cultura barocca
Aprosio

ANGELICO APROSIO
DETTO
IL VENTIMIGLIA

APROSIO, Angelico (Ludovico al secolo, poi soprannominato IL VENTIMIGLIA nel contesto del mondo letterario) nacque il 29-X-1607 da famiglia nativa della ligure e frontaliera VENTIMIGLIA. I genitori, Marco e Petronilla, appartenevano a due rami del ceppo d’origine romano-imperiale degli Aprosio.
Dopo la morte del fratello Beniamino, egli rimase solo figlio maschio ed i genitori lo avrebbero volentieri fatto applicare allo studio o di Legge o di Medicina.
Ma il giovinetto, che denotò sveltezza nell'apprendere e grande abilità anche pratica nel compitare e scrivere,
scelta con decisione la
VITA CLERICALE
e senza frapporre grandi indugi alla fine con estrema decisione e serenità
scelse di vestire l’abito
degli
EREMITANI di S. AGOSTINO nel CONVENTO INTEMELIO
dell’ordine (19 marzo 1623).
Il padre, a testimonianza di contrasti risolti, lo accompagnò a Genova
"per fare il "noviziato" nel
CONVENTO DELLA CONSOLAZIONE
".
Preso il nome religioso di Angelico, egli trascorse nella capitale ligure l'
***********ANNO DI NOVIZIATO***********,
tenendo quindi la
***********PROFESSIONE REGOLARE O RELIGIOSA***********.
Quivi poi si fermo sin all'anno 1626.
Presto il giovane Aprosio rivelò una certa indocilità a star troppo tempo nello stesso luogo e, vinte le riserve dei superiori genovesi, prese dimora in Toscana, a Siena, presso il Convento di S.Agostino.
Il soggiorno senese risultò importante per la formazione d’Aprosio.
A parte le amicizie che vi contrasse (con Annibale Lomeri, Francesco Buoninsegni e Girolamo Ubaldino Malavolti) in questa città Angelico maturò la scelta culturale per G.B.Marino, attorno al cui poema Adone, egli avrebbe in seguito edificato parte delle sue opinioni estetiche. L’assalto intellettuale alle cinque migliaia di stanze relative ai casi dell’infelice amante di Venere non fu solo interminabile fatica. Per il frate il vasto poema del Marino, oggetto nel secolo di amori e odi, finì col rappresentare un modello di cultura, di una cultura che il funambolismo linguistico e la frustrante erudizione sottraevano ad ogni fruizione plebea per trasformarla in previlegio di casta. A tal punto risulta sintomatico che Aprosio, sempre a Siena, sia entrato in contatto con l’accademismo che, spesso e volentieri, si combinava col marinismo e che, al pari di questo, portava avanti un giudizio aristocratico del fare poetico e critico, cioè erudito.
Qui divenne amico di Alcibiade Lucarini, docente di diritto, fondatore dell’ Accademia degli Uniti e, a Salerno, di quella degli Occulti: grazie al Lucarini ad Aprosio s’aprirono pure le porte dell’ancora più importante Accademia degli Intronati.
A Siena (1628), Angelico, tra gli scaffali della libreria di Gian Paolo Ardoi, s’imbattè nell’ Occhiale di TOMASO STIGLIANI, il "famigerato libercolo" (edito nel 1627: vedi pag.81) in cui il poeta e critico di Matera aveva raccolto vari rilievi critici al poema ADONE di G.B MARINO, l'autore prediletto di Aprosio e nome massimo della cultura letteraria italiana contemporanea.
Lo scritto dello Stigliani andava suscitando reazioni accese e contrastanti in ambito senese, ma Luca Simoncini, unico erudito locale che tentò per le stampe una risposta critica, finì per essere burlato dalla cultura ufficiale. Aprosio, conscio della propria inesperienza, non osò invece avventurarsi in qualche disputa col più esperto erudito pugliese; attese invece con pazienza che, da Firenze, F.Girolamo della Ripa, "il Caprodosso", gli inviasse l’"Occhiale appannato", lavoro con cui il marinista Scipione Errico andava raccogliendo fama nelle accademie. Ricevuto il libro egli indirizzò subito a questo una lettera cordiale e adulatoria. Aprosio si vide quindi recapitare una prima affettuosa risposta dell’Errico (da Messina,15 luglio 1630): quel primo appuntamento epistolare avrebbe rappresentato l’inizio di un quarantennale sodalizio intellettuale, destinato a spegnersi solo nel 1670, colla morte del poeta siciliano.
Ispirato dall’Errico Angelico scrisse allora la sua prima vera opera, La Sferza Poetica (contro lo Stigliani!), che tuttavia non potè far pubblicare dallo stampatore fiorentino Cristoforo Tomasini, con cui s’era accordato, per la peste portata dai Lanzi nel 1629-30: solo parecchio tempo dopo l'opera verrà stampata a Venezia.
Verso i 23 anni Angelico Aprosio venne incaricato dell’Ufficio di Lettore a MONTE SAN SAVINO, non lontano quindi da Siena [per quanto sia oggi comune della provincia di Arezzo], dove strinse amicizia con
PIER FRANCESCO MINOZZI,
bizzarro letterato, che, integrando le conoscenze aprosiane dell'Alciato e della sua già celebre emblematica quanto di Giulio Cesare Capaccio che ne riprese le modulazioni, lo accostò con decisione ai
misteri di pseudonimia, scritture cifrate, codici gematrici, alfanumerici e cabalistici
(e per siffatti interessi il MINOZZI sfiorò a più riprese la temuta accusa di ERESIA fin a doversi difendere PER LETTERE da subdole accuse mossegli da un predicatore zelante o malizioso avverso gli spiriti originali)
che Angelico non lesinò ad usare tanto nella
costruzione di crittografie
(come nello Scudo di Rinaldo con la partecipazione di F.M. Giganti)
quanto più speditamente e con maggior facilità nella creazione di
pseudonimi.
Gli ottimi rapporti tra il frate ventimigliese e l'erudito toscano da questo momento giammai sarebbero venuti meno, in un interscambio continuo di favori e collaborazioni, al segno che PIER FRANCESCO MINOZZI divenne il CANTORE UFFICIALE della BIBLIOTECA, che Aprosio avrebbe retto a Ventimiglia, in virtù di un'
APPENDICE POETICA
stampata a coronamento di tutta l'attività aprosiana alla conclusione del repertorio letterario
LA BIBLIOTECA APROSIANA...,
un canzoniere pregno di giochi metalinguistici e di messaggi crittati di cui a suo tempo si tentò una
DECODIFICAZIONE
qui ora riproposta a titolo documentario unitamente a una più tarda
RIVISITAZIONE CRITICA
possibile per l'assimilazione di nuovi dati documentari.
Nel 1634, desiderando rivedere la Patria lasciò Aprosio la Toscana e rientrò a Genova per risiedervi sino al 1637. Qui strinse intima amicizia col futuro doge Alessandro Spinola, frequentò l’Accademia degli Addormentati, introdusse il Minozzi nelle grazie di Anton Giulio Brignole Sale e, inaugurando la propria attività di editore critico, ne curò in Milano, "alle spese di Carlo Ferrandi mercante libraro", la stampa delle Libidini dell’ingegno, discorsi di varia erudizione scritti e recitati nell’ accademia genovese.
I confratelli genovesi non apprezzavano queste sue irrequietudini e, per ricondurlo ad una vita più tranquilla, cercarono d’assegnargli funzioni amministrative: ma Angelico, ancora preso dalla frenesia di viaggiare e conoscere, non accettò nemmeno la prestigiosa carica di Priore del Convento di S.Nicola di Chiavari, e riottenne licenza di congedarsi dal genovesato. Si recò a Pisa dove si aggregò al confratello Nicola Campiglia che, lasciata la reggenza dello Studio di S.Giovanni di Carbonara in Napoli, si recava a nuova sede nella città di Treviso. Il viaggio dei due religiosi fu infelice, tormentato da brutto tempo e squallidi soggiorni in osterie frequentate da ribaldi: giunto sano e salvo a Treviso (7 luglio 1637), Angelico si giovò di un’ottima accoglienza nel Convento di S.Margherita, dove dimorò per due anni, in gran parte dedicati agli studi, e dove pubblicò (1637) in numero limitato di copie,
Il Vaglio Critico di Masoto Galistoni (suo pseudonimo) sopra il Mondo Nuovo di T.Stigliani.
Il giovane erudito, che mosse severe critiche al poema stiglianeo del Mondo Nuovo, era tuttavia ancora molto insicuro di sé; dopo la stagione rinascimentale lo spagnolismo andava conferendo alla società italiana connotati di provincialismo ideologico ed una propensione verso quel sincretismo compromissorio che avrebbe divorato talenti liberi ed appena emergenti: già buon esperto dei fatti della vita e convinto che in Italia, per qualsiasi letterato o pubblico personaggio, fosse altrettanto necessario l’apparire che il fare, Aprosio ebbe il suo colpo di genio e convinse il modesto stampatore trevigiano Righettini a sostituirsi, in fronte al volume, con un nome esotico, quello di "Wallop editore in Rostock", molto ad effetto, molto stimabile fra i sussurri e le grida delle Accademie italiane. Questo fu il suo primo passo per diventare, quasi dal nulla, un promotore culturale, un venditore di sapere, sempre ben mescolato alle esigenze intellettuali di volta in volta richieste dai ceti egemoni; il colpo gli riuscì bene: quei nomi stravaganti accesero curiosità e divennero un lasciapassare verso nuove corrispondenze...anche lo Stigliani rimase titubante.


Nel maggio del 1639 il frate intemelio riprese a viaggiare, accompagnando a Feltre, dove era stato trasferito, l’amico Jacopo Venza, già Priore di S. Margherita: la nuova residenza non gli piacque , soprattutto per il clima insalubre, e se ne allontanò alla prima occasione, il 30 luglio dello stesso anno.
Ancora una volta seguì il Venza, destinato, per decisione imprevista dei superiori, alla carica di Vicario Generale della Congregazione di Dalmazia, nell’isola di Lesina.
In compagnia di Paolo Benzoni, nobile veneto, castellano e camerlengo di Lesina, i due agostiniani, dopo una tappa a Rovigno nell’Istria, raggiunsero l’isola il 4 agosto 1639 e la trovarono semibarbara, priva di comodità, popolata da abitanti fin troppo dediti alle libagioni: Aprosio se ne fuggì presto il 10 dicembre imbarcandosi su una "Marciliana" di Murano che lo sbarcò in Venezia, dopo dodici giorni di viaggio, alle porte del CONVENTO DI SANTO STEFANO ove trascorse le festività sino all’Epifania.
Rifiutata, non senza dimostar carattere, l’ospitalità del Nunzio Apostolico di Venezia, il potentissimo e temutissimo Mons. Vitelli (destinato nei secoli a cupa fama anche per il suo coinvolgimento nelle oscure drammatiche vicende di G. Brusoni e Ferrante Pallavicino), Aprosio si trasferì presto al monastero di S.Cristoforo della Congregazione di S.Ortone; da qui si allontanò nel quaresimale del 1640 a predicare nel Trevigiano.
Espletati i suoi doveri non tornò più a Merano ma raggiunse Murano, il cui convento era "miserabile ma ottimo per raggiungere i suoi fini": che erano quelli d’avvicinarsi a Venezia, la cui attrazione mondana e culturale si faceva sempre più forte nei suoi confronti sì che a distanza di anni nel suo famoso Repertorio Bibliografico del 1673 (qui integralmente digitalizzato) dedicò queste numerose pagine alla splendida città lagunare, testimoniananza di un amore viscerale, che coindivideva con tanti altri intellettuali, e cui non venne mai meno.
E nel dettaglio, per quanto impaurito qual provinciale, egli era fortemente attratto dal contesto ruotante attorno alla libertineggiante veneziana
*********ACCADEMIA DEGLI INCOGNITI*********
Comunque nella globalità tutto la temperie culturale veneta andava attraendo l'Aprosio, nel fervore di una città che pullulava di cultura ed in cui si trovavano oltre che letterati di prestigio importanti raccolte librarie grazie alle quali l'erudito ventimigliese potè formarsi inusitate conoscenze su personaggi che altrimenti sarebbero sfuggiti alla sua attenzione come il letterato e storico padovano Bernardino Scardeoni, il bibliofilo Giacomo Filippo Tomasini, il celebre Gaspare Scioppio, il tipografo Sarzina, il pittore e storico dell'arte Carlo Ridolfi, l'erudito Giovanni Maria Vanti, il poeta Guido Casoni, Cesario Burchelati, Baldassarre Bonifacio, Gian Francesco Busenello, il colto frate spagnolo Pietro Romero.
Anche a Chioggia si occupò di lettere più che di preghiere; vi approfondì i contatti culturali cogli eruditi veneziani Loredano e Michiele, oltre che con lo stampatore Sarzina e col frate spagnolo Pietro Romero, della cui opera Venetia Eviterna, presso il Sarzina, curò nel 1641 un’eccellente prima edizione.
Il passo verso Venezia Aprosio lo compì, dopo la Pasqua, andando a prendere stanza definitiva nel CONVENTO AGOSTINIANO DI SANTO STEFANO in Venezia: e tutto ciò per intercessione del priore medesimo di S. Stefano, Leonardo Oca.
L’evento fece registrare qualche contrattempo e peraltro il priore di Verona s’arrabbiò per quella "fuga" da Murano: lo stesso Oca rimase stupito delle stranezze "del Ventimiglia" (così molti erano soliti chiamare Angelico), e pensò ch’avessero addirittura ragione quelli che lo soprannominavano poeta, nel senso di spirito bislacco.
Per evitare incidenti Aprosio si mise tranquillo per un pò: calmatesi le acque prese a uscire di Convento veneziano di S. Stefano per recarsi ad insegnare legge a nobili giovinetti veneziani.
La frequentazione delle case patrizie gli diede l’occasione di mettersi in contatto con importanti personaggi della politica, della cultura e della religione.


