cultura barocca
GALEA

GALEA e GALEOTTI
GALEE DI CATENA E GALEE DI LIBERTA'
MARINERIA GENOVESE NEL '500

La GALEA (detta anche Galera dal medievale lat. galea dal greco bizantino galaia e galea forse traslato dal greco classico galeh = "donnola, faina" e poi anche "lampreda di mare" fu una imbarcazione storica del mediterraneo strutturalmente in antitesi con il VASCELLO imbarcazione di ideazione più recente, tipica dei paesi atlantici [vedi qui comunque per ulteriori approfondimenti le importanti voci GALEA DI LIBERTA', GALEA DI CATENA: per inquadrare il trionfo e la crisi della flotta genovese visualizza anche MARINERIA GENOVESE NEL '500].
Gli Statuti si riferiscono alla galea sottile da guerra, mossa principalmente a remi, bassa di bordo e ben manovrabile, lunga circa 50 m. e larga 6, con dislocamento sulle 300 t.; sul ponte di coperta ai lati stavano i banchi pei vogatori, al centro era una passerella o corsia; ai due lati estremi dello scafo essa aveva delle mensole o baccalari, per sostenere a una certa distanza dallo scafo i correnti o travi lignee su cui erano gli scalmi pei remi. Alle estremità di prua e di poppa due correnti trasversali o gioghi si univano ai correnti longitudinali, sì da formare un telaio rettangolare in legno o posticcio che stava sopra la coperta e sporgeva dallo scafo. Sul giogo di prora si elevava la parte prodiera del castello o rembata. Ad un terzo della larghezza dello scafo, dalla prora, la galea sottile aveva un albero con antenna cui era inserita una vela triangolare: quella che gli arabi chiamarono alla trina e che fu poi detta latina. Poi gli alberi divennero due, quello di trinchetto a prora e quello di maestra al centro, cui in seguito s'aggiunse, per la galea grossa (alta di bordo, più lenta e di finalità mercantili) l'albero di mezzana a poppa. I banchi dei vogatori o GALEOTTI erano 25 per banda con 3 remi (donde la definizione di Triremi ) con 3 uomini a banco -uno ad ogni remo- secondo un sistema di voga detto alla sensile o a terzarolo: era un vascello che si dimostrò alquanto efficiente, specie nella sua versione più grande e più potentemente dotata di artiglieria detta GALEAZZA, ad affrontare le temute NAVI DA GUERRA dell'Impero Turco poi sbaragliate nel 1570 nella battaglia di Lepanto> v. v. Nave in FEDELE, XIV, 315 b, c.
La CARACCA si accostò poi alla galea come nave grossa, a vela ed a due o tre alberi, da guerra ma anche da carico, con 2 castelli a pria e poppa, armata di cannoni ed ideale per viaggi transoceanici: il CARACCONE era una nave di dimensioni ancora superiori e più potentemente armata, ideale per le missioni oceaniche, ed in qualche modo accostabile sia al GALEONE SPAGNOLO che al GALEONE INGLESE dominatori degli oceani nel XVI secolo.

GALEA DI CATENA> Usuale dal XV secolo. Tipo di Galea con equipaggi composti da ciurme di forzati (galeotti) e Schiavi (abili al remo). Erano imbarcazioni molto costose da armare e mantenere, specie per il vettovagliamento ed il rifornimento delle ciurme: crescendo col tempo la dimensione dei vascelli ed abbisognando di equipaggi sempre più numerosi, il costo di queste navi per lo Stato divenne altissimo anche ricorrendo sia alla permuta sempre più frequente di molte pene contemplate negli Statuti Criminali Genovesi del 1556 in pene temporanee od a vita dei rei quali galeotti sia all'assunzione di buonavoglia o bonavoglia.

GALEE DI LIBERTA'> Cadute in disuso da tempo le G. di libertà erano invece composte di equipaggi salariati a tempo determinato ("gente di remo" di Città e Riviere principalmente dedite alla pesca o alla navigazione di cabotaggio) e quindi meno costosi degli equipaggi permanenti di galeotti e schiavi che si dovevano spesso mantenere a vita. Lo Stato genovese ed i grandi armatori non avevano molta fiducia nella Galee di libertà e, anche per l'onere di censire e retribuire tutti i remieri (bonavoglia) del Dominio.
L'apparato burocratico genovese collaborò quindi assai poco quando si ipotizzò un ritorno a questa tecnica di navigazione.
Si ebbe un esperimento nella prima metà del '600 con due Galee di libertà che andarono a costituire la Compagnia di Nostra Signora di Libertà.
Contro lo scetticismo di tutti e l'opposizione degli "assenteisti" di Spagna (forse fiancheggiati dal Magistrato delle Galee) una Galea di libertà fu finalmente approvata dal Senato e contro la generale aspettativa (il Principe di Melfi Gio. Andrea Doria aveva presagito un autentico disastro) questa nave, nel viaggio inaugurale, umiliò la veloce Capitana della flotta della Repubblica (con equipaggio di forzati e schiavi) che era stata deputata a scortarla ma con il recondito scopo di un confronto che, a giudizio di tutti, avrebbe dovuto vincere largamente e non al contrario perdere in maniera tanto vistosa.
L'anno successivo a questo esperimento, che ebbe anche buon successo economico nel commercio di sete in Sicilia, furono armate due Galee di libertà ma la crescente opposizione dei conservatori, le difficoltà frapposte dal Vicerè di Napoli e Sicilia (sui cui porti si doveva commerciare) ed il contrasto sorto tra i due capitani delle navi (G. Giustiniani e Gio. B. Veneroso) determinarono un fallimento economico e la fine della Compagnia anche se, nella consapevolezza generale, si era fatta strada l'idea di una nuova politica navale di riarmo volta a sfruttare la dimostrata efficienza delle Galee di libertà.




GALEOTTO (deriv. da Galea)> BATTAGLIA,VI,s.v.,1,1:"...chi era condannato alla pena del remo sulle galee".> La richiesta di uomini pei banchi delle navi divenne alta nel XVI secolo per la rivoluzione economica connessa alle scoperte geografiche e per la ripresa di guerre di mare, soprattutto fra Cristiani e Musulmani nel Mediterraneo.

La condanna alla galera era come una sentenza capitale, la quale, più dei grandi criminali contro lo Stato, colpiva una maglia di vagabondi, piccoli malfattori e ladri, disertori ed eretici, contrabbandieri, prigionieri di guerra, contravventori all'ordine familiare, religioso e sessuale, falsari ecc. Sulle navi costoro, sotto il feroce controllo dell'aguzzino che dalla corsia li guidava a nerbate, erano ridotti come veri SCHIAVI: per quanto gli Statuti citino oltre quella a vita anche pene di ben minor durata i galeotti non erano rilasciati allo scadere esatto della punizione ma a discrezione delle esigenze di servizio> LEVRA, p. 108 (la caratteristica giuridica del Galeotto era panitaliana, fatte minime distinzioni formali: vedi a titolo d'esempio il Bando et Deliberatione di Gratie in favore dé Forzati, Scambi & buonevoglie, fuggitivi, & inobedienti delle Galee di loro Altezze Serenissime - Publicato in Fiorenza il 16 di gennaio 1572, Firenze, per G.Marescotti, 1573> in 4°, cartonato, pp. 4 con Stemma mediceo ai titoli ed in fine dicitura "bandito per me Matteo di Domenico Berlacchi").

La "MARINERIA GENOVESE NEL '500":
(I) Nel 1509 Genova era una delle maggiori potenze navali del Mediterraneo con una flotta che, senza contare le imbarcazioni di cabotaggio, ammontava a circa 15.000 tonnellate, pressapoco come quella di Venezia (con navi di gran tonnellaggio, destinate poi ad un ridimensionamento cercando gli armatori costi minori di gestione).
(II) A metà secolo la flotta raggiunse un tonnellaggio di circa 28.000 tonnellate, con navi di minor stazza e maggior numero che nel 1509: cifra che però, associata a quella della flotta veneta, non eguagliava quella della REPUBBLICA DI RAGUSA, dagli inizi del XVI sec. in espansione commerciale.
(III) Tra 1590-'95 la stazza della flotta scese a 10-12.000 tonnellate (la crisi della marineria data dal 1564 quando per la prima volta il traffico portuale di navi non nazionali superò quello genovese): dal 1568 al 1586 (colle eccezioni del 1576 e del 1582) i vascelli nazionali tornarono a prevalere nel traffico portuale ma il decadimento riprese dal 1593 quando la crisi della marineria fece sì che non oltre il 30% del traffico portuale fosse coperto da imbarcazioni di Genova.



Il "PORTUS IMMUNIS" traducibile col termine di PORTOFRANCO ufficialmente fu istituito l'11 agosto 1590 quando Genova fu colpita da una terribile carestia.
Con tale termine si alludeva alla concessione di grandi benefici sotto forma di dazi e pagamenti da concedere alle navi granarie che fossero giunte al grande porto ligure.
Questo espediente (che diede frutti positivi) in realtà non era del tutto nuova anche se ufficializzato solo da tale data: oltre cinquantanni prima, nel 1531, si era infatti sancito un provvedimento analogo di grosse agevolazioni a vantaggio delle navi che fossero approdatye allo scalo genovese avendo almeno i due terzi del carico composti di cerali e legumi.
Il provvedimento ufficiale del 1590 peraltro non potè nemmeno essere temporaneo -come da qualche parte si sperava- in quanto la carestia si manifestò con violenza anche nel 1591.
Le agevolazioni furono quindi ribadite ed anche estese: i vantaggi fiscali erano significativi per i mercanti del nord Europa, in particolare per gli Olandesi che trasportavano grandi quantità di cereali.
Per certi aspetti la carestia costrinze l'oligarchia genovese di fine '500, tutta impegnata nelle operazioni finanziarie ed ormai piuttosto estranea alle vicende del porto in cui pure si era formata la fortuna dei suoi avi, a rioccuparsi dei destini del commercio.
Nel '500 la marineria genovese risenta di un'evidente CRISI a tutto vantaggio di altre basi commerciali mediterranee e non.
Per quanto possa sembrare strano l'istituzione da parte dei ducali di Firenze di un Portofranco a Livorno -in alternativa all'ormai interrato porto di Pisa- finì per costituire un successo a fronte della decadenza del porto genovese.
Con l'istituzione del PORTOFRANCO Genova vide fiorire gli scambi con l'Olanda le cui navi ormai contendevano a quelle tedesche e soprattutto inglesi l'egemonia dei commerci.
Alla fine di favoprire il successo del "Portofranco genovese", a scapito di quello di Livorno, non si ricorse a mezze misure.
Per esempio il comandante Gio De Mari ricevette l'incarico di recarsi nel porto di La Spezia con un liuto, ben fornito di armi e uomini, allo scopo di convincere gli Olandesi (e gli eventuali altri meracnti) di recedere da Livorno e riparare a Genova (l'incarico diceva di usare "ogni cortesia" ma, in modo più o meno esplicito, lo spiegamento, pur dimostrativo, dei mezzi di guerra finiva per costituire un probante elemento persuasivo).
Nonostante il modo discutibile l'operazione èpropagandistica a favore del "Portofranco genovese" ebbe successo: le navi olandesi cominciarono a portare allo scalo ligure il prezioso grano polacco che commerciavano.
Così (fiorendo la collaborazione mercantile tra Genova ed Olanda, collaborazione che si protrarrà fino alla morte della Repubblica a fine '700) il "portofranco" nel 1606 fu trasformato in PORTOFRANCO GENERALISSIMO cioè con l'estensione di agevolazioni per le navi che vi portassero molte altre merci e non solo più i cereali.
Per il sistema portuale e mercantile di Genova, dopo la dedenza del '500, si ebbe per il XVII secolo un rifiorire abbastanza celere.
Allo scalo genovese giunsero così nuove merci e si potenziarono particolari tipi di scambi.
Si cita soprattutto l'importazione di cerali e di merluzzo del Nord Europa in cambio delle apprezzatissime sete e lane liguri.
L'amministrazione del "Portofranco" qualche decennio dopo, precisamente nel 1623, venne concessa al BANCO DI S. GIORGIO.
Sotto questa amministrazione -destinata a continuare ininterrottamente sino alla fine della Repubblica di Genova- il PORTOFRANCO crebbe di importanza.
Verso la metà del XVII secolo nel "portofranco" si potevano riconoscere oltre un centinaio di "case", grossomodo quello che si potrebbero oggi definire le organizzazioni degli spedizionieri.
Assieme ai liguri avevano infatti aperto "case" anche mercanti francesi, olandesi, inglesi ed anche ebrei -particolarmente favoriti allo sacopo di allontanarli da Livorno che costituiiva una loro base storica-.
L'espediente genovese anche se portò dei frutti non potè sconfiggere l'iniziativa ducale: Livorno avrebbe infatti continuato a fiorire per la tempestività dell'iniziativa e l'esperienza rapidamente maturata e non mancarono città liguri che, come nel caso di SARZANA, abituate ad intrattenere relazioni vantaggiose coi traffici di Livorno, si ritennero penalizzate dal Portofranco genovese sin al punto di avanzare proteste ufficiali presso il Senato della Serenissima.
Tuttavia lo scalo genovese ebbe dei vantaggi considerevoli che furono testimoniati dal lato delle sovrastrutture, oltre che dall'impianto di imprese spedizioniere, anche dalla realizzazione di nuovi edifici per la conservazione di merci e prodotti.
A questo proposito meritano di essere ricordati i DEPOSITI PER L'OLIO IN PORTOFRANCO un cui disegno fu allegato al "Registro degli edifici posseduti dalla Casa di S. Giorgio" (XVIII sec.: originale in "Archivio di Stato di Genova).





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Utili osservazioni sul confronto strutturale tra GALEA e VASCELLO si desumono dall'importante lavoro sulla storia di Genova redatto da Claudio Costantini nella collana della Storia d'Italia della UTET di Torino.
Nel XVII secolo a fronte del ruolo che si voleva assegnare alle navi da guerra genovesi si avanzarono consistenti perplessità sulla moderna funzionalità delle GALEE.
A custodire il Mar Ligure contro pirati e contrabbandieri una memoria del 1639 dettava "sappiamo per moderno esempio non esser bastate le nostre galee".
GALEE e VASCELLI rispondevano ad esigenze indubbiamente diverse, di modo che non è semplice rivelarne la reciproca ed epocale superiorità, tuttavia (come annota il Costantini) "mentre la GALEA era al termine della sua lunghissima evolazione, senza alcuna speranza di migliorare i livelli di efficienza già raggiunti, nella costruzione, nell'armamento e nel governo dei VASCELLI i progressi erano continui e rilevanti. L'evoluzione della GALEA, poi, s'era mossa negli ultimi secoli nel senso di una progressiva specializzazione: imbarcazione esclusivamente mediterranea, era veloce ma dotata di scarsa autonomia, era soggetta a lunghi periodi di inattività, aveva una limitata capacità di fuoco e, fuori degli usi bellici, era atta soltanto a trasportare passeggeri e merci sottili. I VASCELLI, al contrario, si prestavano ad una molteplicità di usi in pace e in guerra, d' estate e d ' inverno, sulle rotte mediterranee e su quelle atlantiche, il che, nonostante i maggiori investimenti richiesti, ne faceva appaRire più economico l'impiego".
Alla FLOTTA DA GUERRA della Repubblica era demandata, poi, una funzione alternativa importante per la possibile rinascita della marina mercantile e su ciò, alla maniera in cui scrisse Ugo Fieschi, il sostenitore maggiormente tenace " le navi di guerra ponno stabilirci un ben sicuro commercio d'ogni genere di mercantie e di tutto quel dall'Oriente all'Occidente o in questo porto si porta, o da questo ordinariamente si trasmette e porger con questo un sicuro sostegno a nostri popoli per ripigliare l'essercitio della marinaria et il traffico delle navi che hora mai, a forza di tanti danni, di tante prese, necessariamente si dismette".
Negli anni Quaranta del XVII secolo, stando alle osservazioni di Nicolò Imperiale, v'erano già a Genova i sostenitori della realizzazione di una FLOTTA NUOVA composta di VASCELLI nell'auspicio di organizzare sulle rotte commerciali genovese un a navigazione di CONVOGLI ARMATI (le GALEE non erano idonee a scortare i convogli ma semmai meglio servivano per pattugliare contro i pirati il mare genovese: ma questo non era sufficiente contro l'esteso fenomeno della pirateria).
Sempre Nicolò Imperiale (il cui manoscritto Panacea Politica custodito alla "Biblioteca Civica Berio di Genova" è stato utilmente trascritto dal Costantini nel suo citato, importante volume) precisò:" passarono anni prima che si potesse venire a deliberare, e deliberato poi di armare sei vascelli di convoio, ne anche fu possibile esseguire .
L'occasione per modernizzare la squadra navale genovese fu offerta dalla sfortunata cattura ad opera dei francesi delle navi Marabotto e Sansone.
In particolare la prima, un grosso vascello realizzato nei cantieri liguri in linea con il rinato interesse per l'attività armatoriale, costituì a lungo motivo di vanto per i navalisti cioè i sostenitori di un celere ed organizzato ritorno alla pratica della marineria: la sua cattura finì con lo spingere il governo, piuttosto indolente sulla questione, a ratificare una serie di scelte.
Infatti una nutrita delegazione di mercanti si portò a Palazzo onde chiedere immediati provvedimenti: "si rinovorno le altercationi e i dibatimenti .
In conseguenza di ciò seppur " non senza gran fatica -come ci tramanda sempre l'Imperiale- " fu deliberato che si armassero quattro vascelli di convoio; ma circa l'essequire ut supra".
Le governative tergiversazioni, per quanto riconducibili alla storica inefficienza dell'apparato statale genovese, furono parzialmente da assegnarsi alla non immotivata preoccupazione sull'effettiva possibilità di portare a compimento in Liguria di un programma di politica navale per la cui proficua finalizzazione mancava nel genovesato una tradizione di esperienze.
Addirittura nell'armare le GALEE, imbarcazioni storiche della cantieristica navale repubblicana, si accusavano ormai grosse lacune, specie per la carenza di MANODORA COMPETENTE E SPECIALIZZATA.
Pareva quasi consequenziale che nell'armamento di VASCELLI, e quindi per via della necessaria importazione di una tecnica realizzativa straniera e sconosciuta, i problemi pratici sarebbero cresciti a dismisura.
Si trattava di trapiantare di sana pianta "Con rossore" - aveva dovuto ammettere Ugo Fieschi "bisogna confermare che manca la quantità de' marinari, bombardieri et ufficiali che è necessaria a quest'armamento, mancano l'istessi vascelli et il fabricarli ricerca tempo più longo del nostro hisogno".
Data la situazione proprio il Fieschi consigliò di noleggiare in Inghilterra i quattro VASCELLI che il governo aveva stabilito di armare: lo stesso politico sostenne che "non risparmiando la spesa per haverli di ogni bontà e sopra tutto di quantità di buoni bombardieri et ufficiali" di cui avvalersi "per abozzo del l' armamento e "per scuola a nostri marinari".
Inizialmente la realizzazione delle navi era stata tentata in Liguria, anche per rilanciare la cantieristica ormai languente, ma il solo costruttore all'altezza, quello della Marabotto, non era in grado di rispettare i tempi delle consegne e visto che la cittadinanza era "hormai stracca e scandalizzata di aspetare " si decise per l'acquisto dei VASCELLI in Olanda.
Quella che in un primo tempo era parsa la scelta meno complicata si rivelò con il tempo anche piuttosto infelice visto che appena terminata la realizzazione delle navi scoppiò la guerra dell'Olanda con l'Inghilterra di modo che il governo olandese per le necessità belliche impedì il trasferimento a Genova dei VASCELLI e li requisì.
I VASCELLI vennero poi consegnati nel 1654 sì che la Repubblica, stando all'opinione dei migliori commentatori, parve esser stata "assassinata" nel prezzo, "e nella qualità poco, ben trattata" (così scrisse Nicolò Imperiale ancora trascritto dal Costantini nel suo libro sul genovesato).




