non poter con effetti esterni darLe saggi sinceri della mia interna riverenza e della corrispondenza ardente ch'io Le professo.
S'assicuri però, Vostra Signoria Illustrissima, che tutto ciò che sono e vaglio, sono e vaglio per Lei, e ch'Ella può disporre di me come creatura Sua.
E ciò ch'a me di far non è permesso / Prego da Dio le venga ognor concesso.
Mi dia pur occasione di impiegar i deboli talenti miei, come dall'esperienza Ella potrà conoscere il candore della mia devozione.
Avrei per gloria di poter star genuflessa inanzi a Lei, gentilissima Signora mia, da ognuno conosciuta per la gloria universale del sesso; e mentr'Ella mi solleva da questo riverente atto di servitù, io resto maggiormente mortificata. Ma cedano gli effetti della Sua cortesia agli affetti del mio debito. Attenderò qualche avviso circa il favore, che mi sarà caro al pari della stessa sanità, che tanto bramo.
M'iscuserà Vostra Signoria Illustrissima se tal volta differirò, benché con gran passione, il riverirLa, e l'attribuisca alla stagione propria alla purga che faccio.
Al rimanente, son imbrogliata con una malignità inesplicabile di persone, le quali si vogliono prender la diffesa del signor Boninsegni, ch'è gentilissimo. Illustrissima Signora, metter alla stampa ci vuole una gran testa, essendo che tutti vogliono dir la sua particolarmente contro di noi, perché ostinatamente gli uomini non vogliono che le donne sappiano comporre senza di loro. Mi rido di tali ciance. Mi perdoni Ella questa prolissità, ch'io riverente e caramente Le baccio le mani, vivendo ogni giorno più di Vostra Signoria Illustrissima...
".
La monacazione forzata qui non c'entra, vi si propone semmai il citato e ben più esteso discorso sul citato riscatto della donna a fronte della presunta ma non vera superiorità maschile...fatto che anima tanti letterati e non contro la suora (Aprosio compreso).
Ancora al Loredano "Principe degli Accademici Incogniti" (Lettere familiari e di complimento, 81, p. 117) la suora veneziana scrive una lettera in cui fa cenno alle polemiche suscitate dalla stampa dell'opera anonima in latino, editata in Germania, : nel libro poi stampato tradotto nel 1647 a Venezia in ambienti culturali all'"Accademia degli Incogniti" con il titolo Disputatio periucunda Discorso piacevole, che le donne non siano delle spetie degli huomini, tradotto da Oratio Plata si nega, senza dubbio macchiandosi di eresia, che le donne possiedano un'anima: l' Inquisizione, essendo anonimo l'autore, interviene anche per sedare le polemiche sollevatesi e colpisce il tipografo veneziano della stampa italiana cioè Francesco Valvasense, peraltro già incarcerato, e quindi ancora condannato al carcere secondo le direttive del Sant'Uffizio con l'inibizione a proseguire la sua attività editoriale e l'obbligo di tenere una pubblica ritrattazione od abiura: e, soddisfatta del provvedimento, la Tarabotti nella citata lettera al Loredano tra l'altro scrive: "...Voglio però credere che i begli ingegni anderano più cauti nel biasimare le femine ora che Santa Chiesa s'è dichiarata al mondo tutto ch'elle non solo siano della specie degli uomeni, ma che partecipano della divinità, mentre fulmina contro coloro che negano le donne non aver anima li medemi castighi ch'è solita di dare a quelli eretici che negano Dio...".
La difesa del valore femminile è il fine ultimo di questa donna per quanto monacata a forza [non per nulla, forse non ancora soddisfatta, pubblica Che le donne siano della spetie degli huomini. Difesa delle donne, di Galerana Barcitotti (suo pseudonimo anagrammato), contra Horatio Plata, il traduttore di quei fogli, che dicono: Le donne non essere della spetie degli huomini, Norimbergh [i.e. Venezia] : par Iuvann Cherchenbergher, 1651, 10, 180 [i.e. 182] p. ; 12°, per il reale luogo di stampa cfr. Parenti, Diz. dei luoghi di stampa..., p. 153, Localizzazioni: Biblioteca civica - Feltre - BL - Biblioteca universitaria di Bologna]: e la difesa reiterata di siffatto valore è una scelta, che nell'ambiente antifemminista dell'epoca, effettivamente procura più ostilità che consensi atteso che poche sono le donne letterate e la stragrande maggioranza degli uomini si culla nel mito della superiorità del proprio sesso.
Da qualche tempo peraltro al condannato Valvasense l'agostiniano Aprosio ha affidata la stampa della sua Maschera Scoperta..., stesa, dopo un periodo di collaborazione con la donna, prima che la Tarabotti si coinvolga in una polemica su femminismo-antifemminismo con F. Buoninsegni.
La mancata stampa dell'opera a quanto scrive Aprosio risulta però dovuta ad intricate trame tra la Tarabotti e quella sorta di avventuriero letterario che risponde al nome di Gerolamo Brusoni personaggi che Aprosio, verisimilmente con sarcasmo, definisce amici: si dice qui "sarcasmo" atteso che in una lettera Al Serenissimo duca di Parma Ferdinando Farnese (lettera 17, pag. 72 della citata edizione critica) la Tarabotti fa cenno alla sua ben più acre polemica proprio con il Brusoni (che le ragiona contro nella sua Maschera discoperta scrive ancora la Zarri) al segno che la suora velenosamente aggiunge: "E’ forza, Serenissimo Signore, che costui sia uno di coloro che non fanno mai profferire la verità se non allora quando con la mente offuscata dai fumi del vino parlano contro l’uso della lor natura e inclinazione. Latrino pur dunque a sua posta come cani alla luna contro i purissimi raggi de’ miei veraci detti, che nulla pregiudicherà al loro splendore ed io farò di loro poca stima. Nonostante la scrittura di Aprosio tra Brusoni e la Tarabotti doveva scorrere un odio pregresso, calmierato da situazioni occasionali e di reciproca convenienza, atteso quanto si legge nel libro terzo del La Tirannia Paterna,ancora manoscritta, che nonostante l'anonimato voluto dalla Tarabotti si identifica nell'apostata Gerolamo Brusoni.
Eppure, a mio avviso, la voce della Tarabotti al di là della voglia aprosiana di editare la sua Maschera Scoperta, ha lasciato più tracce che in altri, almeno per quanto concerne l'Aprosio più meditato e meno coinvolto con libertini ed antifemminsti degli ultimi tempi, del soggiorno ventimigliese verrebbe da dire, quando vissute anche drammaticamente le alterne sorti umane, in cui nessuno è veramente privilegiato, perde molta della giovanile sicumera e si adegua ad un più riflessivo ragionare anche a riguardo della condizione femminile.






































INFERNO MONACALE
di
di Arcangela Tarabotti

[N. d. R. = Questa sua seconda opera, presumibilmente del 1650, intitolata L'Inferno Monacale, non venne pubblicata: il manoscritto originale andò perduto anche se ne esiste una trascrizione, presumibilmente settecentesca, nella collezione privata di Alvise Giustiniani (Venezia, Codice Giustiniani II 132 = 44). = l'opera però doveva esser corsa fra i dotti alla maniera usuale dell'epoca in forma segreta e sotto pseudonimo di copie manoscritte e dovette suscitare notevoli, maschiliste, avversioni atteso quanto vi era riportato; cosa che oggi si può riscontrare vista la magistrale edizione -da cui qui si attinge- fattane dalla bravissima Francesca Medioli sotto titolo de L'inferno monacale di Arcangela Tarabotti, Torino, 1990]



*********GUIDA CRITICA E DOCUMENTARIA ALLA LETTURA E ALL'INTERPRETAZIONE DEL TESTO*********

[a titolo di utilità pratica vedi anche i testi canonici e di complemento documentario all'edizione critica]


INDICE DELL'OPERA
1 - "Alla Repubblica Veneta"
2 -"A quei padri e parenti che forzano le figlie a monacharsi"
3 - LIBRO PRIMO
4 - LIBRO SECONDO
5 - LIBRO TERZO



CLICK QUI SU ASPETTI DELLA VITA TRA XVI - XVIII SEC. = COSMOGONIA, CHIESA, STATO, ISTITUZIONI, CULTURA, LAVORO, SOCIETA', FESTA, TRADIZIONI ECC.
In dettaglio:
1 - donne e questione femminile nell'epoca intermedia - 2 - Angelico Aprosio - 3 - femminismo e antifemminismo - 4 - la letteratura antidonnesca
- 4 - le epocali motivazioni filosofiche, religiose e scientifica della supposta inferiorità fisica e psicologica della donna oltre che della sua opportuna sudditanza rispetto all'uomo
- 5 - fasi amicali ed anche drammatiche del suo rapporto con Arcangela Tarabotti = momenti di quiete e di tormento nel ricordo di una polemica

TESTI DI DIRITTO CANONICO E NON
1 - DIGITALIZZAZIONE DELL'EXAMEN ECCLESIASTICUM... DI FELICE POTESTA'
(TOMO PRIMO - TOMO SECONDO - TOMO TERZO)
2 - DIGITALIZZAZIONE DE LA
BIBLIOTHECA CANONICA, JURIDICA, MORALIS, THEOLOGIA NEC NON ASCETICA, POLEMICA, RUBRICISTICA, HISTORICA ETC. DI L. FERRARIS
VEDI LE VOCI PER ORDINE ALFABETICO

***Per una collazione critica esaustiva si è ritenuto di utilizzare in merito alle osservazione sulla vita claustrale un testo che concerne le Monache agostiniane opera di Paolo Richiedei amico e corrispondente di Angelico Aprosio: specificatamente si tratta dell'opera
REGOLA DATA DAL PADRE S. AGOSTINO ALLE MONACHE - ESPOSIZIONE SOPRA LA REGOLA DI S. AGOSTINO DATA ALLE MONACHE DEL PADRE FRA' PAOLO RICHIEDEI, DE' PREDICATORI
qui integralmente proposta, con INDICE, in forma integrale e digitalizzata

***si propone anche il discusso e poi posto all'Indice dei Libri Proibiti:
***TRACTATUS DE MONIALIBUS***
[TRATTATO SULLE MONACHE]

di
Francesco Pellizzari

Per il rilievo che sembrano avere direttamente o indirettamente sull'opera di A. Tarabotti vedi qui anche di
AGOSTINO MASCARDI: i DISCORSI MORALI SULLA TAVOLA DI CEBETE TEBANO comprese le dissertazioni sulle TEMATICHE DEI DISCORSI MORALI - le riflessioni sul GENIO o sui caratteri della DELLA SAPIENZA.
In questa opera di OPERA DI AGOSTINO MASCARDI sotto forma di DISCORSI MORALI sono inoltre affrontate molte tematiche connesse alla TAVOLA DI CEBETE TEBANO che meritano di esser riproposte digitalizzate per l'influenza che ebbero su un vasto pubblico:
PARTE QUARTA - DISCORSO PRIMO: DELLA PURGATIONE DELL'ANIMO PER L'ACQUISTO DELLE VIRTU' - DISCORSO SECONDO: DELLA VIA FATICOSA DELLA VIRTU'
DISCORSO TERZO: DELLA CONTINENZA - DISCORSO QUARTO: DELLA TOLLERANZA - DISCORSO QUINTO: DE I CAMPI ELISI, O SIA DELL'ISOLE FORTUNATE - DISCORSO SESTO: DELLA SAPIENZA, E PERCHE SOPRA UNA PIETRA QUADRATA SI POSI - DISCORSO SETTIMO: DELLA VERITA'




























































INFERNO MONACALE

Alla Serenissima Republica Veneta
Sul’ali della fama vola ad ogn’angolo più rimotto dell’universo che palesa come Voi, Serenissima Regina, concedete a qual si sia natione della vostra bella metropoli libertà non circonscritta, di modo che ne godono tutt’i crocifissori dell’ Figliolo della vostra Santissima Protettrice.
Nella primiera edificatione della vostra città in queste lagune penetrò questa fama fin ne gli abissi, di dove trasse la Tirannia Paterna che, celatasi sotto la maestà delle vesti de’ vostri senatori, ha finalmente piantata sua sede nel Palaggio Ducale e domina la città tutta, seguendo per l’ordinario i vassalli l’orme de’ prencipi, come fa l’ombra e ’l corpo. È riuscitta tanto accetta ed è statta tanto volentieri abbracciata e seguita, questo mostro d’Inferno della Tirrania patterna da’ vostri nobilissimi signori, che non mi resta d’onde temere che questa mia, lineata dalla rozza penna che già mai habbia vergati fogli, non sia per riuscirvi grata.
Ben si conviene in dono la Tirannia Paterna a quella Republica nella quale, più frequentamente che in qual altra si sia parte del mondo, viene abusato di
monacar le figliole sforzatamente. Non merita d’esser presentata ad altri principi per non apportar loro scandoli eccessivi: proporcionata è la mia dedicatione al vostro gran Senato, che, con incarcerar le figliole vergini, acciò si maccerino, salmeggino et orino in cambio loro, spera d’etternar voi, Vergine belissima, Regina dell’Adria.
Se godete sentir a dire che ne’ vostri fortunati natali rinaque la libertà, che si credea esser morta con Cattone, aggiungete a’ vostri preggi il non negar a me i frutti delle vostre gratie che, quasi nova Amaltea, versate con liberissima mano ad ogni uno.
Vi dedico dunque e consacro questo mio primo parto come capriccio d’inteletto feminile. Non vi suplicherò volerlo diffendere da lingue detratrici per ché son sicura che non da altri che da’ vostri nobili, che son parte di voi, e da’ vostri sudditi, che a voi son soggietti, son per incontrar malignità di censura. Mi protesto che i miei detti non sono intentionati a biasmar la religione né a ragionar se non contro quei padri e parenti che con violenza imbavarano le figliole.
Ell’è una grand’ingratitudine che quella patria che è protetta parcialmente dalla Vergine, che per mezzo d’una donna ottene già vittoria contro gl’impiti ribelli di Baiamonte Tiepolo, più di qual si vogl’altro dominio del mondo avvilisca, inganni e privi di libertà con forza le sue vergini e donne.
Non vo’ mendicar scuse e colori per insinuarvi la mia sincerità: che ad ogni modo non resta che perdere a chi ha perduto la libertà.
Di Vostra Serenissima.

A quei padri e parenti che forzano le figlie a monacharsi
In gratia, non mi burlate se io, con penna di candida colomba, quasi funesto corvo v’auguro nel vostro Inferno i precipici etterni: sovengavi che, ne’ primi tempi, Iddio benedetto mandava li angioli dal Cielo e suoi più cari servi della Terra ad annonciar agli huomeni perversi i giusti Suoi furori. Io, più che Angela in quanto al nome e serva indegna di Sua Divina Maestà, inspirarata da Lui con mottivi di pura verità, vi predico i fulmini del Suo sdegno. Non ridete per ché io sia femina per ché anco le Sibille predissero la morte di Christo e Casandra, se ben tenuta forsenata dal populo, previde e con detti veridici esclamò e pianse per le strade la destrutione delle troiane mure.
Ma lasciamo questo per ché io non ho humore di Sibilla né voglio che mi stimate pazza: accettate quello che è di già vostro, non havendo altri architetti l’Inferno Monacale che il Diavolo e le vostre tiranie. Vi dedico dunque quel’Inferno, a cui perpetuamente condanate le vostre visere, per preludio di quello che dovete goder etterno, restando di voi,
Scandalizzata sempre,
più che Angela della Madre della Donzella
Del’Inferno Monachale