Pian piano a Venezia APROSIO gustò i piaceri di un’esistenza sempre aperta ai contatti umani e divenne abituale frequentatore dei salotti letterari, ove dava prova della sua parlata elegante e leggeva stralci delle sue OPERE che furono di varia erudizione (recitò anche qualche suo componimento lirico come questo sonetto poi stampato entro una silloge), bibliografiche, satirico-moralistiche, polemico - letterarie.
Nel contesto di queste ultime certo primeggiò, grazie al clima culturale favorevole di Venezia la finalizzazione di scritti antistiglianei come l' Occhiale Stritolato, il Buratto e soprattutto la
Sferza Poetica...
che, dopo tanta gestazione e altrettante peripezie, vide finalmente la luce e che denotò la formidabile influenza che Aprosio ricevette dall'ambiente barocco e marinista della città lagunare (cosa che si evince dall'analisi dei dedicatari dei XXVII capitoli in cui l'opera venne divisa e nel cui contesto spiccavano dopo l'
Introduzione dedicata a Giovanni Argoli
i basilari capitoli I intitolato a Pietro Michiele (anche Michiel), IV dedicato a Scipione Errico e in qualche modo coronati dal V intitolato in onore di Gio. Francesco Loredan (anche Loredano) sostanzialmente volti alla dimostrazione che l'Adone del Marino è opera, contre le ipotesi stiglianee, rispettosa, del
REGOLISMO DELLA POETICA DI ARISTOTELE.
Nel capitolo I intitolato a Pietro Michiele (anche Michiel) l'Aprosio disserta, con parecchi spunti pungenti ed anche di critica personale, sull'incapacità presunta di valutare correttamente il regolismo aristotelico in merito alla tragedia ed all'epica con specifica attenzione alla superiorità della tragedia sull'epica: in particolare egli rammenta l'opera del poeta Giovanni Giorgini che parimenti tentò un poema sul Mondo Nuovo e che verisimilmente si trova "impelagato" alla stregua di Alessandro Cariero costretto velocemente a rivedere tutte le sue postulazioni antidantesche.
Il capitolo II è invece dedicato a Giacomo Pighetti e tratta delle caratteristiche che il poema epico deve avere in sintonia con la Poetica di Aristotele.
Più ambizioso è il capitolo III dedicato al conte bolognese Andrea Barbazzi (Barbazza) che affronta la questione dell'unicità della favola di Adone.
L'opera si conclude con alcune lettere-capitolo inviate a corrispondenti aprosiani vale a dire Leonardo Quirini - Francesco Belli e Paolo Zazzeroni (Zazzaroni): si tratta specificatamente dei capitoli XXIV - XXV - XXVI.
L'ultimo capitolo XXVII dedicato ad una dissertazione generale su alcuni difetti intellettuali e comportamentali di Stigliani è dedicato ad altro estemporaneo corrispondente aprosiano Troilo Lancetta uso anche a valersi di pseudonimi per comporre le sue opere come si evince dall'aprosiana Visiera Alzata.
Sulla scia di questi contatti e di tanta operosità intellettuale Venezia assunse ai suoi occhi il porto dell’Ideale, la sede migliore per la sua maturazione e per il suo successo. La città lagunare, regina, solo un pò decaduta, dell’arte della stampa, ancora nodo della cultura europea, centro importante di vita sociale e commerciale, lo avvinse fino al 1647, nell’arco di un soggiorno tanto felice quanto poi rimpianto. Qui strinse gratificanti amicizie con numerosi letterati che facevano capo alla libertineggiante ACCADEMIA DEGLI INCOGNITI, che per una trentina d’anni (1630-1660) si sarebbe riunita attorno al nobile Giovanni Francesco Loredano.
In questo ambiente Aprosio affinò le sue doti, organizzando in modo più concreto e lineare sia i suoi interessi eruditi che la produzione letteraria: intensificò inoltre il panorama dei suoi corrispondenti tra cui Lelio Mancini, Gaspare Scioppio, Leone Allacci e Jacopo Tommasini.
L’incontro più significativo a Venezia fu però quello con la tradizione tipografica veneziana; presto Angelico divenne un assiduo frequentatore dell’importante stamperia di Matteo Leni e Giovanni Vecellio acquistando dimestichezza coi più rinomati librai o editori di città come il Dusinello, il Baba, il Sarzina, il Combi, l’Hertz, il Ginammi, il Pavone, il Valvasense, il Pinelli e quel Guerigli che gli donò preziosi libri, italiani e stranieri, che furono nucleo della "Biblioteca Aprosiana".
Fu proprio nell'ambiente veneziano che Aprosio prese consapevolezza pratica di quell'attività del mondo degli STAMPATORI e LIBRAI di cui aveva parlato già il GARZONI nella sua LA PIAZZA UNIVERSALE DI TUTTE LE PROFESSIONI DEL MONDO .
La frequentazione di questo mondo culturale lo avvicinò decisamente ad una forma superiore di ACCADEMISMO, delle cui potenzialità, in Liguria e nella stessa Genova non aveva preso consapevolezza piena: così la frequentazione degli ACCADEMICI INCOGNITI, ove si discuteva in libertà d’argomenti "proibiti", comprese certe licenze sessuali e intellettuali, influenzò la formazione dell’agostiniano intemelio e lo portò poi a cercare sempre nuovi CONSESSI LETTERARI in cui dare prova del suo talento.
Nel corso di svariati incontri culturali egli si accostò al gusto dell’arte erotica e si tuffò nel contesto di vari, pruriginosi dibattiti sul mondo, per lui tanto misterioso quanto affascinante, della femminilità: a questo universo di conoscenze, pervaso di toni misogeni, lo condussero il Loredano e Scipione Errico, giunto a Venezia nel 1643.
Ad Aprosio la scelta dell' antifemminismo fu però suggerita dal caso di Pietro Michiele (Michiel), Incognito ed autore dell’"Arte degli Amanti", che Aprosio, in una visita inaspettata (1643), trovò, nel suo castello di Pieve di Cadore, perduto schiavo d’amore nelle mani "...di quella che nelle sue Poesie chiama Donna, il cui vero nome era Apollonia, ferrarese di nascita...".
Stando a quanto scrisse nel suo repertorio biblioteconomico Aprosio
riuscì a conciliare con la morale cristiana la sitazione amorosa del Michiele:
in base a quanto scrisse del fatto se ne parlò alquanto e la reputazione del frate agostiniano come abile ad affrontare i casi di coscienza ed esperto nella risoluzione dei conflitti amorosi crebbe a dismisura. Fu forse lui stesso ad alimentare la portata della sua impresa ma indubbiamente la cosa dovette godere di ottima risonanza se un altro Incognito Francesco Maria Gigante tramite una lirica poi edita nel cap. XXIX de Lo Scudo di Rinaldo vanamente chiese il suo aiuto riferendo appunto il caso "fausto" del Michiele non più servo d'amore.
Forse partendo da questa esperienza che lo aveva posto di fronte alle ambizioni ed alla sensualita' di una donna provocante ma anche un pò per indole e soprattutto per voglia di primeggiare nei salotti, l’agostiniano prese a dire e scrivere contro le donne, specie contro le donne da poco, come era solito precisare, cioè le puttane, le concubine e un pò tutte le povere criste: in realtà voleva più far colore, suscitare "meraviglia" che procurar danni o fomentare polemiche...le donne comuni erano di fatto un ben comodo bersaglio per la sua penna iridescente che sapeva frugare e metter a nudo, con la scusa pietosa d’un predicar da moralista, tra i vizietti e viziacci della provincia veneta.
Ritenendosi protetto dalla sua condizione di religioso, Aprosio finì per calcare un pò troppo la mano sì che si trovò a rendere conto del suo agire proprio ad una femminella, seppur di non poco conto, la suora veneziana Arcangela Tarabotti, in qualche maniera ambiguamente assistitita da Girolamo Brusoni che pure con Arcangela ebbe per parte propria, da autentico avventuriero della penna, ben più severi contrasti (del resto Aprosio a queste dissertazioni era in qualche modo abituato stante il suo sostegno dato a Baldassarre Bonifacio in una disputa teologica avverso l'ebrea Sara Copio Sullam)
Per sua "sventura" si trattava di una donna che, costretta ad entrare in convento per crude leggi di famiglia, era riuscita a far suo il sapere dei maschi e che ora sembrava voler riscattare il proprio sesso dall’inferno dei luoghi comuni...compresi quelli da, quasi due secoli, ormai ben codificati nel Malleus Maleficarum, la "Bibbia" dei cacciatori di streghe e Demoni.
La vicenda ebbe un suo retroterra ed anche un seguito.
In origine Angelico e la Tarabotti non erano stati in disaccordo, lei anzi gli ricercava consigli e pareri.....divennero antagonisti solo quando la suora criticò con successo la Satira contro le donne di F. Buoninsegni, amico toscano del "Ventimiglia" che sentì l’obbligo d’intervenire in suo favore, componendo l’antidonnesca Maschera Scoperta di Filofilo Misoponero in risposta all’antisatira di D.A.T. scritta contro la Satira del Sig. Francesco Buoninsegni.
Ma questo lavoretto (del 1645) non superò lo stato di manoscritto (solo recentemente è stato edito da E. Biga) in quanto la Tarabotti ne riuscì ad impedire la pubblicazione, già concordata col Valvasense.
Tal delusione inasprì il Ventimiglia convinto di "quanti siano bestiali le donne e vendicative": parte della sua rabbia, sconfinante spesso nella Misoginia, si stemperò, ma un pò di veleno contro le femmine, specie se intelligenti od astute, gli rimase in corpo e venne travasato in un’opera piccante e antidonnesca,
Lo Scudo di Rinaldo
stampato, sotto pseudonimo di Scipio Glareano, in Venezia nel 1646 per lo Hertz.
Aprosio compì poi a Venezia un incontro importante per il suo futuro, quello col nobile genove Giuliano Spinola che, intendendo assumerlo come istitutore del figlio, lo esortò a tornare con lui a Genova. Aprosio rimase per un pò titubante perché doveva seguire la stampa, presso i veneziani Leni e Vecellio, della parte II del suo
Veratro,
opera che si sarebbe collocata con rilevo fra gli scritti di critica filomarinista del frate (la pubblicazione di questa poderosa opera non significò l'apposizione di un punto di conclusione alla polemica contro lo Stigliani. Aprosio l'avrebbe forse continuata, come attesta la presenza tra i suoi inediti di due scritti antistiglianei quali il Batto e la Spugna: semplicemente non gli era più facile trovare stampatori e/o "mecenati" disposti a spendere non poco per alimentare una polemica ormai spentasi motu proprio per vetustà e consunzione).