Nel XVII secolo a Genova per le guerre, le rivoluzioni, le bancarotte spagnole si soleva, come riporta Claudio Costantini (pp.316 sgg.), dire che "chi ha danari non sa dove metterli a frutto".
In relazione a ciò si erano spalancate le porte per un ritorno di Genova nel commercio internazionale e " in specie nell'Indie orientali ".
"Essendo i portoghesi d'accordo con gli olandesi si potria trafficare senza pericolo ne' porti di tutti due e da quelli passar nell'America a' porti de' Castigliani ".
La guerra alla pirateria che infestava il Mar Ligure era un compito impellente, eppure risultava necessario contemplare il ruolo che i mercanti genovesi avrebbero potuto ricoprire in un'Europa ritornata pacificata.
La Memoria trascritta dal Costantini (custodita nella "Biblioteca della Società economica di Chiavari", ms. 8, S.I.21, carte 481 sgg. dal titolo Della necessità che ha la Repubblica di genova d'armarsi e del modo di mantenere l'armata) riportava i vari obiettivi che per un periodo anche di 15 anni avrebbero costituito il nocciolo del confronto politico: l'istituzione di una scuola navale come si usa in Lisbona et Amsterdam, il ritorno dei genovesi in Levante e quindi il ristabilimento di normali relazioni diplomatiche con l'Impero turco, l'impostazione di utili relazioni con l'Inghilterra e l'Olanda, una peculiare attenzione per l'area portoghese che, in forza del distacco dalla Spagna, si apriva all' influenza genovese.
Questa Memoria, senza le fantasie di consimili e priori scritti, guardava al concreto e ipotizzava un programma operativo che nel 1647 avrebbe trovato fondamento storico nella istituzione della Compagnia genovese delle Indie Orientali.
A siffatta Compagnia sarebbe toccato il compito di "aprire navigatione et traffico di mercantie nelle Indie Orientali, in particolare nel Giappone, suoi vicini et altri luoghi liberi et praticabili.
Il modello che l'istituzione voleva seguire era quello dell' Olanda.
Per conseguenza di ciò la Compagnia genovese acquistò in Olanda anche i suoi due vascelli e sempre ad Amsterdam si premurò di far reclutamento di ufficiali e marinai olandesi.
Inoltre si affidò più che all'amicizia quanto meno alla tolleranza delle autorità olandesi la riuscita de1 viaggio nei mari orientali.
La fiducia genovese non venne tuttavia pagata con buona moneta.
Allorquando raggiunsero l'Arcipelago della Sonda, le navi della Compagnia furono catturate e condotte a Batavia.
Anche gli ufficiali e i marinai olandesi non evitarono le violenze dei connazionali sì che furono imbarcati con la forza su bastimenti della loro stessa nazione.
Invece i mercanti e i componenti genovesi dell'equipaggio rispediti in patria.
Nel dicembre del 1650 giunse quindi notizia in Genova che le due navi risultavano esser state fatte miseramente perire.
L'isolamento diplomatico aveva colpito il governo genovese sin da quando aveva fatto intendere di voler lasciare l'onerosa "protezione spagnola".
Per liberarsi dalla scomoda condizione di isolamento Genova puntò in particolare su quelle potenze emergenti come l'Inghilterra e l'Olanda che avevano inaugurato i modelli del nuovo corso.
Per ridare vigore alla marina genovese sembrava indispensabile ottenere da queste potenze un energico soccorso in termini di navi, marinai, ufficiali capaci.
Le illusioni dei genovesi avevano fatto fin troppa strada ma in effetti a prescindere da una buona corrispondenza con la Repubblica e dai proclami ufficiali di amicizia, olandesi e inglesi non intendevano sbilanciarsi troppo .
L'episodio delle due navi della Compagnia genovese delle Indie catturate proprio dagli olandesi a Batavia per molti versi risultava emblematico.
I favori degli olandesi non avevano valicato i confini della formalità ed in fondo risultavano testimoniati soltanto dal fatto che in tale circostanza i genovesi imbarcati sui due vascelli erano tornati in patria senza aver patito danni fisici.
E risulta parimenti emblematica la vicenda dei quattro vascelli acquistati dalla Repubblica in Olanda.
Sconsolatamente scrisse G. B. Pallavicini (documento in "Archivio di Stato di Genova", Lettere ministri, 2185 - 19/XII/1653) al governo in occasione del sequestro olandese delle quattro imbarcazioni: "...havendo la Serenissima Repubblica comesso in Olanda la fabrica di detti vascelli, quanto a me ho sempre dubitato del avenimento, conoscendo purtropo la gelosia et invidia de fiaminghi in temere che altri intraprendano quel traffico che da loro esercitato li ha resi di habitatori di poche paludi li più potenti populi dell' Europa. Tanto meno ho stimato che dovessero permettere che numero de loro huomini da mare pasassero al servitio della Repubblica, essendo certo che quando bene l'havessero promesso troverebbero, dopo haverne ben dilongata l'esecutione, modo di divertirla solo se scorgessero che il conceder dette cose potesse poco o nulla profittare al sopradetto fine, temendo che li medemi sentimenti havranno tutti quelli stati che soliono far navigare nel Mediterraneo" (TOBIA PALLAVICINO, Della Navigazione e del Commercio, considerazioni politiche, Genova, per il Guasco, 1656).
Nonostante le difficoltà incontrate la Compagnia delle Indie non fu sciolta ma evolse nella Compagnia Marittima di San Giorgio.
La Compagnia di San Giorgio ottenne anzi dal governo e dalla Casa di San Giorgio, nuovi privilegi e ragguardevoli fianziamenti.
Verso la metà esatta del XVII secolo gli stessi personaggi si interscambiarono i ruoli nella gestione della Compagnia e delle magistrature navali della Repubblica.
Nella Compagnia di San Giorgio, si riscontravano tutti i simpatizzanti della fazione navalista e dei gruppi sociali che la sostenevano.
Vi erano ascritti pure membri diversi della scomparsa Compagnia di Nostra Signora di Libertà, personalità emergenti nel mondo politico genovese, come Ugo Fieschi, molti mercanti non ascritti, alcuni uomini d'affari stranieri.
Gio. Bernardo Veneroso risultò l'esponente piu rappresentativo e il dirigente più attivo della Compagnia.
Tobia Pallavicini, col trattato Della Navigazione e del Commercio, editato nel 1656, si fece interprete, pur senza nominarla, delle opinioni che avevano presieduto alla nascita della Compagnia.
Il trattato di Tobia Pallavicini, pieno di ammirazione per olandesi e inglesi, questi Figliuoli delle tenebre [figli delle tenebre in quanto riformati ed antipapisti] che erano guida e sprone d'ogni repubblica mercantile e le cui compagnie d'oltremare erano strettamente aiutate dallo Stato che si assumeva molte respondabilità nei loro confronti essendo convinto che proprio da esse derivava la maggior parte di ricchezza e fortuna per la nazione.
La Compagnia di San Giorgio aveva molti punti di contatto con il modello olandese.
Già i capitoli istitutivi della Compagnia genovese presupponevano un intimo legame dell'istituzione con le scelte governative.
Su ciò risultavano palesi segnali i riferimenti alla lotta anticorsara, alla primaria funzione della Compagnia per la reintroduzione dell' arte marinaresca in Genova, grazie soprattutto all'istituzione di scuole nautiche per li ufficiali, e all'importanza di curare la riqualificazione della gente di mare.
Inoltre i progetti iniziali della Compagnia prevedevano l'uso congiunto dei propri vascelli e di quelli che la Repubblica stava procurandosi in Olanda.
Se la Compagnia delle Indie aveva tentato di innestarsi nell'area coloniale olandese, quella di San Giorgio tentò di esperimentare , avvalendosi dell'ausilio di fidati padri gesuiti, le possibilità concesse dal Portogallo, cui erano carenti sia navi che danari al fine di potenziare i traffici con le colonie.
I genovesi erano in grado di fornire le une e gli altri e così inserirsi in un ricco settore degli indiani commerzi.
Nel 1655 scrissero alcuni dirigenti della Compagnia ai loro agenti di residenza a Lisbona: "Gia si è dato principio ad ordinare la compra di cinque navi ... et havendo anco la Republica Serenissima armato quattro galeoni da guerra che giaà sono in Genova per convoiare et assicurare quelle navi di mercantia che ne havessero per loro securezza di bisogno, potranno detti galeoni servire ancora per augumentare il numero delle navi della Compagnia. Se di Portogallo donque vi fusse pari disposizione, si potrebbe qui far capitali per adesso di 6 in 8 navi ben corredate e di maggior numero in avvenire".
Anche in questa circostanza molte speranze alimentate sarebbero andate disattese.
Infatti gli inglesi controllavano quasi tutte le opportunità sperate, mentre i genovesi dovevano scontare la propria inesperienza.
Le navi della Compagnia, mandate alla ventura, senza effetti, né crediti e senza ordini bastanti si consumavano nella snervante attesa di carichi destinati a mai giungere.
Dopo tanti audaci progetti sopravvisse appena la partecipazione di due navi della Compagnia ad un convoglio per il Brasile, che si concluse per altro con un notevole passivo.
La Compagnia tuttavia sopravvisse a lungo, pur se più per la difficoltà di liquidare in modo decoroso l'impresa, che per la speranza di risanarla.
Alla fine la Casa di San Giorgio prese distanza da quella che nonostante tutto era da giudicarsi (come scrive il Costantini) "una sua creatura".
I vascelli della Repubblica, nel quadro del generale ripiegamento sulle vecchie rotte mediterranee, seguito all'insuccesso portoghese, furono impiegati prevalentemente nei viaggi di Spagna, parzialmente in sostituzione delle galee.
La loro storia si identificò quindi in definitiva con l'esperienza della navigazione convogliata che la Repubblica pose finalmente in atto a protezione di alcune vitali, ma tradizionali correnti de1 traflico genovese.