LIBRO PRIMO

Ben furno ragionevoli le profetiche laccrime e le dolorose lamentationi con le quali Geremia si dolse delle future rovine della misera Gerusaleme. Però con non meno lacrimosi gemiti merita d’esser compiante l’infilicità compatibili di quelle anime che, non solo imprigionate in un corpo provano gli infortuni comuni a tutta l’humanità, ma hanno, per tormento loro particolare, la carcere d’un monastero in cui sono forzatamente et innocentemente condonate a patir etterno martir di pene che, per esser tale, a raggione può chiamarsi un Inferno. Se a quella mestissimamente compatendo eij disse: "Plorans ploravi in nocte et lacrime eius in maxillis eius, non est qui consuletur eam", di queste con medemi accenti dovrian esser esclamate le tormentose miserie! Piangono la notte, anzi continuamente stampano con le correnti lacrime su le guancie solchi dolorosi, né rittrovono chi voglia o possa consolarle. Chi sa, forse Geremia previdde, molti seculi antecipati, gli eminenti precipicij che sovrastano alla Gerusalemme di tante anime e s’affisse del’eror universale, accenando ciò che era per sucedere in esterminio di quelle infelici che, fatte monache senza esser chiamate da Dio, son prive d’ogni bene e bersaglio d’ogni mala fortuna e che, doppo tanti patimenti e sciagure, haveranno forse un più doloroso e sfortunato fine.
L’avaritia e tirania de’ padrii con la semplicità, ingnoranza et obedienza intempestiva delle figlie partoriscono queste conseguenze deplorabili!
E perché non tutte sono poste nell’Inferno de’ viventi da una istessa causa - così diverse son le maniere con che restano inganate, poi ché la malitia de gli huomeni non lascia fraude che non esserciti in questo maneggio -, quelle monache forzate anco esse che, invecchiate, sono vicine a finir con la vitta i tormenti temporali, usano ogni arte a sotisfatione de’ parenti per rapir l’anime dell’innocenti e semplice giovanitte et unirsele ne’ cruccij della Religione, incontando et intreciando le più favolose menzognie che da niun famoso e perito poeta siano mai state machinate. Ben sano queste che "Solacium est miseris socios habere penarum": quella medessima stanza, che elle per la tirannia paterna provano un esecrabile Inferno, vien da loro descritta piena di delicie di Paradiso. Sano con tali arte mentire che, mascherando da verità la bugia, imittano sino il perfido sesso virile e fanno apparire che fuori de’ chiostri non si trovi felicità e, con lusinghe accomodate alla età delle fanciulle, dolcemente l’invitano a quel visco al quale, apligliate l’incaute, mai più in etterno vagliono a liberarsi. Alle bambine di poca ettà fingono luochi solacevoli e poco differenti dal Paradiso Terestre, sino inganandole con far veder loro albori su’ quali, havendo inestati confetti e frutti di zuccaro, la pueril semplicità si dà a credere che gli horti d’ monasteri produccono dolcezze e soavità.
E pure ne’ nostri giardini non è abondanza d’altro che di spine, di tribulationi et infelicità!
Alle più provette promettono alettamento di gioco, disoblighi da lavori e lautezza de cibij. Alle giovanne più matture promettono gran libertà, ma per l’ingresso predican loro vaghezze de’ abitationi, comodi d’ stanze e mense laute. Cose che poi altro non han di vero che la sola impresion fatta dalla falsa rellatione di quelle vecchie, le quali preferiscono le promesse de’ mentitori congionti e l’entrate d’una ben misera dotte al precipitio d’un’anima redenta dal preciosissimo Sangue di Christo et alla passion di mente e continuo tormento che consegue all’infelice, non coperte d’habiti religiosi, ma legate d’indissolubili catene.
Tali sono gli inganni tessuti da questi tiranni, avari di poco danaro, ma prodighi dell’altrui libertà, quali, in vecce di prudenti discorsi, dovrianno far spiegare alle destinate da loro ai chiostri le convenienze del loro debito e farle insegnar quelle virtù che doverebbero risciedere in una vera religiosa. Ma incontra posto, per allettarle, somministrano loro un orgolioso vento di superbia con dire: "Infelice colei che oserà di proferirsi contro una sola parola! Tua zia ti sarà più che madre...".
Invecce d’intimar loro un rigoroso silentio, le asseriscono che potranno gracciare a suo talento. Nan mancano provissioni di balli, canti, suoni, mascherate e colationi. E più tosto che obligar la loro memoria alle meditationi sopra le vitte de’ santi, i bagordi e feste da celebrarsi nella sollenità di San Giovanni e San Martino si raccordano come precetti irrefragabili. Dove che le semplicette, quando sperano di trovar un teatro di delitie, s’accorgano d’esser entrate in una cloaca d’immonditie et incomodità, non meno per la corporale che per la spiritual vitta.
O Dio, con quanta raggione ponno le misere inganate parlando con Sua Divina Maestà proferir quelle parole: "Naraverunt michi iniqui fabulationes, sed non lex tua"!
Le contention poi, che succedono fra gli agrafi padri delle malnate e le monache, sono inenarabili: rasembrano due cani arrabbiati di fame che combattono del cibo. L’uno tien ben ristretta la borsa, acciò nela celebracion de’ funerali della figlia, ch’ei brama di sepillire, né pur un sol danaro malamente si spenda. Le altre, ingenue, buona parte di loro vogliono s’aggiustarsi della dotte, ma però con avantaggio de’ parenti che, essendo tirani, in ogni conto vanno sminuendo il tutto, con eccesso che esse, per non perder anche il poco a la lor gratia, inssieme s’acchettano e riccevono ne’ loro congressi quelle tali che, se non son ben provedute di simulata adulatione per coprir i mondani pensieri che le tormentano, ponno prepararsi per esser getate in un’ardente fornace.
Ma questa non è una fornacce di Babilonia come quella di tre fanciulli, nella quale, benedicendo Iddio e protette dallo scudo della fede, accada di pottersi liberare da tante lingue infocate che, con fiamme di dettrattione e rimproveri, abbrucciano la repputatione e buona fama dell’innocente, ma involontaria religiosa! Ben ne parlava per esperienza il santo profetta che, offeso da lingue serpentine a queste non dessimili, conosceva quanto sia vero che non si trova riparo contro una mordace favella: "Quid detur tibi aut quid apponatur tibi ad linguam dolosam?". Dall’offesi di sì taglienti et infestanti rasori, tutta l’innocenza et integrità di Cristo non bastò a schermirsi!
Hora io qui non entro nelle colpe con che queste maschare religiose, fatte non da Dio ma da Diavoli humanati, aggravano l’altrui candore. Non discorro delle parole moteggiatrici nel definito affetto con che procuran di penetrare ne gli altrui occulti pensieri, non solo per nutrire la loro mente curiosa, ma anche per insidiar a suo tempo, già che è troppo coperta l’anima; anzi, operationi così vili sono imperscrutabili ad un animo sinciero. Gli anni, i lustri e i secoli intieri, queste astutte e malvaggie doppiezze, causate dalla sfacciataggine maschile, stanno nascoste all’ingenuità di chi vive con leggi natturali d’un genio purissimo et ignorante di quel’arte inhumana insegniata da Tiberio e che sarebbe neccessaria in queste diaboliche scole inventate da gli huomeni: "Qui nescit fingere, nescit vivere"!
Infelice colei che in cottesti luoghi effettivamente pronuncia con sincierità il suo sentimento! Chi non desimula, vien sempre traffitta da accutissime punture e la maggior parte di queste Sfingi sono di quelle de’ quali parlando Geremia disse: "In ore suo pacem cum amico loquitur et occulte ponit ei insidias".
Viene dal’avaritia degli huomeni consignata alle voracci fiame di quest’abisso di cui parlo, tall’una che non eccede l’anno nono di sua età onde non è poi maraviglia se, mentre così tenera e pura, resti ingannata e tradita e, per così dire, rimanga infelicemente legata dormendo. L’inobediente Giona per non adempire gli auspici divini, fattosi salva d’una nave, prucurava di fuggir l’essecutione de’ celesti comandi, quando il mar irritato, cangiata la calma in orrida tempesta e sollevato il piano dell’acque in altissimi monti d’onde superbe, mostrava voler vendicar lo sprezzo di quel profetta contro i precetti di Dio; i nocchieri, sopra presi da la grave e teribile tempesta, intesero, per oracolo celeste, che per assicurarsi era neccessario gettar nel mare il povero fugitivo che se ne stava dormendo nella più rettirata parte della nave: "Jonas descendit ad interiora navis et dormiebat sopore gravi"; non ostante che ci fosse a costoro ignotto peregrino, lo svegliorono et esposero ciò che per la comun salute era neccessario che essi operassero: non volsero all’improviso empiamente sepelirlo nell’onde, pottendo farlo, ma con amica pietade prima l’avisorno acciò quanto più improviso, tanto più tormentoso non gli risultasse il percepitio; fu ingoiato dall’imensa balena nel cui ventre pianse l’errore: ne ottenne il perdono. Quel’istesso mostro, che pareva diventato suo sepulcro, il condusse sano e salvo al porto et in quel loco assignatoli da Dio per la predicatione. Così trattorono rozzi e villani naviganti con un passaggiero incognito e vile, ma non così trattano i crudeli padri con loro innocentissime figliole! Non le destan prima di sepelirle fra gli orrori d’un tempestoso mare, anzi fra l’onde di una stigia pallude d’un monasterio - che tali mettamorfosi fanno le violenze - usano loro con quelle misere, ma più tosto le vanno aplicando soniferi per farle più gravamente addormentare e levar loro la vitta, onde all’improviso, anzi ingresso di quelle porte, non vedono scritto a lugubri carattari:
"Per me si va nella città dolente,
per me si va nell’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente".
Quivi incarcerate non in chiostro santo e religioso, ma nelle viscere de l’interessata balena che non mai le vomita, non arrivano al porto della destinata gloria, ma restan sommerse fra le disperationi cagionatale dai padri sceleratissimi, et in vecce d’immendarsi di quelle poche legerezze comesse nella pueritia, avanzandosi nei maneggi e traffichi del mondo, diventan peggiori e s’incaminano nell’offesa del loro mal volentier accetato Sposo. Prima inganate da’ suoi più cari e poi da sé medessime, stimano giusto e leccito il viver con poca decenza religiosa e non tantosto si destano dal letargo che si ritrovan nel ventre d’un chimerico e sozzo animale e, se ben alle volontarie rasembra tabernacolo del Signore, queste, sul primo aprir degli occhi, spalancano anche la bocca nelle maladitioni contr’alle prime cause de’ suoi etterni danni. Onde, per isfogo di lor ragionevoli passioni, raccontan l’una all’altra le lor disaventure e tall’una, che avrà letto libri poco convenienti a religiosa, raconta alle compagne ciò che l’è capitato sotto a gli occhi. Anzi soviemmi d’haver in tal proposito udito recitar quella stanza del veridico Boiardo:
"Un’altro sotto nome di severo,
ma con effetto di avaro e forfante
metteranne una frotta in monastero
e vorrà che per forza elle sian sante:
in cambio di dir salmi et altri canti
biastemaran padre, madre e Celo e santi".
Ad alcune non ancora generate - o essecrabile crudeltà paterna! - vien da’ genitori assignato il monasterio per habitatione, onde, non così tosto nate, odono intonarsi all’orecchie il nome di monacha anche prima che ’l sappino profferire. Inventione diabolica, tradimento accorto e perfidi inngani che insegniano alle misserelle inocenti e semplici ad esprimer con lingua balbetante quel nome che a suo luogo e tempo è da loro così fervidamente abborrito! Queste, in tal guisa allevate, sempre con speciosi tittoli e vocaboli di religione e di religiose tottalmente dannosi, a credere che Iddio le voglia tali e per tali l’habbia segniate, né s’accorgono che non sono state poste al mondo dissimili dalle maritate, ma che queste sono astutie inventate per inganarle. Così poscia pare che di propria volontà s’inducano a quell’ingresso et elettion di vitta che nel tempo della perfetta cognitione è da loro abborita et odiata in paragon di morte. Ben poi tardi s’avedono che "erraverunt in cogitationibus suis"!
Apunto non disimili da’ danati all’Inferno, quando non è più tempo di pentirsi, si stupiscono di sé medeme ed inquiette e smaniose agiatano fra inremediabili dolori; anzi, pazzamente incapacci che possa darsi una perpetuità di stanza, pare loro che quello che è pur troppo reale verità, sia un sognio dal quale, però, le mall’accorte non mai in etterno si destano.
Alcuna, rimasta sotto la cura de’ frattelli, per liberarsi da’ disgusti che la oprimono e per fugir la fattica di far con esso loro l’officio di vil serva, proferisse un sì sforzato e prende un volontario essiglio dal mondo; ma con che core lo dica Dio che è lo scrutatore dell’amare passioni d’animi così travagliati! Concorrono per necessità, non per volontà, essendone tal’una, ben ché rare, di spiriti vivi e di pensieri sollevati a dar consenso alla funebre sentenza che le condana a star sottoposte alle voglie altrui e fa di mestiero che fingan elettione propria quello che è sforzo dell’altrui tiranica dispositione, la temeraria crudeltà d’huomeni inhumani; e non mancano insino di quelle che vengano chiuse con violenza dalla barbarie de’ loro stessi padri, quali non arrosiscono a servirsi di gridi e di minaccie; e con tutto che le figliole, spinte a forza ne’ chiostri, facciano gagliarda resistenza e si respingano nei seni de’ propri non so s’io dica genitori o carnefici, dalla cui impietà superate con lagrime e lamenti publici e private, restano a lagnarsi e movono Iddio a risentirsi di tal’ingiustitia con i castighi che fulmina nelle case dei malvaggij.
Pur dovriano quelle voci che arrivano al Celo penetrar l’orecchie de’ superiori obligati a sovenir i giustamente offesi, non ché a sollevar gli inocentemente traditi. Ma la diversità de gli interessi è quella che causa tanti disordini nel mondo!
Si fingano questi tali per massima che i figlioli sian tenuti a star sotto posti in ogni affare all’obidienza de’ padri. Inganevoli et inganati che sono! "Mentita est iniquitas eorum". Devono obedirsi i genitori nelle cose lecite e giuste e non nell’irragionevoli; oltre che nell’operationi nostre spettante al movimento interno della volontà, non è tenuta la creatura obedire ad altri che al suo Creatore. E così il padre non deve e non può maritar quella figlia che vol esser vergine; né essa è tenuta adderir alla di lui determinatione e sforzo, sì come non può violentarla a monacarsi senza il concorso della di lei libera voluntà. Il prencipe non ha pottenza così superiore che possa far violenza all’interna elettione di quel gran filosofo: "errat" dice "si quis existimat servitutem in totum hominem discendere; pars nam melior exempta est, corpora obvia sunt et adescritta dominis, mens est sui iuris". E costoro, infelici d’anima e di corpo, ancora prettendono, per alimentar la loro ambitione, per Ragion di stato et honore mondano, di poter legitimamente tormentar in perpetua carcere l’innocenza delle lor figlie. Non punto pensano - sceleratti! - quanto siano veri i sentimenti spiegati dal poeta Terenzio in questi versi:
"Che non è cosa per facil che sia
che difficile molto non riesca
se farla contro voglia l’hom s’invia".
Non può già l’humana mente immaginarsi maggior sceleragine di quella che comettono questi padri, che fan quasi l’offitio di Caronto nel traghettar le lor figlie a quelle rive oscure alle quale può ragionelvomente darsi titolo d’Inferno per le serate monache, poi ché vien dinegato lo sperarne mai più l’uscita. Se l’Evangelio dice che "In Inferno nulla est redentio" et che "Ibi erit fletus et stridor dentium" queste son conditioni che rendono poco dissimile il monastero dagli abbissi infernali. Non mai può sperarsene la liberatione e ’l fonte dell’amarissime lacrime dell’infelici è tanto abbondante che dà sembiante di stanza de’ danati a quel loco ove sono miseramente condenate. Sì come chiaramente dallo Spirito Santo il monastero le riesce Paradiso, la cella un Celo, ivi non manca lo stridor de’ denti nelle mormorationi e risse che fra loro occorrano, oltre all’impreccationi contro ai congiunti che cagionorono, contro superiori che permissero e sino contro gli istessi elementi che senz’alterarsi furono presenti a così execrando sagrilegio. In vedendosi legate in doppi lacci di rigori e dal foro ecclesiastico e dal laico, a guisa di furibonde fere rattenute da nodi indissolubili si van disperatamente ravolgendo et affanando fra quei muri senza rittrare altro frutto che d’un tormentosissimo cordoglio. Ponno ben ragionevolmente rivolte a Dio gridare: "Libera me quia egenus et pauper sum et cor meum conturbatum est intra me", ma non giovano queste voci! In quel giorno funesto che nascano forzatamente alla religione e moiono a quei mondani piaceri che non hanno mai assagiati, si volgono mille e mille volte indietro a remirar le paterne case, hora a queste, hor’a quell’altra parte rivolgendosi. Contorcendosi dano con gli interni movimenti a conoscer l’inquietudine che internamente l’affligie.
Misere sventurate, non venute per altro alla luce del mondo che per star sempre, ancorché innocenti, fra le prigioni!
Al secolo sono state, a guisa di tante Danae, ricchiuse nelle stanze dove altri non puote vederle che, come si suol dire, l’occhio del Sole; e poscia passan ad una carcere più penosa, onde si van rivolgendo indietro, per ché stimerebbero bona fortuna che avvenisse loro come alla moglie di Lot il trasformarsi in una statua di sale, ma per ché non sono uditi i lor giusti lamenti vanno meste, a guisa di condenate al supplitio preparato loro da chi meno il dovrebbe, cioè da’ suoi parenti più cari. Entrano finalmente in quella porta che apre le strade per trapassar al Celo ed all’Inferno, le quali, acciò i fideli defonti non le calchino giornalmente, serra.
Iivi dentro sospinte dall’avaritia de’ padri, la trovano anche ne’ chiostri - in quelle monache, però, che son forzate anch’esse -, accompagnata dall’interesse, da cui non mai va disgiunta, sì che bisognia che se armino come la bella Psiche, se vogliono essere introdotte nella casa della - da lor abominata - religione, fa de’ bisognio che portino i danari in bocca, cioè la dotte, per pagar la nave che le riceve, che è il monastero; habbino pur provedutte le mani di foccacie melate per pascere i mostri trifauci d’abisso, per ché, se vanno scompagnate da presenti, provano i morsi di qualche cagnia interesata come gl’huomeni che han più faccie che Argo non haveva occhi. Ben possono nel mestissimo ingiegno con energia appassionata e con canto lugubre e mortale dolorosamente dire: "Circundederunt me carnes multi concilio malviantium ossedit me", poi ché quivi incontrano mille disprezzi et, all’interessate inventioni de’ parenti e congionti, son seguacci le derisioni e mottegiamenti contro quelle sfortunate, per ché, coperte anche della veste dell’innocenza, non s’accorgano a qual vitta infelice trapassano!
Sento quivi da alcuno con tacito rimprovero contradirmi dicendo: "Con quanta instabilità, anzi contrarietà, costei discorre! Nella Tirania Patterna con lodi eccesive esaltò il sesso donesco et hora di quando in quando va biasmando le monache che pur son donne...".
Io nol niego, ma né anche si puotte negar che la tirania de gli huomeni sia così aspra a soffrirsi da quelle che a viva forza restano chiuse ne’ monasterij proprij che, di begnine, tacite e care che erano per lor natura, a torto irritate et offese, non divengono sdegnose et inviperite e perdano le natturali e proprie qualità, essendo lor dinegato l’operare secondo la general inclinatione. Elle son degne di scusa, ma indegni ne sette voi, come causa prencipale de’ loro eccessi!
Non interompiamo però il determinato discorso, ma seguitiamo l’incominciato camino. Mi soviene che in legendo un autore di stima grande trovai che egli con una gentil comparatione assimiglia il mondo ad una scena i cui istrioni sono i mortali et io non voglio partirmi dalla costui veracce oppinione, conoscendo che pur troppo tutte l’humane attioni altro non sono che rapresentationi che, per lo più, finiscono in una misserabile catastrofe. Nelle scene comiche il tutto è finto, sono finti i palazzi, finte le compagnie e finti i personaggi, né in loro ci ha di verità che un’inganevole sembianza. Il mondo pure è una scena piena d’inganni, ma li chiostri e l’habbitanti in essi, per le maligne prettensioni de gli huomeni che si fan lecito riempirli di donne tradite più d’ogni altra parte del’universo, rappresentano un teatro in cui si reccitan funestissime tragiedie poi ché il fine di molte dell’imprigionate è il perdere forsi l’anima che è di prezzo tale che non trova equivalente da pareggiarselle, mentre ha meritato d’esser comprata col tesoro immenso del Sangue di Cristo. In queste scene ogni cosa è finto e il tutto è apparente e non reale per le forzate monache. Intendete: altro non v’ha che cerimonie externee. L’obidienza è solo imaginaria e per una certa imitatione dell’esser citata da’ santi che formoron le vere regole, le quali paiono osservate, ben ché siano distanti da’ conventuali, per ché ogni una di tali religiose vive a sua voglia con scandolo delle buone. Il silentio v’è sol dipinto o scritto per elle ne’ cori, reffettori e dormitori. Quivi ne’ loro trattari non mancano niuna dimostratione apparente per fingere l’imittatione del fondatore, ma tutto è vanità, prospettiva ed ombra che ingannna l’occhio di chi mira la scorza, senza penetrar il midollo, per ché, s’effettuano forzatamente in qualche cosa la regola per non potter far di meno, non vi concorre la volontà.
Vediamo un poco con che arte e maniera la nova comica monucha forzatta vien introdotta nella tragiedia della religione sotto nome di sora: prima che se li recida la chioma e che le se proferisca formidabil sentenza di non uscir mai più dall’etternità d’un intricato laberinto, succedono contrasti e discordie circa la dotte che se le deve consignare; si discorre della spesa in travestirla di lana et effettuar i soliti riti e cerimonie necessarie. Quei genitori che, nel maritar una figlia - sirocchia dell’insidiata e mal condotta - non hebbero riguardo a verun dispendio, in aggiunta d’una dotte esorbitante di multiplicar decine di migliaia di scudi, scialaquano in ogni occorenza per fare che la novella sposa pompeggi fra gl’ori e fra le gemme. Non v’è artefice o mercadante che non si veda porre in iscompiglio le drapperie più fine dalla costoro ardenza et aggravarsi l’arche della lor professione. Le sete ed i colori per contessere le vesti sono chiamati dalla Siria e da Melibeo. Il veluto, la felpa che non è d’opera più che humana è stimato indegno di coprir quelle membra che pur sono uscite da quel medemo ventre di dove naque l’altra sfortunata che, al suo dispetto coperta d’una veste lugubre e semplice ed accompagnata da novecento a mile e dugento - secondo l’uso de’ luoghi misserabili - ducati, o ver cento alle più ricche, con cinquanta di provissione all’anno per alimento, sente rimproverarsi dal genitore e parenti l’eccessiva e soverchia spesa. Nel riscuottere per questa povera annual provisione, l’abbandonate stillano sudori di sangue per ché, oltre l’esser trascurato il tempo, viene stentatamente in più volte sborsata. E tall’una, che spera e confida in qualche monacha conoscente, resta da lei, per interesse publico del monastero, defraudata del suo particolar soccorso; e pur quella stessa, che mal tratta questa in simili affari, oppera diversamente per benefficio di quelle che a lei sono di sangue congionte.
O miserie, o tormenti veramente d’Inferno per quelle infelici che, senza niun altra provissione che quella poca dote, povere nelle ricchezze de’ travagli, vien a forza sigilate ne’ chiostri!
Una poca veste di lana, bianca o nero tinta in bruno, vien lor consignata da’ crudi genitori appunto per ché sia proporcionata a coprirsi di bruno in quell’ultimo oscuro giorno in che restano sepelite in un convento. Né di ciò contenta la tirania di costoro, mormoran de’ santi per ché ne gli ordeni sotto posti alle lor regole non determinorono che le religiosse dovessero esser vestite di peli di camelli, come usavano gli antichi eremitani. Se dalla costoro scelerata volontà s’havesse liberamente a dipendere, stimarebbero bene che le frondi dell’alboro che coprirno i nostri primi padri, per non ispendere un sol denaro, servissero di vestiti alle monache o che, a guisa di Sant’Honofrio, non si coprisero d’altro velo che de’ peli dati loro dalla nattura o, come la bella discepola amante, che non portassero altro manto che i proprij capelli - quando non havessero trovata inventione di troncarglierli dalla testa in contrasegnio della perpetua schiavitudine alla quale le condannano. E pur anche sospirano prima di risolversi a queste mecchaniche spese!
Così, aggiustate le determinationi, le monache, chiamate dall’abadessa e dalla campanella, si riducono in un capitolo, più per conformarsi al solito del’uso che per immitatione di quel Santo Pastore che unisce la greggia da lui teneramente amata e di cui ella è ministra. Quivi si propone la fanciulla che deve monacharsi e, per sodisfar agli impii parenti, prima d’ogni altra cosa si espongono i bisogni del monastero, prima di ’l discorrer de’ diffetti e dell’inclinatione della giovanne et essaminare i di lei mancamenti e s’ella sia per riuscire con profitto nella vitta religiosa, come vogliono i fondatori delle vere regole. Alla fine vien ballottata da tutte con parole, acclamata et accettata dalle monache nel loro ordine, post posto il zelo della religione e lo scopo della salute di quell’anima che pur dovrebbe anteporsi ad ogni altra cosa. Non s’ha riguardo al pianto di taluna che con le lagrime dà segno d’entrar involontariamente in quel numero. L’applicatione di tali congregatione, fatte claustrale degli interessi humani, non s’estende a considerare il genio baldanzoso e la nascita vile di qualch’altra di queste tali, non compatisce alla semplicità di quelle che, tenerelle d’ettà, non han cognitione bastevole per ellegersi più una vitta che un’altra; anzi, s’affrettano a imbavararle prima che s’accorgano d’essere imprigionate.
O che inganno!
E pur queste haverebbero bisognio d’andar trasferendo di giorno in giorno le determinationi del lor consenso, come facceva Simonide, interogato quale e che cosa fosse Dio, che ciò ad esse con vantaggio sopra di lui accaderebbe, per ché egli più s’aplicava meno intendeva, e queste con l’applicatione verrebbero a sapere qual fosse lo stato monacale nel quale cecamente vanno ad inviluparsi. Se una di queste sfortunate mostra d’assentire col consenso al farsi religiosa è un’voce proferita dalla bocca, ma l’intelletto non anche matturo copera con la parte elettiva alla determinatione onde, in un medemo tempo, ella inganna se stessa e li superiori e quello che più importa, in un certo modo, lo stesso Dio, senza sua colpa. Pitagora era solito all’apparir del sole in Oriente di pregar i dei che gli concedessero la cognitione del suo proprio genio et ad una tenera giovinetta sul nascente giorno dell’ettà sua vien tolto il pregar il Dio de’ Dei per ché le indrizzi il talento alla cognitione della propria abbilità et inclinatione, ma si vole che operi conforme non al proprio ma all’altrui ingiustissimo genio, e che, senza lume di ragione, si ponga a caminar per le strade di Dio che da San Paulo, tromba dell’Spirito Santo, furono giudicate investigabili: "Quam incomprensibilia sunt iudicia Eius et investigabiles vias Eius!".
Ben proveranno nel giorno dell’Universal Giuditio i prelati e deputati ad assistere a tali funtioni - se non le convenisse meglio titolo di fintioni - i tormentosi rimproveri della loro consienza circa questi particolari! Alhora molti havrano da pentirsi d’haver in questo modo chiusi gl’occhi sopra questi interessi per la sola Raggion di stato, ch’è una scena inganatrice che adormenta gli occhi de’ più savij, un’ombra infernale, una contrafatta chimera del Diavolo, un mostro nemico, anzi destruttore delle buone e sante operationi, un’infamissima magia machinata dall’ambitione che riempie gli oridi sepolchri de’ chiostri di misere ed innocenti donne!
Ma torniamo alla tradita fanciulla che, già accettata fra le monache, per altrui violenza non per propria volontà, si spoglia d’ogni adornamento, entra in angusta e povera tonicella, s’addatta al fianco rozza centura di cuoio e con la scufia in testa - che all’uso di questa patria nell’altre donne è un lugubre contrasegnio della morte da’ cari mariti - dà prencipio a’ suoi infausti imenei, si copre di quella veste che vien deta il primo habito. Ciò essequito, eccola sotto posta all’obedienza che ad esse riescono di maggior carica di quella che s’impone al dorso de’ dromedarij. Ogn’una, sia di stirpe o volgar o nobile, è posta ai più vili esercitij et alle più imonde funtioni.
Ah che se fosse lor proprio moto et elettione pottrebbero anche esse lietamente cantare con quel’angiolette del Paradiso monachale:
"Tanto è ’l bene che aspetto
che ogni pena in diletto".
Sariano pur dolci et amabili le fattiche e, fra gli essercitij d’una santa umiltà, che non mai abastanza è lodata, provarebbero gusti e consolationi di Celo; ma, astrette dalla tirannia e superbia de’ padri e parenti ad operare contro la lor volontà, ben si può considerare da chi ha intelletto s’elle possano esser capacci di quel merito conceduto solo a chi travaglia e volontaria patisce.
E poi vi persuadete, o genitori, d’haver da schivar i giusti fulmini etterni mentr’usate tanta crudeltà contro le vostre figliole e sete, senz’alcun loco o merito e demerito, fra di loro partiali?! Volete che una viva fra gli agi e pompe del mondo e che l’altre stiano miseramente chiuse fra mille stenti et infelicità?!