Allorché lo Spinola, di tasca propria, fece sveltamente finire quel lavoro tipografico, Aprosio non avanzò più alcuna obiezione:, anche per curare la malaria, contratta in Dalmazia, l’agostiniano cominciava a sentire il bisogno di curarsi al bel clima ligure. Dapprima dovette accontentarsi di far spedire nel genovesato le trenta casse di libri messe insieme: quell’anno, il 1647, aveva il compito di recarsi in Lubiana, a predicarvi la Quaresima, ospite di Ottone Federico dei conti di Buchaim, Vescovo di quella Diocesi.
Espletati gli impegni Angelico (ormai celebre tanto nella Repubbica delle Lettere e nella Bibliofilia quanto nel Collezionismo Antiquario con l'appellativo de "Il Ventimiglia" dal luogo natio) rientrò un’ultima volta in Venezia, da dove, salutati gli amici, s’imbarcò col "postiglione" per Ferrara dove si intrattenne per alcuni giorni col Cardinal Dongo: lo accompagnava un servitore, assoldato a poco in Lubiana, che lo avrebbe seguito di città in città per rivedere antichi e sparsi amici.
Raggiunto lo Spinola in Piacenza, ANGELICO APROSIO avanzò l'idea di un suo antico sogno, quello di recarsi a Napoli e visitare il bel fiume SEBETO cantato dal suo amatissimo MARINO.
La rivolta antispagnola di Masaniello e la scomparsa dello Spinola lo fecero desistere, inducendolo a tornare presto in Liguria.
Raggiunse Rapallo, ove erano giunte le casse dei libri, e li portò a Genova, intendendo donarli al locale Convento della Consolazione: fra ripensamenti e peripezie alla fine però sistemò la biblioteca a Ventimiglia, dove quasi sempre soggiornò fatti salvi alcuni viaggi per le prediche e l’espletamento in Genova di
incarichi religiosi
poco dopo la metà del secolo, tra cui quello prestigioso seppur ricoperto in
tempi torbidi per la bolla di soppressione dei piccoli conventi
di
VICARIO GENERALE DELLA CONGREGAZIONE AGOSTINIANA DELLA CONSOLAZIONE,
(che dismise il 25 aprile del 1654)
non senza aver dovuto affrontare problemi di un certo rilievo, che tuttavia cerca di stemperare nella narrazione del suo repertorio a stampa, diluendoli ora qua ora là, quasi a non dar l'impressione d'averli presi troppo sul lato drammatico: cosa probabilmente contraria a quanto appena detto vista non tanto l'osservazione di p. 186 quanto la sequenza narrativa delle pp. 286 - 296 che coimplica difficoltà di controllo dell'Aprosio su alcuni conventi, di Viterbo in particolare.
Presso la Sezione dell'Archivio di Stato intemelio si conservano alcuni documenti in merito all'attività aprosiana di questo periodo, certamente altri atti potrebbero essere portati alla luce da specifiche investigazioni ma già si possono menzionare i seguenti rogiti:
- 1 Ventimiglia, 29 ottobre 1652 - Un atto notarile in cui si evidenzia la presenza di Angelico Aprosio quale vicario generale dell'ordine dei frati del convento di S. Agostino nella Congregazione di Genova - Archivio notarile, filza 768.
- 2 Ventimiglia, 1653 - Atto di procura - I frati del convento di Santa Maria della Consolazione (Ordine di S. Agostino): Michelangelo Vigorelli (priore), Bartolomeo Abbo (vicario), Paolo Emilio Berta, Fabiano Fiorato, Faustino Sasso e Ottaviano Porro, nominano loro procuratore Angelico Aprosio - Archivio notarile, notulario 787 - il documento ha un suo interesse peculiare in quanto sostanzialmente ci offre il quadro della globale dotazione di religiosi agostiniani storicamente spettante al Convento di Ventimiglia.
Aprosio in effetti nella gerarchia del suo Ordine non ricoprì molti altri incarichi e quasi certamente fu sincero allorché scrisse d'aver ceduto in qualche caso per esser in grado di operare a pro della propria biblioteca: probabilmente l'onere effettivo dell'incarico, comunque non specificatamente connesso all'Ordine degli Agostiniani, lo sorprese ma la stessa funzione di Vicario dell'Inquisizione per la Diocesi Intemelia fu da lui ambita, ricercata ed ottenuta soprattutto al fine di poter gestire ed ingressare nella sua "Libraria" volumi "proibiti" dall'Indice ed altrimenti non fruibili.
Non potè esimersi da alcuni compiti connessi alla sua presenza nel Convento di Ventimiglia ed a questo fine ricoprì la carica di Vicario cioè di sostituto del Priore.
Questo lo si evince non tanto dalle sue confessioni biografiche quanto dall'analisi di alcuni atti custoditi presso la Sezione Intemelia dell'Archivio di Stato: dettagliatamente nell' Archivio notarile, filza 789 - Ventimiglia, 1665 - 1666 si trovano quattro atti notarili stipulati nel convento di S. Agostino sito in "burgo Bastite extra' muros Vintimilj" nella "camera di M.R. Fabiani Sciorati...", nella "bibliotheca...", in "forestaria...", in "ecclesia...", sempre alla presenza di Angelico Aprosio, vicario generale del convento.
Aprosio, comunque, oramai trascorreva la sua vita quasi esclusivamente a Ventimiglia, intrattenendo vastissima corrispondenza epistolare, godendo peraltro dei favori di un vero e proprio mecenate, il patrizio genovese
GIO. NICOLO' CAVANA
(le lettere dei suoi corrispondenti si trovano nel "Fondo Aprosiano" della "Biblioteca Universitaria di Genova")
. proprio grazie all'aiuto del Cavana a Bologna, nel 1673 presso i Manolessi, col titolo poco originale di
La Biblioteca Aprosiana...passatempo...di Cornelio Aspasio Antivigilmi
(pseudonimo anagrammato di Aprosio)
in parte il frate ventimigliese pubblicò il catalogo ragionato, con un’infinità di notizie erudite della sua raccolta libresca.
[ encomiabile per approfondire il rapporto Aprosio-Cavana ed anche per sondare i sistemi di scambio culturale dell'agostiniano di Ventimiglia e pure il suo stato di salute negli ultimi anni della corrispondenza, nonostante si intuisca nel lavoro la necessità di colmare alcune lacune bibliografiche la pubblicazione intitolata: Lettere ad Angelico Aprosio (1665 - 1675)/ Giovanni Nicolò Cavana: a cura di Luca Tosin, Firenze, Firenze University Press, 2013 = l'opera di per se stessa molto valida sarebbe stata forse ancora più esaustiva sia soffermandosi maggiormente sulle opere aprosiane edite ed inedite in particolare sulla Maschera Scoperta in cui il Cavana ebbe la sua parte passando poi dopo la sua morte nel 1675 il manoscritto alla sorella che lo rese ad Aprosio sia, a prescindere dalle 2 pubblicazioni su Aprosio del 1981 nel trecentenario della morte, annotarne quali ideali continuazioni l'importante lavoro sulle opere dell' "Aprosio Spagnolo" di Anna Maria Mignone (questa edita sul I "Quaderno dell'Aprosiana" donde si evolse la rivista "Aprosiana") e Mario Damonte: per poi soffermarsi su tempi recenti e su contributi spesso inediti connessi alle celebrazioni del trecentesimo della nascita sia con il corposo volume della rivista "Aprosiana del 2007" dedicata all'evento e che riprende considerazioni maturate da pubblicazioni via via editate (vedine qui il frontespizio e l'indice) e su quel suo basilare approfondimento che è il volume del 2008 L'Aprosiana Sconosciuta: del pari vedine qui l' indice]
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Aprosio temendo, come di fatto sarebbe accaduto, di morire prima di veder stampata la restante parte di questa sua monumentale opera bibliografica, tuttora purtroppo inedita, Aprosio, alterando volutamente la sequenza di citazione (motivazioni espresse nelle ultime 10 righe di p. 629) dei "Fautori" o sostenitori della sua biblioteca, fece stampare nel repertorio una lunga dissertazione elogiativa al Cavana.
Conclusa la spettacolare stagione dei viaggi culturali (fatti spesso per mare anche a costo di sfidare corsari e pirati turcheschi e non) ed espletati vari incarichi religiosi (ed anche quello di VICARIO DELLA SANTA INQUISIZIONE) questo appassionato agitatore culturale e indefesso polemista (vedi la querelle femminismo-antifemminismo), questo assoluto amante delle arti (come attestano gli scarni resti della sua un tempo vasta pinacoteca e la dichiarata ammirazione per artisti e pittori), siffatto sostenitore di contatti culturali italiani ed internazionali (interessanti quelli con eruditi e scienziati nordeuropei) fautore di adunanze alla biblioteca ma altresì curiosissimo di
OCCULTE DISCIPLINE
dalla numerologia all'
ASTROLOGIA
pur non abiurando ai doveri religiosi di vicario inquisitoriale avverso
*********SUPERSTIZIONE E FORME PROIBITE DIVINAZIONE*********
[esemplarmente si veda qui da p. 76 del CAPITOLO VII della Grillaja una competenza, pur mediata dal patrizio genovese Tommaso Oderico del leggendario
PIETRO D'ABANO]
ed ancora alla medicina paracelsiana dell'unguento armario e della polvere simpatetica, passò gli ultimi anni quasi esclusivamente dedito alla cura della Biblioteca ed all'ordinamento dell’epistolario (destinato in gran parte ad essere trasportato per volontà napoleonica presso la Biblioteca Centrale Ligure, ora Biblioteca Universitaria di Genova) e dei manoscritti (anche essi rimasti vittima delle vicissitudini della biblioteca benché un certo numero, anche di preziosi, sia custodito tuttora nel fondo manoscritti della biblioteca intemelia): la fama non diminuì ma indubbiamente la lontananza di Ventimiglia, per lui, rappresentò un limite alla voglia continua di viaggiare e conoscere.
Negli ultimi anni diede, al vecchio Aprosio, molta consolazione la presenza di
DOMENICO ANTONIO GANDOLFO,
che egli preparò qual suo successore alla direzione dell’Aprosiana: cosa che, di fatto anche se non formalmente, avvenne ancor prima del febbraio 1681 quando Aprosio, stanco e tormentato da malaria, chiuse la sua esistenza terrena ormai travagliata da periodici seri malanni.
