In un testo molto importante Luca Lo Basso (In traccia de' legni nemici - Corsari europei nel Medierraneo del Settecento, Phlobiblon edizioni, Ventimiglia, 2002, pp.39 sgg.) ci rammenta che il duca sabaudo Carlo Emanuele I il 22-I-1612, volendo in qualche modo innestare il suo potentato nell'ambito della lotta commerciale tra Genova ed il porto mediceo di Livorno, istituì a Nizza e Villafranca un primo PORTOFRANCO che rendeva fattibile la concessione a padroni, passeggeri, marinai e merci la facoltà di operare in tale approdo, sbarcando le merci, senza esser tenuti a pagare dazi.
Oltre a ciò veniva concessa l'amnistia a chi si fosse reso colpevole di delitti comuni, con l'eccezione però di quanti si fossero resi rei di crimini di Lesa Maestà o di omicidio: a prescindere da ciò veniva consentita libertà di culto ai non cattolici a patto di evitare pratiche ritenute immorali.
L'editto del 1612 per l'erezione del PORTOFRANCO DI NIZZA E VILLAFRANCA poneva inoltre le radici onde istituire l'ufficio del CONSOLATO DEL MARE, concedendo altresì l'autorizzazione alle potenze straniere di accreditare dei loro Consoli: in effetti dal 1388 il solo approdo significativo della CONTEA DI NIZZA era il PORTO DI VILLAFRANCA distinto in due settori, uno a carattere militare (in cui erano compresi gli scali, la darsena e la cittadella) ed un secondo deputato a finalità esclusivamente mercantili che occupava tutto l'areale del golfo sì che le navi commerciali erano in grado di trovare riparo allo scopo di trasbordare i prodotti trasportati nel sito identificabile davanti allo stesso Palazzo dei Savoia mentre al lato estremo della rada sorgeva la zona stabilita per eventuali periodi di quarantena e da identificare quindi con la sede del lazzaretto (giova rammentare, comunque, che si era in grado di procedere allo smistamento delle merci, tra navi e depositi a terra, anche nell'ansa di San Lamberto posta proprio sotto il castello di Nizza: in linea di massima qui era sorto l'originario approdo della Nizza greca, il quale però risultava estremamente condizionato dai pericoli di ripetuti insabbiamenti dovuti alla non rarissima portata alluvionale dei torrenti circostanti tale sito)
L'editto di istituzione del PORTOFRANCO DI NIZZA - VILLAFRANCA di fatto venne applicato l'anno successivo nel 1613 e tale rimase sino al 1626 quando vennero apportate alcune correzioni.
L'articolo proemiale del 1626 comportò la soppressione della legge d'ubena secondo cui, in base ad un precedente editto (28-V-1618), la successione degli stranieri non naturalizzati veniva attribuita al sovrano.
Per quanto concerne siffatta abolizione risultava consentito agli stranieri "libera facoltà di poter disporre a loro piacere di tutti i loro haveri, crediti et effetti tanto per contratto quanto per ultima volontà, e non disponendone resti luogo alla successione ab intestato, come se fossero i detti loro haveri, beni et effetti in maniera che qualsivoglia forestiero possa loro succedere, eccettuando nondimeno dal beneficio del presente editto, li sudditi con loro vasselli, robbe, mercantie ed effetti di quei potentati contro quali habbiamo hora o fossimo per haver all'avvenire guerra attiva o passiva".
L'editto del 1626 comportava altresì qualche altra novità compresa la concessione del PORTOFRANCO ad un'ampia raggiera di stranieri che giungessero "di Barbaria" e che comunque fossero "di quella o di qualunque altra nazione di Levante di là del golfo di Venetia, e da Ponente di là dello stretto di Gibilterra".
L'articolo quinto dell'editto del 1626 cercava altresì di porre le fondamenta per la realizzazione di un'adeguata marina che operasse sotto l'egida della bandiera sabauda: anche in funzione di ciò si deliberò di autorizzare gli stranieri, soliti ad utilizzare l'approdo del PORTOFRANCO di Nizza e Villafranca, ad inalberare la bandiera del Ducato, fatto che venne riconfermato il 27 gennaio 1667.
Le cose procedettero senza grandi trasformazioni istituzionali sino al governo di Carlo Emanuele III fu promulgato un altro editto ancora (datato 12-III-1749) redatto in 33 articoli.
In particolare l'articolo 3 affrontava la maniera in cui ci si dovesse comportare in occasione del sopraggiungere nell'approdo di imbarcazioni straniere.
Nel PORTOFRANCO non si doveva procedere all'ispezione delle navi, tuttavia il proprietario del vascello o in alternativa il capitano della nave dovevano rilasciare le proprie generalità (cognome, nome, patria, titolo, portata e luogo di provenienza) alle preposte autorità.
Allorché si trattava di un'imbarcazione commerciale il padrone della stessa doveva inoltrare al locale Magistrato di Sanità le patenti rilasciate nel porto di provenienza: qualore fossero segnalate, sulla nave, testimonianze di malasanità ed in dettaglio di infezioni l'equipaggio risultava tenuto a scontare la quarantena nel lazzaretto di Villafranca. Non segnalandosi casi sospetti il titolare della proprietà od il capitano avevano l'obbligo di trasmettere al magistrato, entro il terzo giorno dall'arrivo in porto, l'elenco delle mercanzie introdotte.
Dati questi presupposti alla nave era concesso avvalersi del PORTOFRANCO sì che se ne potevano trasbordare sulle banchine le merci senza dover sottostare al pagamento di dazi o gabelle.
Secondo i dettami della succitata normativa si poteva procedere alla vendita di quanto importato operando sulla stessa imbarcazione o depositando la mercanzia nei magazzeni portuali (in questa evenienza però il padrone poteva riportare nella stiva delle navi le merci solo quando fossero trascorsi almeno 8 giornate).
Sotto il dominato sabaudo di Carlo Emanuele III, attesa la mancanza di un vero decollo sia del PORTOFRANCO che dell'attività marinara, furono realizzate alcune riforme di un certo rilievo.
La radice delle innovazioni al fine di una sempre maggiore presenza sabauda nei traffici mercantili marinari verte sul nuovo editto del 12-III-1749 riguardante il PORTOFRANCO e le attività connesse.
In base al nuovo documento s'evince che i legislatori erano da tempo giunti alla conclusione, realistica, che tra l'essenza di tutti i problemi piemontesi, in merito ad un traffico mare-pianura padana-monti, stava connesso alle dogane e ancor più alla difficoltà di comunicazione fra gli approdi e le basi "continentali" sabaude.
L'articolo 11 dell'editto affrontava l'annoso problema delle dogane: infatti, prescindendo da mercanti che transitavano per l'approdo nizzardo, tutti gli altri che intendessero raggiungere il Piemonte erano obbligati a pagare la dogana.
Naturalmente tale meccanismo protezionistico aveva la scopo di potenziare la fruizione dell'approdo nizzardo, di maniera che mentre il successivo articolo 14 sanciva che ogni mercanzia in arrivo da Lombardia e Germania, ma transitante per Torino in direzione Nizza, non fosse tenuta a pressione doganale, parimenti in relazione all'articolo 15 il medesimo principio valeva in funzione dell'opposto percorso Nizza-Torino-Lombardia (Germania).
Se le osservazioni in merito all'apparato doganale rientravano comunque nel più globale discorso di una crescente qualificazione del PORTOFRANCO, altre puntualizzazioni miravano a delineare un ben più complicato problema logistico, alla base, indiscutibilmente, di quasi tutti le difficoltà collegate al funzionamento del PORTOFRANCO, vale a dire la difficoltà delle vie di comunicazione mare-monti o, usando una terminologia più spiccatamente geopolitica, la gravezza delle connessioni viarie fra la Contea di Nizza ed il cuore della regione piemontese: in funzione di tale discorso il punto centrale si focalizzava sul nodo, arduo e storicamente tormentato, della contesissima (da Genova in particolare) via del Colle di Tenda.
Il citato Lo Basso, a questo punto, rammenta una memoria Relazione) del gran cancelliere Carlo Luigi Luodovico Caissotti di Verduno (Nizza 1694 - Torino 1779: vedi la voce di V. Castronovo in Dizionario biografico degli italiani): in merito a siffatte problematiche egli (presumibilmente ancora piuttosto giovane) poneva alla base delle suddette questioni tre punti sostanziali:
-Il primo consisteva nella opportunità di realizzare, per scopi commerciali e non, un canale navigabile fra il Po ed il complesso demico di Cuneo.
-Il secondo imponeva la realizzazione di un'efficiente complesso stradale transitante per il Colle di Tenda.
-Il punto terzo, infine, concerneva la realizzazione di una darsena nuova nella base nizzarda.
Attento osservatore non solo della situazione geopolitche ma anche del comparto burocratico-istituzionale, il Caissotti rilevò comunque altre ragioni che avevano frenato lo sviluppo del PORTOFRANCO sabaudo: egli in particolare soppesò giustamente una certa superficialità delle autorità preposte, di modo che in parecchie circostanze erano venute meno alcune peculiarità dell'istituzione. In particolare, tra le ragioni di un relativo fallimento, era stata sempre addotta la mancanza di un nuovo porto per la città di Nizza: al punto che, non senza sforzo economico ma nel clima sostanzialmente entusiasta per gli eventi della recente Guerra di Successione al Trono imperiale
che avevano finito con l'assegnare un ruolo significativo e persino poeticamente celebrato a Torino, l'innovatore Carlo Emanuele III nel 1752 aveva fatto realizzare ad oriente del castello di Nizza il nuovissimo scalo di LIMPIA: a chiosa dei suoi rilievi sul pregresso, mancato decollo del PORTOFRANCO SABAUDO il Caissotti tuttavia annotò:"...non bastano i porti, e darsena per invitare i legni stranieri ad approdare colle loro merci senza il concorso di due circostanze, una delle quali è, che siano di venderle, e l'altra di ritrovarvi cose per il loro ricarico...".
L'estensore della Relazione, esposti i problemi del PORTOFRANCO, proponeva costruttivamente le possibili soluzioni annotando:"...per un proporzionato carico non si può fare capitale solamente di ciò, che nasce dal contado di Nizza, come ogli, agrumi e nemmeno di quel dippiù, che ivi può fabbricarsi, come saponi, cordaggi, corami ed altre cose, vi vuole il concorso delle vettovaglie, e merci del Piemonte, come grani, risi, canape, acquevite, sete lavorate, ed altre opere di manifatture....
L'autore, proseguendo nella sua dissertazione, scriveva:"...nel progetto nostro si tratterebbe in sostanza di commerziare più utilmente le cose nostre, e si può dire nelle nostre spiagge, colla libertà solamente di farne qualche trasporto per mare, e come si fa da ogni altra nazione, onde non può eccitare opposizioni, e fors'anche nemmeno gelosie, se non de' genovesi, che poco importano....
La scarsa considerazione verso Genova era probabilmente ingiusta ma fondamentalmente risiedeva nella struttura mentale del giurista, che apparteneva ad uno stato nemico dell'antica repubblica e peraltro in vigorosa espansione, quanto al contrario le difficoltà politico-economiche del Dominio andavano vieppiù incentivandosi.
Integrando a tal proposito le puntuali osservazioni del Lo Basso (p.41) non si può evitare, comunque, di ravvedere nella chiusa antigenovese del Caissotti la giusta convinzione che, vertendo sul commercio di olio d'oliva ed agrumi (assieme a quello delle palme) senza dubbio lucroso per l'economia ligure e la correlata marineria, il PORTOFRANCO DI NIZZA avrebbe avuto limitate possibilità di affermazione.
Il PORTOFRANCO SABAUDO, per essere realmente competitivo, abbisognava senza dubbio di alternative mercantili, tra cui quelle con chiarezza elencate dal Caissotti: naturalmente per potenziare l'efficienza mercantile dell'approdo l'elemento fondamentale era rappresentato dalla primaria soluzione del miglioramento del tragitto carreggiabile fra Nizza e Tenda.
Integrando questa asse viaria con la realizzazione di un canale navigabile che collegasse la linea fluviale del Po con la città di Cuneo si sarebbe infatti acquisita la facoltà di trasportare sulla costa nizzarda molti prodotti altrimenti relegati nel contesto del mercato padano.
Il Caissotti individuava comunque un rischio latente nella potente Francia, timorosa di vedere compromessi certi suoi privilegi mercantili e militari non esclusa la funzione già importante dello scalo di Marsiglia. Il giurista tuttavia tendeva quasi subito a demotivare la portata di queste problematiche, da lui stesso avanzate, in funzione delle mutate condizioni geopolitiche. Un pò parzialmente, probabilmente suggestionato come altri dai recenti successi della casa sabauda, per prima cosa, sopravvalutava la portata politico-militare dello stato sabaudo, lo giudicava avversario temibile anche per i forti transalpini, sì che essi, per quanto storicamente ansiosi di espandere il loro controllo sulla Contea di Nizza, avrebbero verisimilmente dovuto soppesare l'opportunità e la pericolosità di un intervento militare nell'estrema propaggine marinara dello stato piemontese.
Resosi probabilmente consapevole degli eccessi di questa unica affermazione consolatoria il Caissotti formulava però quasi subito un'ulteriore opinione precisando come verisimilmente "...la Francia dopo il trattato di Lione, in cui cedette il Marchesato di Saluzzo, e poi quello di Torino, nel quale restituì Pinerolo, abbia abbandonato, o per lo meno sospeso il pensiero di porre un piè fermo nell'Italia, rivolte più utilmente le proprie mire verso la Fiandria...".
Che nutrisse delle perplessità sul comportamento della Francia il giurista sabaudo non mancava di sovrapporre ipotesi non sempre lineari e tra queste menzionava, un poco artificiosamente, che lo scalo di Marsiglia, anziché un ostacolo, potesse ricevere soccorso ed incentivazione mercantile dal successo del PORTOFRANCO SABAUDO, in grado di offrire ai transalpini un altro sbocco commerciale per i loro traffici verso l'Italia settentrionale: la sua postulazione sarebbe comunque stata tutta da verificare, in quanto era chiaro a tutti che ancor meglio per la Francia sarebbe stato il controllo diretto di un meccanismo portuale come quello di Nizza su cui dovesse riversarsi per non soffocare nelle angustie della padania la crescente produzione agricola ed industriale pedemontana.
Lo stesso relatore, proseguendo nelle riflessioni, dava quindi altra prova delle sue insicurezze laddove, cercando di obbiettare a quanti contestavano l'ipotesi che una più agibile carreggiabile verso il Colle di Tenda, affermava che comunque i francesi sarebbero stati in grado di ampliare quella strada nel corso di un conflitto con lo stato sabaudo: implicitamente era un modo per evidenziare una sua certa confusione, specialmente dopo aver definito a rischio un intervento militare francese contro il Piemonte. Intervento che, dopo aver definito improbabile, il Caissotti finiva per mettere in preventivo adducendo che, a riguardo del canale Cuneo-Po, in caso di guerra con la Francia sarebbe stato fattibile svuotare i canali per impedire la conquista di Torino: si tratta di un'ulteriore dimostrazione che, man mano che scriveva, l'autore andava perdendo il suo proemiale entusiasmo sull'effettiva capacità bellica di resistenza del Piemonte avverso le eventuali forze francesi di invasione, atteso che, nonstante gli esiti della recente guerra di Successione al Trono imperiale, ai primi del '700 il Piemonte era stato decisamente invaso dai francesi, al punto che la corte era fuggita da Torino assediata, portando con sè, sin allo scalo ligure di Oneglia ma in forza di un viaggio improbo, la Sacra Sindone, sballottata tra precarie fermate e percorsi faticosissimi sin al buon rifugio diplomatico di Genova.
Queste considerazioni non vietano comunque di appurare l'essenza del traffico mercantile che prese ad investire il PORTOFRANCO DI NIZZA: è ancora il Lo Basso ad aver reperito un'interessante memoria adesposta, scritta in lingua francese e verisimilmente di metà '700, che elencava in modo organico le mercanzie prodotte nel Regno dei Savoia, e quindi esportabili dallo scalo nizzardo, quanto le merci di importazione.
Fra i prodotti del Piemonte destinati ad essere commercializzati dal PORTOFRANCO la memoria settecentesca registrava in prima istanza sete, olio, agrumi, acciughe, vino e sale di Sardegna, solitamente mercanteggiato da vascelli svedesi che lo imbarcavano allo scalo di Cagliari.
Nizza godeva di una certa fama per le sue acciughe, ambite specie nei paesi del nord europa e definite solitamente acciughe di Provenza: è comunque da precisare che un poco di parzialità filosabauda faceva trascurare all'estensore della citata memoria la grande tradizione della pescaggione che da secoli caratterizzava il Ponente del Dominio di Genova.
In botti lignee od in contenitori di vetro da Nizza si poteva poi trasportare su altre piazze mercantile il vino bianco detto paesano e quello moscato, all'estero meglio noto come St. Laurent: questa produzione aveva però nella vicina liguria occidentale la robusta competizione della vinficazione locale tra cui primeggiava, nella cultura gastronomica, la tradizione enologica del moscatellino di Taggia.
E' comunque significativo che, nell'eventualità di un miglioramento dell'assetto viario Nizza - Piemonte, il PORTOFRANCO avrebbe potuto valersi del giovamento indiscutibile di una commercializzazione ad alto raggio d'azione degli eccellenti vini tipici dell'area sabauda continentale.
Sfruttando i vantaggi, doganali e logistici, del nuovo scalo sabaudo è chiaro che tra i prodotti da mercanteggiare un ruolo di rilievo avrebbe avuto l'olio d'oliva anche se, ad onor del vero, non sarebbe mai stato facile competere con la grande produzione del Ponente ligustico.
A prescindere dalla commercializzazione del sapone, proprio delle industrie locali, il PORTOFRANCO avrebbe quindi avuta la facoltà di trattare sulle piazze del mediterraneo e non le buone sete piemontesi (trasportate comunque anche in Inghilterra e ritenute di pregio nella tipologia di "organzino") peraltro affiancate da una discreta produzione manifatturiera lnizzarda e comunque locale.
Un discorso ulteriormente interessante sotto il lato della produzione e della mercatura era poi quello degli agrumi: il Nizzardo, indubbiamente, era stato a lungo penalizzato dal confronto con la produzione, peraltro variegata, della Liguria occidentale ma ora, sfruttando un comodo scalo, gli sarebbe stato possibile competere per prezzi e celerità di trasporto (alcuni dati archivistici raccolti dal Lo Basso ci guidano nella crescita di questa crescente rivalità: il più significativo dipende probabilmente dall'apertura nizzarda di un mercato abbastanza significativo in Moscovia ove nel 1768 vennero trasportate e commercializzate 200 casse di prodotti, che divennero, visti evidentemente i buoni risultati dell'operazione e la qualità del prodotto, a 450 nel 1767).
Per quanto concerneva i prodotti di importazione al PORTOFRANCO sabaudo nella citata memoria sono menzionati grano, cuoio, cera, ferro, legname da costruzione, zucchero, caffé ed ancora spezie.
Il Lo Basso (pp.44 sgg.), onde chiarire i movimenti dello scalo del PORTOFRANCO piemontese, si avvale sostanzialemente di due testimonianze d'archivio.
Una di queste datata del 1734 concerne lo scalo di Villafranca: l'altra, più tarda e datata del 1781, raccoglie molti dati sul moderno scalo nizzardo di Limpia.
A proposito di Villafranca il Lo Basso, che giova ricordarlo è il solo meritorio facitore di siffatte acquisizioni, annota il transito di 12b2 vascelli di varia stazza, segnalando un minimo di attività nel periodo autunnale dell'ottobre 1734 (arrivo di 76 bastimenti) e in contrappunto un massimo di operazioni commerciali nella buona stagione dell'aprile 1734 (198 vascelli).
Il documento concernente il 1781 offre spunti documentari superiori. La fonte essenziale è costituita direttamente dai registri redatti e custoditi dalla medesima capitaneria dell'approdo di Limpia, in funzione dei quali risulta tuttora fattibile verificare il giorno di arrivi e partenze, le caratteristiche tecniche e l'armamento delle navi, la tipologia del carico compresa la meta portulae prefissata dal programma di navigazione. Grazie a notazioni che spaziano per un arco cronologico di 140 giorni, tra i mesi d'aprile e di ottobre, si evince che lo scalo di Limpia nell'anno 1781 vide la frequentazione di 878 vascelli: di questi il 58,2%, equivalente ad un numero di 511 unità, risultava costituito da imbarcazioni in rotta diretta per Nizza, a confronto di un 41,8% composto da unità marinare che si avvalevano dello scalo di Nizza solo quale pinto di transito per altre mete.
L'oculatezze delle registrazioni, e naturalmente la laboriosità del Lo Basso, consente altresì di delineare un quadro abbastanza esauriente della tipologia dei vascelli in navigazione su questi mari: se ne deduce che il natante d'uso consueto e preferenziale era il leudo (ne leggiamo registrati ben 245) cui seguivano il pinco (203), la tartana (163) e quindi la feluca (152 unità): in numero minore erano quindi altre imbarcazioni tra cui si rechistra la polacca (24 esemplari) e il grosso brigantino (15).