Con che core credete voi che tal’una di queste veda l’altra sorella che, destinata a sposo carnale, pompeggia nelle delitie e trionfa, per così dire, tra mille lussi e grandezze?!
Questa, non tantosto chiuso il mattrimonio e sparsene la fama, depone ogni semplicità d’habito e s’adorna d’ogni vanità; non si tralascia foggia moderna per rinfrascarla; il crine si sbiondeggia, s’innanella; gli ori, le gemme son chiamati ad arricchire la costei belezza e se la consegna insino un maestro perito che l’insegni i modi del carrolare, acciò in lei né anche i moti siano senz’arte per attrahere a suo tempo gl’occhi e l’anima de’ riguardanti. L’altra infelice, priva della chioma donatale dalla nattura, fra quatro cenci di povera lana, vien venduta per ischiava senza sperar di mai più liberarsi. Quella, ne’ guardi brillanti e lascivi, dà segno dell’alegrezza del core. Questa, con lacrime a forza rittenute, non solo racchiude in seno l’amarezze, ma imprime nell’animo di chi la mira la mestitia. Quella esce di soggettione. Questa entra in prigione. Se per sorte tal un padre di poca levattura cava di monastero l’afflitta, sotto nome di condurla a’ solazzi, e lascia che ella veda i tripudij e bagordi del mondo, come molti fanno, ad altro ciò non le riesce se non a contristarla per vedersene private e le cose vedute le restano impresse nella memoria per un etterno tormento et apunto divengano i Tantali dell’Inferno monachale, mentre hanno presenti l’acque senza potterne gustare una minima stilla, onde restano maggiormente accese di quella sete che l’affligie per tutta la loro vitta. Ad altre poi, che non mai escano di casa, con prettesto che non sij decente a figlia honorata andar vagando, vengono date ad intendere mille bugie: si fa lor credere che le pietre volino, che poca differenza sia fra un horto piccolo et una gran villa, che tutte le cose, senza veruna diferenza, siano simili una all’altra e che insomma tutto il mondo sia ristretto nella similitudine di quelle poche che elle vedono; e se pur le fanno capitare in qualche chiesa, studiando che siano quell’hore nelle quali da verun son frequentate. Et infine con queste meschine non si tratta se non con inganni e frodi di modo che, o nell’un o nell’altra maniera, sono sempre tradite e mal trattate dagli empi padrij, che in tal occorenza prucuran d’essercitar con ogni pottere il lor avaro talento, e tutto ciò che in tutta la vitta hanno imparato d’economico e d’arte di rispiarmo vien da loro effetuato nel vestir d’habbito religioso le figliole.
Le madri, anche esse per compiacer al marito, concorrono con ogni studio e sforzo in stiracchiare le spese e pesano il tutto alla sottile sopra la statera dell’ingiustitia per potter poscia più prodigamente scialaquar il benefficio delle destinate a nozze mondane.
Non si trova già legge per la quale habbiano più ragionevoli pretensioni le maritate che le monacate sopra le case de’ loro parenti, essendo e l’un e l’altra legittime, né ponno arogarsi più quelle che queste; ma l’ingiusta partialità de’ genitori determina a suo piacere contro ogni raggione: la di costoro malvagità è tale e tanta che genera meraviglia e compassione in chi la considera. Si può sentire più partiale e sproporcionato affetto mentre che ’l merito, le ragioni e prettensioni sono eguali et indiferenti nelle figliole?!
Si trova talhora in qualche una di queste diaboliche habitationi quatro o cinque femine tutte generate d’un istesso seme - per quanto appare - e partorite da un solo ventre, cadauna delle quali sarà vogliosa di goder i lumi di questo celo e niuna di loro può disponer del suo volere e libero arbitrio per ché è forzata a dipendere del suo volere dalle paterne e interessate determinationi. I padri e frattelli, che sono giudici ingiusti, parte per non scaricar gli scrigni di tesoro e privar di comodi superflui le case loro, trattane una sola, condanano tutte le altre al perpettuo laberinto d’un chiostro; et altri le sepeliscono tutte e per prolongar quanto più sia possibile il privarsi dell’amate ricchezze, vogliono che l’ultima uscita alla luce resti al goderla, non havendo risguardo ai privilegij della primogenitura che, sino nel Testamento Vecchio vien dicchiarata per meritevole di qualche vantagiosa conditione. Esaù che, astretto dalla fame, vendè al frattello la primogenitura per una scudella di lente meritò dall’Appostolo nome di profano quando, scrivendo agli Ebrei, disse: "Aut profanus ut Esaù, qui propter unam escam vendidit primituia sua". Segno questo espresso che è molto degna d’essere stimata la conditione. Questa fu la cagione per la quale, nel parto di Tamar, la levatrice legò con un fil roso il braccio di Zaran, per ché fosse conosciuta la di costui superiorità sopra l’altro frattello. Non mi mancarebbero altre prove per dinotare che i primi nati devensi tener in pregio sopra gli altri, ma ad altro fine si gira la mia penna et a me basta ciò: l’haver tocato così di passaggio per accenar l’humane barbarie di questi tirani che io descrivo e la, pur troppo contra suo costume stabile, ma iniqua fortuna dell’imprigionate dal costoro inganno, che non instabile, varia e diversa, come da’ poeti vien descritta, ma costante e perpetua riesce a queste la sorte, essendo il loro stato impermutabile a qual si voglia accento, sì come stimo che chi la descrisse ciecca e sorda a gli altrui preghi ragionasse della fortuna delle sore inganate, alle cui esclamationi non mai si rende mutabile. Non mai doppo le nubi attendon serenità: varian pur le stagioni e gli anni le loro vicende!
Da ciò a lor nascano mille pensieri di disperationi e, s’elle mancassero a farsi schermo con la prudenza, impazziriano. Di loro si può ben dire:
"Felici quei che son così prudenti
che san col tempo accomodar la vitta".
Immaginati qual torbidi pensieri stiano confusi in quei cori c’han veduto giudicarsi con tanta ingiustitia! Vedono la sorella, a lor infima d’età e sovente di merito, nottar in un mar di piacere e gusti e la scuoprano dovitiosa di comodi e di tutto ciò di buono che può e sa dare il mondo ed indi rivolgono la consideratione a se stesse e si vedono trattate con tanta differenza, sepolte prima d’esser morte, ricche di dissaggi ed astrette a servire a pare e pattire.
Non è lingua o penna bastevole a narar l’interne passioni che agittano il lor animo! Diccono con Geremia: "Quis salit capitiones aquam et oculis meis fontem lacrimarum?".
I padri e congionti, doppo haverle trattate peggio che da serve, proseguono in affligerle sentendo ancora gli agiustamenti della dotte, prucurando di restringer le spese di vestimenti, banchetti e musiche neccessarie; e le madri coprono a queste durezze per tema del marito, il quale vole vantaggiare et avanzare in pro’ della priviligiata da maritarsi. Scielgono le più grosse e ruvide tele per le camise delle sventurate che sovvente non riescono di bastevole longhezza e le maniche sono a tal’una diverse dal rimanente, per potter poscia con prodiga mano adoprarsi che le prime spoglie destinate al maritaggio siano di finissimi bissi d’Olanda, adornate di punti in aria e guarnite de’ più ingeniosi lavori che mandi la Fiandra a questi nostri lidi: due sole di queste pottriano stare di prezo in equilibrio a tutti i mobili et altre cose della monacata!
Il vestito delle più infime parti non che altro è ricco di ricami a cui sucedono legami pomposi d’oro che stringono alla gamba il superbo e serico cotturno, la superba e gentilissima calzetta, che più e più vagliono intieri tesori le pianelle, guanti, fiocchi, stringhe della destinata a sposo tereno. Le più preciose perle dell’Oriente son chiamate ad adornarle il collo; i grossi e lucidi diamanti fioriscono in forma di rosa per cingerle le dita; gl’ori sottilmente lavorati da industre mano le pendano dall’orecchie e non v’è lusso, delitia o dispendio superfluo che non concorra alle di costei stisfationi o grandeze; si vegono su le mense cibi poco inferiori a gli apprestati nelle cene di Cleopatra. Ma per il contrario la condenata alla tomba d’un chiostro è necessitata a coprirsi la gamba di rozza rassa et adatarsi al piedi un zoccolo di legnio mal vestito di cuoio e cingersi al collo un bavaro così nemico della ricchezza che la priva d’tesori donatoli dalla nattura; esercita le mani intorno esercitij vili et imonde schifezze, è bisogniosa insino d’un infelice ago, o spila e, fra poveri cenci, va mendicando insino il suo proprio valere per valersene, ma essendole anegato o prolongato il dargliele, resta a penare fra’ suoi dissaggi.
O qual parcialità ingiustissima! Ben si può dir a questi tali padri e parenti: "O pleni omni dolo et omni falaccia! Filij diaboli! Inimici omnis iustitiae!"
Quanto però son scarsi i tenacci nel’esborso di ciò che hanno promesso, sono altretanto prodighi di promesse per condur l’infelici all’ingresso di quella porta dalla quale mai più si concede loro l’uscita:
"Lor promesse di fe’ come son vote!"
"Omnis homo mendax" sono tutti gli homeni mendaci in ogni occorenza, ma quando si tratta di assasinare una di queste misere son più di mai bugiardi e mentitori. Promettono fornimenti di cella magnifici e sontuosi, tutto ciò che han di bello e gentile in casa le dicono: "Sarà tutto tuo".
Poi si riducono a due casse delle più tarlate, apportando per iscusa che non è dovere lo sfornir le camere, ma che poscia ne faran fabricare ad eccelenti maestri. E così d’ogn’altra cosa avviene, ma tutte le loro speranze finiscono nel rimaner elle tradite dalle bugie di costoro, quali, non contenti di tanta crudeltà, irridono anche l’infilicità di quelle mal condotte.
Almeno questi perfidi non nutrissero con falaci promesse la loro aspettatione e si raccordassero che Plutarco dice che ’l mentir è vitio abominevole, servile, indegno di perdono e che merita esser da tutti odiato! L’Eccelentissimo dice "Noli amare mendacium", diede precetto che "Pacta semper et promissa servanda sunt, quia nec vi nec dolo male facta sunt".
Ma non è meraviglia che così poco stimino il vitio dell’inganare coloro che sono l’idea d’ogni impietà!
Preparano per lettiera quatro pezzi d’alboro più in forma di cattaleto che d’altro, a colei che vogliono sepilir viva; si sospira sino il nolo di quella gioia che serve a dar contrasegno all’infelice che ella va nella sepoltura e gli avari maladetti làgnarsi di quel poco danaro per ché studian tutti i vantaggi che si ponno imparar nelle scuole d’una sordida tenacità. Se le destina il più duro e rozzo letto di casa con ogni concernenza più vile, dicendo che a religiosa sposa di Cristo non son decenti gli agi superflui o adobamenti vani; ma poscia, con questi scrupoli inoportuni e diabolici, non havranno riguardo, in altra occorenza, d’usurparsi i beni della Chiesa. Sono simili a Dionigio che, fingendo di far stima del’honor del dio Esculapio, gli levò la barba d’oro con dire simulatamente che era vergognioso che ’l padre Apolo fosse sbarbato e che egli, che era il figliolo, paresse vecchio. Così questi hipocriti posseduti dal Diavolo mostrano zelo del culto di Dio e concorrono a prucurare che nella religione sia usata una parsimonia estrema, non volendo accorgersi che la povertà deve esser abbracciata dalle religiose volontarie, non dalle violentati dalla loro tiranide.
Ah che non sono partiali della santità et osservanza della religione!
E i loro fini non sono giusti per ché, se fossero tali, saprebbero anche che non è lecito ai mondani l’ussar lusi superbi e più de’ povere pomposi; e così per la figliola o sorella maritata non si prepararebbero lettiera di finissimo argento, coperte di trabacche cariche d’oro, si lascariano le tapezzarie soverchiamente industriose con tant’altr’superfluità di gentilezze, odori, giardini, gondole, livree, musiche, comedie e mille sensualità quasi oscene che s’inventano per appagare e sattolare ogni brama e sentimento di colei che è destinata alle lascivie; e se ben poi sovente, per flagello di Dio, questi piacceri e grandezze finiscono in breve spatio di giorni, non è per questo che dal partialissimo padre non siano procurate ad ogni pottere per lunghezza di tempo alla troppo amata figliola. Quando si tratta di maritar una di queste tali, non si tralascia diligenza in cercare se vi sono suocera, cugnata o altre che possano impedirle l’assoluta patronanza: la bramano sola acciò sia signora del tutto e non habbia di che contendere con altre donne pretendenti. Alla monacha, in contraposto, è necessario il sotto porsi con giuramento inviolabile al’obidienza e vien posta fra moltitudine di gente d’ogni conditione. Quella entra in una casa per dominatrice ad essercitar il comando sopra molte serve e diventa patrona degli haveri del consorte. Questa s’imprigiona in un monastero per esser comandata senza haver pur ardimento di replicar una sola parola. E Dio sa con che maniere e con che amore vien retta et alimentata!
Si studia con ogni aplicatione per ché quella vada a goder fra le ricchezze e si desia per genero un Mida, ma alla misera religiosa vien assegniata la Povertà per compagna indivisibile e per sicuro mezzo della sua salute, non havendo riguardo che la necessità è la più grave sciagura di tutti gl’infortunij del mondo: scaccia l’allegrezza e ’l riposo, fuga le virtù, cagiona che si trascuri l’honore ed è l’ultimo esterminio di ogni filicità e quiete. E pur gli scelerati gli fan far solenne voto, nella Chiesa di Dio, su pietra sacra, nelle mani d’un sacerdote, di perpetua povertà - abuso che cagiona infinità di mali e precipitij! All’eletta ai piaceri del mondo si procura per isposo un giovanne amoroso, gentile, che, se non l’è di continuo a lato e non dà segni d’esser di lei ardentamente inamorato - ben ché ella fosse di conditioni odiose et una Gabrina di brutezza e vecchiezza -, si comincia a dubitare della posterità, a piangerla come malamente maritata od anche tal’hora s’arriva a trattare del divortio.
Quasi che tutta l’humana felicità di costei consista in quella sensualità di che privi l’altra, alla quale fai imporre severissime leggi di castità e vitta purissima sotto gravissime pene, di modo che l’è vietato il mirar sino la faccia dell’istesso virille e traditore! Anz’ella, per sottrarsi da così insipido e ristretto modo di vivere, stimarebbe fortuna il star ritirata nella propria casa, l’haver un eunucco per marito e riputarebbe a gratia singolare un poco di libertà, una sola serva, vitto e vestito, senza haver da sospirarlo e guadagniarselo con le proprie mani e lavorando, come al più delle monache avviene. Io qui vorrei havere una voce che, a guisa di sonora tromba, rimbombasse in tutte l’orecchie di que’ felloni che, concorendo alla ruina di tante anime, può dirsi che mortalissimamente offendono Dio; ma non son proveduta d’inteletto bastevolmente svegliato e la penna è guidata dal mio solo chiribizzo senz’immaginabil lume di lettere né cognitione di scrivere... Rittorniamo perciò un passo adietro sul’incominciato viaggio: arrivato quel’infausto deputato giorno, l’innocente fanciulla, persuadendosi che, tal quale ella è di animo ingenuo e sincero, siano anche gli altri, prestando fede alle promesse de’ menzognieri parenti per ché ha inteso che:
"Verba ligant homines, taurorum cornua a funes",
si lascia, qual innocente agnelletto, condur al macello, né accorgendosi che "Aranearum tela, fiduccia Eius", fa quella funebre e irretratabile entrata e rinuncia affatto ad ogni passatempo, ben ché lecito. In questi primi ingressi, le semplici vergini sono accettate con faccia begnigna e ridente solo per interesse per la dote. Se qualche volta bramano ritrarre il piedi dalla soglia di quel’angoscioso Inferno per loro, si lagniano sino per invocar la morte che le libera, la trovano sorda; anzi, per maggior pena, vien loro prolongata la vitta, quando la maggior parte delle monache vive sino all’età decrepita per ché, nella longhezza, quelle che vi sono contro lor voglia, provino più grave il tormento, se però non vogliamo dire che la morte trascuri di rapirle; come quelle che, morendo ad ogni momento, ponno di continuo con verità dire:
"Cotal pena è la mia, che morte aguaglia"
oltre che per gl’habiti e per la tristezza, paiano già morte, onde la Parca, tali credendole, allonga più del ragionevole il lor vivere. Di più, il vitto parco, il non muttar aria e l’esercitio continovo nell’obedienze rittarda loro la bramata e mille volte implorata morte.
Ma qui è di necessità, o lettore, che io t’aviso che ciò che sino ad hora ho discorso è uno scherzo in pareggio di quella tragedia che hora sono per dimostrarti su la scena di questi fogli, ove vedrai mille stratij d’animo di quelle, non sforzate dal fatto, violentate dal destino, mal condotte dalla sorte e condennate dalle stelle, (poi ché:
"Fatto, fortuna, predestinatione,
sorte, caso, ventura son di quelle
cose che dan gran noia alle persone
e vi si dicon su di gran novelle" ,
ma di figlie tirannicamente e violentemente esposte di padri che, quasi crudi e disamorevoli pastori, le lasciano in preda de’ voracci luppi che sono i Diavoli, i quali non cessan mai di tormentarle con la rimembranza de’ gli oblighi religiosi, con la privatione del mondo e parcialità in humana de’ padri e parenti. Il senso lo raccorda gli comodi lasciati, la carne fa l’offitio suo: finalmente le pene del’Inferno monachale, nelle quali deono viver e morire a loro dispetto, le cruciano eternamente.
Questo è il proemio della tragiedia e mestissima rapresentatione, la quale, non con finte apparenze, ma con reali existenze, fonda le riuscite della funestissima sua catastrofe non sopra una semplice, ma più volte replicata morte, poi ché alle monache è destinato il morire più d’una volta.
Entratta la fanciulla nella scena del monastero, già disposti i luochi e preparati li habiti, si viene alle prove se la rapresentante riesca e poi, con piacere degl’assistenti, si comincia ad intessere i primi fili della tragedia per condurli ad un misserabile fine. Anteccede all’atto primo del vestire una musica di campane che, con mestissimo rimbombo, dà segno della vicina e melanconica festa da celebrarsi; questo sono, a colei che non è avezza a comparire in questo teatro, promove l’alterationi dal più intimo del core che, senza esser ferito d’amore, arde.
Argomentisi da questi accidenti se ragionevolmente riesca dolorosa alla tradita la privatione del suo più caro ornamento!
Mira con occhio pietoso ma avelenato quelle che sono assistenti a così odiata fontione e che le stanno a lato per insegnarle atti che hano più del compassionevole e ridicolo che del cattolico e divotto.
Per non tediar fra tanto chi legge con la lungheza delle dicerie che sarebbero neccessarie per dicchiarar minutamente così pontuale e diligente opperatione, mi restringerò con brevità di parole a dire che, doppo haver ella cantati versi et altre infinitissime cerimonie, quel che rapresenta il vicario di Cristo, doppo havergliele consegniato per Isposo irrevocabile, l’obliga a non mai lasciarsi uscir di mano il salterio, onde quella mente, avezza et inclinata alle curiosità degl’Amadigi e de’ Floriselli, si sente aspramente trafligere in sentendo dirsi: "Non recedat psalterium de manibus tuis, aut legas, aut ores, aut rem faciendam labores"
Ma per ché qui si parla dell’assassinate e forzate dalla tirannia paterna, non dalle vocate dallo Spirito Santo, non ti dei scandelizar, o discretto lettore, anzi compatire imaginando i tormenti di quell’anima, se ben difficilmente ne può esser capace un inteletto separato dal’esperienza di così efficacci passioni.
Terminato tutto ciò che occorre ad imbavararla, ogni una delle monache si accinge per darle segnio di pace con un baccio, ciascuno di quei baci uscito da quelle bocche degenera in un acuto strale che vola a ferir modestamente le più reccondite viscere del cor della religiosa novizza, che con tal nome appunto, per lo spaccio d’un anno intiero, vien chiamata. Finiscono i complimenti, ma non i dolori de’ quali piena quel’anima travagliata, col canto su le labra e le lacrime sul core, verso le monache così dice:
"E voi sorelle, hor al mio Dio veracce
godianci ormai in soporosa pace".
E pur il tutto diversamente succede, per ché trovanno per elle la pace sbandita, l’amor di Dio finto e in vece di godimento rodimento di rancor, tribolazioni di mormorationi et inquietudini!
Arrivata la tragedia a questo termine, si muta la scena prima, rapresentante il tempio, in un monastero sopra la quale, a pregiuditio et esterminio dell’infelice, come a personaggio principale si raggira intorno la machina tutta del funesto drammatico: essercitan sue parti l’Interesse, la Fraude, la Simulatione, l’Hipocresia che passano fra loro dialoghi non intiligibili ad animi puri ed innocenti; l’Inganno e ’l Tradimento rappresentano al vivo l’offitio di consigliere; la Malignità e Superbia, travestite et ancompagniate da gli altri peccati, si fingono autorevoli ma malinconicose et atte ad ingannar con dolcezza ogni sentimento di chi si fida di loro apparenti larve; e tutti i mascherati recitan con eloquenza così diabbolicamente artificiosa che può rapir gli animi di coloro che sono ignari di così simulato e finto vivere. Non n’hanno colpa le povere sfortunate poi ché gli iniqui fabricano a forza questi luochi dove, sotto habitti mentiti, nascondono sino i parti loro delle sfingi e chimere mostruose. Sola la Virtù ne rimane esclusa con la Fede e Sincerità, per ché quivi non riescono a proposito e, se tentano di comparire per rappresentar la lor parte, vengono scacciate e deluse come quelle che non usan gettar la pietra e nasconder il braccio, come eccelentamente usan di fare le prime nominate recitratici; onde le disprezzate e mal vedute, per esser il numero del meno, restano scopo alle maligne saette di quegli accorti dicitori che han sempre la mira di dar nel segnio dell’altrui riputatione et di attribuir ad altri i loro proprij mancamenti. E l’assistenti, che sono Diavolo, Mondo e Carne, applaudono di continuo a queste tali, onde solo i diabolici comici restan con honore e la povera Virtù con le sue seguacci, cioè l’innamorate di Cristo, rimane conculcate e non conosciute.
O delizio essecrabile degl’homeni!
I perfidi interlocutori che han deposta la vergonia, come è solito de’ tali personaggi, vanno con la lingua satirica fingendo et inventando calunie et appunto all’uso de’ mercenarij comicci che attendono ingordamente all’uttile e s’affatticono solo intenti al guadagno, ai doni, o presenti con tall’interessata voracità che par che di loro cantasse il gentilissimo poeta toscano quando disse:
"Et una lupa che di tutte brame
sembrava carca nella sua magrezza
che molte genti fe’ già viver grame".
Non mancano mai queste adulatricce e finte istrione, ma sforzate religiose, d’impiegar tutto il talento, importare con gratia i loro interessi e, per ché sono coperte di quegli habiti a forza, vivono alla secolaresca né se intendono punto ad osservare quello a chi l’anima non concorre. Se tal’una d’animo nobile diversamente tratta, caluniano quel generoso core con tittoli di superbo et artificioso nelle pretensioni di sovrastar all’altre. Non manca loro artificio per fengersi l’idea della liberalità e pure con ingordiggia attendono la novella religiosa, non per carità o zelo d’accrescere di serve al Signore, ma per ché il giorno festivo dell’ingresso è necessario che ’l di lei ancor ché avarissimo genitore banchetti tutto il monastero; e tall’una di queste tali, parlando sempre dell’involontarie, per quel puoco mangiare tralasciarebbe, per modo di dire, gli interessi di Dio. Attendono tal giornata con più desio che non fa un vero innamorato d’abboccarsi con l’adorata dama, la quale arrivata, paiono tanti Epuloni assistenti a quella mensa.
Se a questi tragici avvenimenti fosse decente il ridicolo, tali riuscirebbero i contrasti fra l’avaritia del padre della nova monacha e la gola di tal’una dell’insatiabili Arpie! Queste insantemente adimandano, quello ostinatamente nega.
Ah, che questi sono accidenti non solo sproportionati al riso, ma degni di lagrime di sangue!
Finalmente, doppo multiplicate contese, per la parte del’uno si riducce la cosa alla minor spesa possibile e per quella dell’altro bisognia carricar almeno le mense vili e mechaniche di qualche sorta di cibo. Al loco che vien chiamato con nome di reffettorio, in qualche monastero sarebbe più proporcionato il nome di spelonca da ladri. Quivi, dato il segno della campanella due volti, introdotta la novizza che più morta che viva e più portata dalle ministre che da proprij piedi vi giunge, per honorarla, doppo haver l’abadessa benedetta la mensa, vien comandata ad assidersi per questa prima volta appresso di essa, ma, imbrogliata fra gl’involti di quelle a lei nove e noiose vesti, con la corona in testa, si può di lei dire ciò che ad altro proposito cantò il gran Tasso:
"Cibo non prende già, ché di suo’ mali
solo si pascie e sol di pianto ha sete".
Quivi una monaca legge una regola in alta voce, essendo l’ordinario ogni giorno di sentirsi nell’hora destinata al mangiar una lettura tal volta e per il più che annoia per ché della morte, del’Inferno, di vermini e piaghe si sente a trattare. Due cellerarie compariscono con le vivande et imbadigioni, molto diverse da quelle che superbamente fumano su le mense nelle nozze della costei sorella rimasa a trionfar fra le delitie di sposalitio mondano: ivi la coppia ha votato tutto il suo corno e sino i fumi vagliano tesori, ma quivi la penuria dispensa avaramente il vitto non per adherir alla delitia, ma per satisfar alla necessità; ivii Baco e Venere, esercitando lor antiche simpatie, gareggiano a cui più si deva la preminenza, ma la dea d’amore, ben sublimata, viene al primo seggio; quivi altrettanto non avviene, nol permettendo la severa et indegna partialità de’ genitori, fratelli e parenti.
E pure i puoco lauti conviti goduti dalle monache, quando ammettono qualch’una, paiano loro sontuosi e magnifici, essendo per ordinario il loro pranzo picciolissima portion di carne che, comprata in credenza, è della peggiore, oltre che si coce la sera e si magna la mattina. Né queste sono favole, ma ben veracci historie e non sia ingenio che, di soverchio speculativo, non presti intiera fede a’ miei veracci detti per ché me è notto trovarsi molto andar dicendo che le monache godono un perfetto buon tempo, possia che sono sempre invitate al pranso et alla cena dal suono di una campanella, senza esser tormentate da pensiero di provedere alla casa.
O degni mentitori, a’ quali sia saciata la fame da un sol sono di squilla! Non è già lor dinegato il passersi nell’istesso modo nelle proprie case?! Anzi, s’anche essi volesser vivere nell’istessa maniera o con l’istessa parsimonia, avanzarebbero più denari da scialaquar nell’enormità di vittij!
Pur troppo è necessario che ogni monacha proveda a se stessa et habbia quelle medeme cure che agravan padri e madri di famiglia: i vestiti si stracciano e fa di mestiere il rinovarli secondo il bisognio, non v’essendo niuna tanto perfetta in santità che conservi il proprio habito sino al fine della vitta - se brevemente non la termina - senza il dover sovenire ad altre mille neccessità che di continovo occorrono e spender annualmente nell’obedienza; oltre che, essendo impossibile il sostenersi in vitta con la prebenda - per riccha che sia - data dal monastero, è forza soccorer il corpo di cibi spendendo la mettà del suo in viaggi. E colei che non ha qualche entrata particolare, non vive che fra stenti e miserie: ben il prova la fanciulla quando, desta dal letargo cagionatole dall’infide promesse e speranze con le quali l’han legata et obligata i parenti, si accorge di non esser proveduta che di sola casa, di poco vino e pane. E pur la Bocca della Verità disse: "Non in solo pane vivit homo"!
Infinitissime minaccie me occorerebbero sopra di ciò: a maggior opportunità le riserbo. Né mancan fra tanto gravi, anzi ridicole, contese fra le disperate che, per minor tedio, anche tralascio. Ma s’io dicessi che tutte fossero così spropositade, saria forse tacciata di maledica lingua. E sì ti giuro, o lettore, che se ben ve ne è di prudenti, poche se ne può escludere. Sei necessitato a creder questa indifesa verità, mentre il numero delle forzate tanto superiore alle volontarie t’assicura che siano molte quelle che fan confussione.
Questi sono i preludi, anzi i prencipi de’ disgusti della nova velata, per ché sente sovente rimproverarsi da qualche indiscretta il mal trattamento intorno alla prima cena, di gran lunga inferior a quella di qualch’altra - tutto che però la rassembri più lauta di quella di Cleopatra. Non mai mancan oppossitioni in qual si sia delle sudette ad altre attioni, essendo il monastero un teatro pieno di diversi cervelli, anzi un grandissimo hospitale di pazzi, ripieno di gente tali non de altri che dalla tirania degli huomeni, s’havendo in fine la sfortunata giovane d’esser imprigionata nell’Inferno de’ viventi e di calcar una scena tragica con rapresentratici magligne che, sotto cortigianesca adulatione, cuoprono un vivere a lor modo, alle quali benissimo s’adatta quello che scrisse uno ad un cortigiano: "Homai sei cortigiano
che è la seconda specie de’ ribaldi".
Così la missera non si ha a qual parte volgersi, scorgendo celo et elementi congiurati a’ suoi danni e, conoscendo che in simil stanza risiedono le pene infernali, può ben insieme con quel vivaccissimo ingegnio cantar piangendo le conditioni del loco in cui è condanatta senz’haver giamai erato:
"Quivi sospiri e pianti et altri guai
risuonano per l’aria senza stelle
che al cominciar io già ne lacrimai.
Diverse lingue, horribili favelle,
parole di dolor, accenti d’ira,
voci alte e fioche e suon di man con elle".
Il fine del primo libro del’Inferno monacale.