Le molte notizie che Angelico Aprosio ebbe sui fermenti culturali dell'Europa scandinava parzialmente, come si legge nel suo repertorio Della Biblioteca Aprosiana li recuperò dall'opera De Unicornu Observationes Novae. Accesserunt de Aureo Cornu Cl. V Olai Wormio Eruditorum Indicia, Patavij, Typis Cribellianis, 1665, in 8°.
Tale pubblicazione costituisce peraltro la prosecuzione delle Osservazione nuove de Unicornu, Padova, per il Crivellari, 1645 ove il Ventimiglia, alquanto stimato nel contesto di un vivo scambio di relazioni erudite, venne menzionato come antiquario e possessore di una discreta collezione numismatica greco - romana (di cui nulla più si seppe ma che potè anche andar persa o rubata in tempi indeterminabili, mentre molti libri e quadri vennero certamente distrutti per farne delle armi incendiarie, quando le truppe Austro-Sarde del barone Novatin, durante la guerra di successione al trono imperiale di Vienna, di metà XVIII secolo, trasformato il convento di N. S. della Consolazione (o di S. Agostino) in un avamposto fortificato contro i forti intemeli tenuti dalle truppe tranco-ispane del maresciallo Bellisle, si trovarono in estrema difficoltà sotto gli effetti di un attacco d'una colonna francese portato direttamente al cenobio: vedi B. Durante, Guida di Ventimiglia, Cavallermaggiore, 1990, p.79.
Dalla lettura dell'aprosiana Sferza poetica del 1643 si apprende tuttavia come il frate, molto attento ai fermenti eruditi del centro nord europeo si fosse messo anticipatamente in relazione con l'erudito danese OLE WORM grazie ai servigi del medico-letterato danese Thomas Bartholin (Copenaghen 1616 - Hagensted 1680) professore di anatomia ed eccellente scienziato empirista che per primo descrisse in modo completo, pur dovendo rivendicare la priorità di tal scoperta con un'annosa polemica, la complessità del sistema linfatico. Di siffatta corrispondenza a pochi è noto che una fondamentale ed utile testimonianza, anche per intendere la produzione di Aprosio, si legge nella raccolta postuma dell'EPISTOLARIO DI OLE WORM
e specificatamente DA PAGINA 890 A PAGINA 897.
Di T. Bartholin, residente a lungo per studio in Padova (ove per la prima volta ne vennero italianizzati nome e cognome nella forma TOMMASO/TOMASO BARTOLINI) , alla Biblioteca Universitaria di Genova [B.U.G., in Fondo Aprosio / Manoscritti Aprosiani, Mss. E.VI.7), si conservano 13 cordialissime lettere all'Aprosio, che vanno dal 1642 [la prima del 12-XI-1642, edita in Biblioteca Aprosiana pp. 147-148: sempre prodigo di consigli e collaborazione con l'agostiniano intemelio il Bartholin ebbe altresì cura di procurargli sempre nuove conoscenze tra eruditi dell'Europa del Nord come si evince dalla lettura del capitolo XXI de Lo Scudo di Rinaldo] al 1662, e che accompagnano il dono di vari volumi, ove l' Aprosio era celebrato non solo come erudito ma in particolare quale "esperto d'arte e numismatico": Thomas Bartholini Casp. F. Anatomico Aneurismatis dissecti Historia. Accedit Iohannis Van Horn ejusdem argumenti Epistola: Viro illustrissimo atque Reverendissimo P. Angelico Aprosio Vintimiglia Magno Musarum Ornamento, Panormi, apud Alphonsum de Isola, 1644 (in 8°).
Alla C.B.A. si conservano altresì di THOMAS BARTHOLIN varie opere di contenuto medico come: De medicina Danorum (Hafniae, s.e., 1646), De luce animalium (Lugdunum Batavorum, s.e., 1647), De angina puerorum epidemica, (Lutetiae-Par., Olivarij de Varennis, 1646), Apologia pro vasis lymphaticis (Hafniae, s.e., 1654).
Presso lo stesso manoscritto genovese si conservano altresì una lettera (1654) del fratello di T. Bartholin vale a dire Erasmus , scienziato ed ottico -Roskilde 1625 / Copenaghen 1698-, e 25 lettere del figlio di Thomas, Kaspar Bartholin
-Copenaghen 1655 / 1738, illustre antomista che nel volume De Ovarijs Mulierum et Generationis Historia, Roma, 1677 descrisse le ghiandole vestibolari della vulva che da lui prendono nome: di quest'ultimo, che venne citato con merito da Stefano Lorenzini nelle sue Osservazioni intorno alle torpedini del 1678 per il De nervorum usu in motu musculorum epistola apparsa in Oligeri Jacobeai, De ranis observationes, Parisii, apud L. Billaine, 1676 nella C.B.A. o Civica Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia si conservano:
Expositio veteris in puerpuerio ritus ex arca sepulchrali antiqua desumpti, Romae : excudebat Mascardus, 1677. - 63 p., [1] c. di tav. : ill. ; 8°.
Exercitationes miscellaneae varii argumenti inprimis anatomici, Lugd. Batav. : ex Officina Hackiana, 1675. - [24], 151, [7] p. ; 8°.
De Tibiis veterum et earum antiquo usu libri tres ..., Romae : ex typographia Pauli Monetae, 1677. - [16], 235, [5] p., [3] c. di tav. : ill. ; 8°.
De nervorum usu in motu musculorum epistola - pp. 79-108 in Oligeri Jacobaei De ranis observationes. Accessit Gaspari Bartholini Th. f. De nervorum usu in motu musculorum epistola.
Metaphysica major qua scholiis olim illustratum Enchirid. Metaphisicum ... Ad calcem adjecta est autoris ejusdem Disputatio logica de Quaestionibus mixtis adversum Bartholomaeum Keckermannum ..., Hafniae : Typis Melchioris Martzan, sumptibus Joachimi Moltke, 1629. - [2], 246, [5] p. ; 16°.
I riferimenti aprosiani alla cultura nord europea sono vastissimi.
In campo medico e naturalistico, con una tradizione museale prossima a quella di Ulisse Aldrovandi, per esempio si può menzionare la figura del danese
HEINRICH FUIREN.
[Basti qui citare lo Scudo di Rinaldo a p. 143 e la Grillaia a p. 225].
A guisa d'esempio basti citare che lo "Scudo di Rinaldo II" si avvale di un apparato bibliografico, non solo erudito ma anche scientifico, più aggiornato di quello delle altre opere moralistiche aprosiane e molto spesso di respiro internazionale.
Passando poi al campo meramente filologico poi le menzioni interessanti finiscono per essere numerosissime.
Tra gli autori stranieri più menzionati oltre ai Bartholin ed a Giano Gruterus (Jan Gruter-1560 / 1627), il filologo olandese di cui Aprosio consultava, tra molte altre "cose", i 2 volumi delle Inscriptiones antiquae totius orbis romani (1603), compaiono il Gronovius (Johan Friederich Gronow -1611 / 1671) il filologo e classicista nativo di Amburgo cui il Ventimiglia dedicò il cap.XIX della Sferza Poetica e di cui rimangono tre lettere nei manoscritti aprosiani di Genova (anni 1641-1670, B.U.G., Mss. E. VI.4.: in una lettera di Mss. E. II. 2 del 16 / III / 1671 Antonio Magliabechi informò Aprosio della morte del Gronovius (avvenuta il 28 / XII / 1671 ).
Lo stesso bibliotecario mediceo, fungendo da intermediario culturale, mise poi in contatto epistolare Angelico Aprosio col figlio del Gronovius, Jacob Gronow (1645 -1716), filologo ed autore del Thesaurus Antiquitatum Graecarum (12 tomi, 1697 - 1702): si evince tutto ciò dall'analisi di due lettere, degli anni 1674 e 1678, custodite ancora alla B.U.G, Mss. E. VI. 4.
E' comunque sempre nel campo delle scienze che lo studio dei contatti aprosiani può riservare sorprese rilevanti.
Le sue conoscenze ci vengono proposte dalle stesse opere che eruditi e INVESTIGATORI SCIENTIFICI gli inoltravano onde essere celebrati dalla sua penna: e quando, per gli effetti dello spazio o del tempo che dividono, Aprosio non era in grado o non aveva potuto contattare personalmente od in linea epistolare alcuni grandi o comunque illustri SCIENZIATI e CLINICI si premuniva, interpellando magari i loro discepoli o vecchi amici od ancora prosecutori delle ricerche di quelli, onde poter sistemare nella sua biblioteca le pubblicazioni che quegli eruditi scienziati avevano dato alla luce, anche nelle terre più remote del continente (meriterebbe in dettaglio poi un'analisi specifica il breve rapporto fra Angelico Aprosio e l'anatomista danese STENONE in cui l'elemento erudito e scientifico si carica di emotività vista l'appassionata, moralistica figura dello Stenone]
Un caso particolare, fra i contatti aprosiani con eruditi stranieri e soprattutto nord-europei, è quello delle relazioni instaurate dall'aprosiano intemelio con KASPAR SCHOPPE (1576-1649 ), il poligrafo e filologo tedesco, autore di numerosissime OPERE anche edite sotto pseudonimo, dal nome italianizzato in GASPARE SCIOPPIO (anche latinizzato in SCIOPPIUS), qui in un RITRATTO eseguito da Pietro Paolo Rubens con cui Aprosio ebbe una certa relazione epistolare (5 lettere tra gli anni 1637-46) nel Ms.E.VI.4 della Biblioteca Universitaria di Genova: Aprosio col tempo raccolse dello Scioppio moltissime opere e molte di queste sono tuttora custodite nella "Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia".
Lo SCIOPPIO godeva all'epoca di grande prestigio come filologo e specificatamente si era posto contro la pedagogia gesuitica del latino, da lui (ed altri) giudicata forma di istruzione obsoleta, astratta ed egemonizzante rispetto alle reali esigenze dei tempi e della cultura in essere.
Il primo incontro tra Aprosio e lo Scioppio avvenne a Padova nel 1637; dal repertorio della Biblioteca Aprosiana... si evincono poi altri passi dedicati a citare, espressamente o meno, la relazione culturale fra l'agostiniano intemelio e l'erudito tedesco: come si può leggere a P. 153 (citazione bibliografica), PP.200-201 (riscontro epistolare dello Scioppio ad Aprosio per il ricevimento di un suo libro: registrazione della nota autografa dello Scioppio nella Philoteca (Filoteca) Aprosiana o registro [andato perduto] in cui l'agostiniano intemelio faceva apporre note e giudizi da parte di visitatori, corrispondenti, amici, personalità varie in merito al suo lavoro di bibliofilo: il giovane Aprosio lo definì buon vecchio ed infatti quando appose la sua firma e le relative complimentazioni era il 10 agosto 1646 sì che lo Scioppio aveva già 80 anni d'età), PP. 252-254 (lunga sarcina di lettera dello Scioppio all'Aprosio del 1646), P. 302 (opera [18] dello Scioppio donata ad Aprosio da Agostino Lampugnani), P. 414 (opera dello Scioppio, contributo in miscellanea filologica, donata ad Aprosio da Anfrano Mattia Fransoni), P. 489 (pubblicazioni gesuitiche contro la filologia dello Scioppio) e finalmente PP. 605-611 (questioni di didattica e filologia classica).
Angelico Aprosio ebbe dunque occasione di conoscere il poligrafo tedesco in area veneta e non nel genovesato, dove pure lo Scioppio ebbe occasione di soggiornare brevemente: la corrispondenza intercorsa fra i due eruditi come sopra si può leggere fu verisimilmente superiore alle cinque lettere (epistole scritte in latino, tutte con una grafia minutissima, come qui si vede) che di KASPAR SCHOPPE si possono consultare nell'Epistolario dei Corrispondenti di A. Aprosio custodito presso la Bibliotega Universitaria di Genova.
Una missiva in particolare tuttavia, senza sminuire la valenza documentaria delle restanti, merita in particolare di essere analizzata: si tratta di una missiva datata Padova li 17 Luglio 1637 la quale, oltre a rappresentare il sigillo di un incontro fruttuoso per il giovane erudito intemelio, testimonia, nella sua sostanziale brevità, alcuni temi che resteranno impressi nelle memoria e nella metodologia aprosiana quali sono
polemismo, documentazione bibliografica, erudizione, pseudonimia ed interscambio culturale.
Per siffatta ragione si è ritenuto di trascrivere qui criticamente questa interessante
LETTERA DEL 1637
di KASPAR SCHOPPE prima di concederci il preannunciato momento di riflessione sul suo breve soggiorno nel genovesato.
Agostino Schiaffino [ Memorie di Genova (1624-1647) stralcio da "quaderni.net" ], testimone oculare di tanti eventi dell'epoca aprosiana, in merito scrisse: " [16]40 - Nelli due ultimi mesi dell’anno passato [1639] e nel genaro di questo [1640] fu in Genova Gaspare Scioppio, Consigliere Imperiale, grande letterato di natione todesco. Costui passava a Prencipi a cercare aiuto per un certo che si diceva fratello del Gran Turco maggiore ch’era christiano, chiamandosi il Soldano Jachet. Pretendeva esso Soldano che a lui pervenisse l’Impero turchesco e cercava di provare se potesse levar il fratello di Stato. Dimorava in questo tempo in Turino, scrisse alla Republica con cercarle aiuto, promettendole, se mai avvenisse che si ripponesse in Stato, tutti i Dominii che per avanti possedeva nel Levante. Ottenne lo Sciopio per costui un decreto di gran promessa dalla Republica, sempre che egli ponesse insieme armata per l’impresa che praticava. Nel mese di genaro scrisse in Genova, esso Sciopio, una epistola latina al Signor Federico de Federici, dell’ordine dei Senatori, nella quale loda in estremo Genova città et ad essa rispose il Federici con un assai lungo discorso in cui mostra l’imprese e le glorie della Genovese Republica in volgar favella, che colla epistola si legge in stampa [Lettera dell’Illustriss. Signor Federico Federici nella quale si narrano alcune memorie della Republica Genovese, Genova, Pavoni, 1634] et il Soldano Jachet, ritornando di Turino, passando a Malta, passa per Genova".
Per comprendere però l'evento più significativo della vita culturale dello SCHOPPE bisogna ricorrere ad un fatto non di semplice cultura ma ad uno di quei drammi epocali in cui la cultura, soggetta all' Inquisizione ed alla sanzione dell' Indice dei libri proibiti, poteva portare alla condanna per eresia con la conseguente morte sul rogo.
Il nobile erudito tedesco (che ne aveva peraltro sentita pronunciata la condanna a morte) aveva ancora negli occhi lo strazio della morte sul rogo del filosofo Giordano Bruno il 17 febbraio del 1600 allorché scrisse, al suo corrispondente Corrado Ritterchausen, in merito all'esecuzione pubblica del Bruno: "...reso oggetto di morbosa osservazione e scrutando egli stesso gli altri, in Campo dei Fiori, davanti al teatro di Pompeo, pubblicamente [Giordano Bruno, impossibilitato a parlare dall'applicazione di una mordacchia di ferro che ne rendeva spaventoso l'aspetto] è bruciato".
L'osservazione, apparentemente pietosa e forse davvero tale nell'animo del filologo tedesco, non comportava però alcuna giustificazione delle idee bruniane contro cui lo Schoppe aveva apertamente prso posizione.
Nella citata lettera l'erudito osservatore della drammatica esecuzione, facendo cenno alle eresie anche a suo parere insite nelle opere del Bruno (dal De l'infinito universo et mondi al De immenso et innumerabilibus ed ancora al De umbris idearum), di seguito scrisse: "Insegnano cose orrende e del tutto assurde, come ad esempio che ci sono infiniti mondi, che l'anima passa di corpo in corpo, anzi che addirittura può trasmigrare in uno degli altri mondi, che una sola anima può informare due corpi, che la magia è cosa buona e lecita, che lo Spirito Santo non è altro che l'anima del mondo, e che questo principio ha voluto affermare Mosè, quando scrive che quello Spirito cavò le acque, che il mondo esiste dall'eterno...".
La lettera integrale è stata edita da A. Montano, Gaspare Schopp a Corrado Ritterchausen: l'unica testimonianza sulla morte di Giordano Bruno, in "Quaderni dell'Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale", V (1998), pp. 29 - 56.
Indubbiamente sulla sorte di Giordano Bruno a prescindere dalla già pesante accusa di pratiche di magia (con l'aggravante che il filosofo nolano aveva in qualche maniera "riegizianizzato" l'ermetismo rinascimentale) aveva svolto un ruolo per lui estremamente negativo, nelle sue opere, la sanzione del il comma relativo all'eternità del mondo del tutto in contrasto con la tematica del creazionismo costantemente ribadita dalla Chiesa.