Le notazioni dei porti di partenza permettono quindi di tracciare una geografia politico-commerciale e marinare dei traffici e degli spostamente annotati all'anno 1781. Furono 92 gli scali da cui erano salpati i vascelli di vario tipo indirizzati alla volta di Nizza. Primeggiava il vicino porto di Marsiglia (con 140 navi da esso partite per approdare nel nizzardo) ma lo scalo di Genova non era molto lontano per i contatti intrattenuti con i suoi 117 natanti in rotta per Nizza: di minor entità era invece la frequenza di imbarcazioni provenienti dal PORTOFRANCO mediceo di Livorno (40 vascelli).
Tutto questo in relazione agli scali importanti ed ai grandi numeri ma è fuor di dubbio che tutti gli approdi significativi (18 scali) della Riviera occidentale di Genova intrattenevano saldi contatti con i porti del nizzardo attesa la loro collocazione commercialmente strategica per chi intendesse procedere alla volta sia della Provenza (e di tutta la costa francese) come della penisola iberica: dal settecentesco registro, al contrario, si evince una limitata frequentazione dello scalo di Nizza ad opera di imbarcazioni provenienti dai pochi significativi porti della Riviera di Levante (Camogli, Portofino, Chiavari e Portovenere).
Certamente la parte del leone, per quanto concerne il Dominio ligure, era svolta dal grande scalo di Genova, donde arrivavano molte merci: in particolare risultano vennero computate 29 imbarcazioni cariche di grano e 28 natanti classificati come trasportatori di merci varie.
A questi 57 vascelli erano poi da aggregare 22 navi, negli atti, definite come vuote: in base all'interpretazione fornita puntualmente dal Lo Basso (p.45) si avanzano due ipotesi, sostanzialmente definite cooccorrenti, che cioè l'insieme delle citate 22 navi fosse costituito da un certo numero di vascelli approdati a Nizza per ragioni tecniche (o per evitare pericolosi fortunali) e da un altro numero di natanti effettivamente diretti per mercanteggiare nel nizzardo ma alla fine costretti a riprendere il mare data la carenza di opportunità commerciali.
A prescindere da quanto detto, le notizie, ricavate dalle registrazioni del 1781, ci ragguagliano su gran parte dei prodotti in arrivo da Genova: canapa, cuoio, marmi, olio, carbone, sevo, soda, fave, biada, tele, zucchero, pelli, legname.
Studiando il citato registro portuale del 1781 il Lo Basso (ibidem) è addirittura in grado di sottolineare il relativo spostamento di vascelli da guerra in relazione allo scalo nizzardo: rammenta infatti gli spostamenti di cinque bastimenti definiti quali i corrieri di Francia e di Spagna e finalmente menzione anche una nave da guerra della flotta genovese.
Ritornando a visionare in dettaglio le note fornite in merito alla Riviera di Ponente l'autore pone in primo luogo per siffatto areale geopolitico gli scali di Savona e Sanremo: in rapporto ai dati acquisiti Savona inviava a Nizza principalmente cerchi di ferro (trasportati da 19 vascelli) e grano (8 navi) mentre Sanremo mercanteggiava prioritariamente frutta (8 natanti) ed olio (5 imbarcazioni da trasporto).
Su minori livelli di operosità furono elencati pure i nomi di Cogoleto, donde veniva spedita a Nizza la calcina, di Celle, da cui giungeva la terraglia, ed infine di Pietra e Finale le cui imbarcazioni trasportavano eminentemente il bosco cioè il legname: è abbastanza dedurre che queste piazze mercantili della sabazia e dell'ingaunia svolgevano un ruolo peculiare, connesso ai rifornimenti per l'edilizia locale.
Da parte transalpina l'approdo maggiormente in contatto con gli scali nizzardi era logicamente Marsiglia donde arrivarono nel 1781 almeno 60 natanti caratterizzati dal trasporto di merci diversi cui si aggregavano, come per Genova, almeno 31 navi giudicate vuote: principalmente dall'approdo francese giungeva il vino (trasportato nel 1781 da 25 bastimenti) seguito dal grano mercanteggiato nel porto sabaudo da 10 vascelli ma non si possono eludere altri tipi di merci provenienti dagli scali atlantici quali zucchero, tabacco, caffé, piombo, ferro e lana (da altri più piccoli porti francesi -Lievres, St. Nazaire, Bandol, Agde, Sète, Cassis, Narbonna, St. Maxime, La Ciotat, Tolone- risultavano eminentemente trasbordati ai magazzeni portuali di Nizza il vino ed una discreta percentuale di acquavite).
Ancora il Lo Basso, proseguendo nella sua attenta disanima, si sofferma ad analizzare la linea di navigazione più praticata vale a dire quella che portava da Genova a Marsiglia e, naturalmente, da questo scalo transalpino alla capitale del Dominio ligustico. Oltre Genova le navi procedevano quindi in direzione del Portofranco livornese, molto spesso per continuare la loro rotta in direzione degli scali mediterranei e principalmente sud-italici: alternativamente, per quanto riguarda la rotta occidentale, il traffico marinaresco proseguiva alla volta degli scali iberici.
Delle 40 navi segnalati nella relazione del 1781 come procedenti da Livorno addirittura 23 erano registrate come trasportatrici di merci varie: oltre a ciò i dettagli risultavano più precisi e ripetuti per una sequela di merci, tra cui primeggiava la soda, il grano, la canapa, le doghe delle botte (genericamente definite dogarelle) e finalmente il carbone.
Molti, sull'asse di questa rotta orientaleggiante, erano quindi gli scali del sud italiano tra cui vennero segnati gli approdi di Castellamare di Stabia, di Napoli, di Salerno, di Sorrento, di Pozzuoli e Procida, di Bagnara e Reggio, ed ancora di Pizzo, Augusta, Palermo, Catania, Trapani, Marsala, Messina, Monopoli e Taranto.
A Napoli, lo scalo più significativo, sulle navi destinate a ritornare in area nizzarda venivano caricati prodotti come soda, grano, olio, cerchi, pasta, zolfo, pasta di liquirizia, fagioli, pelli ed aglio.
Spesso sulla via del ritorno i vascelli facevano scalo nel dominio dello Stato della Chiesa, entrando essenzialmente negli scali di Civitavecchia, Gaeta, Anzio e Roma Fiumicina (oltre ad Ancona, per i natanti che si spingevano sin nel mar Adriatico): mediamente i prodotti caricati sulle navi erano rappresentati da grano, dogarelle ed ancora lana.
Ancora più frequentati erano i grandi approdi iberici, in particolari quelli di Barcellona, Valencia, Alicante, Cartagena, Ampurias, Tarragona, Almeria ed Ibiza: a proposito degli scali catalani, sulla linea di un'antichissima tradizione, si trasportava il vino pur se parecchi furono i grossi natanti rientrati vuoti a Nizza, forse al fine di caricare del vino di produzione indigena (si deve però rammentare che le navi in special modo da Alicante ed Ibiza, assieme a qualche altra merce quale il piombo di Almeria, trasportavano nel nizzardo l'importante sale locale).
Una notazione peculiare merita, secondo il moderno rielaboratore di queste notizie, la base insulare di Minorca che rappresentava una stazione navale inglese nel Mediterraneo, particolarmente utilizzata nel corso della guerra di indipendenza degli Stati Uniti e primieramente base utilissima per i corsari al servizio dell'Inghilterra: dalla relazione del 1781 sono stati comunque estrapolati gli spostamenti per ragioni mercantili e non di almeno 28 vascelli tutti in arrivo da Mahòn (in effetti 10 erano navi corsari al servizio della corona inglese) e destinati a trasportare a Limpia vari prodotti tra cui tabacco, ferro, formaggio e carne salata.
Sull'asse di questi rilevamenti, sempre dovuti alla fonte documentaria del 1781, non possono trascurarsi i porti sabaudi che, per quanto di relativa valenza, mantenevano con Nizza un discreto rapporto commerciale. Per quanto concerne la Liguria la registrazione menzionava gli scali viciniori di Loano ed Oneglia mentre in merito al grande possesso insulare della Sardegna le citazioni concernevano i porti di Cagliari, Porto Torres ed infine Sassari: da Loano in particolare fu annotato l'arrivo di 24 imbarcazioni iin gran parte carichi di legname ed olio, mentre dall'area sarda giungevano quasi prevalentemente sale, tonno, lana, pelli, grano e tabacco.
Con la sua solita giustezza il Lo Basso (p.47) lamenta la parzialità dei dati per fornire un'esaustiva esemplificazione delle operazioni mercantili in area nizzarda: infatti, come egli di seguito scrive, le navi di grandezza superiore, ancora sin a metà del XVIII secolo, erano ancora indirizzate al vecchio scalo di Villafranca (per cui mancano dati) mentre in quello veramente nizzardo di Limpia potevano entrare solo bastimenti dalla portata non eccedente le 400 tonnellate.
E' grossomodo dal 1760 che, mentre Villafranca diviene principalmente scalo marittimo destinato ad ospitare la flotta da guerra, lo scalo di Limpia diviene il vero e proprio approdo commerciale dell'area in questione. Il complesso demico di Nizza andava ormai sviluppandosi attorno al cuore del suo approdo di Limpia ed il progettista e finalizzatore della realizzazione di questo scalo il conte di Robilant, nell'ambito di un suo soggiorno in Nizza nel 1770, redasse una sua memoria che voleva costituire una specie di sunto sull'evoluzione e sulla situazione contemporanea del modernissimo approdo.
Per due volte, ci rammenta il Lo Basso, l'architetto si portò ad ispezionare la "sua realizzazione", e ne ricavò alcune utili considerazioni.
In primo luogo lo reputò ben frequentato, con un discreto afflusso di imbarcazioni, e contestualmente registrò come le sue acque risultassero mediamente assai tranquille di maniere da non inficiare la semplicità solita degli scambi mercantili.
Da uomo scrupoloso il conte ritenne opportuno contattare anche i cittadini residenti per prendere ulteriori affermazioni: con sollievo potè registrare che anche nei periodi di fortunale il mare burrascoso non apportava grossi problemi, di maniera che entro il porto non si formava altro che la maretta vale a dire la consueta risacca.
Dal punto di vista tecnico egli studiò soprattutto il molo foraneo ideando una superiore protezione della darsena.
Altre problematiche non vennero da lui constata sicché ritenne doveroso spostarsi a verificare le eventuali sovrastrutture: per tale motivazione visitò e studiò la strada del Colle di Tenda su cui tracciò alcune considerazioni pur giudicandola in linea di massima decorosa ed agibile per i commerci.
Egli in particolare si portò nella valle di La Panis e qui visitò i lavori coi quali si stava lavorando alla realizzazione di una galleria destinata a facilitare i contatti tra Piemonte e Contea di Nizza: a suo parere questa opera sarebbe risultata di importanza significativa in quanto avrebbe consentito alle finanze del regno sabaudo un risparmio considerevole, sin forse a 1.500 lire, la somma cioè che annualmente l'amministrazione era obbligata a stanziare per i lavori di sgombero dalla neve invernale del passo del Tenda.
Il nobile architetto non si limitò a visualizzare le caratteristiche dell'approdo commerciale di Limpia ma ritenne doveroso studiare anche le caratteristiche del porto, ormai decisamente militare, di Villafranca. Egli ne valutò positivamente la darsena che definì eccellente e funzionale: in effetti essa risultava idonea a dar ricetto ai vascelli di mole più imponente armati sino a 50 cannoni: e del resto la rada, anche a parere dei comandanti delle navi, aveva la possibilità di ospitare un numero considerevole di navi da guerra. Un limite era costituito dalla carenza di opportuno rifornimento idrico e a questo proposito il di Robilant progettò la realizzazione di una o più fonti idriche capaci di soddisfare le esigenze di approvvigionamento del sito di Villafranca.
Due sorgenti in grado di soddisfare le esigenze idrogeologiche vennero presto individuate nella valle di Nostra Signora di Laghet e, alternativamente, nel sito del Montegrosso, ove la fonte in questione non casualmente recava l'idronimo de La sorgente: il di Robilant ideò di conseguenza la realizzazione di acquedotti idonei a convogliare nel sistema demico e portuale di Villafranca una adeguata percentuale di rifornimento d'acqua fresca e potabile.
Due altre proposte del conte furono avanzate in merito alla caratura strategica dei porti nizzardi ed alla loro funzionalità operativa.
Con una celere segnalazione il di Robilant sostenne la necessità di disporre delle truppe sulle altura dell'area geopolitica del nizzardo a guardia della Contea ed ancor più dei suoi porti.
Egli affrontò poi con superiore cura la questione dell'edificazione di un magazzino del commercio: come ancora ci ragguaglia il puntuale Lo Basso questo non doveva confondersi col magazzeno deputato alla mercatura dei prodotti nel Portofranco ma, più specialmente, si trattava di un emporio nautico attrezzato allo scopo di provvedere le navi, in arrivo o partenze, delle attrezzature eventualmente carenti od usurate.
Le regole per l'amministrazione di siffatto Emporio ebbero la necessaria stesura, con opportuna ratifica istituzionale, caddero nel biennio 1750-1751: in relazione ad esse in questo complesso doveva reperirsi utilmente e senza impacci quanto in dettaglio opportuno alle più svariate esigenze di una sicura navigazione.
Era possibile trovarvi prodotti di manifattura locale quali le cotonine realizzate dall'opificio del nizzardo Carlo Ardizzone (il costo ammontava a 7 soldi per ogni unità di misura corrispondente alla "canna") come i cavi di canapa solitamente introdotti dall'area pedemontana piemontese, pur se non s'era mancato, in situazioni d'emergenza, d'importare il corrispondente prodotto dalla base adriatica di Ancona.
embre dal complesso geopolitico ed economico sabaudo giungevano quindi all'emporio tele e stoppe principalmente fabbricate a Vernante: all'opposto le alberature venivano comprate sui mercati cantieristici dell'Europa settentrionale, massime nei Paesi Bassi, pur se, in quelle occasioni eccezionali che erano solitamente costituite dai ricorrenti eventi bellici, era fattibile avvalersi del discreto prodotto locale proveniente dalla riserva di Clans.
La sabauda Sardegna spediva solitamente a Nizza il robusto legno di rovere mentre i manufatti di olmo si acquistavano a Savona, nel Dominio genovese: altri legni, come quelli di faggio e di pino, non comportavano invece peculiari spedizioni e si reperivano mediamente dalle manifatture disposte nell'agro medesimo della Contea nizzarda.
Il pino locale in particolare serviva onde fabbricare le opere morte dei natanti di minore stazza quali erano, ad esempio, i pinchi alle tartane ma, all'uopo dei vascelli più grandi, ci si serviva prioritariamente del pino importato dalla nordica terra di Norvegia.
Per le imbarcazioni dell'epoca v'era altresì considerevole necessità di pece nera e di catrame per la calafatura e le esigenze di impermeabilizzazione degli scafi: mediamente la pece (da usarsi anche per le gomene) veniva commerciata in Calabria o nel napoletanto e di lì trasportata a Nizza, quando addirittura non ci si serviva di una produzione indigena: la ragione di tale scelta era che in queste basi mediterranee essa costava meno, anche se nell'opinione corrente quella migliore si trovava in effetti sulle piazze commerciali di Svezia e Norvegia, che la lontananza rendeva però fruibili soprattutto nell'esigenza di restauri importanti e per vascelli di rilevante grandezza e valore.
Stando alla documentazione reperita e studiata dal Lo Basso l'attrezzatura metallica necessaria per la coeva arte della marineria era introdotta nel nizzardo dal porto di Savona, atteso che la Contea sabauda non presentava stanziate significative ferriere sul suo territorio.
L'analisi del di Robilant non mancava peraltro di rassegnare altri, utili dati: in particolare essa registrava alcune integrazioni sull'opportuna locazione del magazzino di Villafranca: esso utilizzava due ambienti abbastanza spaziosi siti vicino alla darsena, altri tre prossimi al locale lazzaretto e finalmente lo spazio più grande di una intiera ala dell'Arsenale (così una volta che si adempirono tutte le operazioni di edificazione connesse alla realizzazione dello scalo di Limpia, venne ideata l'erezione di un simile magazzeno anche in tale area).
Al 9-IX-1756 risalgono poi le Istruzioni per il guardiano del magazzino del commercio: anche dell'analisi fruttuosa di queste si è debitori del lavoro certosino del Lo Basso (p.51 sgg.).
Il Guardiano doveva abitare nel complesso demico ove sorgeva il Magazzeno e non aveva facoltà di impegnarsi in altra attività commerciale che avesse qualsiasi tipo di relazione con l'arte della nautica: ciò allo scopo di evitare qualsiasi possibile contravvenzione ai propri obblighi.
Lo stesso Guardiano, ai fini di una regolare contabilità, era tenuto a custodire e mantenere aggiornato un "registro di cassa", che doveva sempre stare assieme al contante depositato presso la "Tesoreria urbana": ogni cosa stava protetta entro una cassaforte dotata di una duplice serratura. comandata da distinte chiavi di sicurezza.
Come era usanza contestuale dell'epoca, in area non solo sabuda, una delle chiavi era gestita dal Guardiano mentre l'altra spettava al primo Console del sistema demico nizzardo: il tutto ai fini della trasparenza e della divisione delle responsabilità.
Con cadenza mensile, precisamente ai giorni finali d'ogni mese cadente, il denaro di cassa veniva trasmesso alle autorità locali: naturalmente, per giustificare la quantità di una determinata liquidità, le spese e/o le uscite sostenute dovevano sistematicamente risultare nella contabilità del registro di cassa.
Oltre a ciò spettava al Guardiano l'amministrazione di altri tre cartulari: si trattava del giornale, del vero e proprio libro mastro e finalmente del Registro delle manifatture sui quali ogni operazione era da computare secondo la valenza della monetaziione nizzarda e dei sistemi ponderali localmente adottati, seppur in correlazione con quelli di Piemonte e Provenza, che era dovere del Guardiano conoscere esaustivamente.
Tra le funzioni cui era deputato siffatto Guardiano risultava significativamente importante quella di procedere ai collaudi: gli spettava, in dettaglio, salire sulle galere regie e visionare, in collaborazioni con gli ufficiali di bordo, la funzionalità dell'attrezzatura restaurata e/o rinnovata.
Al Guardiano era altresì concessa una pur limitata autonomia decisionale: per esempio era in grado di assimilare merci ritenute necessarie per la dotazione dell'Emporio sin alla cifra di 200 lire, anche se, come tuttora avviene per ogni statale amministrazione, a scadenza dei bilanci d'esercizio era suo obbligo fornire ogni pezza giustificativa ai regali Revisori dei Conti.
Atteso che il Magazzino del commercio era una sorta di sottostazione portuale necessariamente predisposta al sopraggiungere di molteplici esigenze tecniche spettava altresì al Comandante della squadra navale bellica segnalare gli opportuni acquisti fondamentali per una pronta manutenzione dei vascelli: per esempio nel mese di marzo del 1749 il De Paterson, all'epoca Capo squadra delle regie galere , si adoperò al fine di sottomettere all'attenzione del generale De Gregori il pronto reprimento, previo acquisto sulla piazza mercantile svedese di Stoccolma, di alberi, legname, catrame e pece.
Come accade da sempre la burocrazia statale cercava di arginare pretese ritenute esose o risolvibili con espedienti più economici: nella risposta venne infatti trascritto che, all'attuale stato delle pubbliche finanze, anziché sul prestigioso ma esoso mercato di Stoccolma era da preferirsi operare in loco, direttamente nell'area del Contado per il provvigionamento delle alberature e quindi recarsi ai mercati più vicini nella patria Sardegna od al limite nelle fornite basi di Genova e Livorno.
Genova costituiva davvero il mercato principale di tante acquisizioni di materiale nautico: di questo ci ragguaglia una documentazione sulle compere effettuate nel grande porto ligure in merito ad un discreto arco cronologico riguardante gli anni 1729, 1730, 1732, 1733 ed ancora 1744.
Il Lo Basso (p.52) recupera da siffatte registrazioni alcuni valori di prodotti d'uso marinaresco: nel 1732 per l'assimilazione di 2 alberi di maestra ad uso delle patrie galere furono pagate 2.500 Lire mentre due anni prima la spesa onde acquistare due alberi di trinchetto era ammontata a 1.800 Lire: l'elenco prosegue, con utili indicazioni, di modo che è concesso sapere che verso il 1732 per 6 antenne di maestre la finanza sabauda aveva dovuto caricarsi della spesa di 2.700 Lire e nell'anno successivo, in merito all'acquisizione di 6 antenne di trinchetto, si eran dovute sborsare 1-500 Lire (dalla registrazione di questi dati contabili si evince pure che la pece calabrese, nello stesso periodo, era costata 13 Lire al cantaro, mentre il catrame importato dalla medesima regione si era pagato 20 Lire al barile).