LIBRO SECONDO

Inganno è un de’ più horridi mostri che concorrano ad infettar la quiette e felicità de’ miseri mortali, cagionando loro gl’infortunij, sotto falso pretesto e finta apparenza di bene servire, aportar mali tanto più tormentosi quanto meno aspettati. Ben il provarono quegl’infelici Hebrei a’ quali, nel condurli seco, Nabucdonosor comisse che al partire non arrecassero con esso loro altro che gli strumenti musicali: organi, timpani, flauti et cetre. Et ciò per persuader loro innganevolmente che in Babilonia erano per godere fra gli agi e che altro che conviti e suoni e canti non eran per esser i loro essercicij e vitta; ma miseramente restaro delusi et aggravati da durissimo giogo di servitù. Anzi, sovente motteggiatti e derisi, serviano di scherzo (come asserise il Testo) a chi gli haveva inganati: "Qua illic interogaverunt qui captivos duxerunt nos verba cantionum, cantate nobis de canticis Sion". Rispondevano i misserabili: "Quomodo cantabimus canticum Domini in terra aliena?".
Lo stesso aviene all’infelici
monache, quando si sono lasciate condur nella carcere d’un chiostro infernale per loro, dalle falacci promesse e da gl’astutti inganni de’ tiranni parenti, non dalla voce dello Spirito Santo. All’hora che la speranza è inaridita, s’avveggono esser prese alla rete, onde, con falsità di pretesti, deluse e derisse, son fatte perpetue servitrici di mille obligationi. Gli arnesi od passatempi e gusti proposti loro nell’ingresso dalla vecchia e da i malvaggi padri restano, come quelli del popolo eletto, per sempre pendenti da’ muri. "In salicibus in medio eius" dicevan essi "suspendimus organa nostra super flumina Babillonis, illic sedimus et flevimus cum reccordemur Sion". L’istesso diccono le sfortunate poi ché, in raccordandosi il lasciato mondo, né vedendosi spirar né pur un’aura di salutifera speranza, piangon di continuo. Nell’udirsi commetter che suonino, cioè che stian liette in servir Dio come tenute ad abnegar la propria volontà per ben amare il loro Sposo, rispondono:
"Quomodo cantabimus canticum Domini in terra aliena?" Come potiam noi lodar il Sommo et Omnipotente Motore, mentre ci ritroviam in terra altrui? Questa non è sua casa, se è habbitata da donne imprigionate con violenza. È impossibile che noi esprimiamo canto che ben risuoni e riesca grato, mentre piangiamo la servitù in che ci rittroviamo e gemiamo della perduta libertà!
Il cor loro, che si considera tradito, non può acconsentir ad allegrezze e così, fra sue inquietudini, ritruova modo d’offender, non di placar il suo Dio. L’ettà tenera e nattural loro inclinatione faccilmente lascia che elle si pieghin al bene, ma, per ché sono a forza rinchiuse, volentier s’appiglian al male e, per esser formate di questa massa comune di carne, non son meno tormentate di S. Paolo, che diceva: "Datus est michi stimulus carnis".
Ma per ché nel’antecedente libro non stimai bene il dilattarmi tanto che perfectionass’il racconto della partial maniera che usano i padri fra le figliole destinate a gli abbracciamenti di sposo terreno od a i sponsali di Cristo, sentasi hora con che differenza d’affetto e de operationi siano da loro trattate: alla mondana non è lusso, diletto o delitia negata anticipatamente allo sposalitio; ogni giorno ella si cuopre d’habiti variamente nuovi; le mascherate, i giochi de carte, le comedie et ogni altro piacere le sono di continuo preparati; in somma, sovrabonda di tutto ciò che può possedere nel suo stato qual ci siasi. Ma la novizza spirituale, sino che con tal tittolo si va disponendo per sostentar alla ponderosa carica della proffessione, è ricca d’ogni mancanza: sia pur di sangue serenissimo ed hillustrissimo, nulla di rispetto le vien portato, anzi è impiegata nelle maggiori fattiche. Le più immonde schifeze, fugitte dalle più vili serve nelle case private, ad essa son risservate per esercitio. L’abassamento di capo, anco verso cui non conviene, l’assistenza e prontezza nell’obedienze e l’assiduità nel coro continua, se da queste tali non sono pontualmente osservate, si sentono con rimproveri cruciare con non dissimili voci da quelle che, come esse, furono sposate a Cristo con violenza:
"Sei novizza: a te, a te s’appartengono i dissagi".
"Tu, come ultima entrata in monastero, devi suplir per l’altre, ché così habbiam fatto ancora noi a’ nostri tempi".
"Non è decente che tu prettenda di voler star al paragone con le professe e sacratte..."
O scandalo essecrabile, quando, con l’essempio, doverebbono esser loro sprone per eccitarle al corso della religiosa carriera! Servono più tosto loro di freno, scoprendo il proprio modo di vivere non religioso nell’opere...
Oh Dio, se queste tali sapessero quanto è meglio l’insegniar con gli esempi di vitta santa che con rimproveri inoportuni, mutarebbero modo di costumi e di precetti! Se non da altri, si può imparar da Seneca, che, scrivendo al suo Lucilio, diceva: "Longum iter per preceptum, breve et efficax per exemplar".
La novella religiosa, però, pura e semplice, non comprende che questi rimbrotti siano a lei con parcialità fuor di proposito e di tempo, ma crede che ’l tutto sia indrizzato a buon fine, acciò che ella s’assuefaccia al ben opperare, dove, con tratti d’ingenuità, profferendo illa apertamente il suo senso tutto puro, vien interpretato dalle scaltre vecchie della corte infernale con sentimenti diversi. Ah, che per corrisponder alla doppiezza di chi qual Gano tradisce, sarebbe a proposito un Giuda che, sepor quegli tradì Carlo, questi assasinò Christo!
Ma ogni malle nasce dalla cecità del padre che, privo d’ogni vero lume di raggione, pur ché imprigioni la figlia, non riccerca con quella dilligenza che doverebbe a cui la consegnia in governo; sì ché tal uno la dà in mano di soggetto discolo che, dovendole di raggione servir di maestra nel viver cattolico e pio, le serve di norma per tener una vitta poco religiosa. In vecce di salterij e libri spirituali, non mai escono da quelle mani libri amorosi di cavalleria, con altre simili vanne et oscene letture, con le falsità et inganni che da questi derivano. Non tralascian, questi Diavoli incarnati, di fomentar la parente a cuoprirsi d’habbiti lascivi per ché, havendole poste nell’Inferno, non vogliono che le manchi i tentattori. Le promettono il suo aiutto nel male con esserle precipitosa scorta per sommergerle in un mare di negligenze religiose, con trattenerle ne’ parlattori con discorsi profani, in vece di lasciarli andar in coro et in vece di essercitar l’offitio di buon christiano, con esserle freno a correr le vie del senso, con persuaderla all’astinenza e purità di costumi. L’è un acutissimo sprone, se bene il nostro genio è sempre proclino al male, più è inclinato a seguir il proprio gusto e recalcitrar allo spirito. Non dimeno, la schietezza di animo della govenitta e l’innocente suo talento, appreso dall’educatione, va pur schermendosi coll’armi del proprio honore e rittirandosi dall’essecutione de’ vanni precetti. Ma ché, non basta questa honorata inclinatione: bisognia finalmente che lei ceda alle raggioni addotte da chi, con l’esperienza alla mano, le giura il viver così esser delitia di Paradiso e, come ciò fosse verità autenticha, l’approva con esempi delle presenti religiose - la maggior parte delle quali in molti monasterij così vive - e l’asserisce esser accion da pazza non seguir il maggior numero, sugerendole esser cosa divina il trattar e discorrer con ogn’uno. In summa, tal predicator falso predica alla novella monacha nello stesso modo che facevan coloro appresso Salomone: "Venite, fruamur bonis que sunt et utamur creatura tanquam in iuventute celerius vino pretioso et unguentis nos impleamus et ne pretereat nostri flos temporis".
O che raccordi diabollici, che però non ponno penetrar in cor di donna virtuosa et honorata: se in questa tale resta seminata così trista zizania, non pullula e si disperde per ché è arido quel tereno per così esosa semenza!
Colei che è tentata da tante può ben cader in qualche legerezza, ma non perfettamente errare; si dà qualche puoco in preda alla vanità, ma non inciampa nelle trappole nelle quali, quando cadesse, sola cagion ne sarebbero stati i suoi genitori, prima, e poi i proprij parenti. E se la prudenza non regesse questa tale, si farebbe legge di quello che sente dirsi da questi esploratori della falsa legge: la parte fragile del senso la persuaderebbe a non star in forse d’essequir i doccumenti del vano congiunto; la concupiscibile si compiacerebbe di ciò che gusta alla carne e così, impensatamente, quasi si può dir senza colpa della fanciulla, se l’aiuto divino non le sovrestasse, quell’animo cominciarebbe a ruminar i discorsi amorosi et a farsi lecito quello che nella vera casa di Dio doveva esser abborito, facendo scherno a suoi falli con quel detto:
"Per ché l’erar con molti è minor fallo".
Se per gratia però sovranaturale, questa si serve di quel detto di Cristo, "Secundum opera eorum nolite facere", cent’altre cadono negl’abbissi degli errori e quei detti, soggeriti et inventati dal Principe delle Tenebre, paiono loro precetti da seguirsi. E così, imitando elle et accettando i consigli di questi ministri del Diavolo, vanno poi operando secondo l’acutezza del proprio ingegnio e fanno che si verifichino le parole lamentevoli di chi non può mentire quando disse: "Populus meus in domo mea fecit scelera eorum". Il missero Baldassare, solo per haver proffanato il tempio e beuto ne’ vasi che adroperava il sacerdote, meritò di veder una mano che scrivendo nel muro l’avisasse dell’iminente sua morte per rendergliela più tormentosa. Hor a questi sceleratissimi mostri, che non solo profanano la casa di Dio, ma, nel condanar i corpi alla prigion d’un monastero, commettono col’eccidio del’anima, e propria e d’altri, anche il deicidio, sì come anche a gli inventori di cusì tiranna crudeltà al sicuro è riserbato maggior castigo di quello dato al re poi ché il loro fallo eccede di gran lunga quel di lui.
Ah, che io non ho ingegnio sì scaltro o inteletto sì sagacce che vaglia a spiegar in tutto tante intrecciate malitie di questi serpi che, sotto spoglia di religiose, cuoprono il veleno, hanno parole d’amore, effetti d’odio, apparenza di dolcezza o begninità, ma lacci orditi, inganni tessi: portano humile il volto, ma superbo il core. E chi pottrà descriver queste finte religiose?!
E se i loro pensieri sono imperscruabili fuor che a Dio, abominatore di così fieri mostri generati dagl’huomeni, i quali non hanno albergo più cari de’ monasterij, dove trovano più largo campo da essercitar le loro dopiezze?!
Queste sono chiamate da Isidoro "amfessibeni", specie di serpi ch’ha un raspo in ambo l’estremità, et a ragione son così dette poi ché, apunto come s’havessero due menti, hanno due intentioni: con una fingano, con l’altra ingannano. Sì come furono inganate esse, si vanno, apunto a guisa di serpente, aggirando intorno alla semplice giovanetta ignara di lor falsità e, fingendo d’amarla, vorreber potter avelenarla col respiro; ma in fine loro aviene che "Redentor et Dominus malitiam cor sum super caput suum". Sono mostri non dessimili da’ genitori che portano il core lontanissimo dal volto o sono simili alle Sirene che, col canto, insidiano agli incauti naviganti.
O come cantan con voci e concetti proprij per farsi creder affetuosissime contro quelli che non amano!
La mansuetudine, le parole inzucerate e i titoli di disonestissime voci sono il sale che condisse la lor simulatione, sì ché, parlando di gente tale, il segretario di Dio disse: "Verba eius iniquitas et dolus". Da bocche così sacrilege non s’odono apunto altro che inganni occulti et inventar astutamente ciancie contro le sorelle con lingua peggio che di Momo, poi ché quello biasmava e lacerava tutti in presentia, ma queste, che meritarebbero d’haver così bipartita la lingua come hanno finte le parole, portan il miele sopra le labra et il tosco in seno. Quando s’offerisce loro occasione d’insidiare ad un’amica, pur all’hora trattano da nemiche per ché ogni simile occorre tal’hora che due fanciulle, simili nella fortuna e non dissimili nell’esser, ambi due state gabate da’ parenti, coetanee, concordi di volere e di pensieri, che haveranno in un medemo tempo fatta la funtione di vestir habito religioso, si piglian vicendevole affetto et a vicenda l’una dell’altra si confida, scuoprendosi i più interni voleri e comunicandosi i più segretti pensieri, onde sono apunto sorelle in amore e di continuo compartono fra loro le cure, dandosi con ogni sicurezza le chiavi del cor in mano. E se Salamon disse: "Beatus vir qui invenit amicum verum", queste infelice vanno in questa guisa sollevandosi da tante gravi tribulationi che patono nell’Inferno monachale; e non rimanendo loro altro conforto, tengono simil metodo per mittigar la fierezza de’ loro dolori. Queste non s’ingeriscono ne’ fatti altrui, non si risentono de’ biasmi et inventioni machinate lor contro, non ambiscono vana lode, ma vivono ingenuamente non entrando ne’ conventicoli delle mormoratrici. Ma eccoti che, a turbar la quiete di questa coppia, entrano altre, simili d’habito, non di costumi, e, sotto fintioni d’amicitia, adopran ogni arte possibile per disunir quegli animi così caramente legati. Queste, tutte per invidia livide, per curiosità ansiose, per fraude inganevoli, anzi ché fraudolenti paiono apunto la stessa Fraude con faccia humana, poi ché sotto habito di mansoetudine e begninità portan ascoso il cortello della malitia. Così descrisse questa inganevol chimera il gentilissimo poeta ferrarese, dicendo ch’ella haveva:
"Un humil volger d’occhi, un andar grave,
un parlar sì begnino e sì modesto,
che pareva Gabriel che dicess’Ave,
era brutta e difforme in tutto ’l resto,
ma nascondea le sue fatezze prave
con lungh’habito e largo, e sotto quello,
attosicato havea sempre il coltello".
Tali sono queste che, copiose d’inventioni, alle semplici che le stimano sinciere e l’amano al par di se stesse, vanno, con intrecciamenti di discorsi e con suppositioni false, adosando le proprie colpe altrui con stuzzicar la bontà loro in odio contro le mala dicenti per ché ciò che vedono e sanno per la confidenza, il riferiscono come rapportato da qualche altra et asseriscono con giuramento d’haver udito di proprio orecchio da bocca d’altre ciò di che elle sole son state fatte confidentamente consapevoli dal’ingenuità di queste pure colombe che, senza pensar più oltre, il tutto credono. Onde le scelerate tirano la rete de’ lor tradimenti in tal modo, per potter a suo tempo far che dentro v’inciampino quelle povere sciocarelle che, più tosto che supponer inganni nell’iniqua tristitia di queste, si persuadono che in monastero vi siano delle spiritate che possin penetrar gli altrui pensieri. Ed elle scaltramente fingano di lodarle, ma con tal lode che ha faccia di lode ed è biassimo a chi ben el comprende, sì ché a loro s’agiustano benissimo quei versi del Tasso:
"Gran fabro di calunie adorne in modi
novi che sono accuse e paion lodi".
Ma passiamo dal noviziato alla professione, che poi anche non è per mancarci occassione di tornar alla malvagità di queste Sfingi diaboliche, così divenute per la tirania de’ genitori.
Spirato il tempo della probatione, si comincia il funesto trattato d’ordir un nodo così tenacce e forte che non possa esser disciolto da forza humana: dico la proffessione, che è un legame indissolubile, anzi un sepolcro della libertà di quelle che dentro v’inciampano. Sino a questo termine si può dir che la novizza habbia vissuto fra delitie e contenti, si è ben dolsutta sin hora della sua prigionia, ma non per anche s’è accorta dell’iminente ruina che, dall’altrui inganno orditale, le sovrasta: era troppo tenera d’età per penetrar l’astutie! Colui, che dal sententioso Tasso fu indotto a dire:
"E ben ché fossi guardian degl’horti,
viddi e conobbi pur l’inique corti",
era vecchio, et il tempo e la pratica son quelle che rendono sagacci le più pure menti...
Giunte vicino a questo estremo punto, che è l’ultima sentenza irrevocabile del’etternità del suo carcere, padri, frattelli et altri congiunti fingano, con fraquenza di visite e con liberalità di doni, d’amarle sviseratamente e, con piacevoleza imparegiabile, fanno fra loro questa attione acciò, con una quietatione stringata fatta per man di nodaro, rinuntino né più prettendin in nulla di casa, promettendole in tanto un legato di gran rilievo con altre gentilezze che mai vi giungono. Ma ché: sigilata che è in monastero, e sigillata con sacramenti e promesse che van congionte alla professione, cesan le visite né più si vedono presenti che gli avanzi di quella mensa al sposalitio della sorella che, sin dalla servitù rigetatti, gli vengan presentati anche il dì seguente. Onde, in tante figlie d’havarissimi huomeni che apunto per l’avaritia han tradito il loro sangue, non è meraviglia che molti imitino il genio del genitore.
A questo proposito mi ricchiamano i contrasti che occoron tra padri e monache per le necessarie spese di novo banchetto, della messa solene, dell’apparato della chiesa, del vestir annuale et altre circostanze che tormentan la borsa al tenacissimo vecchio.
La sorella di questa misera che fu congionta in matrimonio mondano, doppo haver dalla monacha riceuto un presente sopra al quale haverà l’infelice giorno e notte lavorato con asiduità et impiegate l’amiche tutte, termina il festoso suo novizziato con hillustrissimo sposalitio, anesso a tanti dispendij che trapassan tutto il valor della dotte della monechata, la qual, forse, resta con debiti et in miseria per regalar quella novizza che la deride. Esce quella a farsi veder a tutto il mondo in habito biancho guarnito d’oro, accresciuta alla natia chioma posticia capigliatura tutta tempestata di gioie e carica di ricchissimi adornamenti che tutto le cuoprono il corpo. Questa, rivolta a quel usigolo di cuoio che, come schiava, dee tenerla legata, mestissimamente cantando proferisse: "Recingat Dominis lumbis corporis mei" con ciò che segue. Quella, quasi lasciva Venere o dea delle ricchezze, pomposamente abelita, non cede la suntuosità de’ pasti di queste nozze mondane a quelle di Comodo imperatore o di Caligula, che dispensò la maggior parte di tesori in crapule. Vi mancan solo i nettari e l’ambrosie di Giove, essendovi senza numero i Ganimedi.
Poveri insensati! Non si piange di queste spese, ma tutto ciò che per uso di questa meschina s’adopra è superfluo: risolvetevi almeno, se ben contro vostra voglia, o avarissimi, di levar di scrigno quel poco danaro che ha da servir ai funerali di questa meschina e, se tanti ne profondete nelle musiche, suoni, balli e lascivie che accompagnan la maritata - e non per altro che per nutrir la vostra ambitione appresso genti del mondo! - da voi se ne sborsi poca quantità per sepilir nel’Inferno de’ viventi la sfortunata, che pur da voi è stata generata della medessima matteria di colei per cui scialaquate tanti tesori.
Arriva il destinato giorno all’oscura cerimonia che non ha par nelle tenebre. Ogni cosa all’infelice somministra matteria di pianto. Vedesi costretta ad avezzar l’animo al nome di serva, essendo tal hor d’hillustrissimo o serenissimo sangue, e ’l forza sogetarsi all’obidienza. Ciò cagiona in essa il consumarsi in lacrime che poscia, fra le mestitie dell’animo, s’asciugan all’ardente foco de’ sospiri.
O crudo horrore!
Ogni una delle destinate a questa funtione, alla presentia del sacerdotte, de’ parenti e spettatori di sì funesto spettacolo, è necessitata chiamar per testimonio di sue forzate e non volontarie promesse Iddio e tutti i santi le cui reliquie in quel tempio o monastero si trovano. Vestita a bruno e tal’una anche di scotto bianco o rosa o griso - per ché, disperate, s’ellegon le più strette regole - e, conforme gli ordeni di sua religione, comincia con tristo augurio sopra consecrata pietra a dar fuori queste, non profferite da ’l core ma sol dalla bocca, mestissime voci:
"Ego, soror Cristi, promitto stabilitatem meam".
Aggionge altre parole di gran ponderatione che tutte tendono ad attestare et obligarla a gran cose. Per sigillo, poscia, del giuramento segna una croce su biancha cartella, qual rimane in perpetuo per etterna memoria di sue indissolubili promesse.
Qui, oltre alla mia debil penna, ci vorebbero tutte, di cattolici e proffani scrittori, quelle de’ moderne et antichi, de’ fedeli et eretici per descriver a pieno la pazzia solenissima de gli huomeni: sarian bisogniosi, gl’insensati, d’un novo Astolfo che andasse a cercar il lor senno! Ma però non eran a caso, anzi maliciosamente, l’ingegnio smarrito. In ogni lor scritto predican l’incostanza e poca fermezza feminile, sia o negli amori o in qual si sia altro affare, e, sprezzandole, appican loro come suo vero atributto, se ben mentito, l’instabilità. Portan in comprobation della lor falsità ciò che, da qualche d’un di loro a ragion maltratato, sarà stato detto. Così Tibillo, meritatamente da una donna burlato, dicea:
"Omnia persolui, fruitur nunc alter amore".
Anche l’Ariosto, detestando questa mutabilità, inducce Rodomonte a lamentarsene e prudentemente il fa mentre pone in bocca ad un Saracino bestialissimo, senza raggione e senza legge e sempre nemico alla verità, tali parole:
"O feminil ingenio, egli dicea,
come ti volgi e muti facilmente!"
Ovidio, anch’egli forse appassionato della sua Corrina, cantò: "Non sic incerto mutante flamine Syrtes
nec foglia hiberno tam tremefacta Noto quam cito feminea non constat fedus in ira sive et ea gravis sive et causa levis".
Propertio, anch’egli per non dissentir dall’altrui falsità, diceva:
"Nulla diu femina pondus habet".
Altri malignamente dissero che le donne sono simili alla Fortuna, volendo dinotar nel’instabilità di questa dea la loro incostanza. Così il sudetto inviperito e sprezzato Rodomonte sogiunge:
"Né so trovar cagione a casi miei
se non quest’una: che Fortuna sei".
Ma se questi tali penetrassero a fondo, conoscerebber tal applicatione non risultar in dano e biasmo delle femine rispetto che, se ben la Fortuna è volubile, niente di meno produce et è d’ogni ben motrice dove che essi medemi vengano ad in ferire e confesar che da una rotta, posta in man di donna, dipenda ogni loro felicità; oltre che, da questa ruota derivando ogni cosa, conseguirà per necessità che in loro sian influiti incostantissimi pensieri.
Io però non aprovo queste enormi propositioni, ma con S. Agostino dico la fortuna non esser altro che una secretta volontà di Dio et altro non è mio fine che far intender la sciocchezza degli huomeni ch’è eccesiva, mentre voglion attribuir alle femine, non men con la voce che con la penna, i lor proprij vittij che in se stessi, tutto di con opere palesi, a tutto il mondo oprano.
Non mancan però scrittori veridici e dissapassionati che han lasciato autentiche testimonianze della virile instabilità in amore. Il divinissimo Petrarca ne’ suoi Trionfi, parlando in favor di Tamar contro il di lei fratello Amone, hor inamorato, hor ad essa nemico, lasciò scritto:
"Vedi quel che in un punto ama e disama!"
In ogni maniera, o perfidi, vi dicchiarate maligni per ché scientemente ne’ vostri scritti spiegate il falso e con l’operationi volete opporvi a quel genio che ditte esser comunemente inserito in tutte le donne. Si può sentir pazzia più esorbitante? Dite mille volte però mentite che fra il numero tutto del sesso donnesco pur sol una non se ne trova di mattura fermezza, e poi arrogantamente tentate superar lor nattura col prettender del stabilir in perpetuo obligati i loro volubili desiderij! Per ché donque volete con un impronto di croce siggillino una scrittura fatta conforme alle vostre, non alle lor, voglie? E se sono instabili nei proprij pensieri, starano elle costanti in quelle determinationi fatte per adderire alla vostra tiranica volontà? E per ché legarle con violenza alla multiplicità di tante leggi e nella quantità di tanti ordeni, abacinate e confuse che restano, perplesse ed iniqui, etcetera?
O quanto meglio fora il persuaderle alla santità e religione con gli esempi che con le parole e con la forza! Ma bisognia che le sfortunate, perdendo la luce di questo mondo, entrino nel miserabil numero di coloro di cui fu detto: "Super cecidit ignis et non viderunt solem", rimangan apunto da inimmitabil crudeltà sin prive de’ raggi solari! O infelicità senza comparatione restar prive di luce! Quanto compasionevolmente doleasene quel povero vecchio del cieco Tobia: "Quare michi gaudium erit, quia in tenebris sedeo et lumen celi non video?", quasi dir volesse: "Che cosa di peggio potteva mandarmi Iddio?!". Così queste tradite, sedendo nell’oscuro carcere, chiaman di continuo vendetta contro chi l’imprigionò: "Vindica sanguinem meum"!