Il conservatore ed erudito Aprosio, l'amante delle stranezze e dei libri dell'impossibile fu anche Vicario dell'Inquisizione: soprattutto per legger liberamente questi ultimi che per punire rei eretici di cui poco si curava, sino ad esserne biasimato dai superiori: meno leggibile alla base di tale scelta, per chi non abbia dimestichezza con le scritture aprosiana, risiedeva altresì una certa propensione per l'
occulto
(anche inteso come indagine dell'infinatemente grande quanto dell'infinitamente piccolo) e per l'
ESOTERISMO.



Siffatte propensioni per discipline arcane o quanto meno ai limiti dell'ortodossia scientifica e religiosa lo indussero a mettersi sulle tracce di scrittori peculiari come ad esempio Marcello Palingenio Stellato, il Burchelati e Pietro Servio od ancora accostarsi al medico fiorentino Nardi e contestualmente alla TEORIA DELLE SIMPATIE E ANTIPATIE COSMICHE in particolare sfruttando l'amicizia di Anfrano Mattia Fransoni (p.401 fine) o via discorrendo in seguito poi trattare la questione delle bizzarrie naturali, affrontando il tema sempre coinvolgente dei
MOSTRI
che coinvolgeva quasi automaticamente quello dei
DIVERSI
nella più vasta accezione, di modo che in esso contemporaneamente fluivano riflessioni su tutti coloro che non fossero pari ad Aprosio e agli uomini del suo contesto socio-culturale quali per esempio gli
EUNUCHI ed i CASTRATI,
le
DONNE PECCATRICI E/O DIVERSE DALLA NORMA SOCIO-RELIGIOSA,
soprattutto i
******SELVAGGI DI TERRE ESOTICHE OD APPENA SCOPERTE******
ed altro ancora.
Tutte "cose" che in misura altrettanto simultanea comportavano altre riflessioni ancora sulla realtà e/o liceità di
SCHIAVI e SCHIAVE

compresa la realtà dello
SCHIAVISMO NEL DOMINIO DELLA REPUBBLICA DI GENOVA.
Ma la valutazione di DIVERSITA' usualmente non si fermava solo a questo punto: DIVERSI erano per esempio considerati gli EBREI e, seppur ad essi si prestasse un'attenzione più marginale, DIVERSI erano neputati i NOMADI cui si attribuivano PRATICHE ILLECITE SIA IN SENSO PURAMENTE CRIMINALE CHE PRETRNATURALE: e ad essi ancora ai primi del XVIII secolo il giurista e teologo francescano padre Lucio Ferraris attribuiva la nomea di MALI HOMINES alla voce ZINGARI - ZINGARAE da lui sviluppata nella sua monumentale BIBLIOTHECA CANONICA....
Oggettivamente i 12 paragrafi in cui il Ferraris sviluppa l'argomento sono un concentrato di verità e credulità connesse alla storia degli Zingari: in primo luogo l'autore li ritiene, sulla base di vari interpreti, dediti, specie fra la gente di umile condizione, alla pratica perseguibile dal Sant'Ufficio della DIVINAZIONE.
Soppesati i vari testi della sua sterminata bibliografia l'autore giunge però di seguito a due conclusioni; la perseguibilità degli ZINGARI è lecita qualora cadano nella pratica di SORTILEGI che comportino la violazione delle sacre leggi sin al crimine di SACRILEGIO ma, se non sussiste coinvolgimento di sacri argomenti, ad essi non è ascrivibile alcun reato e tutto il loro agire può esser dimensionato nel campo della BUFFONERIA.
Per quanto riguarda i Cristiani che consultano gli ZINGARI per la previsione del futuro sempre di seguito l'autore precisa che peccano mortalmente se ad essi si rivolgono con credulità e ferma volontà di violare i segreti del tempo mentre peccano venialmente se tutto si riduce ad una consultazione fatta magari durante i giorni di fiera o festa allo scopo di ridere e divertirsi senza prestar fede alcuna a quanto predetto.
Continuando a parlare di ZINGARI e ZINGARE [di cui, ignorando l'esatta provenienza e la componente etnica, l'autore precisa esser ufficialmente da nominarli EGIZIANI (risultando quello di ZINGARI solo un appellativo volgare e popolareggiante)] Lucio Ferraris indugia su una questione puramente burocratica, quella per cui gli ZINGARI son da giudicare TESTIMONEI IDONEI a provare lo stato di celibato per altri ZINGARI che intendano contrarre matrimonio.
Successivamente l'autore afferma che chi compra dagli ZINGARI qualsiasi cosa deve preoccuparsi, senza rientrare in possesso del denaro sborsato, di restituirla all'autentico padrone: simile postulazione verte sul fatto che una vasta tradizione giuridica ha attribuito agli ZINGARI la storica PRESUNZIONE DI FURTO: si aggiunge nel testo che essi, in conformità della licenza concessa dalla legge con cui si regolano, EDUCANO I FIGLI a perpetrare il FURTO come CONFESSATO DA UNO ZINGARO SOTTOPOSTO AD ESAME INQUISITORIALE E POI PROCESSATO - verisimilmente dopo esser stato sottoposto a TORTURA - alla maniera esplicitata dal giureconsulto romano Domenico Orsaio (sec. 17-18) nelle sue Institutiones criminales usui etiam forensi accommodatae quatuor libris absolutae in quorum primo agitur de criminibus mere ecclesiasticis. In secundo de criminibus mere saecularibus. In tertio de criminibus mixti fori. In quarto exponuntur aliqua omnibus criminibus communia. Authore Dominico Ursaya ...Editio innovata, tertia plus parte auctior...., Romae : ex typographia Ioannis Francisci de Buagnis, 1706.
Constatazione che induce di seguito il Ferraris a proporre, anche per furti di relativa entità, l'applicazione avverso gli ZINGARI di PENE ESEMPLARI.
Siffatta severità avverso gli ZINGARI in CHIUSURA DELLA VOCE dapprima viene dal Ferraris sancita su basi esclusivamente laiche: egli in particolare ( dopo aver rammentato una serie di reati attribuiti agli ZINGARI tra cui quali l'esser PERPETRATORI DI INGANNI, LADRI, TRADITORI, RAPITORI per lucro e guadagno) cita un EDITTO del 1549 con cui l'IMPERATORE CARLO V ordinò di perseguirli quali SPIE E TRADITORI DEI CRISTIANI A VANTAGGIO DEI NEMICI TURCHI.
Ad integrazione di quanto detto il Ferraris cita quindi nello stesso luogo altri provvedimenti per cui, a causa di reati morali e di ladrocinii, sarebbero stati cacciati dal Regno di Napoli e dallo Stato della Chiesa.
A questo punto l'autore elabora una sorta di giustificazione "scientifica" della MALVAGITA' INTRINSECA NEGLI ZINGARI essendo DISCENDENTI DI CAINO ed avendo negato alla VERGINE MARIA FUGGIASCA DALLA GIUDEA PER LA PERSECUZIONE DI ERODE LA LORO OSPITALITA' NEL NATIVO EGITTO come registrato sulla base di alcune fonti, poi sorprendentemente confutate, da Giovanni Domenico Rinaldi nell'opera Jo. Dominici Raynaldi ... Observationum criminalium, civilium et mixtarum liber primus -tertius! ... Cum additionibus ac suppletionibus seorsim antea impressis ... necnon indicibus argumentorum ac materiarum accurate congestis, Venetiis : apud Paulum Balleonium, 1699: autore però il Giovanni Domenico Rinaldi ulteriormente ripreso dal Ferraris onde sostenere che presso i TURCHI per pubblica sanzione sarebbe concesso agli ZINGARI di far esercitare liberamente alle proprie donne la PROSTITUZIONE.








A Taggia, nell'imperiese, dove tra l'altro si ebbero non isolate testimonianze di attivismo culturale, il l9 Agosto 1668 nell'abitazione del facoltoso Giovanni Stefano Asdente si inaugurò l' Accademia dei Vagabondi (l'impresa o stemma era un sole raggiante): Angelico Aprosio ne fu il membro più illustre e vi prese il nome di Aggirato; ma non ne ebbe grande stima né la frequentò forse perché troppo periferica e priva di ascritti di nome e troppo dipendente dal poligrafo suo "Principe", l'avvocato Giovanni Lombardi che si limitò a produzioni d'interesse locale o lasciate manoscritte, come quei pochi sonetti che nel XIX secolo individuò l'erudito canonico Lotti.



Le investigazioni erudite aprosiane elaborano spesso l'iridescenza delle descrizioni strutturando complessi sistemi di parole ed immagini in cui le
DIVERSITA'
al pari dei
DIVERSI
finiscono ad un primo livello di lettura per diventare
STRUMENTI DI UN GIOCO
che il pensiero morale d'Aprosio, così innestato nel sistema sociale d'appartenenza, mediamente nemmeno sente crudele, ma che, tra le varie funzioni demandategli, serve a proporre l'allora vivace dibattito su
MEDICO, MEDICI, MEDICINA, MALATTIE E LORO CURA
[del resto alla funzione del frate di Vicario inquisitoriale non possono ne' debbono sfuggire le competenze necessarie sull'inquadramento funzionale del
buon MEDICO (vedine qui un INDICE MODERNO) e dell'efficiente OSPEDALE (vedine qui l' SOMMARIO STESO DALL'AUTORE STESSO).
come si evince dalle relative voci della BIBLIOTHECA CANONICA... di Lucio Ferraris.
Nel contesto di questi accostamenti per un verso bizzarri, per l'altro utilitaristici e funzionali si può citare il
CAPITOLO VIII
dello
SCUDO DI RINALDO - PARTE II
in cui i
GALEOTTI
(intesi come carcerati relegati al remo delle galee)
innescano un climax ascendente in cui il loro
storico uso
di una sostanza esotica quale il
TABACCO
,
che a sua volta è PIANTA "DIVERSA" che si vuol poi dimostare MALIGNA, in forza della "mostruosità sociale" quali "peccatori e rei" dei suoi originari fruitori, viene innalzato sveltamente ad
ABUSO e quindi a VIZIO,
aggravato dal fatto che quanti, anche per lor mestiere, frequentano od hanno frequentato questi peccatori finiscono per diventarne compagni di difetto, sin pure a corrompere esponenti di quegli ambienti sociali con cui entrano in relazione.
Meccanismo di elaborata erudizione e che tuttavia, al modo che si è postulato per la GRILLAIA costituisce una forma arguta di condannare mantenendosi al servizio dell'erudizione ( vedansi le riflessioni proemiali in apparenza solo positive sulla pianta e sui suoi usi specie in medicina) e nel contempo di quelle crescenti proposizioni inquisitoriali che sempre più comportano questa
CONDANNA DELL'USO ED ABUSO DEL TABACCO QUALE FORMA DI SCOSTUMANZA COMPORTAMENTALE E SOCIALE
.
Il tutto, in definitiva, allo scopo principe di catturare l'attenzione del lettore tramite una citazione "cronachistica" ad effetto, ottenendone un'attenzione che vien poi però riflessa entro il campo delle riflessioni monitorie e predicatorie:
e tutto ciò strutturato su una direttrice retorica di consolidata tradizione estetica del delectare (per esempio le curiosità scientifiche, parascientifiche od esotiche) al servizio del prodesse (l'avvertimento predicatorio a non lasciare la via moralmente diritta dell'agire).
Espediente che poi, ai servizi d'un mai dissipato vezzo aprosiano, consente il dissertare di tutto, anche di argomenti assolutamente profani se non lubrichi, sotto lo schermo protettivo della moralistica postulazione di conclusione.
Nel contesto di siffatto procedere espositivo si riescono a cogliere le valenze parassitare od integrative del discorso primario: ad esempio si può individuare il
fruitore eccellente del contesto, colui che deve riconoscersi elogiato nel saggio aprosiano e quindi del frate proporsi vieppiù come sostenitore e fautore: in questo caso pare, ad esempio, uno solo in particolare, vale a dire il
MEDICO DOMENICO PANAROLO
cioè il dedicatario del capitolo VIII di cui Aprosio riprende tutte le confinzioni scientifiche, anche rinnegando antichi autori a lui cari non dello stesso parere sul tabacco: ma DOMENICO PANAROLO è MEDICO PROFESSORE DELLA SCUOLA DELL'UNIVERSITA' DI BOLOGNA ancorata a vecchie postazioni interpretative, contrastanti con la sempre più rinomata SCUOLA MEDICA GALILEANA E TOSCANA DELLA SCIENZA NUOVA. A molti sfugge questa parzialità aprosiana, specialmente a scienziati puri, senza interessi eruditi, o comunque a tanti superficiali, ma la cosa non sfugge proprio a chi non doveva cogliere una parzialità, invero non dovuta a scelte programmatiche d'Aprosio, ma alla sua volontà, elogiando tutti a turno di farsi amici un pò tutti.
Per iattura del frate intemelio la sostanziale sua scorrettezza non sfugge proprio ad uno dei numi tutelari della Scienza Nuova cioè a quel FRANCESCO REDI che verisimilmente non aveva già gradite alcune considerazioni aprosiane contenute nella Grillaia, ancora inedita ma ampiamente circolata fra i dotti, ed il cui pronto intelletto coglie adesso l'ambiguità aprosiana insita nel "capitolo VIII" della parimenti inedita seconda parte dello Scudo di Rinaldo (però alla stessa stregua della Grillaia e secondo l'uso epocale doviziosamente "passata in copie manoscritte" attraverso gli ambienti colti). Il REDI essendo sostenuto da un'ombrosità professionale, conseguente anche alla consapevolezza del valore proprio e della propria scuola, poco fidandosi di un personaggio tanto volubile quale l'Aprosio gli si è rivelato, finisce così, poco alla volta ma inarrestabilmente, per eludere, con aprosiano disappunto, una corrispondenza che avrebbe potuto diventare alquanto proficua e promozionale per l'ambizioso frate intemelio.
Aprosio non deve comune essersi arreso facilmente, dopo un probabile momento di stupore, ed anche se non può far testo in assoluto, una LETTERA più tarda del frate intemelio al REDI quale forma di condoglianze per un gravissimo lutto del toscano ha innescato una risposta che sembrerebbe preludere ad un rinnovato rapporto anche per una diversa disposizione d'animo del Redi: ma a questa missiva non risulta per ora esser esser stato dato seguito e, non avendosi traccia nemmeno pregressa dell'esistenza d'un ritratto rediano nella "Quadreria" d'Aprosio sembrerebbe che le cose non siano poi mutate di molto tra i due personaggi.