I CAPITOLI DEL CONSOLATO DEL MARE DI NIZZA (LE ISTITUZIONI PARALLELE)
Il duca sabaudo Ludovico verso il mese di giugno dell'anno 1448 istituì un TRIBUNALE deputato a dirimere eventuali controversie commerciali: lo stesso TRIBUNALE venne rivisitato e confermato nel 1528 ed un biennio dopo nel 1531.
Esso era composto di due giudici semestralmente scelti dal Consiglio comunale nel contesto dei mercanti cittadini.
Verso il 1613 il nuovo signore sabaudo Carlo Emanuele I decise che il TRIBUNALE non era più in grado di esaudire le crescenti esigenze giuridiche dovute pure all'instaurazione del PORTOFRANCO. Di conseguenza deliberò la creazione di un nuovo e più sofisticato organismo nominato CONSOLATO DEL MARE DI NIZZA..
Esso risultava costituito da due MAGISTRATI PROFESSIONISTI deputati ad affrontare le disquisizioni collegate ai contenziosi marinareschi.
Nel contesto di tale istituzione non sussisteva alcuna facoltà di appellarsi nell'evenienza che la causa dibattuta non eccedesse il valore di 500 scudi aurei.
In caso di cifre maggiori era data facoltà di appellarsi al Senato nizzardo.
Il preesistente TRIBUNALE continuava invece a governare le controversie commerciali di natura terrestre, cioè dibattute sul territorio di Nizza.
Con un susseguente editto, datato del 26-III-1626, il TRIBUNALE ed il CONSOLATO DEL MARE vennero fusi in un unico organismo, amministrato in questa circostanza da TRE GIUDICI PROFESSIONISTI: costoro venivano selezionati fra personaggi altolocati quali erano i consiglieri di Stato, gli stessi senatori e gli auditori della Camera dei Conti.
Al loro fianco opravano quindi due CONSOLI che, secondo l'usanza antica, erano scelti tra i mercanti cittadini.
Fra i GIUDICI PROFESSIONISTI, uno, detto PRIMO PRESIDENTE o PRESIDENTE CAPO svolgeva un ruolo prioritario.
Data quindi dal 1696 l'evenienza giuridica per cui il PRIMO PRESIDENTE DEL CONSOLATO prese ad identificarsi col PRESIDENTE CAPO DEL SENATO: in questa maniera un solo personaggio deteneva le due principali cariche cittadine.
Però nel 1701, quindi soltanto poco dopo l'amministrazione sabauda optò per sopprimere l'uso giuridico dell'appello al Senato.
Una delle funzioni basilari del TRIBUNALE era quello di arrivare celermente ad emettere delle sentenze.
Oltre a ciò le parti in causa avevano il dovere di accedere singolarmente in TRIBUNALE senza l'appoggio di un avvocato: potevano verificarsi tuttavia degli inconvenienti per cui un convocato non aveva possibilità di recarsi in Curia, magari perché penalizzato da malori od altri impedimenti, ed in tale circostanza si concedeva la facoltà d'avvalersi di propri rappresentanti a condizione che non fossero legali professionisti.
Di giovedì si teneva istituzionalmente la SEDUTA PLENARIA dell'organo: in merito alle CAUSE CRIMINALI si procedeva ad un'integrazione numerica dei GIUSDICENTI che venivano portati al numero di cinque tramite l'aggiunte di due SENATORI. comenque la pena poteva essere comminata solo in dipendenza della delibera senatoriale.
Finalmente con l'anno 1779 si pensò di operare in SEDUTA PLENARIA in merita a tutte le cause che potevano avere delle ripercussioni diplomatiche, comprese quelle che potevano insorgere trattandosi di quanti praticassero la guerra di corsa.
Primieramente il Consolato aveva il dovere di impegnarsi per tutto quanto concerneva il PORTOFRANCO.
In relazione a ciò l'articolo 31 dell'editto del 1749 sanciva:
"...il Magistrato del Consolato della Città di Nizza avrà la sopraintendenza e protezione del Portofranco per l'osservanza de' privilegi del medesimo, e la cognizione inappellabilmente di tutte le liti, che per causa di negozio o mercatura insorgeranno fra negozianti, mercanti, padroni, marinari, condottieri, passeggeri, e fra questi ed altri...".
In seguito, in data 15/VII/1750, si pubblicava un nuovo editto a proposito dello STABILIMENTO DEL CONSOLATO DI NIZZA: in merito a siffatta questione ancora una volta giunge di notevole importanza la rassegna che dei vari capitoli fa l'attento Lo Basso (p.56).
L'editto era costituito di 92 articoli e quasi subito (in data 16/VII/1750) vennero pubblicate le doverose istruzioni.
Veniva prima di ogni altra cosa fatto notare che il CONSOLATO DI NIZZA costituiva un TRIBUNALE giudicante su questioni marinaresche, con l'impegno specifico di lavorare con zelo superiore a fronte delle similari sostituzioni residenti a Torino e Chambéry.
quattro erano erano le sostanziali ISPEZIONI dell'organismo e ciò avveniva in merito:
1-alle regalie
2-all'osservanza del portofranco
3-ai ricorsi dei negozianti, alla punizione dei crimini perpetrati in mare aperto ed ancora alle truffe commesse da commercianti od altri ancora
4-agli strumenti opportuni allo scopo di importare nella Contea nizzarda nuovi generi di prodotti e manufatti
Per ottemperare a queste prioritarie ispezioni si fissavano per bene 13 fondamentali principi e ad essi il CONSOLATO era tenuto in base a precisi obblighi.
In prima istanza veniva posto il principio che concerneva l'IMPERO DEL MARE vale a dire la spaziatura delle acque territoriali di competenza dello stato sabaudo che si riteneva dovessero risultare di sessanta miglia, et eziandio di cento miglia. A ragion veduta si trattava di un tratto marinaresco alquanto ampio: per esempio attualmente le acque territoriali risultano di 12 miglia.
Una volta che risultava sancita la giurisdizione marittima, veniva affrontata la questione dei DAZI.
DAZIO PRINCIPALE era quello che recava denominazione di DRITTO DI VILLAFRANCA.
Il DRITTO ammontava al 2% del valore riconosciuto del carico: esso era versato da qualsiasi imbarcazione che percorresse la rotta da Levante a Ponente e al contrario. Inoltre era dovuto altresì dai natanti che fossero approdati sui litorali di Nizza, Villafranca e Sant'Ospizio ad eccezione dei vascelli di stazza eccedente le 200 tonnellate.
Ulteriore tassa riguardava il principio detto DELL'ANCORAGGIO: a questa erano tenute tutte le imbarcazioni che risultassero ancorate nell'approdo di Villafranca al fine della mercatura.
Inoltre la tassa era dovuta da quelle navi che stavano alla fonda entro una distanza di 5 miglia dalla linea di costa: sussisteva esenzione per quei vascelli che, una volta saldato il tributo dell'ancoraggio, rientravano per ragioni eccezionali e forzose nell'approdo sabauda.
In luogo del terzo paragrafo viene quindi citato il principio DELL'ASILO cioè dell'ospitalità da darsi ai bastimenti: esso poteva però venir concesso esclusivamente nello spazio marino sottoposto alla custodia della postazione d'artiglieria sabauda e per un limite distinto da quanto invece pertinente il tema dell'IMPERIO DEL MARE.
Nel quinto capitolo o paragrafo dell'editto si possono tuttora leggere le normative concernenti il tema della PESCA inibita agli stranieri e a proposito di quella del "tonno", appannaggio signorile, agli stessi cittadini nizzardi e sabaudi.
Nei capitoletti che corrono dal VI all'VIII risultavano elencati vari argomenti giuridici connessi alla questione di eventuali PREDE, dei CORSARI e finalmente di possibili RAPPRESAGLIE AVVERSO NEMICI.
Il capitolo IX registrava quindi alcune considerazioni concernenti il "funzionamento" del PORTOFRANCO.
In base ai dettami del capitolo decimo il CONSOLATODEL MARE aveva poi l'onere di rilasciare i DISPACCI, le PATENTI ed ancora le BANDIERE del sovrano sabaudo. In base a quanto trascritto i titolari e padroni di imbarcazioni e natanti vari di nazionalità sabauda non potevano giammai esimersi, nell'arco di 24 ore dal momento del loro ingresso nel complesso portuale, dal rilasciare al MAGISTRATO DEL CONSOLATO una relazione concernente le loro operazioni: era per siffatta motivazione che gli uffici del CONSOLATO rispettavano un orario eccezionalmente prolungato sì che restavano aperti al pubblico tutti i giorni, senza nemmeno escludere quelli di festa, per un arco cronologico che correva dalle ore 8 della mattinata sin alle 11 ed ancora dalle 14 alle 18.
La GIURISDIZIONE DEL CONSOLATO veniva dettagliatamente discussa dal capitolo XI: in base ad esso si doveva essere celeri nel dirimere i contenziosi di ordine commerciale. Come già menzionato, in campo criminale (quindi in merito a contrabbandieri, alla perpetrazione di frodi, in merito all'opera di pirati e più genericamente alle azioni piratesche) l'attività di questa istituzione finiva per essere diversificata e più complessa. Ad esempio venivano seguite procedure distinte in relazione ai reati, trattandosi ora di navi da guerra ora di vascelli mercantili.
Nel caso di questi ultimi (compresi pure i vascelli dediti alla guerra di corsa), pure in relazione a crimini perpetrati direttamente a terra, era dovere di intervenire giudizialmente da parte del comandante del battello militare od in alternativa addirittura del comandante dell'intiera squadra navale.
Trattandosi invece di vascelli mercantili il capitano della nave, un cui marinaro si fosse reso reo di qualche delitto, deteneva la funzione di giusdicente in relazione ai crimini minori: la funzione giudicante, risultando grave la valenza del delitto commesso, perveniva invece nelle mani del GIUDICE DELLA SPIAGGIA O DEL PORTO: è opportuno rammentare che nell'occasione di reati molto gravi commessi in alto mare risultava obbligatorio per il capitano del natante imprigionare il reo nell'attesa di consegnarlo all'autorità competente.
Nel XIII capitolo dell'editto erano quindi sviluppate alcune norme concernenti agevolazioni di ordine protezionistico a favore dellemerci di produzione locale tra cui principalmente si segnalavano l'olio d'olivo e gli agrumi, altrimenti difficilissimi da esportare verso l'oriente ligure per via di terra. Nello stesso paragrafo si sancivano di seguito altre considerazioni a vantaggio dei negozianti di Nizza e comunque del Piemonte: oltre a ciò, in conclusione di capitolo, veniva disquisita l'utilità per la Contea nizzarda di agevolare l'installazione in loco opifici esteri di buona qualità e rinomanza.
Annota ancora utilmente il citato Lo Basso:"L'importanza di questa magistratura era confermata anche nelle Leggi e Costituzioni di Sua Maestà del 1770, che riportavano le funzioni del Consolato nel Libro II, Titolo XVI, Capitolo I, articoli 26-27-28-29. Rispetto al potere Centrale, il Consolato aveva una grande autonomia per quanto riguardava gli affari commerciali in genere, mentre ne aveva molto meno in quelli riguardanti i corsari, i cui casi finivano di solito davanti alla Segreteria di Guerra, alla Segreteria degli Esteri e talvolta nelle mani del re. I salari dei magistrati erano rigidamente controllati da Torino ed i giudici, per i quali non era ammessa la venalità delle cariche, non potevano esigere alcun tipo di tributo. Il personale del tribunale era costantemente rinnovati; rari i casi di presidenti del Consolato rimasti in carica per più di dieci anni. Dal 1750 al 1792 s'alternarono ben sei presidenti, mentre la composizione totale del tribunale fu modificata in cinque casi. Il Consolato, travolto dalla Rivoluzione francese nel 1792, con l'occupazione del Contado di Nizza, fu ricostituito con la Restaurazione con giurisdizione di primo grado e l'appello riservato al Senato".
Oltre a ciò tutti i vascelli che raggiungevano gli scali nizzardi si trovavano a dover render conto al locale MAGISTRATO DI SANITA'.
Dai tempi delle pestilenze del XVI secolo l'argomento di profilassi sanitario era diventato uno scopo basilare per tutte le nazioni europee e specialmente se queste erano nazioni marittime, quindi con un passaggio a rischio di individui provenienti da aree caratterizzate da focolai epidemici. L'osservazione igienico-sanitaria e profilattica dei sospetti avveniva tramite quarantena nel locale edificio delLAZZARETO eretto nell'area localizzata nella zona ad ovest del golfo.
Data dal 1752 la sequenza di ulteriori controlli dallo scalo nuovo di LIMPIA che presto fu dotato di un proprio LAZZARETO e per siffatta ragione nella seconda metà del XVIII secolo si inoltrarono specifiche istruzioni al MAGISTRATO DI SANITA' di Nizza in cui si dettava:"L'importante oggetto della salute pubblica nello stesso tempo che richiede l'osservanze delle più esatte cautele per ovviare a tutti li sinistri accidenti che possono in qualunque maniera pregiudicarla nell'interno de' nostri stati, maggiormente esige che si stia in una somma circospezione a riguardo delle provenienze da' paesi forestieri. Una tale circospezione tanto più si rende necessaria nel distretto de' nostri stati, che sono situati al di là de' Colli, in quanto che ritrovandosi confinanti in buona parte al mare, per mezzo del quale si inserisce un più ampio commercio, riescono frequenti le occasioni, in cui si dee stare con maggiore vigilanza, e procedere con precauzioni anche abbondanti".
Il MAGISTRATO DI SANITA' si valeva della collaborazione assidua di due UFFICIALI DI SANITA', di DUE GUARDIANI, di DUE GUARDIE ARMATE e di un SEGRETARIO: tra i primari obblighi degli UFFICIALI stava quello di ispezionare attentamente gli APPRODI DI LIMPIA E VILLAFRANCA ogni volta che si sentisse parlare di qualche possibile forma di malattiia connessa ai pericoli di un qualche CONTAGIO EPIDEMICO. I funzionari della Sanità avevano piena e completa facoltà di richiedere al proprietario dell'imbarcazione una dichiarazione scritta che risultasse vidimata in maniera testimoniale da almeno due marinari: nello scritto era vincolante che i responsabili dessero prova sincera dello stato igienico del materiale imbarcato ed altresì della condizione sanitaria dei componenti della ciurma.
Gli UFFICIALI si alternavano settimanalmente in questa loro funzione mentre il SEGRETARIO registrava tutti i dati necessari alla documentazione burocratica del MAGISTRATO: costui deteneva ben 5 cartulari oltre a quelli pertinenti corrispondenza e cause criminali.
In particolare entro uno di siffatti cartulari risultava obbligatorio prendere nota delle PATENTI che erano state concesse ora ai capitani ora ai titolari della proprietà delle navi: tutto quanto doveva essere corredato di ogni utile informazione "...colla designazione del loro nome, cognome e patria, del numero dell'equipaggio, del nome del bastimento, e del luogo, a cui sono destinati"
Per quanto concerneva il secondo cartulario è da menzionare che "...riguardava le merci suscettibili di contumacia, che si spediscono via mare..." mentre nel terzo si procedeva alla registrazione dei prodotti commerciali spediti in territorio sabaudo. Si dovevano quindi annotare ed accorpare nel quarto di questi cartulari tutte le deposizioni rilasciati da marinari e capitani mentre nel quinto registro venivano raccolti ed elencati i certificati addotti dai proprietari dei natanti nel caso che avessero "...sul loro bordo merci suscettibili....
Ai due GUARDIANI, come ancora precisa il Lo Basso, istituzionalmente spettava il controllo di tutti i natanti che entrassero negli scali di Nizza: spettava a loro, dopo investigazione oculata, decidere se concedere ai PADRONI DELLE IMBARCAZIONI la "libera pratica" o no, rimandando la decisione alla magistratura.
In questa seconda evenienza il vascello doveva ormeggiarsi in un luogo stabilito, ove potesse sottostare all'invigilamento di una GUARDIA ARMATA.
Era altresì in dotazioni di entrambi i GUARDIANI un CARTULARIO ove registrare puntualmente i dati delle imbarcazioni entrare negli approdi soggetti alla loro competenza.
Al GUARDIANO DEL PORTO DI LIMPIA si attribuì poi la collaborazione di un ASSISTENTE di maniera che il controllo del traffico navale potesse svolgersi senza soluzione di continuità per le 24 ore di guardia: in più le GUARDIE ARMATE, oltre a vegliare sulle navi soggette ad ispezione come sopra detto, dovevano avvertire subito i rispettivi GUARDIANI DEL PORTO in merito a tutti i natanti che fossero entrati in rada: esisteva altresì una terza GUARDIA ARMATA posta a picchettare la spiggia detta di Sant'Ospizio.
Il MAGISTRATO DI SANITA' vero e proprio era guidato nelle sue opzioni in vigore di una normativa di 13 articoli in tutto ed un peculiare risalto era stato conferito al primo di questi capitoli laddove, in ossequio peraltro ad un'usanza sperimentata e datata, veniva sancito che il funzionario dovesse obbligatoriamente tenere strettissimi contatti, epistolari e non, coi rispettivi colleghi di altre nazioni.
Qualora fossero sopraggiunte indicazioni che qualche vascello trasportasse personate ritenute contagiate da qualche malattia epidemica (ci si riferiva ancora alla peste, meno al vaiolo, mentre il colera avrebbe fatto più tardi la sua temibile comparsa) nelle istruzioni per il MAGISTRATO DI SANITA' era annotato:"...ne darà pronto riscontro alla Segreteria nostra di Stato per gli affari interni, ed alli Magistrati di Torino, e di Sardegna, come pure agli esteri più vicini. Qualora sappia che siavi nel Mediterraneo qualche bastimento errante, il di cui equipaggio sia infetto di peste, ordinerà subito che non si ammetta alcun bastimento alla pratica senza un previo diligente esame...."
In merito alla salvaguardia della salute pubblica e contestualmente della prevenzione contro i contagi il MAGISTRATO DI SANITA' (che nei casi gravi aveva il dovere di avvertire pure i CONSERVATORI DI SANITA' degli approdi sabaudi in area ligustica di Loano ed Oneglia) si radunava con il PRESIDENTE CAPO DEL CONSOLATO al fine di effettuare le scelte giudicate più opportune a fronte del possibile propagarsi di una malattia contagiosa.
Allo scopo di agevolare le investigazioni era in dotazione del MAGISTRATO un CARTULARIO in cui erano stati elencati i paesi esteri giudicati più a rischio quali focolai di manifestazioni epidemiche.
Per questa ragione era particolarmente attenta la vigilanza a riguardo dei vascelli provenienti da quelle aree (terre africane, zone del Medio Oriente, siti locati oltre lo Stretto di Gibilterra) in cui la peste costituiva ancora un endemismo: sussistendo qualche sospetto le navi da guerra sabaude provvedevano, procedendo dall'approdo militare di Villafranca, ad intercettare i bastimenti i rotta da quelle aree sospette e li allontanavano, se necessario cannoneggiando.
Nell'articolo settimo della normativa del MAGISTRATO DI SANITA' erano pure contemplate delle direttive in relazione alla navi armate in corso che giammai venivano ammesse alla libera pratica ma cui era comunque concesso di approvvigionarsi di quanto necessario agli scali nizzardi.
Il GUARDIANO DEL PORTO DI VILLAFRANCA, che come noto aveva forte valenza militare, era altresì deputato a dirimere le problematiche concernenti le navi da combattimento.
Tutte le volte che un vascello da guerra entrava nella rada di Villafranca, il GUARDIANO DEL PORTO doveva attivarsi celermente e procedere ad un ocultato controllo sulla stessa pur in assenza del SEGRETARIO e/o dell'UFFICIALE: onde sveltire la pratica gli risultava bastante avvalersi di un notaro che prendesse nota del suo interrogatorio al capitano della nave stessa.
I legislatori, nel XIII capitolo, sottolinearono poi l'insopprimibile esigenza per la custodia della salute pubblica di una vigile collaborazione del MAGISTRATO DI SANITA' con il COMANDANTE DEL PORTO che costituiva un figura istituzionale di per sè ibrida, parzialmente di taratura tanto militare che civile ma che comunque stava alle dipendenze tanto del GOVERNATORE GENERALE DELLA CONTEA che era sempre un militare quanto del GOVERNATORE GENERALE DEL CONTADO.
I dati più antichi concernono evidentemente il COMANDANTE DEL PORTO DI VILLAFRANCA, che fino al 1750, allorquando entrò in funzione il moderno scalo nizzardo di LIMPIA, rappresentò l'unico porto locale.
Nel 1730 erano state stilate, a riguardo delle competenze e degli obblighi del COMANDANTE DEL PORTO, delle REGIE ISTRUZIONI che andavano a costituire un corposo documento di 22 articoli, su cui ancora il Lo Basso, nel citato suo lavoro, ha indagato con meticolosa premura.
Il compito basilare, o comunque per primo sanzionato, consisteva nella tutela da offrire a tutti quei natanti, di varia stazza e tipologia, che si ricoverassero nel PORTO: contestualmente si dovevano garantire funzionalità dell'approdo e del sistema commerciale avendo particolare cura di salvaguardare tanto la disciplina che l'ordine fra i marinai sopraggiunti.
Non di minor valore erano gli obblighi di far esigere correttamente le tasse per parte del CONSOLATO ed altresì di sostenere l'operato dell'UFFICIALE SANITARIO nei suoi doveri di vigilanza e controllo.
Sulle navi da guerra entrate in porto proprio il COMANDANTE DEL PORTO doveva salire in compagnia dell'UFFICIALE DI SANITA' onde essere puntigliosamente ragguagliato di tutti i movimenti dell'imbarcazione sì da informare con la massima urgenza il GOVERNATORE DEL CASTELLO.
Un motivato documento di 29 capitoli sanciva e regolava i doveri del COMANDANTE nell'imporre alle navi di paesi forestieri i SALUTI MARITTIMI da farsi nei riguardi delle regie galere sabaude e del castello medesimo: qualora poi una nave si fosse trovata in ambasce, per via di qualche falla o del mare burrascoso, al COMANDANTE sarebbe spettata la funzione di prestar soccorso allestendo una squadra per il recupero sia dei naufraghi che, possibilmente, del natante.
La salvaguardia del PORTO non poteva prescindere dalla nettezza delle sue acque sicché in base alle REGIE ISTRUZIONI del 1730 era tassativamente inibito ai padroni delle navi scaricarvi zavorra od in qualsiasi maniera inquinarle con fetidi liquami: ed oltre che a ciò il COMANDANTE si doveva premurare affinché l'ormeggio delle navi risultasse sempre correttamente eseguito (per simile motivazione si consigliava caldamente di non avvalersi per fare ciò delle ancore di bordo ma piuttosto di servirsi dei gavitelli all'uopo predisposti).
Cautele di ordine prettamente militare governano quindi tutto il capitolo XIV in relazione al quale si intimava al COMANDANTE DEL PORTO di fare sempre una diligente rassegna scritta da inoltrare alle autorità soprastanti in merito alle merci imbarcate allo scopo di rendere impossibile che, furtivamente, potessero essere esportate delle merci finalizzate al rifornimento delle regie galere.
Ed a riguardo della tutela di queste ultime veniva poi raccomandato che "...quando le galere saranno in rada per le partenze ordinarete a tutti li padroni de' bastimenti, che avranno polvere a bordo, ancorché in poca quantità, e si ritroveranno in vicinanza delle medesime, di non dover allumare fuoco né di giorno, né di notte, finché le medesime non siano uscite dal porto...".
Le ISTRUZIONI erano conchiuse da una serie di norme di custodia e di polizia in rapporto alle taverne situate nel borgo, alla vigilanza della speggia di Sant.Ospizio ed ancora alla custodia del FANALE NUOVO DEL PORTO.
Dopo la realizzazione dello SCALO DI LIMPIA (la cui realizzazione iniziò ad opera del conte di Robilant nel 1750 per una finalizzazione che data del 1752) si istituì un secondo funzionario, appunto il COMANDANTE DEL PORTO DI LIMPIA.
Come si è già scritto in origine la darsena di questo secondo approdo era inidonea a dar ricetto a natanti di stazza eccedente le 400 tonnellate sì che molti vascelli, anche contro comodità e convenienze, erano obbligati ad approdare nell'antico PORTO DI VILLAFRANCA.
Evolvendosi questa moderna struttura portuale crebbero naturalmente tutte le esigenze di salvaguardia ed invigilamento sicché nel 1771 il cavaliere Tarino, all'epoca comandante della città e del contado nizzardo, pubblicamente recapitò al COMANDANTE DEL PORTO DI LIMPIA le ISTRUZIONI ad esso pertinenti, composte da 31 capitoletti e, come ancora precisa il Lo Basso che le ha compiutamente studiate, per alcuni versi diversificate dalle NORMATIVE del PORTO DI VILLAFRANCA.
Una novità sostanziale si poteva leggere nel VII capitolo che incoraggiava una superiore vigilanza dell'approdo nuovo: in base a questa direttiva il COMANDANTE DEL PORTO DI LIMPIA aveva l'incarico inalienabile di informare quotidianamente le autorità di Nizza sull'elenco dei natanti in transito per il porto. Al fine di questa e di altre salvaguardie egli doveva curare quindi la puntuale stesura di un CARTULARIO in merito ai movimenti nello scalo, all'approdo di bastimenti militari o corsari. E, tra l'altro, la relazione sulla gente di mare periodicamente sbarcata a LIMPIA doveva sempre contenere dati aggiornati e puntuali concernenti in dettaglio le generalità il più complete possibili degli stranieri che avessero preso momentanea dimora "nè baracconi, caffè, osterie, locande e case di Limpia, obbligando i rispettivi principali e proprietari, a consegnarglieli, in tempo d'inverno alle ore cinque, e nella state alle ore sette della sera colla specifica indicazione del nome, cognome, patria, e professione de' rispettivi alloggiati".
Oltre a ciò al COMANDANTE DI LIMPIA toccava regolare il traffico del porto, controllando le modalità degli ormeggi: ciò, per conseguenza, comportava la necessità che egli si occupasse di vigilare pure su scarico e carico delle varie mercanzie, preoccupandosi sempre che le armi e le munizioni venissero affidate, per il tempo del soggiorno a terra e sino alla partenza dei vascelli, alle locali autorità.
Di più aveva egli il dovere di badare che sulle navi non venisse fatto uso del fuoco di bordo: del resto nel moderno complesso portuale erano state realizzate delle specifiche cucine da mettere a disposizione degli equipaggi sbarcati.
Il PORTO DI LIMPIA presentava peraltro l'inconveniente che la sua imboccatura venisse occlusa dai trasporti alluvionali del torrente Paglione: per ovviare a qualsiasi inconveniente da ciò procurato al COMANDANTE spettava verificare ogni mese la profondità di tale imboccatura, sì che la navigazione fosse sicura prescindendo da qualsiasi tipo di pescaggio delle imbarcazioni transitanti.
L' ISTRUZIONI in via conclusiva affrontavano poi tematiche di salvaguardie dell'ordine pubblico, fissando le priorità di polizia che pertinevano al COMANDANTE DEL PORTO: a conclusione di siffatta rassegna di capoitoletti era sancita la proibizione per il COMANDANTE di armare a proprio vantaggio e comodo qualsiasi genere di natante in maniera da escludere sul nascere eventuali conflitti di interesse fra la sua figura di pubblico funzionario regio e gli eventuali, personali interessi.