"Già che vedi - dicon elle -, o Monacha de’ Celi con occhio perspicacissimo l’ingiustitie fatte contro di noi col haverne gli huomeni celebrate le essequie e consignati i nostri cadaveri spiranti ad un sepolcro. Questa, o Signore, non è opera del Vostro santo volere poi chè non voi ne chiamaste, ma forza tiranna degli interessi altrui qui ci rinchiuse. Concedetene il Vostro aiuto".
Niuna di loro, nel far il stretissimo passaggio della professione, suppone, non concorrendo con la propria volontà et elettione a quegl’oblighi, non esser astretta ad osservanza alcuna e così al tutto si sottopone per non potter far altro.
Ma torniamo alle funebri cerimonie che in poco o nulla differiscono dai funerali che a’ diffunti si celebrano. Alle secrette della messa, gittata boccone a terra, vien coperta di negro drappo, postale a’ piedi una candela et una al capo, sopra sé le cantan le littanie: tutti segni che la dinottano estinta. Ella stessa sente i suoi proprij funerali e sotto quella bara gl’accompagna con lacrime e singulti, sacraficando tutti i sensi alla passion e dolore. Ma, per ché il racchiuso fuoco - e che non può svaporare - opera con maggior forza, i di lei desiderij, che stanno oppressi sotto verecondia, maggiormente l’affligono. Misera, adolorata, sa che non può terminar il corso a’ suoi infortunij, poi ché son irremediabili i suoi mali. Vede l’impossibiltà del rimedio e conosce che i suoi lamenti non son per impietosir i rigori del Celo. Va perciò con aspra risolutione ingannando i sentimenti del dolore e così, con labra da disperatione fioche, s’induce a properir la sentenza della propria sepoltura. La superiora le dà poscia tre ponti ad un velo di camorada - che chiamasi sorazzetto e serve per coprirle il capo -; vien con ciò significato che i tre seguenti giorni ell’è tenuta ad osservar un silentio così rigoroso che nepur l’è concesso chiederle apartinenti al necessario vivere. Per ché il deplorar le miserie sue con lamenti e conferir le sue calamità, dependendo i suoi secretti pensieri, riesce di gran consolatione a gli afflitti, a perfecionar le misserie di queste mal arivate s’agiunge il condimento che elle non ponno sfogar le lor pene.
Torna quivi a ricever dalle sorelle religiose la sconsolata, non più novizza ma monacha, novi segni di pace con inviti di guerra. Dato il fine a queste esterne cerimonie, ella è introdotta al banchetto, assai più del primo semplice e penurioso, nel quale alle volti sogliono i padri e parenti più generosi distribuir a ciascheduna delle monache un scudo, com’anche è costume di farsi da tutte alla sollenità del vestire. Così, quasi mute, osservando un pontualissimo silentio, dormono le tre seguenti notti vestite, et in che sorte d’habiti! Non così aviene a quelle che, da’ padri destinate a mondane nozze, godon nella notte primiera così delitiosi riposi che l’agitta quiette è ’l minor de’ comodi e contenti che provano. O quanto son corotti i secoli moderni!
Fu già ne’ tempi remotti chi stimò crudel Portio Cattone per ché, ridotti che fossero alla vecchiezza i suoi servi, o scacciavali o come schiavi, vendevali. Et oggi non solo non son biasmati, anzi si lodano come buoni politici coloro che, non i loro servi d’età decrepita, ma le proprie figlie, nella più fiorita e tenera età scaccian dalle case, bandite da tutto il mondo e più ristrette e mal condotte che non gli stessi schiavi!
Anzi, con lor tiranide le sferzan ad esser serve del Diavolo et ad avvelenarsi da se stesse come ne’ tempi presenti ad una è sucesso.
Altre non di meno prudentissime, non si danno in preda alla disperatione per ché conoscono esser pazzia l’affligersi di quei mali che son senza rimedio, onde, con lo scudo della soferenza, va tal’una d’esse riparando i colpi del tentator Demonio che, insinuando loro ragioni potenti, procura d’indurle a disperarsi. Così, d’ necessità fatta virtù, comincian pacientamente a tolerar l’asprissimo giogo e stabiliscon di valersi di riccordi, dati già loro da colui che le sugerì il viver licencioso. E tall’uno, che ha la zia di buona consienza che li predica il viver religioso, ad ogni modo non la stima, anzi la sprezza, poi ché non si tengono elle obligate a cos’alcuna e si vaglian di quel deto:
"ogni vergognia amorza
il poter dir che le sia fatta forza".
Considerate voi qui un poco, o ministri di Satanasso, che, sforzando le vostre figliuole ad entrar ne’ monasteri, siete partecipi di tutte le loro attioni scandolose: qual riparo siate per impetrare nell’eterno e spaventevol giorno del Giudicio, quando la sonora tromba si farà con orido rimbombo sentire all’universo?’ Rammenterei qui tutte le vostre crudeltà e tirannie, ma pur troppo son notte al Paradiso e non ignotte a gli huomeni spietatissimi e senza compassion alle povere sfortunate, che pur dovria esser abondantissima e senza fine per non haver elle preso l’habito religioso d’elettion propria. Che delle volontarie e sante non mai intendo parlar se non con profonda riverenza.
Da qui nasce che non impropria parmi la similitudin che io imagino delle propalate religioni col populo già favorito dal Lettor del Mondo con tanti eccessi, quanti nel Vecchio Testamento appariscano: sino che gli Hebrei furno obidienti al lor capitano Mosè i più sublimi favori della divina mano piovero, anzi diluviaro sopra di loro; non si trovò, per così dir, benefficio che non fosse in loro impiegato. Le gratie erano illimitate. Ma, se queste fur da lor senza fine e senza numero riceute, così fu anche eccessiva l’ingratitudine de’ lor perfidi cori contro il Sommo Benefattore. Popolo eletto et amato, a me pare, anzi che quasi idolatro da Dio, furno ne’ tempi andatti i religiosi. Quai miracolosi portenti non si viddero di gratie divine in loro sin ché, sotto la condotta di Benedetto, Agostino, Basilio, Antonio, Dominico, Chiara, Catterina, Teresia e di due mostri di santità, Francesco di Paula e Francesco d’Asisi et altri, combatero contro il Demonio, Mondo e Carne! Quai vittorie non ottenero, mentre pugnaro sotto i stendardi di sì gran campioni!
Però non sia chi qui rimproveri che la comparatione di questi santi sia poco proporcionata al Duce de gli Hebrei, Moisè, che, s’egli dalla prencipessa Termut fu levato dall’acque mentr’in una cesta di giunchi spinosi andava fortunosamente ondeggiando, molti di questi heroi di Paradiso, col favor della sovrana Prencipessa de’ Celi, fur tolti dal’acque fetide di questo mondo, mentre stavan pericolosamente vacillando fra gli inganni del Diavolo! Con la guida di sì valoroso campione, com’era Mosè, gl’Hebrei a piedi asciuti varcaro il mare senza pur bagnarsi l’estremità de’ piedi. Placido e Mauro, discepoli di quel gran duce e religiosi di cui la Chiesa cantò: "Pater et dux benedicite", per obedirgli passarno intatti l’acque. S’a quegli pioveva il vitto dal Celo, a questi dall’aria un corvo imbandiva cotidianamente la povera mensa. O quante volte hanno questi capitani della militia di Dio, come già il Legislator hebreo, radolcitte l’aque amare in dolci, coll’esperimentar in se stessi et in altri quanto sia soave e dolce il pattir amaritudini di travagli e pattimenti per l’Onipotente! Più volte col segno della santa croce et un sol pane fra’ deserti di religione han reficiati gl’interi monasteri! Il glorioso Francesco di Paula con un sol fico satiò trecento persone.
Sono innumerabili le gratie e privileggi ottenuti dalla soldatesca religiosa sotto la scorta di questi santi capitani che mai combattono con le schiere de’ nemici dell’human genere, senza riportarne gloriose vittorie et immortali trofei. Fu già chi, havendo gran tempo combatuto, fu consigliato da amici a ritirarsi a quegli agi ai quali il richiamava la vecchiezza, ma loro - sovrapreso da generoso sdegnio - così respondeva: "Io voglio militare, che ad un soldato di Cesare non lice riposo sino alla morte".
Così faceva pur anche quel santo heroe di Celo, Antonio, in servigio del supremo Signore che, doppo tante vittorie haute contro gl’eserciti de’ Inferno, arrivato all’età decrepita che quasi el rendeva impotente alla battaglia, non per questo lasciò mai di combatter contro gli inimici d’Averno, sin ché non spirò l’anima alla Celeste Patria. In quei tempi che così vivevano i religiosi, corrispondeva il Monarca Supremo alle lor militare fattiche con gratie e favori sovrabondanti che, quasi manna celeste, pioeva di continuo sopra di loro; ma a questi d’hoggi che, fatti quasi simie de gli antichi fondatori, meritan più tosto nome di simulacri di demone che dirittori d’ordini claustrali, si può dir come d’altri diceva Osea: "Factus est Efraim, quasi columba seducta non habens cor".
Ah certo che, di questi, la maggior parte non ha core per ché, se si riguardano in seno, trovaran d’haverlo perso, chi nella proprietà, chi negli honori et ambitioni, chi ne’ giochi et altri in amor vani! Questi vivono molto più sregolati delle monache et haverebbero bisognio di maggior rifforma: "Audi, popule stulte, qui non habes cor", dice Geremia. E qual maggior segnio d’esser privo di core ed inteletto può darsi che per trascuragine di non gettar l’ancora, perdersi nel porto? Dante segniò:
"E legno viddi già dritto e veloce
correr il mar per tutto suo camino
perì al fin all’entrata della foce".
Avviene tal volta che, per elettion de’ supperiori, ne’ monasteri pianta alevata e frutifera ne’ giardini della Religione ha meriti per sovrastar degnamente ad ogn’altro di superiorità: non ambisce, anzi riffiuta il carrico come quello apertamente conosce che gli orrori sono arrivati all’estremo peso nelle trasgretioni della regola.
Ma, per ché è così proprio degli huomeni il pensar male, mi dicchiaro che non vorrei dassero sinistro senso e censurasser con danno delle anime loro i detti miei.
Altri, se non meritevole in quanto all’osservanza d’animo, però abastanza aggiustato e non fraudolente, conoscendo la gravezza del peso e la malignità del vivere, destramente si sottrahe dal governo. Onde apunto bisognia ad altra ceder il dominio, che, a quelle parole, "Impera nobis", si gonfia et insuperbisce dell’honor indegnamente fattole, come il fastoso pavone della ruota dell’occhiute sue piume, quando appunto, a guisa di detto animale, doverebbe dar un’occhiata ai piedi sozzi della sua basezza e viltà et humilmente gridare: "Dominus non sum digna". Non così però avviene, anzi fa che ogni una partecipi di sue frodi, semina ogni loco di discordie infernali e lasciasi guidar dalla partialità. Adimandato Solone come dovea esser colui che governa un popolo, rispose: "Costui deve saper prima dominar se stesso, altramente sarà come quegli che volesse far aparir un’ombra retta con una verga obliqua".
Veramente se un esercito fosse guidato da un inaspetato, anzi inesperto nell’arte militare, s’un imperito di musica volesse guidar un concerto canoro et una nave fosse condotta da chi non sa navigar, tutto precipitarebbe, così come un priore od abadessa che habbia vestito l’habito monachale non chiamata dal Spirito Santo, non instrutta negli ordeni e regole religiose, ma solo goda il tittolo di superiora, come fa tall’una, a null’altra cosa magiormente aplicandosi quanto che, finito il triennio della dignità, d’esser di novo in quel grado confirmata. In quel grado trascura gli errori, non provede ai falli, non coregge i difetti et in un certo modo concede libero il corso alle voglie della gioventù. Il governo, in tal uno de’ monasterij, tal hor non è concesso a chi più ’l merita, ma a chi più l’ambisce; e chi astuttamente il possiede, o per arte o per fortuna, si fa partial delle più scaltre, non movendo, si può dir, un passo senza finger di prender da loro il consiglio; e così, non solo non osservano il precetto di quel savio filosofo, ma effettivamente permettono degli abusi. Ad una parte delle più libere e scapestrate, in vece di corretioni, portano aiuto e favori e con altre, fingendosi cieche, mostran di non veder gli scandolosi diportamenti, anzi li scusano e commendan per semplici.
Ma qual maggior disunion può darsi fra’ chiostri s’ogni una vive secondo il suo appetito e ciaschuna dell’involontarie dispon della volontà propria a suo talento?
Quante saggiamente fingono di non udir gli spropositati concetti contro di lor profferiti, quali però non restano di trapassarle mortalmente l’anima!
All’insolenza di simil tratti corrisponde ogni lor attione sì ché è facil immaginarsi con che sentimenti sian questi termini sofferti da quelle a cui non manca esatezza di cognitione.
O quante, o quante effettuano sfacciatamente, in publico, tutto ciò che detestan nell’altre, apunto con publica e tall’insolente mallvagità che, con le continuattioni, basterebbe a far depponer la patienza ad ogni più flematica e rimessa mente!
E per ché la nostra depravata natura è sempre più pronta et inclinata all’immitatione del male che del bene, non sì tosto è spirato il terzo giorno de’ tremendi votti e sacramenti che vien ammessa fra le professe la novizza, e tosto facilmente apprende quallità da queste antiche e mal contente religiose, fra’ quali praticando, vien a verificar in se stessa quel detto del’Ecclesiastico: "Qui tetigerit picem, inquinabitur ab ea". Già già scordatasi il culto religioso, comparisce anch’ella immascherata e farsi partecipe de’ quegli errori che, doppo la proffessione, le vengan dall’uso liberamente concessi. Quivi la vanità comincia ad entrarle nel core, introdotta per gli occhi come quelli che, di tutte l’insidie che all’anima son poste e di tutte le retti che le sono tese, son la potissima causa. Veggiono altre abellite d’habbiti vani, onde s’imprimon nell’animo desio poc’honesto d’imitarle et anche superarle nell’inventioni del vestire, all’quale dan, col’operationi, il compimento; tanto più che lor non mancan suggestioni di molte che, per haver compagnia al mal, fingasi amiche. In questa sorte di fals’amicitia che tira l’anima al precipitio e con pessimi consigli offende il corpo, asserisse S. Agostino essersi incontrato nell’età sua fiorita, onde di lei el dice: "O nimis inimica amicitia et seductio mentis investigabilis, cum dicitur “Eamus, faciamus” pudetque non esse impudentem".
Questi sono i progressi di quel’attion tragica che, nel prencipio, m’offersi farvi veder rappresentata, i cui fini altrettanto son mesti quanto dal Celo abborriti: l’antiche rappresentationi non hanno altra mira che di tacciar ogni operatione delle novelle istrioni.
Se vedon che elle levino un occhio di terra, dicon balenar gli sguardi impudenti, anzi impudichi. Cognioscan la fersura su la paglia, anzi pupilla di loro sorella, ma nulla consideran alle travi che alla vista le s’interpongano. Tal’una di queste è sì di cognition priva che, capitandole all’orrecchie quelle voci, ad ogni uno proffitevoli - "Nosce te ipsum"! - se stiman un favoloso raccordo e perciò, senza prudenza e conoscimento, van rimproverando all’altre quei diffetti ne’ quali elle più d’ogn’altra involte si trovano, sì ché le gare della gioventù e vecchiezza, i risi e mottegiamenti sopra l’etadi sono i primi fomenti e fondamenti delle male volontà. Una che nel numero degli anni sopravanzerà ad altra in guisa che madre potrebbe esserle, con pari humori di giovane multiplica a lustri con bugiardi e stolti accenti gli anni di colei che potrebbe esserle figlia, servendosi del detto del gentilissimo Ariosto:
"Che a donna non si fa maggior dispetto
che quando brutta o vecchia le vien detto."
Quella che volse però prettender di passar i congressi senza framischiarvi qualche paroletta mordace farebbe vanità: trapassan tal’hor con vezzoso soriso le noiose proposte che irritan l’animo per usar prudenza, ma non per ciò resta nutrirsi nell’interno fuoco sdegnioso, parendo molto stranio a chi l’occassioni fugga d’offender altre, sentirsi unger, come dir si suole, spropositatamente a sangue freddo. E troppo duro il sentirsi sovente rinproverar da una cloaca di vitij, da una infimissima, di quei mancamenti non commessi e che in ella stessa sono eccessivi. Questo è sì periglioso golfo di naufraggio che è degno di gran lode quell’inteletto che ad incessante continuation d’onde così tempestose non si lascia dal sdegnio absorbere ai precipitij.
Su quelle tragiche scene però, per esser di diversi capricci i rappresentanti, d’indegnia prosuntione, d’humori stravaganti, non manca chi inconvenientemente introducca il ridiccolo: che ben degnio riesce di riso il veder tal’una vilissima, con la sfacciatezza della lingua, oltraggiare, ignara donde traga l’origine, sostener la verga del commando, alla quale le di lei maggiori stanno soggiette - con tutto che non l’habbia ottenuta se non mediante l’astutie e la forza di quel mettalo che unisce i cori anche più pudichi e che volgie il monastero a suo modo con ingiustitie estreme e con inganni. Vene sono che appaga ogni sua volontà ed ogni sua ambitione, favorite da quella ciecca fortuna che sempre adherisse là dov’è più di vitio e di viltà e, con larga mano, dispensa sol le gratie a chi n’è immeritevole, che così riessce impossibile il mirar senza riso su questa scena gente vilissima appropriarsi titoli solo decenti a gravi sogetti e con sprezzanti parole rappresentar appunto un Zane da prencipe travestito.
Il viver d’hoggi in tal uno di questi chiostri è poco disimil dal vivere in corte, ché, se questa può dirsi raccolta d’huomeni depravati, quelli dir si ponno ricetti di donne disperate. Se ivi una moltitudine di vitiosa gente, sagacce, di corotti costumi, altro non essercita che invidiosa concorenza, qui pur anche trionfa l’astutia, regnia la superbia in chi meno duria pretenderla, volano l’altezza e la boria in ogni parte; la lassivia nel vestire in tal claustro non ha freno; là, perfida e continua, l’ira è sempre in pronto; quivi, in fine, vengan le più semplici burlate, le sincere tradite, le virtuose vilipese. Non mancan nelle corti iniquitudini fra gli ambitiosi, risse fra’ malitiosi, invention di ciarle fra’ maligni, né pur da quelli a chi vengan attribuite immaginate, frappatori che le raccontano, iniqui che l’attestano e, quall’Evangeli, le comprobano. Sono ne’ monasteri fra’ finte e forzate monache i costumi simili, onde m’è forza replicar che l’estremo giorno gl’institutori delle veracci religioni compariranno in Giuditio contro queste, non religiose ma disturbatrici degli antichi ordeni, esclamando: "Nec nos patres, nec nos filij".
"Io non istituii religioni d’hipocriti" dirà Francesco.
"Io non pretesi esser padre di superbi figli" griderà Domenico.
"Io col viver povero lasciai esempio di povertà" esclamarà Geronimo.
Tutti uniti dirano:
"Le leggi da voi osservate già non furono le nostre sante regole, ma, sforzate dall’ingiuste leggi del mondo, in mille modi che con violenza ivi vi sigillarono, l’havete e depravate e deturpate. Noi già mai non fabricassimo tempij dove il tutto è simulato, ogni cosa si concede e se ammette ogni male, dove l’irraconda trova con chi sgridare, la malignia con chi mal oprare, la golosa con chi crapulare, l’avara trova il modo d’accomulare, l’insolente cui portar noia, la pazza con chi contendere, l’arguta con chi raffinar l’inteletto; non mancha alla semplice chi l’inganni, alla vivacce chi seco di continua scherzi. Non fur queste" diranno "le nostre institutioni, né noi fossimo maestri di sì infami scolari, né padri di sì iniqui figli, che non solo non fur degni parti di religione, ma furno ributtati dal mondo come illegitimi e levati dal procelloso mar delle contentezze mondane per dover, poi, restar infelicemente absorti dal torrente, dalla disperratione, per esserne stati privi da padri tiranni".
Tali saran le voci che i gloriosi beati manderan in anzi al Tribunal della Suprema Maestà. Considerisi che sia per succeder delle loro missere anime, mentre veran rifiutate come vittime indegne d’esser oferte a Dio!
Come salmeggi nel coro, o sposa di Cristo, se ’l cuore sta di continuo vagando? Ciò volesse riferir Isaia quando degli hipocriti disse: "Populus hic labijs me honorat, cor autem eorum longe est a me"? E quando mai ti maceri la carne, o monacha solo di nome? Ove è la penitenza de’ peccati, lo sprezzo del mondo, il contentarsi di puoco?
"Ah, mio Signore" dissi, "“paverunt legem tuam”!"
Ma di novo s’introduca in scena il prencipal personaggio della monacha qual, già divenuta professa, comincia andar con più libertà alle fenestre, alle quali sente tal ministro del Diavolo che leva sentimenti talli, insinuando:
"Già havete fatta proffessione e perciò non dovvete più da nisuna temer, essendo fatta padrona di voi stessa".
Con tali sproni al fianco, la misera si scieglie di rappresentar nella scena del monastero qual parte più le aggrada o a qual più l’inclina il proprio genio. Altre, tutte si danno all’amor proprio, non ad altro applicandosi che a stisfar a se stesse negli agi del corpo. Altre, non altri che i proprij capriccij et inclinationi vogliono per superiori. Una è dedita all’avaritia, altra alla perfidia, molte alla malvagità, a gli odij; in somma, fra tutte è compartito ogni diffetto et alcuna tutti uniti li possiede. Come i comici per ordinario soglion esser vilissimi di conditione, di costumi abietti e pieni di vanità, così queste, che per rappresentanti entran nella monachal tragiedia, depongono non solo i talenti e le complessioni, ma anche l’istessa conditione e vengan a partecipar del maledetto genio degli huomeni.
Né per conoscer se questa sia infallibile verità, habbiam bisognio di sentenze e pareri d’huomeni savij, poi ché effettivamente si vede le saggie divenir pazze, le modeste invereconde, le pacienti iniquite, l’humili altieri, le sincere e libere maligne e doppie, le nobili vili, le miti furiose, quelle di poche parole loquaci, l’occupate ed a’ lavori avezze vagabonde, l’infocate d’amor divino fredde, accidiose e poco buone religiose. E tutti questi gravissimi disordeni nascano per la violenza fattali da’ perfido viril sesso. E per ché il lor vivacce e vagante inteletto, che di sua nattura vorebbe diffendersi in ogni parte e spatiar in ogni clima, a forza ristretto, s’applica tutto a nuttrir mali pensieri et a produr alla disperata operationi peggiori. Non può esser che sia claustrale quel core le cui membra solo a forza riposansi fra’ mura! Così la meschina, guidata da infida scorta di tristi consiglieri, comincia ad ispogliarsi la veste dell’innocenza e, di peccorella che ell’era, divien astutissima volpe. Molte consiglian ciò che esse non essequirebbero, per ché poi lor s’apra addito maggiore di perseguitar le consigliate. Il filosofo morale in una delle sue Eppistole dice che la romana repubblica haveva altrettanto de bisognio di Cattone, acciò con suoi consigli la governasse, quanto ne havesse di Scipion Affricano, acciò con l’armi la diffendesse e conservasse.
Ben pono chiamarsi fortunati, anzi santamente felici, quei monasteri che sono da saggie e degnie vecchi habbitati, che sanno ne’ più ardui negotij con qual consigli trovar ripiego e riparo agli imminenti disordeni! Ma, per contrario, guai a quei conventi, che retti e dominati da femine, d’età matture ma di senno accerbe et indisciplinate nell’viver! Ponno chiamarsi sinagoghe, poi ché le giovani, obligate a creder essattamente alle loro superiori, senza colpa incorron ne’ medemi errori che vedono comettere alle loro maggiori, le quali, in vece di mantener come doverebero la povera Religione nel suo rigore, divengano strumenti prencipali per esterminarla affatto. Quand’elle devrebbero esser guida, specchio, esempio, norma e scuopo alla cui scorta, alla cui luce, alla cui imitatione et al cui centro tirassero tutte le linee dell’altrui operationi, si fanno inciampo al comun precipicio. Non tutte, però, sono di questa taglia per ché guai al mondo se non ve ne fosser di buone e sante!
L’essercitio di buona religiosa deve essere il lagrimare, non il chiarlare, orare, non dir male, riverire, non infamare, aiutare, non condennare, sollevar, non affligere, trattar pace, non discordie, diffendere, non tradire. Stimo che, quando Dio Benedetto disse: "Sedebit populus meus in pulchritudine pacis", per il suo populo volesse intender la gente religiosa, che a questi tempi diversamente opera dalle parole e dalla volontà divina, per ché le risse, discordie e simulationi non han de’ monasterij più sicuro ricetto. E pure son quelle qualità che levano al religioso il pottersi vantar tale! S. Paolo, a lor parlando, disse: "Cum sit inter vos zelus et contentio nonne carnales estis et secundum hominem ambulatis" Non altrov’è più livida e maligna l’invidia, poi ché tal’una s’attosica di rabbia in veder la Fortuna girar più felice la ruota per commodo della sorella, onde vien che apre il varco a quelle parole et operationi che opprimer ponno l’invidiata da essa; et è proprietà, anzi essenza, del’invidioso che tutte le altrui cose gli paian migliori e maggiori. Ciò chiaramente comprobò il mantovano poeta:

"Fertilior seges est aliorum semper in agris
vicinunque pecus grandius uber habet".
È l’invidiosa un infame mostro che, con occhi di lince, segue in ogni parte la perseguitata per potterle macchiar a sua voglia il buon concetto e sovente non le ne manca occassione, per ché la nova professa, già già in tal laberinto inviluppata, comincia dagli altrui raccordi ad apprender la scienza del mondo, ancor che ella sia quivi entratta, stante l’avaro padre per allontanarsi dal mondo, sente una Corisca che con scelerati consigli sì la persuade:

"Come gioia conserva i miei consigli:
sappi, o dilletta, che anch’io chiusa a forza
l’arte del ben amar fanciulla appresi".
In oltre quel maledetto sesso che le racchiude, che non cessa tormentarli anche ne’ chiostri, sì le dice:

"Dandoli norma d’un trattar lascivo,
l’haver quando bisognia
le lacrim’a sua voglia, il sospir pronto
e la lingua dal cor sempre diversa,
l’inanimissce a gl’amori, con dirle
che faccilmente ogni scusa s’ammette quand’in amor la colpa si rifflette".
Ma ché, inoltrandosi a poc’a poco nelle dellicatezze di corpo, s’ingiegna, quasi non cogniosca Dio, di sattolar in certo modo il senso, dà in bando la religione seguendo l’error di quei stolti de’ qual cantò l’eruditissimo Marino:

"- Non è Dio, Dio non è privo di fede -
tacito e fra’ suo cor, dice lo stolto,
stolto cui l’inteletto alzar disciolto
ver la Prima Cagion non si concede.

Dice l’iniquo: - In su le stelle siede,
né le cose mortali Ei cura molto,
miser, né sa come qua giù rivolto
contro ogni foglia, e ’l tutto osserva e vede -
Sentenz’horende, anzi bestemmie insane!
Signor, che Tu non sappia e Tu non sia,
osano d’affermar lingue profane
per ché la Destra Tua tema non dia
pena a’ suoi falli in fra quest’ombre vane.
L’empio sognando va quel che desia".

Non s’accorgano, queste infelici, che errano di gran lunga, poi ché l’occhio perspicacissimo del Supremo Mottore non solo conosce e vede ogni atto, interno et esterno, di qual si sia de’ mortali, ma, come giudice retto et indifferente, registra le partite de’ suoi, sian amici o nimici, spose o serve, per severamente punir li eccessi e remunerar i servigi, nulla trascurando e con partialità perdonando a quelli che han tittolo di suoi più cari. Così leggesi nell’antiche historie di molti principi, che a null’altra cosa havendo riguardo che alla sola giustitia, non perdonarono la vitta a’ proprij figli caduti nelle trasgressioni delle leggi da loro ordinate. Bruto, console romano, per esser integerrimo osservante d’intatta giustitia, sofferse con gran costanza di veder i proprij figli, da lui condenati, morir misseramente ad un legno legati. L’istesso farà il Monarcha de’ Celi, sententiando indifferentamente quell’anime che se offessero con violenza corpi forzati e quelle che fur dedicate al suo culto, come innosservanti e destrutrici degli ordeni claustrali e come reprobe figliole e seguacci di Sattanasso, non de’ lor fondattori, le cancellerà dal libro della vitta, disheredando gli empi padri insieme con elle delle pretensioni che, come sue figlie, pottevano haver del Paradiso.
Fine del libro segondo del’Inferno Monacale.