L'erudita curiosità aprosiana non conobbe praticamente frontiere, penetrando oltre orizzonti che mediamente un religioso cattolico-cristiano non avrebbe pensato di violare.
Ancor più che nel pur significativo
capitolo XVII della Grillaia edita o, sempre della stessa opera, nel capitolo XXXXIX (laddove dimostra competenza dei controversisti antislamici), è specificatamente in un passo dello Scudo di Rinaldo II, entro una vasta sarcina narrativa del capitolo II (dal titolo Se sia cosa convenevole, che li Religiosi si specchino), che Aprosio, sulla scorta di pregressi eventi storici connessi anche mitologicamente alle gesta dei
Saraceni,
quindi alle più recenti
scorribande barbaresche sulle coste liguri
e quindi all'esperienza della
GIGANTESCA BATTAGLIA DI CANDIA
che drammaticamente contrappose
TURCHI E CRISTIANI
ed in cui ebbe parte rilevante un "fautore" dell'Aprosio come Carlo Della Lengueglia.
La sinergia fra tutti questi fattori finì inevitabilmente ed ulteriormente per ordinarsi entro un
personale interesse sempre latente
a riguardo dell'
ISLAM, DEL MONDO ARABO E PIU' ESTESAMENTE DEL "MISTERIOSO" ORIENTE
sì che da una generica riprovazione dei barbari Aprosio estese le sue investigazioni in molteplici direzioni ad esempio verso i
Torlacchi,
curiosi religiosi orientali dell'Impero Turco di cui compare una delle più complete narrazioni nell'
OPERA EDITATA DAL POLIGRAFO PIACENTINO LODOVICO DOMENICHI (1514 - 1564)
di
GIOVANNANTONIO MENAVINO GENOVESE DA VOLTRI,
già ex schiavo cinquecentesco alla corte imperiale turca, che dedicò un'intiera sua
OPERA,
qui trascritta con opportuni indici, alle sue esperienze e che in dettaglio fra l'altro parlò dei
TORLACCHI o TORLACHI.
Poco comunque si sapeva dell'universo dei Turchi e gli uomini avidi di conoscenza come Aprosio facilmente sfuggivano alla cronachistica storica, che li aveva per così dire originariamente stimolati, nella direzione della ricerca di volumi che veramente schiudessero le porte di quel mondo ancora troppo ignoto
Come nel caso di un'altra
OPERA
interessante qui proposta è quella di un altro ex schiavo,
BARTHOLOMEO GIORGIEVITS
.






Una cosa che mediamente sfugge è invece che APROSIO era curiosissimo dei FERMENTI SCIENTIFICI NUOVI che voleva studiare a tutti i costi ma che ben sapeva, da religioso, studiabili con tutte le cautele: parecchi dei sostenitori delle nuove postulazioni erano infatti invisi alla CHIESA e spesso le loro opere furono poste sotto accusa dall'INDICE DEI LIBRI PROIBITI e quindi dal SANTO UFFIZIO DELL'INQUISIZIONE ROMANA.
Come amava conoscere sempre cose nuove sui RICERCATORI STRANIERI era soprattutto stimolato dalle conquiste della SCIENZA NUOVA e dall'applicazione dei suoi nuovi prodigiosi strumenti: ed ecco perchè s'adoperò in ogni modo al fine di reperire l'opera di FRANCESCO STELLUTI colui che volgarizzando le Satire di Persio aveva anche volgarizzato la conoscenza dello studio dell'infinitamente piccolo in forza dell'uso del MICROSCOPIO.
Ma il fascino per il microcosmo non impediva ad Aprosio di eludere la curiosità per il macrocosmo: ed entrambe queste "dimensioni" erano studiabili con apparecchiature che rimandavano a GALILEO GALILEI (più che inventore geniale fruitore delle proprietà sia di TELESCOPIO che di MICROSCOPIO.
Ma avvicinarsi al nome pericoloso di GALILEO per un religioso che non amava avere problemi con l'INQUISIZIONE poteva essere un'operazione a rischio: ed ecco allora intervenire la poliedrica bizzarria aprosiana, parlare di GALILEO con affettazione, metterlo in discussione, senza esagerare, ma parlarne pur di entrare in quel MONDO NUOVO che la SCIENZA NUOVA andava scoprendo.
Ecco allora, nel 1668, la finalizzazione e la pubblicazione della
GRILLAIA
la principale opera moralistica dell'Aprosio, finalmente sfuggita alle remore della censura che ne avevano condizionata la stampa.
Un'opera polipotente, dai molteplici risvolti tematici, sempre al limite della profanazione ma mai così estremizzata da rischiare gli strali del Sant'Ufficio o dell'Indice dei libri proibiti.
Attesa la varietà degli argomenti, il vago "sapore di zolfo" dei suoi contenuti e le discussioni che erano corse su quest'opera dalla travagliata vicenda editoriale il successo fu considerevole, come si evince da questa
LETTERA DI G. N. CAVANA.
In merito alle tematiche della "Scienza Nuova" una segnalazione speciale concerne il
CAPITOLO O GRILLO XLV ("SE LA TERRA SIA MOBILE O STABILE")
ove alla fin fine fa prevalere la postazione ideologica del geocentrismo tolemaico a scapito dell'eliocentrismo copernicano e galileiano ma in virtù di un sostanziale apatismo e di ragionamenti che pur facendo prevalere alla fine la dottrina di TOLOMEO CLAUDIO (cosa che un religioso del suo tempo non poteva non fare!) non si perdevano (al modo fatto da tanti altri autori) in vessazioni letterarie nei riguardi del geocentrismo e di GALILEO in particolare.
E tutto questo perchè una critica affettata ed ambigua ma mai offensiva gli consentiva sia di rstare tranquillo entro i limiti della sua postazione sociale ed ideologica quanto, contemporaneamente sia di approcciarsi senza rischi alle opere di GALILEO quanto ai fermenti dei suoi DISCEPOLI e SEGUACI (in particolare GIAN DOMENICO CASSINI) e d'altri esponenti della SCIENZA NUOVA.
E per tal ragione, contestualmente, mentre altri ben se ne guardavano, potè avere, raccogliere e discutere delle
OPERE DI GALILEO GALILEI
e contestualmente attivare rapporti cospicui coi suoi viventi PROSELITI per farne dei FAUTORI dalla biblioteca intemelia.
Nella BIBLIOTECA APROSIANA... da pagina 235 a pagine 237 le lodi a FRANCESCO REDI, un altro tra i più significativi seguaci di GALILEO e della sua dottrina empirica, sono una riprova di questo atteggiamento aprosiano: una riprova sulla quale si sono peraltro svolte delle
INDAGINI SPECIFICHE QUI RIPROPOSTE,
e su cui si è quindi più approfonditamente
RITORNATI CON ALTRI SAGGI
ove oltre che i rapporti con il menzionato REDI (di cui si riproducono anche le LETTERE ALL'APROSIO) sono registrati i contatti con molti esponenti della SCIENZA NUOVA, tra cui in particolare CARLO ROBERTO DATI ad ALESSANDRO MARCHETTI.
Senza poi dimenticare che l'Aprosio ricevette una particolarissima ed emblematica
LETTERA
[CHIARA E GIA' LEGGIBILE SULL'ORIGINALE: L'"INCIPIT" DELLA MISSIVA NON E' SEMPLICE IN QUANTO LO STENONE SCRIVE: "GIA' CHE TANTI SONO GLI ANNI PASSATI DAL TEMPO CH'ELLA M'HA VOLUTO ONORARE DE' SEGNI ESTERNI DELLA SUA AMICIZIA, BENCHE DA POCHI GIORNI IN QUA NE HO VISTA LA PRIMA TESTIMONIANZA DI SUA MANO", STENONE VEROSIMILMENTE ALLUDE AD UNA MISSIVA AUTOGRAFA ( PURTROPPO SONO ANDATE PERDUTE TUTTE LE EPISTOLE DI APROSIO TRANNE QUELLE AL MAGLIABECHI DISCUSSE IN UN LAVORO DI CUI SI CONSERVA ALLA BIBLIOTECA APROSIANA LA TESI (A. ACC. 1972/'73) OPERA DI ANTONIETTA IDA FONTANA POI ILLUSTRE BIBLIOTECARIA E DI QUANTI STAMPARONO LE LETTERE APROSIANE IN LORO OPERE COME PER ES. FECE OLE WORM)= "I SEGNI ESTERNI" DELL' AMICIZIA CUI ALLUDE LO STENONE POTREBBERO ESSER ALCUNI "LIBRI DEL VENTIMIGLIA" INVIATI IN DONO ALLO STENONE TRAMITE AMICI (CUI VENIVA AFFIDATO DI FARE UN RENDICONTO DI DONO E DONATORE) SECONDO L'USO DI OMAGGIARE CON QUESTI "REGALI" ERUDITI ILLUSTRI PRIMA ANCHE DI INTRECCIARE UN DIRETTO CONTATTO EPISTOLARE
dal
grande
NICOLA STENONE
autore di cui si parla nel menzionato saggio sul Redi e cui il frate intemelio dedicò due interventi (a p. 27 e 205) de la sua Biblioteca Aprosiana.
Gli interessi aprosiani per la
SCIENZA NUOVA
e per gli
SCIENZIATI STRANIERI
oltre che a motivazioni di erudita curiosità rimandavano alla sempre viva passione del frate per le iridescenze culturali, per tutto ciò che potesse costituire un fatto straordinario per quanto contenuto sempre entro i limiti del documentato e del certo, se non del possibile e del probabile: da siffatta posizione culturale trassero stimolo le sue investigazioni e le sue raccolte di libri concernenti i
FENOMENI NATURALI E NON
(I MOSTRI)

cioè le creature abnormi generate in ambito naturale o create dalla moderna medicina.
Aprosio non si fermò solo sulla soglia di queste sue curiosità parascientifiche ed alquanto più erudite, affrontò anche l'argomento dei MOSTRI CREATI DALLA MEDICINA ANTICA ed in particolare fissò la sua attenzione su quei MOSTRI intesi quali violenze arrecate alla natura che erano da ritenersi i
CASTRATI.
APROSIO, riprendendo in definitiva i DETTATI GIURIDICI ECCLESIASTICI ma caricandoli di iridescente provocazione oratoria, affrontò non senza brillantezza il tema degli EVIRATI o CANTORI CASTRATI (peraltro destinati a sopravvivere nella costumanza religiosa e nell'operistica laica attraverso
MOMENTI FULGIDI
sin al tramonto novecentesco del barbaro uso con l'
"ULTIMO DEI CASTRATI")
paragonandoli, alla fine nella stampa dopo un'autentica archeologia di interventi predicatori, ad una MOSTRUOSITA' INNATURALE CREATA DALLA CUPIDIGIA UMANA: fece ciò verisimilmente per dar sfogo al suo funambolismo nel dire e quindi nello scrivere, ma l'apparente coraggio con cui si battè contro luoghi comuni, in questo come in altri passi delle sue opere polemiche e moralistiche, ne esaltò il credito morale, che peraltro già aveva quale predicatore di quaresimali, al punto che finirono per aprirsi le porte per impegni censori sempre più marcati, sin a quello di VICARIO DELL'INQUISIZIONE.