PELLEGRINAGGI, CROCIATE E MARINERIA:
[APPROFONDIMENTO 1 = CONSULTA QUI ANCHE IL SUBINDICE SU TECNICHE DI NAVIGAZIONE, REGOLAMENTAZIONI, NAUFRAGI, RECUPERI, CODICI DI NAVIGAZIONE E COMMERCIO MARITTIMO]

NAVIGAZIONE CLASSICA: DA ROMA A BISANZIO
[APPROFONDIMENTO 2 = ALTRE VOCI SULLA NAVIGAZIONE DALL'ANTICHITA' IN POI ED ANCORA LA TECNOLOGIA NEI SUOI VARI ASPETTI NON ESCLUSA LA SUA APPLICAZIONE ALLA MARINERIA]

NAVIGAZIONE - NAVIGANTI E MARINAI NELLA STORIA: LEGGI QUI L'INTEGRALE TESTO DEL DISCORSO DEL CINQUECENTESCO T. GARZONI SULL'ARGOMENTO

MARINERIA MAGGIORE E MARINERIA MINORE: GALEE E NAVI DI CABOTAGGIO

CENNI A CROCIATI E GALEE NEL MARE DI VENTIMIGLIA

DA UNA LETTERA DI FRANCESCO PETRARCA SI PUO' RICOSTRUIRE UNA NAVIGAZIONE DI CABOTAGGIO DA NIZZA VERSO ROMA

VARIETA' DI NAVI TRA XII E XIV SECOLO: LE NAVI DEI CROCIATI E DEI PELLEGRINI

TECNICHE DI NAVIGAZIONE: STRUMENTI - CARTOGRAFIA - MAPPE

PIRATERIA - PIRATA - GUERRA DA CORSA - CORSARO

IL CANTIERE NAVALE TRA XII E XV SECOLO

[UN APPRODO AD ONEGLIA]

IL PORTO DI MAURIZIO: PORTO MAURIZIO

IL APPRODO DI SAN LORENZO AL MARE

L' APPRODO DI SANTO STEFANO

GLI APPRODI E CANTIERE NAVALE NELL'AREA DI TAGGIA

L' APPRODO DELL'ARMA

[L' APPRODO DI CAPO DON]

IL "PORTO VECCHIO" DI SAN REMO

L' "APPRODO" DI "OSPEDALETTI"

IL "PORTO" DI BORDIGHERA

UN PLAUSIBILE APPRODO AI PIANI DI VALLECROSIA

L'ANTICO PORTO DEL NERVIA A VENTIMIGLIA

GLI APPRODI E CANTIERE NAVALE AL PORTO CANALE DEL ROIA

I CANTIERI NAVALI DELLA RIVA DI TAGGIA E DI SANTO STEFANO

LA MARINERIA GENOVESE NEL XVI SECOLO

[UNA ALTERNATIVA GENOVESE AL COMMERCIO DELLE SPEZIE ]

LA GALEA REGINA STORICA DELLA MARINERIA BELLICA DEL MEDITERRANEO

LA FELUCA GLORIOSA NAVE DA APPOGGIO DELLA GALEA

UN NAVE DI INVENZIONE PORTOGHESE: LA CARAVELLA

UNA TIPICA IMBARCAZIONE LIGURE: IL LEUDO

ALTRA IMBARCAZIONE LIGURE DA COMMERCIO E CORSA: LA TARTANA

IL VASCELLO MODERNO ANTAGONISTA DELLA GALEA

COMPAGNIA NAVALE: TIPOLOGIA DI COMPAGNIE NAVALI GENOVESI

GENOVA A FINE '500: IL "PORTOFRANCO"

CAMALLAGGIO, CAMALLO, CAMALLI, FACCHINO, FACCHINI E LORO "REGOLAMENTAZIONI"

- NUOTATORE: ECCELLENZA DEL MARANGONE, NUOTATORE GENOVESE - NUOTO: MARANGONI GENOVESI ALLA RICERCA DELLE SOMMERSE NAVI DI NEMI

PALOMBARO - SOMMOZZATORE

PESCA - PESCATORE



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Per i VIAGGI LUNGHI verso la TERRASANTA è ipotizzabile che "Crociati" e poi "Viandanti di fede" si servissero principalmente della GALEA.
E' noto che fra XI e XII secolo in Liguria la navigazione di cabotaggio e quella a largo raggio (entrambe comunque seguendo rotte costiere) si svilupparono grossomodo nello stesso modo ma che tra il 1200 e il 1300 le due forme di "marineria" presero invece a differenziarsidi modo che per i tragitti su area regionale o al massimo inter-regionale si privileguava la MARINERIA MINORE (di cabotaggio, con navi a VELA LATINA o "A LA TRINA" cioè "TRIANGOLARE" che ne garantiva grande manovrabilità) mentre -grazie allo sviluppo di navi sempre più grandi ed a VELA QUADRA- la MARINERIA MAGGIORE prese ad affrontare rotte in mare aperto.
A questo proposito, tra i pochi, chiari documenti superstiti, per quanto concerne il PORTO DI VENTIMIGLIA si può leggere un atto notarile del XIII sec. in cui si fa cenno ad una GALEA CHE IMBARCAVA CROCIATI PER L'ORIENTE.