LIBRO TERZO

È tale la condition di una perfetta eloquenza che con colori rettorici così vivamente dipingie e rapresenta su le carte qual cosa, sia che per l’ordinario, sia o in lode od in biasimo, restan più del merito i lodati o biasmati inalzatti od oppressi. Io però, non già per far apparir più horidi di quel che sian i tormenti e le passioni attrocci del’Inferno Monachale, ma per descriverli qual sono, bramarei esser proveduta di stil fuor d’ogni solito eloquente; ma, povera di concetti et inesperta d’ogni arte neccessario a chi ben scrive, conosco non arrivar col rozzo intelletto ad ombregiar né pur in minima parte le qualità d’una vitta, ben sì racchiusa et a forza rittirata dal mondo, ma altretanto sregolata, ad ispiegar le parti rappresentanti in questa vana ed infernal tragiedia, i tratti di donne religiose nel nome, ma nel cor et opere mondane. L’arte di tant’affetti tra loro e il viver simulato e chimerico con tant’abbondanza di scandali riccercarebbe altra facondia che la mia, mentre anche ogni più riccha vena riuscirebbe infeconda et infaconda in descriver sì gran massa di difetti, alla cui naratione sarebbe neccessario un core et una mente macchiati della medema pece, che son quelli che causan sì gravi dissordini nella Chiesa di Dio. Qual eloquenza saprebbe mai ridire, qual ingenio penetrare le passioni di quel’animo al quale, astretto da tirania paterna, conviene a suo dispetto tutto il tempo di sua vitta trattar con scempie, servir ad ingrate, chieder ad avare, trafficar con bugiarde e conversar con superbe? Il prettender di potter rifferire un puntual racconto delle diverse particolarità di tant’ingegni, sarebbe un presumer di se stessa troppo altamente!
Vi sarà tale che crederà a se stessa d’esser ne’ riccami un’Aracne et appunto come tale la competerebbe con Minerva, se ben i suoi lavori riescan ridicoli per l’estreme imperfettioni che in esse si trovano. Abonda ne’ chiostri chi fa proffession de apportatrice di tutte le nove del mondo, di saper gli interessi d’ogn’una, non mai però reccitandone una giustamente vera, né profferendone uno sinceramente reale. Han sempre in pronto un arteficio con che simulan pianto e riso a lor voglia in modo che di loro può dirsi come il Sanazzaro di non dissimili:
"Tal ride del mio ben che ’l riso simula,
tal piangie del mio mal che poi mi lacera,
dietro le spalle con accuta limola".
Son così inganatrici che paiono simulachri de gli huomeni e non solo adulano, ma tradiscan anche se stesse, fra’ quali taluna sarà per bruttezza defforme e nuttrirà in sé prettension d’uguagliarsi a Venere in beltà, sprezzando altra che rarissime belezze possieda. Non poco è ’l numero di quelle che, sciocche, si stimeran potterla competter di saviezza con una Sibilla. Altre sfrontate e di lingua sfrenata, par che godono di trovar di continuo da contendere con chi si sia, onde chi non vol dir spropositi o gridori egl’è neccessaria una rigorossa et ristretta solitudine. Ogn’angolo ha una curiosa de’ fatti altrui che va sempre inquietamente caminando con desio di veder novità e non è picciol vittio, mentre, come dice S. Tomaso, è nello stesso tempo mala inclinatione non meno del’inteletto che del senso, curiosità radice è di calunnia; Santo Agostino ci amoniva a fugir di riccercare e vedere per molti dispetti troppa varietà di cose. Queste, a guisa di quei mostri vili che hanno mille cori e mille faccie, per dar dimostrationi esterne diverse dal’interno dell’animo, usano di vestir e mangiar communemente con quelle a cui portan rancore sotto prettesto d’amicicia. E da queste poi, per ché ad un male è sempre l’altro congionto, nasce l’invidia, di che parlando Seneca dice: "Né dobbiam guardarci più da quella che regna nascosamente ne’ nostri animi amici che dalla scoperta de’ nemici, poi ché da coloro che dimostran l’odio scoperto non è difficil cautamente diffendersi, sì come riesce quasi impossibile il sottrarsi da quelli da’ qualli, tenendo asscosa nel cor l’invidia, non s’attende l’inganno.". In un terreno in cui sostenta tal volta la verga del comando, la più spinosa delle piante, non è maraviglia che nascan triboli di scandoli et altro non germogli che sterpi accuti di mormore, alle quali Dante nell’Inferno suo attribuisce sì attrocci pene che fa esclamar i mormoratori:
"Un diavol è qua dentro che n’ancisma
sì crudelmente al taglio della spada
rimettendo chiaschun di questa risma".
Ma di tal mormora né anch’i secolari ne vanno con vanto et a ragione in qualche conventicola di tal spine, dell’iniquità di questi sacrilegi prodotte, trovansi lingue più del maladicente Aretino pungenti, per sottrarsi dalle quali non basta un’imaculata consienza se meritan nome di venenose serpi mentre par appunto che bramin triplicata la lingua per più potter offensivamente dir male d’ogni attion altrui, sognansi favole per rapresentar le veracci historie, forman inventioni di testa e le naran per sogni. Ad altre adossan le proprie compossitioni, per il che direi che meritassero il castigo che fu dato al corvo per l’importuni suoi rapporti, quando non fosse maggior fallo malignamente inventar che giustamente rifferire, non è a questi proprio il prudente raccordo che ad ogni maledico vien dal tradutor d’Ovidio portato:
"Maledico loquace fatti esperto,
s’in mal non voi cangiar mantello e viso,
s’in giudicio non sei per forz’astretto,
non iscoprir già mai l’altrui diffetto".
L’ingratitudine ha, quivi più che altrove, il suo seggio per ché affatticati pure d’appagar l’instabil desio di questi corpi, in vitta all’Inferno condennati da chi vol farsi simia di Dio e studia, pur d’appagar ogni volontà impiegando ogni affetto e pottere in favorirle, che null’hai fatto né intieramente ad ogni lor chiribizzo satisfi. Plauto, de’ ingrati parlando, dice esser nattura d’huomo da poco, ma sfrontato, il farsi da ogni uno servire senza però mai nulla, di ciò che in suo servigio venga opperato, gradire. Il filosofo dispregiator delle ricchezze esprime, dell’ira scrivendo, tal sensi: "Non sol riesce affannoso, ma di grave pericolo il contratar con homo ingrato poi ché questi è facil a rissolversi di non statisfar a ciò che deve et abborre colui a cui è debitore in guisa che, havendo alcun seco commun amico operato, rittrova altro non haver fatto che acquisto di mortal nemico." Non altrove son frequentati gli eccessi di ingratitudine che ne’ monasterij da quelle che forzattamente vi sono chiuse, fra le mura de’ quali, pur che conseguischin l’intento loro, l’ingrate non han mira di ricever benefficio, ingannar e tradire in un punto.
Ma rittorniamo alla naratione di un’altra ecclesiastica cerimonia che s’usa in molte relligioni di monache, se non in tutti, nomata consegratione che è della proffessa, doppo il corso di sua primavera e finito il quinto lustro celebrata, come che sia questa una riferma ed autenticatione del di lei sposalitio con il suo Signore.
Dica per me l’Amante Svisseratissimo Cristo, per noi exanimato, con quanta e qual ingratitudine venghi antecipatamente ricompensata la sua gran prodegalità et abusato l’honore che fa ad una vil creatura di congiungersi seco con vincolo di santità. Ah, che sì immenso benefficio vien prevenuto con offese degne d’etterna morte!
Voleva Seneca che l’homo, cui non piaceva riuscir ingrato, havesse un’ stabil e perpettua memoria di beneficij ricceutti e non si dementicasse in etterno. Ma, se questo filosofo ciò richiedeva per corrispondenza a favori di mondo, come, o come si doverebbe da queste vilissime creature conservar sempre viva la ricordanza dell’infinite gratie, nell’esser state ellette ancelle, anzi spose ed amanti del Creator, loro conseguite? Ciò, però, avviene per ché, ingratissime, non comprendono l’eminenza del benefficio, anzi, prive di verecondia nel volto e colme di displicenza nel core, solo forzate dall’imposte leggi per l’infamia, con labra immonde profferiscono le terribile parole del sacro Sposalitio: "Ecce, venio." Con ciò, tornar doverebber a Lui confuse e pentite, ma dalla Sua bontà con che Egli è sempre pronto a ricever le inammorate, come legiadramente accena profano poeta:
"Torna qual fiume a fonte, o fiama a sfera,

qual linea a centro, o calamitta a polo,
l’alma stancha al suo Dio poi ché là solo
può trovar possa, onde fuggì leggiera

alla pietosa man da cui già s’era,
stendendo angel licencioso il volo,
sviata dietro a quel piacer ch’è duolo.
S’errò il dì, lunge hor si rivolge a sera

e, poi ché in questo mar che è senza sponde,
loco non ha dove ella fermi il piedi
fra le moli del senso e torbid’onde

con verde avio di speranza e fede al suo Signor dalle tempeste immonde
candidetta colomba al fin se n’riede".