La pubblica rinomanza di predicatore (ricco di slanci moralistici efficaci e soprattutto la nomea di censore moralistico avverso, anche, ai correligiosi indolenti e soprattutto ai cattivi oratori sacri poi censurati a stampa entro la La Grillaia... del 1668), congiuntamente all' abile uso delle buone conoscenze, forgiati dalle postulazioni mai peregrine dell'erudito ecclesiastico, dalla fama di moralista e infine dalla voce corrente dell' efficace predicatore, valsero in conclusione ad Aprosio l'incarico quale
VICARIO DELL'INQUISIZIONE NELLA DIOCESI INTEMELIA

*******Il Decreto per la carica di Aprosio quale VICARIO DELL'INQUISIZIONE fu emesso il 4/II/1654 dalla Sacra Congregazione dell'Indice*******
[analizza qui le FUNZIONI ed i COMPITI di un VICARIO DELL'INQUISIZIONE]
Il conseguito ruolo di censore venne poi in qualche modo anche sublimato alla pubblica ragione tramite un RUOLO DA PROTAGONISTA NEL ROMANZO LA ROSALINDA del genovese BERNARDO MORANDO in cui risulta abilmente impegnato ad orchestrare un
ATTO DI FEDE ed una ABIURA
dall'eresia calvinista
E tuttavia APROSIO non parla con l'enfasi consueta di tale suo
INCARICO
ne La Biblioteca Aprosiana... e si limita ad un inciso abbastanza sfuggevole quando si trova nella necessità di far cenno come "fautore" della sua biblioteca del
DOMENICANO AGOSTINO CERMELLI
l'erudito INQUISITORE GENERALE DI GENOVA al cui servizio egli aveva operato quale VICARIO PER LA DIOCESI INTEMELIA e l' analisi delle cui
LETTERE ALL'APROSIO
costituiscono un interessante documento.
Tuttavia non è con l'allontanamento da Genova del Cermelli che si deve pensare che Aprosio, indubbiamente turbato dagli oneri di un incarico non limitato alla censura dei libri, abbia ABBANDONATA LA CARICA DI VICARIO DELL'INQUISIZIONE.
Sempre dalle lettere dei suoi corrispondenti si evince infatti che a lungo l'erudito intemelio intrattenne corrispondenza con altri Inquisitori Generali residenti a Genova:
in ordine di tempo il discusso padre domenicano Michele Pio Passi da (dal) Bosco - Sisto Cerci - Tommaso Mazza.
Di tal sua carica si ricavano piuttosto notizie da alcune lettere, in cui si decifrano abbastanza bene ansie e dubbi sulla sua efficacia nell'espletare un compito tanto delicato.
Sotto questo profilo la questione era soprattutto giurisdizionale ed Aprosio, che non era né sprovveduto né disinformato, ben sapeva che in ogni questione di
FORO MISTO
potevano intercorrere pericolosi contrasti istituzionali.
Un caso eclatante ma non isolato fu quello del processo alle presunte
STREGHE DI TRIORA
in cui si erano coniugate moltemplici incomprensioni sì che dapprima
Il Governo di Genova arrogò a sè ogni azione di legge
quindi
L' Inquisitore ecclesiastico di Genova vantò il diritto storico di condurre investigazione e procedimento
finché, ma solo dopo tanti contrasti
La Signoria e l'Inquisitore giunsero ad un accomodamento per intervento del Sacro Palazzo di Roma.
Le preoccupazioni aprosiane sulla difficoltà del suo
compito di Vicario dell'Inquisizione
erano alimentate dall'analisi di una
situazione mai facile di rapporti tra Chiesa e Stati
che si era innervata su una scala più ampia di fatti e soprattutto di fatti sempre più recenti, che indubbiamente andavano vieppiù complicando l'attività dell'
inquisitore ecclesiastico
ogni volta che usciva dal campo puramente teologico per interagire con eventi coimplicanti anche la giurisdizione statuale: eventi che avevano dimostrato l'assoluta, irreversibile amplificazione di quegli
scontri di interesse che si erano già notati nel caso delle "streghe di Triora".
In particolare l'informato Aprosio non ignorava che era apertamente esploso in
AMBITO VENEZIANO
ai tempi dell'
INTERDETTO CONTRO LA REPUBBLICA DI VENEZIA[VEDINE QUI IL FRONTESPIZIO RISALENDO ANCHE AL PUNTO IN CUI SE NE PARLA NEL COMMENTO AL TRATTATO DELLE MATERIE BENEFICIARIE DEL SARPI]
un formidabile ma periglioso dibattito sulla
LEGITTIMITA' DEL FORO ECCLESIASTICO
innescato da
PAOLO SARPI
, che ne aveva proposto una nuova
REGOLAMENTAZIONE SECONDO L'EVOLUZIONE DI CODICI E LEGISLAZIONI,
[ leggi qui l'
INDICE
delle sue

CONSIDERAZIONI SOPRA LE CENSURE DELLA SANTITA' DI PAPA PAULO V CONTRO LA SERENISSIMA REPUBBLICA DI VENEZIA
]
per cui, contro le postulazioni del
CARDINALE ROBERTO BELLARMINO
(VEDI QUI DIGITALIZZATE LE OPERE DELLO SCONTRO BELLARMINO - SARPI)

veniva sancito il
DIRITTO DI OGNI STATO
di giudicare anche i
RELIGIOSI REI DI CRIMINI COMUNI
secondo le proprie leggi, senza sottostare ai vincoli
nè del FORO ECCLESIASTICO nè del FORO MISTO
e senza nemmeno temere le
CENSURE DEL PAPA.


Per onestà intellettuale occorre comunque precisare che proprio il carattere d'Aprosio, acido spesso nelle polemiche culturali e persin cattivo nelle dispute letterarie, non si coniugava alla fredda ferocia o quanto meno alla sicurezza spirituale che comportavano certi aspetti del diritto inquisitoriale sia laico ed ecclesiastico del suo tempo, specie quello connesso alle persecuzioni più truculente di
ERETICI,
RIFORMATI (PROTESTANTI),
e presunti
COLPEVOLI DI MAGIA E STREGONERIA
senza neppure escludere i tanti praticanti, anche a livello circense o di fiera paesana, di
ILLUSIONISMO
, all'epoca d'Aprosio ritenuta colpevole variante del crimine stregonesco della
FASCINAZIONE.
In poche parole la figura dell'
Aprosio giusdiscente ecclesiastico
era spettacolarmente lontana da quella, per intenderci del cinquecentesco inquisitore ponentino
PADRE DOMENICANO ANTONIO RICHELMI DI PIGNA
e parimenti assai distinta da quella, icasticamente intransigente, del suo contemporaneo Grande Inquisitore di Genova
PADRE ELISEO MASINI.


Aprosio si era sempre interessato di questioni concernenti l'apostasia cioè il distacco dalla fede cattolica romana [aveva anche affrontato seppur da lontano la QUESTIONE EBRAICA E L'ANTISEMITISMO attraverso la figura di Sara Copio Sullam ed era anche stato coinvolto, pur con qualche rischio, dal "letterato apostata" Brusoni: del resto certe sue eccentricità (da lui stesso menzionate nella Biblioteca Aprosiana...) e soprattutto il veto posto dall'Indice alla pubblicazione di alcune parti della Grillaia (ed anche certe parti misogine se non lubriche a stento sopravvissute alla censura ecclesiastica per via degli eccessi di sboccato antifemminismo) lo avevano posto in qualche difficoltà].
Tuttavia egli non si era forse reso conto della vera portata del fenomeno e soprattutto non era disceso nella realtà truce di investigazioni e torture cui qual Vicario dell'Inquisizione pur ebbe a che fare od avrebbe avuto a che fare in relazione alla persecuzione degli
ERETICI.
Il suo era peraltro soprattutto se non esclusivamente un animo propenso alle battaglie intellettuali ma costituzionalmente refrattario alla violenza fisica come quello di tanti intellettuali.
A livello meramente erudito interessavano Aprosio le donne quali streghe nel senso di esseri calamitosi a livello emozionale per l'uomo: in senso puramente giuridico poteva dissertare se esisteva davvero stupro quando la donna si comportava o vestiva in modo apertamente provocatorio.
A livello cronachistico egli parla addirittura della donna sensuale, peccaminosa e rovinafamiglie in un brano quasi emblematico della Biblioteca Aprosiana: ed in fondo è da dire che questo sarcina narrativa, in qualche modo autobiografica, appartiene all'aspetto aprosiano meno lubrico sulle donne, dato che gli eccessi del suo antifemminismo e dei suoi interessi (scriviamolo pure!) sessuali e sensuali sulle donna divengono conclamanti soprattutto nelle opere moralistiche quali lo Scudo di Rinaldo e la Grillaia, l'opera che lo fece realmente colpire dagli strali dell'Inquisizione e specificatamente dell'Indice dei libri proibiti.
Per dare la giusta misura dei limiti cui potevano giungere l'audacia antifemminista e le aprosiane accuse di peccaminosità alle donne può essere qui assai utile proporre, pur rimandando alla lettura della Grillaia edita quei CAPITOLI o GRILLI che l'Aprosio dovette sopprimere, lasciandoli allo stato manoscritto, visto le pensanti critiche della CENSURA ECCLESIASTICA.
Il loro recupero e la loro pubblicazione è merito di Antonietta Ida Fontana che nel II Quaderno dell'aprosiana - 1984 - vecchia Serie li pubblicò criticamente nel suo articolo, qui intieramente proposto col mezzo informatico, intitolato
Il P. Aprosio e la morale del 600 / note in margine a 4 grilli inediti.
Si tratta indubbiamente di GRILLI che già nei titoli dimostrano il livello estremo di audacia e sensualità, insopportabile se opera di un religioso controriformista, in essi sviluppato: GRILLO XVIII (Se sia più libidinoso il Maschile o 'l sesso Donnesco?) - GRILLO XIX (Se dalle vergini, o dalle vedove gli abbracciamenti virili...) - GRILLO XXVII (Se alcuno iscritto nel rolo degli Agami inciampasse (il che Dio non voglia) in qualche errore intorno al sesto precetto del Decalogo, qual rimedio per ovviare a gli scandali, e per salvare la riputatione) - GRILLO XXX (Del nome BECCO, e CORNUTO, che si suole attribuire a coloro, che hanno le mogli adultere, e del rimedio per non esserlo).
Questi erano dunque gli argomenti che piacevano ad Aprosio, quelli contro la donna che diventa maliarda o strega per sedurre od ingannare un uomo amava egli scrivere e predicare e, nel caso, giudicare.
Il FRATE INTEMELIO -specie dopo che divenne VICARIO DELLA SANTA INQUISIZIONE- sulle presunte STREGHE "VERE" (la cui caccia in Italia e nella stessa Liguria era peraltro meno accanita che in ambito protestante) raccolse comunque preziose testimonianze: e nemmeno mancò di trasmettere diverse competenze al suo discepolo DOMENICO ANTONIO GANDOLFO, SPECIE IN TEMA DI MEDICINA ED ERBORISTERIA LECITA E NON.
Così la biblioteca aprosiana può oggi ritenersi un deposito importante per un contributo sulla
*****STORIA DELLA STREGONERIA*****.
E' da rammentare altresì che, prescindendo dall'ormai remoto episodio delle streghe di Triora di tardo '500 e da altre minori ma consimili vicende, nel "territorio diocesano" di Ventimiglia a cavallo tra Italia e Francia, (un'area in cui erano forti le persistenze di cultura e religiosità precristiana e/o pagana) echeggiavano di volta in volta tragici seicenteschi eventi connessi alla persecuzione di STREGONERIA - MAGIA: tra vari episodi alcuni ebbero senza dubbio tragica risonanza e fama sinistra come quelli di CATERINA MOLINARI DI CAMPOROSSO e di PEIRINETTA RAIBAUDO giustiziata come strega sul rogo dopo "impiccagione lenta", sfibrata dalle "torture" per aver praticato riti satanici [come una Lamìa e compiendo vari "malefici" d'amore", di "asservimento", del "sagittario (morte procurata a distanza)", della consacrazione al Maligno, della "sterilità", dell' "avvelenamento" delle "malattie (procurate)", dell' "impotenza maschile (procurata)", dell' "odio (generato tra persone)", del "sonno" oltre la composizione di "fatture")] e il "volo stregonesco" dal luogo natio, di "CASTELLARO IL VECCHIO"
presso Mentone, sin alla "valle nervina" coinvolgendo altre donne nel rito del SABBA o adunanza di streghe comportante l'ACCOPPIAMENTO COL DEMONIO IN FORMA DI CAPRONE: nonostante la difesa del suo "parroco" che la riteneva una povera pazza, il "giudice inquirente Cumis" fu implacabile carnefice!
Aprosio neppure mancò, per quanto si legge nei suoi scritti sia editi che inediti, far riflessioni sui
DEMONI, SULLA LORO CLASSIFICAZIONE ED IDENTIFICAZIONE.
Figlio del suo tempo fatto di splendori e di miserie anche Aprosio visse le oscurità della superstizione ma si rivelò sempre sicuro ed abbastanza coerente di fronte alla revisione di opere sospette, da censurare o da ascrivere all'Indice dei libri proibiti.
il frate denota invece, per quanto si evince dalle sue tante lettere in materia inquisitoriale, costante indecisione se non angoscia di rimpetto a questioni politiche o soprattutto di natura spiccatamente investigativa e criminalistica e connesse ai temi della
LEGGE PENALE DELLO STATO
come espressione, seppur ambigua, di collaborazione istituzionale con il
SANT'UFFICIO,
di specifiche
PROCEDURE,
della
TORTURA
quale mezzo istituzionale per estorcere
CONFESSIONE
di reità e quindi poter comminare le
PENE
in vigore secondo i tempi e le leggi.
Aveva consapevolezza delle PENE comminabili tanto ai
CRIMINALI ORDINARI
che ai
CRIMINALI PRETERNATURALI
ma verisimilmente le sentiva o voleva sentirle lontano da sè, come cosa estranea: amava alludere ad esse ma non viverle da diretto attore, come giudice od altro: sapeva quanto terribili erano le pene per il REATO DI INFAMIA ma preferiva dissertare eruditamente come di una pazzia moderna delle belle donne, sulla MODA DI PORTARE LA FRANGIA DEI CAPELLI SULLA FRONTE.
Preferiva fingere d'ignorare che la sua critica moralistica e letteraria traeva, come la moda, la sua ragion d'essere dal fatto che erano tante le donne, anche redentesi, che con quella moda mascheravano il marchio a fuoco che era stato a loro impresso sulla fronte quali colpevoli d'infamia.
Aprosio, come frate "poeta" nel senso però di stravagante e strano, aveva suscitato le attenzioni sempre temute del Sant'Uffizio specie, quando, all'epoca dei suoi scritti moralistici, si era andato a qualche eccesso comportamentale e letterario: il timore dovette esser stato notevole se ancora nella Seconda parte dello Scudo di Rinaldo in merito al Capitolo X registrò una anonima canzone a riguardo di un religioso che architettò per libidine un suo illecito matrimonio con una fanciulla e che alla fine pagò il fio conoscendo gli strali tremendi del tribunale ecclesiastico.
Del resto se la sua stretta amicizia con il bizzarro Pier Francesco Minozzi aveva comportato qualche critica inquisitoriale, in effetti i pericoli più seri Aprosio li corse per l'aspra
polemica su femminismo e antifemminismo
con
SUOR ARCANGELA TARABOTTI
: il
Brusoni
che
per denaro lo tradì e, denunciandolo poi all'Inquisizione, parteggiò
(si legga da fine p. 46 in poi dell'articolo proposto)
a favore della
Tarabotti
in effetti nemmeno fu più nominato da Aprosio ma sostanzialmente definito col più spregevole dei termini allora in uso per un cattolico, quello di
apostata.
Ed il frate ventimigliese su di lui, senza nominarlo per contribuire a circondarlo d'oblio, ricordando quei tristi eventi veneziani scriverà molti anni dopo, a riprova d'un rancore mai sopito, ne
La Biblioteca Aprosiana
soltanto come di
"uno che ritrovavasi prigione in pena d'havere per la seconda volta apostato...".
