Per quanto concerne i VANDANTI DELLA FEDE e più esplicitamente i PELLEGRINI PER I SANTUARI SPAGNOLI i viaggi avvenivano con navi di minore stazza e di cabotaggio.
La relazione più significativa di una NAVIGAZIONE DI CABOTAGGIO lungo le coste del Ponente ligure ci è fornita da una "penna straordinaria" come quella di FRAncesco petrarca.
Purtroppo il suo VIAGGIO DALLA PROVENZA VERSO ROMA, peraltro periglioso, comportò approdi della nave su cui era imbarcato a Monaco ed a Porto Maurizio sì che l'autore, abbastanza attento ai dettagli, non ha potuto lasciare indicazioni significative su Ventimiglia: purtroppo dalla lettera si apprende che l'attracco fu in qualche modo anticipato e che l'imbarcazione si rifugiò forse contro le previsioni nel porto di Monaco essendo sopraggiunto un fortunale.
Dalla relazione petrarchesca -che è poi una lettera ad un suo amico e corrispondente- si sa che il poeta si era imbarcato a NIZZA su una NAVIM.
E' arduo dire se con tale termine egli indicasse un tipo particolare di imbarcazione, di cabotaggio e senza rematori.
Al "Porto Maurizio" (avendo preso ad odiare i viaggi per mare) acquistò CAVALLI DI RAZZA TEDESCA e, insieme ad un compagno solo, proseguì per via terra (avendo però lasciato bagagli e servi sulla nave) sino a LERICI (donde dovette però riprendere la VIA DI MARE).
Il riferimento ad un MERCANTE DI CAVALLI permette comunque una correlazione del VIAGGIO TRECENTESCO DEL PETRARCA coi viaggi di Pellegrini e Crociati di circa un secolo prima.
Verso le metà del '200 al PORTO DI VENTIMIGLIA un PERSONAGGIO, per quel tempo senza dubbio d'altissimo rango, continuò (o permutò, essendo sbarcato da un qualche vascello) il suo viaggio procedendo a cavallo.
Grossomodo nello stesso periodo una imbarcazione da trasporto conduceva nel territorio di Ventimiglia dei CAVALLI.
Come il Petrarca ci documenta per il XIV secolo a Porto Maurizio, pure a Ventimiglia nel XIII secolo si commerciavano CAVALLI: evidentemente per offrire un'alternativa ai viaggiatori, soprattutto a quelli che, di buona condizione economica, potevano lasciare il viaggio per mare e, in linea con le preferenze ed i costumi epocali, procedere signorilmente per terra, su un cavallo, animale che era sempre e comunque segno distintivo di elevata condizione.
Queste riflessioni permettono di concludere che il VIAGGIO tra la Liguria e le Spagne nell'ottica di quei secoli nopn poteva considerarsi esclusivamente un "fatto di mare" o un "fatto di terra": esso era spesso condizionato dalle esigenze dei passaggeri e dalle loro disponibilità economiche sì che mentre i meno abbienti dovevano continuare quasi sempre con il mezzo di partenza (che date le caratteriztiche rovinose della viabilità ligure era prioritariamente un'imbarcazione) i personaggi più ricchi o nobili potevano optare, volta per volta, per il mezzo viario meno disagevole (il cavallo tutte le volte che il tragitto fosse percorribile o, alternativamente, una qualche nave: ed al proposito pare emblematico che il Petrarca presso gli irti percorsi delle "Cinque Terre" sia dovuto risalire su un vascello).
Ancora Francesco Petrarca - come accennato- non dice nulla di significativo a proposito dell'imbarcazione su cui era salito: la chiama genericamente NAVIS.
All'epoca tuttavia nell'uso dei termini marinareschi sia i notai che i letterati usavano con maggior competenza i termini.
Poichè il poeta cita una NAVIS implicitamente dovrebbe nega che si trattasse di una GALEA termine che quasi certamente avrebbe usato essendo salito su una simile nave: peraltro vi è da pensare che fosse stata davvero un'imbarcazione della PICCOLA MARINERIA DI CABOTAGGIO visti i numerosi scali fatti e la difficoltà nel tenere il mare mosso.
Già dai tempi del notaio genovese Giovanni Scriba (XII sec.) le imbarcazioni erano infatti indicati con nomi che ne indicavano le specifiche qualità: così a fronte del tipo originario di "GALEA" si citavano vascelli variamenti destinati al trasporto commerciale e quasi sempre privi di rematori: "BUCIUS" (citato nei DOCUMENTI DUECENTESCHI su Ventimiglia), "GALEOTUS", "GOLABIS" ed appunto "NAVIS".
Un contributo al riconoscimento di un tipo di NAVE da non identificare con la GALEA ma da ritenere idonea al viaggio da trasporto della MARINERIA MAGGIORE ci è fornito dal manoscritto dei primi anni del '300, comunemente detto "Zibaldone da Canal" e custodito a "New Haven, Yale University Library".
In effetti vi sono effigiate NAVI VENEZIANE del tipo usuale per i commerci ed i viaggi in Oriente (o comunque propri della "Marineria maggiore"): data comunque la convergenza tipologica di queste navi, per linea comparativa, si può affermare che questi ESEMPLARI DI VASCELLI riproducono le caratteristiche della NAVE DA TRASPORTO in uso per PELLEGRINI e CROCIATI, nave che peraltro denota molte affinità con l'antica NAVE ONERARIA ROMANA quel tipo di vascello [estremamente meno sofisticato ma anche assai meno costoso delle NAVI LUNGHE, eminentemente "da guerra", sia ROMANE che BIZANTINE] che per secoli sostenne i TRAFFICI MERCANTILI MARINARESCHI nell'età antica.
L'analisi di due CODICI MINIATI della Biblioteca Nazionale di Parigi permette altresì di vedere sotto una diversa angolatura la NAVE CROCIATA e contestualmente di visualizzare le macchinose fasi dell'IMBARCO che, nonostante la grande diversità sociale delle due componenti, dovettero esser comuni sia per i Cavalieri che per i Pellegrini di fede.

Ancora una volta, comunque, anche il materiale librario antico della BIBLIOTECA APROSIANA DI VENTIMIGLIA risulta di importante aiuto, anche per integrare queste note sulla MARINERIA STORICA.
Anche se i dati sulle imbarcazioni medievali risultano di precisione relativa un'opera importante sulla NAVIGAZIONE è quella dello spagnolo Pietro di Medina in cui, oltre a leggere dati importanti sulla storia della navigazione, si possono ammirare splendide tavole incise in cui sono effigiati molteplici tipi delle IMBARCAZIONI da guerra e non dell'età intermedia.
Molto interessante è il volume cinquecentesco del Baisio, conservato alla Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia che, trattando dei prigionieri di guerra, degli schiavi e del loro riscatto [un argomento di estrema importanza per l'ORDINE DEI TRINITARI appunto preposto a questa opera assistenziale] finisce per trattare una storia della marineria nel contesto della quale l'autore parla anche della "navigazione antica" ed in particolare si sofferma -magari con qualche slancio di fantasia ma non senza alcuni importanti contributi documentari- a fornirci una rappresentazione scritta delle imbarcazioni che, anche nel medioevo, continuarono a svolgere quell'attività di scambio di merci e prodotti che, in epoca classica, avveniva fra le NAVI DA TRASPORTO e le PICCOLE IMBARCAZIONI DA CARICO E SCARICO cui spettava, come accadeva al PORTO CANALE DI VENTIMIGLIA ROMANA, di trasferire le merci sino ai magazzini dei porti, dove troppo basso era il fondale per farvi attraccare una qualche nave commerciale.
Il libro è particolarmente interessante perchè l'autore vi discorre della NAVIGAZIONE FLUVIALE che molto più di quanto oggi si immagini, ancora nell'età intermedia e al modo dell'epoca greco-romana, si serviva dei percorsi fluviali.
Per l'estremo PONENTE LIGURE la cosa risulta particolarmente interessante a riguardo del TORRENTE NERVIA nell'antichità caratterizzato da una portata idrica rilevante, tale da renderlo quasi certamente IDONEO ALLA NAVIGAZIONE FLUVIALE sin all'area in Dolceacqua di Val Nervia emblematicamente detta del PORTU che, non a caso, era amministrata all'epoca dei PELLEGRINAGGI DI FEDE, dai monaci benedettini del CONVENTO DI DOLCEACQUA dipendente da quella CASA MADRE DI S. PIETRO DI DOLCEACQUA i cui frati, come attestano antiche carte abbaziali erano tra i principali teorici della navigazione sui fiumi e i grossi torrenti navigabili.
L'autore del libro propone un'interessante iconografia in cui sono proposte sia le IMBARCAZIONI FLUVIALI PREPOSTE AL TRASPORTO DI PERSONE, sia quelle per MERCI GENERICHE sia ancora quelle per MERCI DI SIMILE TIPOLOGIA (COME LE GRANAGLIE) sia ancora per il VINO.
Nel Medioevo questa tradizionale attività romana di traffico si era conservata e, rispetto a qualche errato giudizio suggerito da queste immagini e conformemente alla stessa tradizione classica, le NAVIGAZIONE procedeva sfruttando la corrente dei corsi d'acqua o, in caso di navigazione controcorrente, utilizzando la forza di uomini e/o soprattutto animali -come ci ha documentato il grande poeta romano Quinto Orazio Flacco- che dalla riva dei fiumi o torrenti tramite gomene e funi trainavano le barche [fatto che sembra appartenere ad una storia remota ma che -sorprendentemente- nel Ponente ligure è testimoniato dal commercio del legname lungo il corso del "Rio Verbone nell'area di Vallecrosia e valle": come si evince da una preziosa e rara rassegna fotografica che ci documenta sull'esistenza -secondo l'antica tradizione della navigazione fluviale- di un PORTO DI VALLECROSIA ORA SCOMPARSO cui faceva capo il traffico -parte terrestre e parte trrentizio- del legname lungo la valle del Crosa].



All' Aprosiana di Ventimiglia si conservano svariati volumi che trattano di marineria e forse un sondaggio maggiore meriterebbero i "Portolani" del XIX secolo, spesso arricchiti da glosse manoscritte.
Dovendo comunque fare una scelta e individuare un volume di estrema rarità che offra singolare documentazione su alcuni STRUMENTI TIPICI DELLA NAVIGAZIONE ANTICA risulta particolarmente interessante in merito ai segreti citare un bellissimo volume del XVI secolo redatto dall' Apiano in cui si possono vedere, in accurate incisioni, vari strumenti in uso ai tempi della MARINERIE DELL'ETA' INTERMEDIA e mediamente frutto del perfezionamento di INVENZIONI ARABE
Fra questi si possono citare e proporre, anche per l'elegante tratto dell'artista incisore, un MAPPAMONDO, un ASTROLABIO ed uno SCHEMA CRONOLOGICO DELLA DISTINZIONE FRA GIORNO E NOTTE in uso nell'antichità quando la misura esatta del tempo (fondamentale in marineria) era affidata all'uso di meridiane e clessidre: gradualmente poi, accanto a questa strumentazione, sulle navi genovesi si sarebbe diffuso sempre più il fondamentale uso della BUSSOLA e, molto tempo dopo, dell'OROLOGIO.
Tuttavia lo strumento principe per quanto concerne la navigazione medievale furono i PORTOLANI
Il più antico "portolano" del mediterraneo che si conosca risale al 1265 (quindi all'epoca storica dei "Pellegrinaggi della Fede") e attualmente si custodisce a Berlino.
Nel documento si trovano indicate, in modo conciso ma esauriente, tutte le notizie necessarie per un nocchiero: anche per la Liguria si possono riscontrare i porti e le località, le distanze, l'esposizione ai venti, la presenza di fari o di isole.
Grazie ai portolani ed alle carte nautiche -oltre che agli strumenti di cui si è prima fatto cenno- ai naviganti del XIII secolo risultò possibile estendere il raggio delle loro imprese ed alternare alla lenta navigazione costiera di cabotaggio quella detta d'alto mare che avrebbe permesso di accelerare i tempi dei viaggi, sfuggendo contemporaneamente agli assalti dei pirati che da sempre infestavano le acque marine.
Ai PORTOLANI si accostarono altresì importanti e dettagliate CARTE NAUTICHE: come questa cinquecentesca CARTA NAUTICA DEL MEDITERRANEO ricca di dettagliate indicazioni, frutto di una lunga tradizione cartografica -settore in cui i Genovesi eccelsero- e testimonianza di una ormai capillare conoscenza delle coste dell'intero mar Meditarreno.
Con i traffici transatlantici, dopo la scoperta delle Americhe, si rese necessaria una nuova cartografia: tra le molte nuove attestazioni in questo campo è da menzionare nel XVI secolo l'opera di PIETRO DA MEDINA che redasse e pubblicò l'ARTE DEL NAVIGARE..., completata da una carta geografica dell'America e dell'Atlantico oltre che da molte incisioni di figure astronomiche utili per i naviganti.









Sul mare di Ventimiglia, come per tutta la Liguria, dovevano peraltro proliferare gli SCHARIA ("cantieri navali").
Non v'era bisogno di molto per ospitarli: bastavano una baracca per il materiale e gli attrezzi, delle carrucole -dette "capre"- per sollevare i pesi, delle mole per affilare, delle coffe per trasportare sabbia ed attrezzi, un sedile ("scagnum") per lo scriba, dei "vaxi" cioè delle travi per realizzare il piano inclinato su cui varare la nave.
Un ruolo fondamentale avevano naturalmente i MAESTRI D'ASCIA (sostanzialmente i progettisti e realizzatori delle imbarcazioni) e i CALAFATI i quali erano preposti alla fondamentale opera della "calafatura" vale a fire la tecnica di rendere "stagno" il fasciame liscio delle imbarcazioni con l'inserimento di stoppa nelle fessure del legno ed il conseguente ricoprimento di tavole e stoppa con pece scaldata.
Non è rimasto nulla di quell'epoca per il porto di Ventimiglia ma in linea comparativa si può intendere qual fosse questo lavorio visitando nel borgo di DIANO CASTELLO l'ORATORIO DI S.GIOVANNI BATTISTA dove in un affresco sul soffitto (XV secolo) fu effigiata l'opera di un MAESTRO CALAFATO.
Da metà XVI secolo la costruzione delle GALEE PUBBLICHE fu concentrate all'ARSENALE DI GENOVA ove si costruivano vascelli anche per il Pontefici, i Savoia e la Spagna.
Contrariamente a quanto si crede però non vennero meno quei CANTIERI MINORI che avevano contraddistinto la costa ligure a partire dal XIII secolo.
La documentazione migliore al proposito, per dare l'idea di come poteva essere un CANTIERE nel XIII-XIV secolo (la tipologia rimase costante a lungo) viene però fornita eminentemente dalle arti figurative, soprattutto del XVII secolo.
Si può dedurre quale fosse l'operosità in una di queste storiche strutture osservando il CANTIERE NAVALE SULLA SPIAGGIA DI ARENZANO opera di Jacques Pétré conservato in un portolano dell'ultimo quarto del '600 e conservato al "Services Historiques de la Marine" in Vincennes.
Un'altra utile immagine di CANTIERE LIGURE MINORE proviene da un dipinto di anonimo autore del seicento custodito a Genova presso il "Civico Museo Navale".