Così pur doveriano le sviate religiose, doppo haver un tempo solcato il torbido mar delle vanità, prender leggiere il volo ver la contemplatione dell’Etterna Divinità. Ma per ché, a guisa di piante tenacemente abbarbicate al terreno, son di soverchio troppo in sue fierezze proffondate, van dalle proprie colpe alla tomba accompagnate; e tal hor, per interessate discordie tra di loro e confessori, mancandole gl’opportuni spirituali aiuti, s’immergian a poc’a poco nelle proprie passioni, ma all’ lor stato improprie, e sottometton al sensual talento la raggione, si ché, nel mal habito invecchiate, s’haverà in lor ciò che fu cantato da un famoso cigno:
"Nattura inclina al mal e vien a farsi
l’habbito poi difficil a muttarsi".
Quando è radiccata la mala consuetudine del peccare, trovo così difficile il transito dal peccato alla virtù, dalla colpa alla gratia e dall’merito della pena a quel del premio, quanto riuscerebbe lo star con un piedi in terra et aggionger con la mano le subblime sfere del Celo. So però essersi vedute di queste stupende e maravigliose muttationi: Paolo, prima accerrimo persecutor della Chiesa, divenne poscia così ardente predicatore e così celebre dilattator della christiana fede; Madalena, di publica peccatrice diventò universal esempio di penitenza.
Ah, che sono rari quelli a cui venga dato, doppo longhezza di tenebre mentali, un sovrabondante raggio di divino lume! A tutti non è concessa la gracia efficace, ma molti lasciansi offuscar l’inteletto da ignoranza e dalle proprie passioni. In tutti gli animi non regnia la cognitione di se stesso, anzi rari la possiedono, essendo questa virtù così grande che tutti i cori non ne ponno esser capacci e, se dall’eccelenza del fine s’argomenta l’eminenza de’ mezzi, è cosa pregiatissima il conoscer se medema per ché da questa conoscenza nasce la vera umiltà che è prencipio, anzi sicurezza di salute, che è sicuro antidoto contro la superbia, mortifero veneno dell’anima. Tertuliano, nell’Appologetico a gentili, pone due maniere di cecità: l’una, non conoscer se stesso e suoi diffetti, l’altra, il veder in altrui quelle colpe che non sono. Ambidue questo si rittrovan nell’anima della non vera religiossa e dalla prima è congionta la seconda, poi ché l’esser talpe in iscorger i proprij diffetti fa che elle sian tant’Arghi occhiuti ne’ mancamenti delle sorelle, onde poi nasce che da ogni leggier sospetto sia orriginato temerario giudicio e che tal’una rimprovera altra di suoi proprij, anzi di minor, falli, di modo che ragionevolmente le se potrebbe dir: "Priusquam interroges ne vitupereas quemquam", "Qui predicas non furandom furaris", "Medice cura te ipsum". Così osservando l’altrui, non le proprie, colpe corron una dietro l’altra a briglia sciolta nelle consuetudine del peccar contro la regola, sì ché, doppo la precipitosa carriera, arrivan alla metta della morte donde non pon render altro conto dell’anime loro al Signore che d’haver passata la fanciulezza con ignoranza, la pueritia con negligenza, la gioventù con lascivia d’habiti e vanità di parole, l’adolescenza con malitia, la vecchiezza con superbia et ambitione aplicata in dar non buoni consigli, poi ché, come poc’anzi t’additai, per i raccordi di queste consigliatrici infernali, restati a offesa nelle pontualità religiose, la semplicità de gli innocenti petti feminili.
Queste, che hanno veduto con gli anni mancarsi il nutrimento di lor male inclinationi, riducono tutta la sustanza della lor malvaggità in ambitione, con che ardiscono riputtarsi degnie di gran dignità. Non è perciò che con la scorta della Fraude et Hippocresia non giongan ad ottener gl’ambìti gradi primieri, non ostante haver tal’una di queste poco o nulla di merito. Queste tali però arrivan a tal honore non con altri meriti che con una bona apparenza sotto cui tengan celata una real e perfetta malitia. Il lor dessio ad altro non s’estende che andar di continuo opprimendo l’altre et avantaggiando se stesse. Di queste, parve che intendesse il salmista quando disse: "Usque quo diligitis vanitatem et quantis mendacium?". Entrato poi nel commando, si fan appunto sentir per un stepo di spine a punger le lor suditte nella più viva parte dell’honore, quando però non si fraponga l’interesse a trattenerle. Alcune di queste abbadesse formansi una polizia a lor modo, se non vogliam però dir che sia simile a quella di Tiberio imperatore di cui Tacito hebbe a dire: "Iam Tiberium corpus, iam vice nondum dissimulationis deserebat". Con dissimulationi iniqua compiaceno a chiascuna servendosi molto bene di quel proverbio, di Grecia trasportato: "Cretizzar con quei di Creta". Vedono che ’l viver della maggior parte è con inganno e conforme agli abusi di corte, onde stiman bene il bandir da loro la lealtà e seguir quel’arte che fu dal Machiavelli insegniata a’ prencipi per il governo de’ loro stati. Che si dirà di quelle supperiore o lor sustitute fra le quali ve ne sono non sol di subornate da’ presenti, ma di quelle che fomentan qualcheduna delle sugette ne’ loro humori e co’ lo scudo dell’autorità almeno in aparenza le diffendono, sì ché le missere in tanta sattisfattione di mente s’assicuran non solo di peccar contro la regola, ma, soverchiate da quella che lor pare felicità, prorompono:
"Chi la felicità negar presente
può, chi può dubbitar della fottura?".
Ben è vero, poi ché in fine le infelici restan gabbate e ogni volta che cessin di correr a pro’ e voglia delle non supperiori, ma tirane, l’usura illecita della libertà concessa loro - che non favorite ma tradite si deono chiamare - quest’è una hipocresia falsaria et una maniera fraudolente con la quale, senza cagion, si pongono quelle che meno il merita nell’indiscretta bocca del volgo e con malitia mettisi l’honor loro in compromesso. Cosa da stimarsi in guisa che Seneca hebbe a dire a Lucillo che ogni huomo non privo di raggione che habbia cor generoso e temma i rosori della vergognia, ama molto più di morir con honore che di viver con infamia e viltà.
S. Agostino dice in un suo sermone: "O povera Chiesa cattolica, o infelice Repubblica Christiana quando vedrai in color che ti governano avaritia ne’ vecchi, malitia ne’ saccerdotti, invidia, poi ché questi tre vitij uniti crocifissero il Figliolo di Dio!" Io mi faccio arditamente lecito l’aggiongere:
- Guai a te, monastero, in cui regnano queste tre piaghe dell’anima, dove non si conosce giustitia, né si castiga se non con quei motivi con quali li Hebrei maltratorono Cristo: "Quod per invidiam tradidissent eum".
Né fuori del mondo non è giudicato per reo chi non è convinto dal proprio delitto scoperto et a pettition di un accusator falso, interessato, senza chiari inditij, testimonij degni di fede, esamini rigorosi e pontuali e processi giuridici che comunicano di reità colui che è accusato per deliquente, egli non è condennato a pena veruna. Ma fra’ chiostri, ad ogni traditrice lingua è lecito oscurar altrui la fama, prestandole i superiori non solo ambe l’orecchie spalancate, ma anche il credito, quando, a guisa d’Alessandro il Grande, doveriano, venendo loro alcuno accusato, turarsi con la mano una dell’orecchie per servarla intiera alla parte accusata, che così anche vol Salamone che non mai si venga al sententiar se prima non si sono ascoltati ambo i contendenti.
Se così opprassero i prelati e vicarij delle monache, non havrian tanto di che goder quegli inganevoli fraudolenti dell’inventate ciancie contro le sorelle e del veder lor accuse false haver cagionato il precipitio alle perseguitate. Dal che, fatte animose, multiplican le maldezenze e querelle in altrui pregiudicio, attribuendo però ad altre, che non vi pensano, l’officio di accusatrici, e così feriscono più innocenti in un colpo. Onde di queste tali forse profeticamente intese il Re della Giudea quando disse: "Et lingua earum unus gladius acutus". Quell’infelici, per ciò, che deono udir la sentenza contro loro, senza pigliar termine ad aplicarsi ad altro tribunale, non pottend’altro, dansi alla disperatione, né sanno dove ricurarsi per restar ascose a gli occhi dell’Invidia e schermirsi da’ suoi livori.
Consideri chi nel cor ha pruritti honorati, qual sia l’animo di colei che, a torto traffitta nella reputatione, altro non può a sua difesa contro le maligne e false accusatrici che citarle al tremendo tribunale dell’etterna giustitia e qual affetto in lei produca il vedersi continuamente in ogni loco et in ogni affare le sue nemiche inanz’agli occhi!
Per non riuscir soverchiamente prolissa nell’annumerar gli ingiusti sucessi e le machinate frodi, vorrei pur dar fine a così esosa diceria, ma la multiplicità degli errori, che in chiusi loghi occorrono dagli homeni ad ogni felicità, ma aperti ad ogn’insidia e tradimento, soministra alla penna abbondante matteria non sol per far dilluviar laccrime dagli hocchi di buon cattolico, ma per impietosir le stesse tigre. Troppo è ingiusto e puzzulente alle nari di Dio e trop’odioso alla piettà di quegli huomeni che in ver son homeni - se pur ve ne è - il sacrificio che a Lui si fa delle figliole o parenti, a forza incarcerati nell’abisso. So che dovrei por un duro morso alla lingua per non insinuar me stessa in vitio tanto da me abborito quant’è la maladicenza, tanto più che soviemmi haver letto in Dante:
"Sempr’a quello ch’ha faccia di menzogna
dee l’huom chiuder la bocca più che puote
però che senza colpa fa vergogna".
Non posso, non di meno, non dire per ché parmi debito di chi è zelante della vera religione l’avisar coloro che sono le prencipali cagion di così enormi e mostruosi successi, acciò s’astringhino; e sovr’humana gratia stimerei se mie vote parole penetrasser al cor de’ fieri genitori e rimovesser da gli impetriti lor cori l’ingiuste risolutioni con che tradiscan l’anime proprie e dan le figlie in questo mondo a’ tormenti infernali. Ma ohimé, che il Ciel li ha troppo lungamente sofferti, onde, già nell’ingiustitia habbituati, premon lor più le politiche raggioni che la divina legge e commandamenti e che l’osservanza dell’institutioni de’ santi.
Se stimate pregiudicar la multiplicità delle figliole alla Ragion di Stato, poi ché, se tutte si maritassero, crescerebbe in troppo numero la nobiltà et impoverirebber le case col sborso di tante doti, pigliate la compagnia dattavi da Dio senz’avidità di danaro. Già a comprar schiave, come voi fatte le mogli, saria più decente che voi sborsaste l’oro, non elle, per comprar patrone. E poi, già che nel far serragli di donne e in altre barbarie imitate i costumi di Tracci, dovereste anche imitarli in uccider i parti maschi subito nati, un sol conservandone per ogni famigli, essendo molto minor peccato che sepelir vive le femine! Guai a voi a cui l’interesse politico ha levato la giustitia de’ sentimenti!
Già già parmi udir gli impetti del vostro sdegno profferir contro mia sincerità pungenti concetti, che non sprezza, non biasma né religiose, né religioni, anzi, col capo per riverenza chino, esalta alle stelle la santità e merito di quei monasterij e monache che son rettamente governati e che, chiamate da celeste inspiratione, vollontarie corrispondono esponendosi a pattimenti di monasticha vita. A chi, per elettion propria, cingesi di sacre bende, dole e il duol scacia la pena, caro il sente. Ma a quelle, che a forza entran nel claustral laberinto dove l’anima lor, dove s’annida, è legata ad indissolubili obligationi e ’l corpo astretto agli arbitrij et indiscretezza anche di vilissima canaglia, l’esser ivi condenate a stratio pegior d’Inferno, poi ché stan sempre de’ monasterij le mura sin da esploratori degli andamenti loro circondati et in sin delle più grave loro infermità, ne’ maggior pericoli le vien tolto il liberamente introdur medici, cirugici o chi si sia senz’haver prima ottenuta licentia da due o tre magistrati sì che se l’istessa morte non compatisce alle miserie loro col non uccidere, trappassan l’infelici all’altro mondo senza rimedi spirituali e corporali. La condition di coloro che son danati alla schiavitù de’ Turchi più crudeli è più e men deplorabili di quella delle sventurate, possia che han quelle, per sollievo, la speranza bandita affatto, da queste cui non è concesso l’effettuar cosa veruna conforme alle lor voglie ancor che honeste e giuste, ma da tutti tiraneggiate ed oppresse.
O quanto meglio opravan gli antichi Gentili col sol lume della nattura che oggi non fanno i christiani che dovrian haver la mente piena di raggi splendidissimi di Fede! Fabricavan gli Atteniesi a diversi dei altari sopra’ quali scrivevan il nome del dio a cui era dedicato. Trasferirsi a predicar loro S. Paolo e, vedendo sopra d’un’ara notate queste parole "Ignoto deo", li riprese insinuandole che quel era il vero Dio che haveva fatto il mondo con tutte le cose che in lui sono. I filosofi della medema città in vedendo nel dì della sì rara Redenzione la tenebrosa ecclisse e sentendo gli horibili terremotti, supponendoli non natturali, consecraro un altar a quel Dio che operava sì gran meraviglia, al quale non volevan che fosser offerte altre vittime o sacrificij che di pianti, preghiere e lacrime di tribulati che chiedesser missericordia per dinottar che tal Dio è riffuggio d’afflitti e più si compiacque de’ singulti, suspiri, lacrime et orationi che d’offerte d’animali e di fiere. Questi, col sol mezzo di ragioni natturali, ben ché non cognoseser chi adoravano, con tutto ciò in certo modo incontravan il voler di Dio, e voi, ingratissimi, che, non solo per congenture di sdegni veduti, ma per l’istesso Crocefisso che mirate, per voi morto, il quale sapete non apagarsi che di cori e volontà libere, profanate a’ Suoi altari con offerte di vittime violentate, se non svenate da coltello materiale, al men traffitte dal ferro di vostra tirannide. Ben gradisce Sua Divina Maestà le lacrime e singulti, non già quelli che mandan dagli occhi e dalla bocca le tradite donne, ben sì di quelli che escano da un cor pentito dalle macchinateli offese. S’Egli non più dilettasi di sacrificij di fere, tanto men riusciràgli grato quello che prettendete farli di figliole, forzatamente condotte a guisa d’animali, ad esser a Lui consignate! Della volontà s’appaga il Creatore, sia o di servirlo o d’offenderlo, e ne resta altrettanto appagato quanto dall’opere stesse. Qual cosa dunque potrete attender e sperare, ingrati, dal moltiplicar di continuo il numero delle tormentate in questo Inferno, se non tragico fine che vi rissulti in guai presenti e pene etterne? Forse saprete dalla Divina Mano ottener il regnio che ha promesso a’ Suoi fideli, mentre vi mostrate sì poco atti a sapper regger giustamente una casa, non ché sostener lo scetro di regno etterno? Già mai non udirete: "Venite benedicti patris mei, percipite regnum". Non è capace di celeste beneditioni chi con oppere sacrilighe merita maladitioni. Ben ponno l’infelici, derelite da’ parenti e da voi genitori che l’organizzaste i corpi, a ragion dire: "Elongasti a me amicum et proximum et notos meos a miseria"! Non è lor concesso veder i cari genitori in altra guisa che dietro a gratte di durissimi ferri e seco parlar - come si dice - ad ogni punto di luna per così angusti siti che in tal logo è dato a fatticha il passaggio alla voce. È spedita la lor libertà non solo in esser sequestrate dal mondo, ma anche esser sempre impiegate in qualche carrica od offitio che di continuo le tenga occupate.
Trascorso il tempo alla superiorità di vecchia abadessa, la nova, costituita nella suprema dignità, fa una notta, dovendo chiascuna chiamar per ordine il suo grado, le quali al suon d’una campanella, doppo l’Ave Maria, nel’ordinato loco compariscano tutte a rinonciar il vecchio et accettar il novo offitio. Nell’intonarsi da quella il "Veni creator spiritus", non s’attende da lei la divina inspiratione, ma sol ha riguardo alla notta già di sua man formata, ben ché fosse ingiusta. Rinunciato che ha ciascuna nelle di lei mani le chiavi appartinenti al passato carico, ella torna ad impiegarle in novi offitij e lor, con un abassamento di capo e con bacciarli le mani, mostran segnio di gradirli. Ma il tutto è finto: restan la maggior parte mal sodisfatte, nessuna a pieno contenta, trattene le buone e volontarie che in tutto si forman col voler di Dio e delle loro maggiori.
Non v’è fontione che vada disgiunta da dispendij, ché questo pur anche risulta in augumento d’infortunij per l’infelici destinate a tanti tormenti. Le neccessità della celleraria, per loro sattisfattioni intorno alla mensa et i vari pareri di quelle in dimande e tall’hor in lamentationi, promoverebbero il riso in Eraclito, ma quivi tutto questo riesce sogietto e cagion di pianto. Non son tenute l’infermiere a governar pontualmente l’ammalate, accadendo che l’inferma sia vilissima, nata in contado, e la servente del maggior sangue della città.
Devono l’elette alla caneva, aiutate da poche, far di continuo conveniente quantità di pane, dispensarla alle mense e sentirsi sovente ferir l’orecchie da querulla voce, con agiunta a questo d’altri molti impieghi che riescan insofribili e d’incessante fastidio alle ben nate. Son tenute a sonar campane senza numero alla giornata le sagrestane con aplicatione ad altre mille minutie. Non descendo, no, a ramentar di part’in parte ogn’altra - come diciam noi religiose - obedienza, come di lavandara, tosera, vestiaria et altre, per non indur tedio nel lettore. Dirò solo che, finito l’anno, oltr’essersi con sudori e pensieri affaticata, altro non resta che haver speso il suo proprio e senza merito.
O dolori, o inesplicabili tormenti patiscano quelle che, non havendone, gli bisognia trovarne per scender al pari delle più commode! O grand’ingiustitia! Queste son le fortune che conseguono alle sventurate, dalle lor case escluse come se fossero altrove nate. A queste da’ parenti s’impone il nome di sore per poi dar titolo di signore alle più mecchaniche della città che, a migliaia fattesi meretrici, godon ne’ vostri dispendij con che comprate gl’infami diletti. La portion a queste tribolate dovuta dinota che poco son dissimili dal povero fugitivo Jona. Uscito questo dalla balena, vedendos’in tante misserie involto, s’elesse una capanetta per suo ricuero, coperta da grand’edera che, avviticchiata, faceale ombra. Colà ripossando prendeva alle continue sue passioni qualche respiro. Permisse Iddio che questo profetta hedera tutta secca da rosicante verme nelle radici mirasse. Di ciò l’infelice angustiato querelandosi doloroso dicea:
- Signore che più far in questa valle di lacrime e misserie, d’ogni ristoro privo?! Levami da questo mondo, già sentomi impotente a più tollerar colpi sì fieri!
"Petivit anime sue ut moreretur". Uscite le private d’ogni speranza dalla balena del mondo, afflitte per trovarsi da’ suoi proprij abandonate, se non fugitive, scacciate da’ raggi della bella luce del Celo, per forza ricovransi nella capanetta ria della cella per schivar al possibile ogni sinistro incontro et apunto piglian a lor sollievo qualche diletto, o d’herbe che inombrino, o d’uceletti, o d’altro conforme alla diversità d’inclinationi. Ma eccotti, d’indi a poco, non mancar il verme dell’invidia che le fa venir una parte con scomunche del prelato et abandonar anche tal poco, honesto e dilettoso trattenimento, poi ché d’una maligna il livore, a forza di mormorazioni, detrattioni e persecutioni, fa lor ogni application di questi gusti innocenti cadere et è pur la malignante ne’ medemi errori che ella attribuisce alla Regola contrarij, molto più d’esse imerse. Se sia ciò di noia alle sconsolate, immagini cui non manca prudenza per conoscer d’invidiose la falsità e ingiustitia. Oppresse perciò da dolor insofribili gridan a gara con Jona: - A qual parte, o Signore, ho da volgiermi s’altro che spine a traffigermi preparate non miro, et ortiche a pungermi pronte?
Disperate anch’esse vedono le lor pene irremediabili: "Petunt animabus suis ut muriantur".
Cessi homai la maraviglia che nasse dal legger che nell’assedio di Gerussaleme, spinte le madri da rabbiosissima fame, si sattollasser con le carni de’ proprij figli, poi ché minor crudeltà era la lor che, tratte da estrema necessità, non volontarie ma astrette, con lacrime agli occhi e dolorosa passion al core, comettean tal misfatto, sol offendendo il corpo non l’anima di quei parti che liberavan da’ tormenti di vitta, che non è l’empietà di quei padri che uccidon l’anima incarcerando i corpi delle figliole. Assai meglio fora sbranarle, ingoiarle, che satiarebbesi quel’ingorda fame che avete del’oro, per cagion del qual traditte il proprio sangue, da voi posto a gustar tutte di questo mondo sublunare le pene, privandole d’ogni speranza di rimedio! Non v’ha incendio d’infortunio, sciagura o tribulatione in cui spirando l’aurea di speranza non resti mitigate, ma quel mal che è irremediabile non una volta ma mille dala morte.
Per non tediarti, o lettore, mi restringo ed avicino il fine, quando che io habbia in parte sottisfatto alla prima mia propossition di provarti che sian questi luochi chiusi realissimo Inferno. Facciamoci dunque da capo e, sì, dicciamo se le tormentose infernali pene hebber dalla superbia in prima origine - apunto la superbia de’ iniqui genitori è quella che condanna a’ chiostri del monachal Inferno le sventurate. Son elle in guisa macchiate di questa pece e sì la conservan in se stesse che non v’è gente più altiera di finte religiose, quali a pena degnansi di parenti. Le putte a spese, per mecchanice che siano, entratte in monastero la spendono alla grande. Le suore converse, se prima di vestir l’habito, eran sallariate serve in case private, entratte fra mura claustrali, guai a colei che le raccordasse l’essere state fanti, tutte quasi disendan da hillustrissima prosapia! Cose ridicole per ché l’animo, tanto differente dall’inventate ciancie, le fa conoscer serve di nascita e di pensieri, non servendo che chi meglio paga. Ben a raggion per la superbia fabricòsi l’Inferno, poi ché tal pernicioso mostro d’ogni altro mal è radice. Dice S. Gregorio: "Radix quippe cuncti mali est superbia". Conchiudasi che, s’attrocci tormenti pattiscan ne’ penosi abissi i superbi, eguali ne provan le forzate monache, dovendo mascherar in se stesse la terribil ferza di questo vitio con manto de umile agnella. E’ pur anche fatto l’Inferno, per ché resti in esso acremente punita l’avaritia di cui è proprio centro e, come ho già accenato, tien ella ne’ monasterij il proprio seggio, provando quei cori in cui alberga magior cruccij de’ dannati, poi ché convien lor far di quei danati che tant’amaro apparente rifiuto. Nel centro della terra provan pene inesplicabili gl’iracondi; patiscan le coleriche religiose tutti nell’anima i spasmi d’Averno, essendo astrette rittener lo sdegno nel core che, apunt’a guisa di sopito foco, acquista forza. Ascoltisi Dante ciò che nel sesto cerchio del suo Inferno dice agli iracondi:
"Questi si percotean non pur con mano
ma con la testa, col petto e co’ piedi
troncandosi con denti a bran a brano".
Se non s’impiegano le monache in queste sì crude operationi di sbranarsi fra loro, qualche volta pugnian con le parole e, dove manca la corporal forza per tema de’ castighi, suplisce la rabbia, così che s’attribuiscano mille infamie di che participan anche i loro parenti, di modo che ambo le parti restan a vicenda saturate una degli obrobrij dell’altra.
Vien cruciata fra l’infernali caligini la gola, che pur anche nell’religioso Inferno sopra modo patisce, ove alle tormentate è tolto il sattolar sì voracce bestia che da Aristotile nel libro degli Animali vien chiamata bocca di lupa. Diceva Cattone esser l’ubriaco un volontario pazzo et alla gola per il più segue l’ubriaghezza. Archita Tarentino la dice capitalissima peste dell’huomo. Plattone le dice titolo d’esca d’ogni male. Galleno l’apella infirmità e morte espressa del’huomo, aportando tal sentenza: "Gulosi nec vivere possunt diu, nec esse sani". E pur, vitio così essecrabile vien praticato ne’ luochi consecratti al Dio, senz’haver verun riguardo a quel passo dell’Esodo detestante le crapule e l’ebrietà, ove s’accenna che dal mangiar e bevere soverchio nascan altri inconvenienti: "Sedit populus manducare et bibere et surrexerunt ludere".
Quand’altr’Inferno non fosse fra mura claustrali, se ’l compongan da se stesse l’invidiose, ma, per ché di lor altrove ho parlato, basta il dire che lor penose angoscie passan di gran lunga i tormentosi morsi de’ spiriti infernali per ché, se ben dal’altrui impietà son in angusto sito incarcerate, non è però che l’anima, con occhio di lince, non veda tutto il circuito del mondo e, mirando tutte le felicità mondane con invido sguardo, non si duolga d’esserne stata privata e non invidij sino lo stato delle più mecchaniche e libere. Onde in tali s’adempie quel giusto desio del prudentissimo Seneca, il qual bramava che ogni invidioso potesse in un tempo haver gli occhi et orecchie in qual si sia luogo a fine che, vedendo infiniti per beni di fortuna, per scienze e per valor celebri, da invissibili ponture traffitto, patisse doppia pena e martire.
L’ultimo de’ sette capitali peccati, sì come non resta escluso dal loco destinato dalla divina giustitia a’ condennati a pene etterne, così anche di continuo assiste al tormentoso Inferno delle forzate monache, che fra gli accidiosi portan la palma, poi ché, sempre negligenti anzi aghiacciate nel serviggio del Creattore, trascorrono il tempo. Il Savio ne’ proverbij invia quest’ottiose e lenti nel ben oprar alla formica per ché imparri da così picolo annimaletto, non sol le dovute operationi, ma ad anticipatamente proveder a’ bisogni sì del corpo, sì dell’anima: "Vade, piger, ad formicam". E questa per il più dassi al dettestabil vitio dell’otio, qual, come ben disse il Petrarca, è causa d’ogni male:
"La golla, il sonno e l’ottiose piume
hanno dal mondo ogni virtù sbandita"
In summa, per questo vitio registrate ad una ad una le pene de’ dannati, tutte son compendiate in questo real Inferno de’ viventi. Parlando Isaia dice di quelli: "Vermes eorum non morsit". A queste infelici vive di continuo nella consienza il verme della sinderesi che lor aspramente l’anima morde. Legesi di quel giovine che, in virtù di Cristo, fu resusitato da S. Giovanni che, narrando l’attrocci pene della tenebrosa region, diceva:
"Vermes et tenebras flagellum, frigus et ignis,
demonis aspectus, scelerum confusio, luctus".
Niun di tali martìri manca all’imprigionate di vostra tiranide, o padri, o parenti! Se la perpetuità di crucij e la privation della divina vissione sono i due maggior tormenti de’ condennati all’Averno, eccoli ambo in eccelenza nel monastico Inferno, ove s’entra senza spene di mai più in etterno riuscirne; e disperatamente entrandovi, non solo non si conosce e vede la Divina Maestà, ma si riman anche prive di veder l’opere dal Perfetissimo Architettore fatte, cioè la vaghezza di sì maraviglioso teatro com’è il mondo che pur, tanto per le monache quanto per altri, dalla Suprema Man fu fabricato.
M’estenderei a provar - come nel fin della Tirannia patterna promissi - che quivi né anche mancano i penosi dolori di Titio, Isione e delle Bellidi e d’altri, ma non vo’ mischiar favolosi inventioni a verità infallibili, ché non mendico poetiche fintioni per far conoscer che in nulla differiscano i pattimenti d’involontarie religiose, le quali non mai più vedon speranza da pottersene liberare dai crucij che obligono i sentimenti della divina giustitia ad infernal tormenti. Chi fia dunque che, in oposto all’aportate mie raggioni, porti argomenti valevoli, s’alcun, più loquace che eloquente, m’accuse di libera troppo e mordacce in matteria sì delicata, risponderògli che molte cose trapasso modestamente sotto silentio che pottriansi da me dire, anzi di più direi, ma il ver di falso ha faccia.
Ah che nessuno mi sgriderà per zelo, ch’egl’habbia che si pregiudichi agli spiritual interessi di Santa Chiesa, ma più spinto da quel dolor che gli ha mentre sente scuoprisi gl’abusi introdotti da’ sue barbarie!
Io di novo sinceramente replico che le chiamate della divina gratia et inspiratione si ponno chiamar angioli terreni e dir di loro quel istesso che canta la Chiesa di Benedetto il santo: "Vittam angelicam gerens in terris". Ben nell’ultima parte di questo mio sconcertato parto, a cui da me sarà dato titolo di Paradiso monachale, abastanza son per provarvi che, se ben i venerandi corpi delle religiose habitan in terra, non dimeno le lor menti rapite in Celo godon tutte le glorie di beati, le quali, in virtù dello Spirito Santo, vengan ampiamente diffuse fra questi miracoli della divina gratia. Di quelle, dico, che, non forzate, ma di propria voglia, chiedono in sin con lacrime d’esser anoverate fra’ religiose serve di Cristo, a cui spontaneamente offrono il corpo e cor intatto alieno da mondane cure. A queste, sì che son Sue vere e care amanti, il Riamante e Liberal lor Sposo dice: "Petite et accipietis, querite et invenietis, pulsate et aperietur vobis". Simil piante doverian pullular ne’ giardini de’ monasterij che sarian così deliciosi Paradisi, non tormentosi Inferni. Il dissuader animi così rissoluti nel servigio di Dio è da me stimato sacrilegio non disugual a quello che commettesi nel far che le meschine per cagion diversa spargon lagrime e singulti. O come cognioscan, nel prender essiglio dal mondo, che la lor vitta altro non ha da esser che penosa morte, onde meste e lente entran nel preparato munumo, che lor tanto più orrido appare quanto che ad imitatione de’ veri cimiterij, lo scorgan immobil, ma stabil in un istesso sito etternamente. O quanto mai è noioso il rittrovarsi sempre ad una tavola con l’istesse vivande! O quanto mai tormentoso il coricarsi ogni sera in un medemo letto, respirar sempre la medema aria, pratticar sempre le medeme conversationi e veder sempre le medeme faccie!
Ma che ascolto che tu, o malvaggio hipocrita, vai susurrando e mormorando? Sappi che non trapasso i limitti e in niente offendo, con miei detti, Dio; anzi è mia intention distinguer la zizania, "Inimicus homo" . A te dico, o homo a Dio nemico, a te che col parlar ben, ma viver male, non vai tra’ veri figli di Santa Chiesa, ma ben indegno sei del nome di christiano et un vero ritratto sei del vantator fariseo:
"La vitta persuade di chi parla
non il parlar di bel color dipinto".
So che qual tu crederai che altri sia tale, onde, ingannato dalla tua lascivia, con lingua mordace bugiardamente dirai che quella, che su questi fogli ti fa santamente veder la verità, desia di goder quella prima libertà praticata nell’età del’oro in quel modo che da molti poeti vien descritta e massime con mirabil arte da Luigi Tansilo o pur dal Tasso che in questi pochi versi la restringe:
"Nel’età d’or quando la ghianda e ’pomo
era del ventre human lodevol pasto,
né femina sapeva, né sapev’huomo
che cosa fosse honor, che viver casto.
Trovò debil vecchion, da gl’anni domo,
queste leggi d’honor, che ’l mondo ha guasto".
Et altrove:
"Solo chi segue ciò che piace è saggio
et in sua staggion degl’anni il frutto coglie".
Ma in ciò mille volte mentì, ché non mai sì laidi pensieri allignaro in cor di donna! Diceva pur il sopra cenato:
"Femina è cosa garula e loquace".
Ovidio, condenando a perpettua sete e fame Tantalo, per esser stato troppo loquace, fa ampia fede esser la loquacità più propria del maschile che del feminil sesso:
"Querit aquas in aquis et poma fugaccia captat
Tantalus hoc illi garrula lingua dedit".
Che si trovi che gli huomeni parlino o scrivino contro le donne, nulla in lor biasimo risulta, essendo la di lor malvaggità notissima. Ma che un di loro contro l’altro o in voce o in scritti s’offenda, è prova indeficiente di verità...! Borbotti, pur dunque, per tanto e vibri in me maledica lingua le sue saette, che dal Real Profetta fur dette "Sagitte putentis acute", che io, in vece d’opprimerle, glorieròmmi di sue vanne et ingiuste ferite, che, per castigo di Dio, nel voler ferir me innocentemente, si rittorneranno contro chi le vibrò e verificherassi in lor quel santo detto: "Linguas suas defixerunt ad versus se ipso tamquam gladios". Il Supremo Motore che, sempre giustissimo et indifferente, penetra a veder i recessi più interni dell’anima e conosce la sincerità de’ miei sensi e fini, sia quello che mi diffenda da quelle cuppe voragini delle perverse bocche che tentoron di assorbere in sè l’honor mio; et a Lui col Suo amato Re riccorro, prorompendo in lacrime, per ottener il riscatto da quella missera servitù in che n’han posto costoro che poi voglion anche acuir contro di me le maligne lor lingue: così dunque suplicovi, o mio Signore, "Redime me a calumnis omnium".
Chi, con desinteresata mente, s’applicherà alle mie parole, non negherà esser i chiostri veri Inferni di viventi e chi con hipocrite e politiche raggioni vorrà contradirmi, sappia che io, ad immitatione di Danielle, chiamo sopr’il suo capo quel’istessa vendetta che egli invoccò sovra i perfidi e fraudolenti vecchi che machinarono insidie contro l’innocente Susanna. Sol gli scelerati loderan l’iniqua operatione di serar a forza fra mura le figlie e parenti, non è chi quelle ami de puro e di sincero amore! N’insegnia Tullio nel libro d’amicitia che di quello due segni si danno luoco: il benefficio che si conferisce, l’altro l’affanno che patisce per la persona amata. Argumentiam da questo la tua palese bugia: qual benefficio fai alla figliola che dici da te esser amata, mentr’innocente in carcer la condani, astringendola a rigorosissime leggi sol osservabil e dolci a chi si compiace menar vitta di santi?! Come per lei patisci, se per agiar a te stesso i comodi e piaceri, violenti l’infelici a continui tormenti e pattimenti?! Non merti che la terra ti sostenga! Non so come che l’aria non ti disperda e non ti fulmini il Celo! Per amolir tuo impetrito core et indurlo a retta giustitia, sarebbe a proposito un novo Mosè che, levando tutti i primigeniti, participasse a te tutti i flagelli che cader sovra l’Egitto. Quel gran Talete filosofo, interrogato in qual guisa l’hom potesse giustamente vivere, diede simil risposta:
"S’egl’operasse ciò che comanda ad altrui".
Cavate voi consequenza da queste parole, qual siasi ’l stato vostro. Rittornate in voi stessi, o mentecati, né stimensi da voi altrov’indrizzate le mie parole che al zelo dell’anime et al culto divino. Trovate voi raggioni da opponervi in contrario, per le quali mi si confuti che ad una mente forzata il monastero non sia tormentosissimo Inferno. Un agitato da qual si sia più grave tribulatione confida nell’oratione e spera nella sovrana misericordia, ma l’incarcerate in un chiostro non han in cui confidare e, per così dire, vengono legate le mani dell’Onipotenza dall’humana malitia a soccorerle. Sanno che quante penitenze, astinenze et orazioni sono state essercitate dagli Antonij, da’ Geronimi et Hilarioni non sarebbero valevoli d’intender loro la liberatione. Son sicure, non han di che dubitare che, a far penetrar loro clamori in Celo, non v’è intercession bastevole ed è lor notto che le lacrime, ancor che amare come di Susana, nulla oprano a loro pro’. "Si decreveris salvare nos continuo liberabimur" disse, piena di speranza, la bella Ester, ond’ottenne il liberar da morte tutto il suo populo. Ma tal fede, nell’infelici monacate, riuscirebb’inutil e vana. Ciascuno, sempre che con fiduccia a s’è posto nelle braccia d’orationi e penitenza, rimettendo, tottalmente rimettendo le sue cause in Dio, ha ottenuto quanto l’ha ricchiesto. Così la saggia Giudit, armatasi d’intrepida fortezza e di sicura fede, levò l’assedio dalla città di Bettuglia. Diceva: "Peniteamus et indulgentia eius frugis lacrimis postulemus". Ezechiel re, con sì possente mezzo, aggiunse a se stesso quindic’anni di vitta; Giosuè rattene il sole; David ottene il perdono e ’l bon ladro il Paradiso. Ma ben ponno le misere con effuse lacrime esclamar della lor innocente prigionia come la moglie di Gioachino, gridar con la regina di Persia "Continuo liberabimur", armarsi di penitenza colla valorosa vedova guerriera hebrea, orar con pari fervor di quello di Giosuè, chiamars’in colpa col Cittareda reale e confessar Dio con più prontezza che non fece il ladron in croce, che ad ogni modo gettan al vento loro fattiche per ché, posto c’habbiano il piedi di là alla claustral soglia, si può dire che: "Discendunt in Infernum viventium", ove è lor tolto lo sperar reffrigerio di mai più sciogliersi anzi son sicure di perpetuar ivi per tutta l’etternità lor dolorosi omei.