In una sua pubblicazione (pp.24-25) Nilo Calvini, riferendosi al commercio di vino moscatello dei Tabiesi con l'Inghilterra, afferma che lo scalo marittimo stava all'Arma: tuttavia rimane lacunoso nella sua collocazione topografica scrivendo "difficile stabilire il punto esatto dove fosse situato; presumilmente era adiacente a levante e a ponente al piccolo promontorio della chiesa grotta dell'Annunziata.
Fulvio Cervini nei Percorsi culturali fra Ponente Ligure ed Europa Nordoccidentale nel Quattrocento - Alcune considerazioni preliminari per la "Riviera dei fiori" (1990, n.5, p.45) sottolinea che fino al XVIII secolo lo scalo di Taggia era da ravvisare nell'approdo di Riva.
Di seguito il Cervini scrive: "...Per Taggia c'è ancora da rilevare che un secondo scalo marittimo è attestato alla spiaggia dell'Arma almeno dal 1429": lo studioso , dopo aver sviluppato un discorso sui cantieri minori del Ponente ligure (cita quello di Cervo sulla base di P. Revelli, Per la corologia storica della Liguria in "Atti della Società Ligure di Storia Patria", LXXI, 1948, p. 127) si riferisce altresì ad un'attività cantieristica (dal XV secolo) presso Taggia nella spiaggia dell'Arma (e cita al riguardo V. Donetti, Arma e Bussana. Appunti storici con illustrazione di alcuni documenti, Bussana, 1914, p.120).
Queste riflessioni costituiscono la conferma della difficoltà di segnare approdi istituzionali per un'area estesa, e di rilevante valenza marinaresca, come quella che per centinaia di anni ha fatto capo al principale luogo di Taggia [e a suffragare tale difficile lettura topografica possono in qualche concorrere le tante e spesso contraddittorie osservazioni sviluppate sul presunto approdo marittimo della stazione romana di Costa Beleni (o Costa Balena)].
In merito a queste osservazioni non pare quindi affatto casuale che nella sua Cronaca della prima metà del XVII secolo Padre Calvi abbia scritto della zona costera dell'Arma giudicandola un approdo ma senza però riconoscerle i caratteri del porto istituzionale (il domenicano la definì stranamente quasi un porto come se alludesse ad uno scalo riconosciuto come tale più in conformità alla sua utilizzazione che in base ai dettami di specifiche convenzioni statutarie).
Sempre sullo stesso argomento il Calvini afferma che secondo vari documenti (che però non cita) all'approdo dell'Arma pervenivano (o da esso partivano) varie merci tra cui legname (per l'esportazione) ed il grano (per l'importazione).
Ancora il Calvini menziona l'importanza dei traffici di vino moscatello: al riguardo fa cenno all'anno 1416 quando una grossa quantità di questo venne imbarcata sulla flotta di Luciano Doria destinata a dar la caccia ad un noto pirata dell'epoca, tale Filippo Re.
Del trasporto e della vendita del prodotto si andava occupando il patrono di nave Teramo Marino di Taggia.
Lo smercio di vino (scrive di seguito lo studioso) doveva costituire una voce nuova ma di crescente importanza nell'economia di Taggia: negli Statuti del 1381 non venivano per esempio citati i gabellatore vini che risultano invece attivi nel XVI secolo al tempo della sopra citata operazione di Teramo Marino.
Lo stesso Calvini dai documenti recupera che questi "dazieri" preposti alla tassazione del vino esportato erano tali Giacomo Ardizzone, Antonio Curlo e Giacomo Brocano.
Essi stabilirono che ogni venditore doveva versare la gabella di due soldi ogni metreta (grossomodo 100 litri) di vino moscatello.
Per quanto concerneva le qualità meno pregiate di vino la tassa scendeva invece ad 1 soldo e 4 danari.
Il Calvini menziona tra le altre qualità dei vini rocesio (che vuole identificare, con qualche presunzione, con l'odierno rossese), il vermilio ed i mosti: integrando la sua discussione l'autore mira a precisare come il tassa del vino dovesse pagarsi sulla spiaggia e come all'approdo di Taggia venissero condotti i vini prodotti a Bussana, Poggio, Castellaro, Pompeiana, Terzorio e Santo Stefano (luogo genericamente identificato con l'espressione "dai mulini dell'abate in qua").
Per concludere la discussione dall'autore viene quindi proposto il giudizio formulato sul moscatello tabiese da Agostino Giustiniani (Annali della Repubblica di Genova, Genova, 1834, II ed. p. 27 e vol.II, p. 689):"Tutto questo tratto è dotato di gran quantità di vigne che producono vino moscatello in tanta preziosità e bontà che è reputato niente inferiore delle malvasie Candiote, né dei vini Cipriotti, né dei Grechi di Napoli" (ad integrazione di questa frase destinata a divenire un luogo retorico molte altre volte ripreso da altri autori il Giustiniani ramenta che nel 1524 una banda di soldati spagnoli al soldo di Carlo V avrebbero prolungata la loro sosta in Taggia onde assaporare questo eccellente vino moscatello).
E' giusto affermare che, allo stato attuale delle investigazioni, le più complete osservazioni sul porto di Taggia o meglio sui porti di Taggia sono da attribuire a Carlo Carassale che, in un suo recente libro (L'ambrosia degli Dei - il moscatello di Taggia alle radici della vitinicoltura ligure, Atene Edizioni, Arma di Taggia, 2002), riassumendo le postulazioni di alcuni studiosi, ha tracciato essenziali informazioni su alcuni aspetti della commercializzazione marittima dagli scali di Taggia e, contestualmente, sugli approdi della località individuati prioritariamente nella RIVA DI TAGGIA (oggi RIVA LIGURE) e quindi negli scali dell'ARMA O DELLA CHIAPPA: aree, tutte queste, altresì pervase da una discreta attività cantieristica.
"Il capitolo 22 degli statuti di Taggia del 1381, De palis plantandis in ripa Thabie et Clappa et Arme, che obbligava il podestà, con la collaborazione degli anziani, a piantare due pali in ognuna di queste tre ben distinte località costiere, fornisce la conferma, seppur indiretta, di un traffico marittimo che vedeva i Taggesi protagonisti. Una simile imposizione, non collegabile ad una esigenza di definire i confini amministrativi di tre ambiti compresi all'interno della stessa podesteria, pare finalizzata a individuare e a segnalare agevoli APPRODI per le imbarcazioni. La spesa di tale lavoro gravava interamente sul Comune di Taggia che provvedeva alla periodica sostituzione dei pali non più idonei a tale scopo.
Due gli elementi che risaltano in questa preziosa testimontanza: la presenza ipotizzahile di piccoli mercanti che si adoperavano per rendere agevoli le operazioni di carico-scarico delle merci che prendevano la via del mare; la funzione della spiaggia dell'ARMA o della CIAPPA come scalo alternativo a RIVA DI TAGGIA.
Sullo SCOPO DEI PALI è utile e chiarificatore un confronto con analoghi capitoli contenuti negli statuti di centri costieri vicini a Taggia.
Il capitolo 217 degli statuti di Albenga del 1288, De palis ponendis in ripa ad extrahendum ligna, faceva obbligo a qualsiasi cittadino o mercante che possedesse un'imbarcazione con almeno duos temones di collocare o far collocare, a proprie spese, due pali sul litorale di Albenga pro extrahendis lignis. La prescrizione, valida usque ad Kalendas iunii, riguardava anche i proprietari di barche di minor valore ai quali competeva l'installazione di un solo palo. Chi contravveniva a tall disposizioni doveva pagare una multa.
Anche il capitolo 166 degli statuti di Sanremo del 1435, De pallis plantandis in ripa Sanctiromuli, stabiliva che la Iusticia dovesse provvedere alla sistemazione di un numero imprecisato di pali nei punti della spiaggia in qua navigia trahuntur, operazione forse effettuata con l'ausilio di argani. L'Amministrazione comunale si faceva carico della spesa per la sistemazione dei pali ed era tenuta a far scurare, cioè dragare, il tratto di mare nonché a tenere sgombra ipsam ripam. La riparazione del molo, che rendeva lo scalo più accessibile, spettava ai Sanremaschi, che vi si dedicavano, individualmente, per diem unam vel duas all'anno.
Anche il capitolo 17 degli statuti di Oneglia del 1428, De palis plantandis in ripa maris, imponeva ai rasperii di piantare o far piantare, sempre a spese del Comune, sei pali bonos ey sufficientes per un mese, al fine di segnalare un comodo approdo.
Gli statuti di Porto Maurizio (1405) non contemplano tale necessità: le imbarcazioni alla fonda godevano infatti di uno specchio d'acqua loro riservato, nel quale era proibito gettare materiale di qualunque generei.
In mancanza quindi di precisi regolamenti portuali, ogni singola comunità affidava i lavori relativi alla costruzione di un molo o al dragaggio di un fondale ai rispettivi ahitanti.
Siamo in presenza di approdi dotati di strutture modeste che rientrano, ed ARMA non fa eccezione, in una precisa tipologia.
Arma, con Bussana, faceva parte della podesteria di Taggia dal 1357, ma le continue dispute che impedivano conseguentemente una comune gestione agricola del territorio, nonché la crescita economico-produttiva della bassa valle, porteranno, nel 1429, alla divisione amministrativa I Bussanesi si lamentavano in particolare di una tassa sul vino (otto denari per ogni metreta prodotta all'intemo dei confini podestarili), che colpiva indistintamente i viticoltori della zona senza tener conto della qualità. Un'imposizione che si dimostrava inequalis a motivo del maggior pregio dei nettari taggesi rispetto a quelli di Bussana. Controversia appianata inizialmente stabilendo che fosse dignum et iustum calcolare la gabella in proporzione non alla quantità ma ad valorem et pretium vinorum.
Poiche locus Alme possedeva scarum et portum sive locum nel quale si caricavano vina et alie res et merces tam Tabie quam Buzane et aliorum locorum circostantium e non era in grado, in mancanza di un numero ritenuto sufficiente di abitanti, di costituirsi in un Comune autonomo, i giudici incaricati di risolvere la questione gestionale sentenziarono:
1 ) per tutti i vini, imbarcati nello scalo di Arma, nati nel territorio di Taggia, il dazio spettava a questo Comune. La stessa disposizione valeva per Bussana nell'area a lei direttamente soggetta, in casi analoghi.
2) Per le derrate che si realizzavano nel territorio di Arma, i contadini dovevano pagare la tassa al Comune di appartenenza.
3) Per i vini imbarcati sulla spiaggia di Arma prove nienti da centri non compresi all'interno della podesteria, il balzello doveva essere spartito tra Taggia e Bussana, in proporzione alle terre rispettivamente possedute in dicto territorio Alme.
Queste misure tampone non impediranno le liti fra i due Comuni. Nel nuovo arbitrato del 1432, che sanciva la divisione del territorio di Arma, si decise quanto segue: i vini o i mosti di proprietà di Taggesi imbottati in Discrictu Tabiae o extra rerritorium Tabiae, potevano essere imbarcati nello scalo di Arma per totum mensem octobris, corrispondendo tuttavia un dazio agli uomini di Bussana ai quali ora spettava evidentemente la gestione dell'approdo; per tutti gli altri vini non imbottati entro la suddetta scadenza, o per altre merci imbarcate in dicto scario Almae, i mercanti taggesi dovevano pagare comunque una tassa ai Bussanesi; i proventi del dazio imposto ai forestieri per l'uso dello scalo dovevano invece essere spartiti fra Taggia e Bussana.
In una delibera del Comune di Taggia del 5 febbraio 1464 troviamo una conferma indiretta dello sfruttamento commerciale di questa spiaggia.
Il timore di una propagazione della peste, morbo già segnalato in alcuni centri del Ponente ligure, costrinse il Consiglio degli anziani a misure preventive, proibendo l'attracco di imbarcazioni, provenienti da luoghi sospetti, su tutto il litorale, scalo di Arma compreso. Anche gli uomini di Riva, porto d'imbarco della podesteria, non potevano ospitare persone che frequentavano per la loro attività luoghi colpiti dalla pestilenza. Si imponeva un'attenta sorveglianza nei punti di sbarco, che avveniva abitualmente inter Fossatum Grossum et Costam Gabriele et Fossatum Canae.
Nel 1504 le continue controversie sui confini territoriali e sull'utilizzo dello scalo richiesero un giudizio imparziale del governo genovese. Il conteso locus Alme poteva d'ora in avanti essere abitato da uomini di ambedue le comunità, ma doveva rimanere ben distinto dai Comuni di Bussana e di Taggia fino a costituirsi, raggiunto il numero di 25 famiglie, in un Comune autonomo con propri consoli.
Interessanti sono i regolamenti edilizi: la costruzione di case o altri fabbricati rispondeva ad un preciso criterio poiché era necessario lasciare libero un ampio tratto di spiaggia pro trahendis in terram galeonis er aliis vasis navigabilibus. Uno scalo importante dunque per le operazioni di carico-scarico del vino o di altre merci e per la presenza di cantieri navali.
Le navi di grossa stazza, impossibilitate per le dimensioni ad avvicinarsi alla riva, gettavano l'ancora al largo. La mercanzia veniva caricata su piccole imbarcazioni (alcune provenivano dalle aree interne sfruttando la navigabilità del torrente Argentina) per poi essere trasbordata.







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-CARTOGRAFIA NAVALE ROMANA: POMPONIO MELA SOLINO - ITINERARIO ANTONINO
-CARTOGRAFIA NAVALE ROMANA: GLI ORA MARITIMA DI AVIENO RUFO
-NAVIGAZIONE ROMANA FLUVIALE DA GUERRA: DALLE LIBURNAE ALLE LUSORIAE DELLE FLOTTE DEL DANUBIO E DEL RENO
-[ ARMATORE - NAVICULARII - MARINERIA NELL'ANTICHITA' ROMANA: DOVERI E TUTELA GIURIDICA SECONDO IL LIBRO XIII DEL CODEX TEODOSIANUS ANCHE IN CASO DI NAUFRAGIO - NAUFRAGI ]
-[ ARMATORE - NAVICULARII - MARINERIA NELL'ANTICHITA' ROMANA: DOVERI E TUTELA GIURIDICA DEI NAVIGANTI SECONDO IL LIBRO IV DEL DIG. GIUSTINIANEO ]
- NAUFRAGIO - NAUFRAGHI - "RELAZIONI" CON I PIRATI ECC. AI TEMPI DI A. APROSIO E D. A. GANDOLFO SECONDO IL DIRITTO ECCLESIASTICO STANTE LA SILLOGE DI LUCIO FERRARIS
TESORI, REPERTI, OGGETTI TROVATI SULLA SPIAGGIA DOPO UN NAUFRAGIO... = REGOLAMENTAZIONI SECONDO LA VOCE "RESTITUTIO" DELLA "BIBLIOTHECA CANONICA..." DI L. FERRARIS
[ ARMI MARITTIME = TESTO GRECO - BIZANTINO DI STRATEGIA MILITARE IN SCONTRI DI MARE: LO NAUMACHIA DAL DE RE MILITARI DI VEGEZIO ]
-[ ARMI MARITTIME = TESTO GRECO - BIZANTINO DI STRATEGIA MILITARE IN SCONTRI DI MARE: LO STRATEGICON DI SIRIANO ]
-[ ARMI MARITTIME = TESTO BIZANTINO DI STRATEGIA MILITARE IN SCONTRI DI MARE: DE PROELIO NAVALI DI LEONE VI IMPERATORE ]
-NAVI GENOVESI COMMERCIALI (E NON): IMBARCAZIONE - IMBARCAZIONI - VASCELLO - VASCELLI
-[NAVI GENOVESI - NAVI LIGURI : ALTRE TIPOLOGIE ANCORA ATTRAVERSO I SECOLI]
-NAVE - NAVI - IMBARCAZIONE - IMBARCAZIONI - VASCELLO - VASCELLI - NAVIGAZIONE - PORTI ECC.
-NAVE - NAVI -IMBARCAZIONE - IMBARCAZIONI - VASCELLO - VASCELLI - NAVIGAZIONE: IL CANTIERE DELLE NAVI
-NAVI E CAVALLI (NAVE E CAVALLO): TIPICO BINOMIO MEDIEVALE DEI LUNGHI VIAGGI
-NAVIGAZIONE: STRUMENTI E TECNICHE DI N.
-NAVIGAZIONE: LE NUOVE TECNICHE NAUTICHE DEL NAVIGARE: DALLA NAVIGAZIONE MEDIEVALE ALLA NAVIGAZIONE TRANSATLANTICA - L' ARTE DEL NAVIGARE DI PIETRO DA MEDINA
-[ NAVIGAZIONE ITALIANA NEL MEDITERRANEO ALL'ANNO 1840 ]
-(UNA) NAVE SPECIALE DELL'ETA' MODERNA: IL VELOCE PACCHETTO
-(UNA) NAVE SPECIALE DELL'ETA' MODERNA: LA NAVE NEGRIERA O "NAVE DELLA TRATTA DEGLI SCHIAVI"
-MEDICINA - ASSISTENZA A BORDO = MEDICO DI BORDO]
- [CODICE DI NAVIGAZIONE - CODICE DELLA MARINA MERCANTILE - CODICE PER LA MARINA MERCANTILE DEL REGNO D'ITALIA (1865)- TESTO INTEGRALE ORIGINALE]
- [CODICE DI COMMERCIO DEL REGNO D'ITALIA DEL 1882: TESTO INTEGRALE DEL LIBRO II DEL COMMERCIO MARITTIMO E DELLA NAVIGAZIONE]