In ambito riformato, il cacciatore di streghe inglese, MATTEO HOPKINS, autore serissimo nel 1647 - quando ancora Aprosio si illanguidiva nei suoi scherzi moralistici, cattivi e riprovevoli ma tutto sommato innocui, su certe Diversità - del temibile Discovery of Witches.
Nel lavoro del delirante autore inglese si scopre la figurazione del celebre Witch Finder General, come Hopkins si giudicava, intento ad interrogare due sventurate ritenute Streghe, due povere vecchie.
Si nota nella stampa del libro inglese sulla caccia alle streghe di Hopkins la mendicante Elizabeth Clarck, già priva di una gamba, impegnata a far confessione delle sue incarnazioni diaboliche (od Imps) in bizzarri animali mentre la compagna di disgrazie dà ai suoi Imps "nomi che nessun mortale potrebbe inventare": il tutto non a caso orchestrato all'interno d'uno spazio chiuso, nella dimora dell'interrogatorio molto simile all'ambiente istituzionale della femmina onesta, la casa, di modo che il disordine maligno già per virtù dell'inquirente è dimensionato nell'ordine della consuetudine, contro la "tecnica stregonesca e demoniaca" dei ROVESCIAMENTI e quindi dell'INVERSIONE, causata appunto dalle "Donne-streghe", di tutti i valori istituzionali della femminilità: per esempio LA SCOPA che non serve più per i "nobili e sedentari" impieghi domestici ma "quale mezzo di spostamento e volo per i campi, onde far del male, come l'unguento terapeutico della tradizionale medicina femminile" divenuto pozione per malefici, come il mondo alla rovescia dei paioli ove non si cuoce il cibo per gli uomini ma qualche zuppa infernale, semmai, per asservire proprio i maschi al volere delle femmine perdute.
























Nel DIRITTO INTERMEDIO vigeva l'ARBITRIO INSINDACABILE DEI GIUDICI specie quando si applicava il RITO STRAORDINARIO (che comportava misure investigative eccezionali, che si valevano facilmente della TORTURA per conseguire l'esito irrinunciabile della CONFESSIONE: i pericoli di totale Arbitrio del giudice tanto per quanto riguarda la GIUSTIZIA DELLO STATO quanto della GIUSTIZIA DELLA CHIESA fu sottolineato dal BECCARIA(cap.XXIX, Della cattura nel Dei delitti e delle pene).
Tale Arbitrio equivaleva, anche, all'uso o no di particolari procedure investigative, mediate sia dalla letteratura criminalistica che dal diritto canonico.
Poichè alcuni giudici si valevano anche nel genovesato ancora nel XVIII, a loro arbitrio insindacabile di forme controverse di prova parecchi autori entrarono in contesa, essendo alcuni a favore dell'utilizzazione di ogni espediente pur di individuare un colpevole mentre altri, più saggiamente, pensavano di doversi attenere ai criteri dettati dalla scienza o comunque dal buonsenso, senza scadere nella superstizione.
Di un tipo di prova (la quale riprendeva sia l'antico tema sacrificale del sangue quanto l' assunto probatorio dell'ordalia o giudizio di Dio), quella per cui che i cadaveri degli assassinati sanguinassero se davanti a loro venissero esposti i colpevoli della loro morte si occupò anche A. APROSIO nella sua Grillaia al cap. XII, pp. 143-144 intitolato se alla presenza dei Micidiarij le ferite degli uccisi mandino fuori il sangue [e peraltro l'agostiniano intemelio vi cita due casi delittuosi nel territorio di Ventimiglia, uno accaduto nel nel 1620 (PAGINA 143, PARAGRAFO 3) quando lui era fanciullo ed un secondo molto dopo, nel 1654 (PAGINE 143-144, DA PARAGRAFO 3): entrambi "svelati" tramite siffatto sistema probatorio).
L'argomento del MAGNETISMO UNIVERSALE fu sempre gestito da APROSIO con estrema prudenza ma anche nella consapevolezza che siffatte riflessioni, per quanto da trattare con attenzione, non determinavano cadute perniciose nell'eresia atteso che i miracoli del sangue, sublimati nel miracolo di San Gennaro ma ad esso non limitati, comportavano postulazioni connesse al Magnetismo Universale
[di cui l'agostiniano parla sotto voce simpatica unione nel Grillo VIII]
e contestualmente coimplicavano riferimenti agli
ESSUDATI DELLE RELIQUIE
come alla
POLVERE SIMPATETICA
[da Aprosio nel Grillo citato ancora menzionata a pagina 104]
e quindi dell'
UNGUENTO ARMARIO
[citato sempre nello stesso Grillo ma a pagina 103, punto 9]
"prodotti" tutti usati terapeuticamente anche da personaggi "al di sopra di ogni lecito sospetto" anche nella cattolicissima Liguria e nel suo stesso Ponente.
Siffatta questione, all'epoca, risulta davvero appassionante tanto che l'agostiniano ventimigliese finisce per trattarne nel Grillo VIII (emblematicamente dedicato a Fortunio Liceti) strutturato in effetti sul tema originario del plagio letterario ma poi, in forza di una capricciosa deviazione intellettuale, sviluppato intorno alle tematiche dell'UNGUENTO ARMARIO, su cui l'agostiniano denota il possesso di molteplici nozioni e soprattutto l'ambizione di venire al corrente della feroce polemica su questa forma di terapia innescata dal gesuita ROBERTI avverso il suo più acceso sostenitore, il celebre scienziato tedesco GOCLENIUS, appunto autore del dibattuto
TRATTATO DELL'UNGUENTO ARMARIO.
Non si trattava infatti di questione da poco ma rimandava semmai ad una discussione filosofica e medica infinitamente più estesa, che contrapponeva la scuola ippocratico-galenica e la spagiria, ma che coinvolgeva anche spiritualità e religione seppur la Chiesa romana, nonostante varie titubanze, giammai giunse a prendere una posizione definitiva.
Aprosio stesso sapeva assai bene che la questione era complessa, che non si fermava certo sulla soglia del diritto penale ma che comportava molteplici discussioni ed interpretazioni.
La più esaustiva fu forse quella espressa nel
DE MAGICA VULNERUM CURATIONE
da
JEAN BAPTISTE VAN HELMONT (HELMONTIUS),
autore peraltro noto ad Aprosio.
Ogni aspetto, compreso quello della prova giudiziale a carico dei micidiarij, rimandava quindi al ben più generale dibattito sulla TEORIA DELLE ANTIPATIE E SIMPATIE TRA MACRO E MICROCOSMO e principalmente alla loro CLASSIFICAZIONE, argomenti in qualche modo antologizzati e sublimati, entro il celebre testo alchemico poi da Aprosio ricevuto in dono da parte del genovese Fransoni, dello scozzese SILVESTRO RATTAY che appunto elencò anche la PROVA GIUDIZIALE menzionata dall'erudito intemelio (e ne citò, assieme a molti altri autori i cui lavori sono allegati nel libro al suo, una propria SPIEGAZIONE [per la precisione da P. 62 IN ALTO] che risulta astratta da ogni tipo di criminale vaghezza inquisitoriale per venire piuttosto innestata in un CONTESTO ALCHEMICO e di MAGIA NATURALE, certamente controverso e comunque soprattutto connesso ai temi dell'UNGUENTO ARMARIO e della POLVERE SIMPATETICA, ma certo non privo di supporti culturali.
Questo straordinario sistema probatorio di colpa (in Italia massimamente studiato da PIETRO SERVIO [vedi!], non a caso amico o quanto meno ambito interlocutore d'Aprosio come s'evince dallo Scudo di Rinaldo I) era stato più volte applicato ad inchieste criminali non comportanti reati avverso la religione anche se parecchi giusdicenti ne avevano criticata l'oggettività: dalla lettura del GRILLO aprosiano, il saggio cioè di un uomo curiosissimo ma caratterialmente refrattario alla violenza fisica, si intravedono i meccanismi di un'affettazione intellettuale entro cui la credenza nella realtà del magnetismo universale (cioè delle interazioni tra macrocosmo e microcosmo sull'asse di antipatia e simpatia: epocalmente innegabile da parte dell'autorità ecclesiastica e dello stesso Santo Uffizio stante in particolare il miracolo di San Gennaro peraltro analizzato anche Aprosio da p.148 nel capitolo XII della Grillaja) vien fatta cautelativamente urtare (come si legge sul FINE DI PAGINA 149, CAPOVERSO 13 e seguenti) con la possibilità di avvalersi lecitamente di tale sistema probatorio (che proprio queste sostanziali brutalità, connesse ad altre violenze investigative siano state alla base di quella rinuncia alla carica di Vicario inquisitoriale, parimenti fatta con molta cautela dall'agostiniano, senza mai parlarne -lui così logorroico- quasi per la paura di essere coinvolto in tematiche per lui sconvenienti se non rischiose?).
Peraltro il penalista Francesco Casone (anche Casoni) di Oderzo, non mancando di suscitarsi critiche da più fronti, scrisse "non stimo che dal dar sangue i cadaveri possa derivare alcun indizio, se non al massimo un ben vago suggerimento ad aprire un'inchiesta. Tale effusione di sangue deriva infatti da ragioni tuttora ignote, che non debbono far trarre la benché minima conseguenza o conclusione. Qualsiasi magistrato resti quindi soddisfatto dal giudicare col buon senso e la prudenza che s'addicono all'uomo savio ed onesto, accantonando quei misteri che spettano unicamente alla Divina Provvidenza: del resto per il bene della legge non occorre sapere più di quanto occorra o serva": e poco dopo Nel XVII sec. il medico fiorentino Giovanni Nardi (citato da Aprosio sia nella Grillaia, entro il capitolo XII, p. 150 e ricordato ne La Biblioteca Aprosiana alla pagina 402) precisando che la fuoriuscita di sangue dai cadaveri dopo un certo tempo dalla morte era fenomeno di studio per medici o scienziati ed in nessun modo, a pro dei giudici, prova di reità d'un accusato) inoltrò questa ammonizione a tutti i magistrati italiani: "Si guardino bene quanti presiedono all'applicazione del diritto di sottoporre alle torture alcun uomo, davanti al quale il cadavere d'un assassinato abbia versato sangue dalle ferite" [passi del Casone e del Nardi, in latino, ripresi e tradotti dal luogo cit. della Grillaia: vedi lo
SCRITTO INTEGRALE
del Nardius nel Theatrum Sympatheticum..., ed. Norimberga del 1662].



























CABALA (= "tradizione"): in ambito teologico con tale termine si indica la dottrina ebraica diretta all'interpretazione simbolica del senso intimo e segreto della Bibbia quale è stato trasmesso per tradizione secondo una catena ininterrota di iniziatori.
In senso estensivo e mediato la CABALA
, che a sua volta deriva dal complesso campo della GEMATRIA
, è entrata a far parte dell'universo, in qualche maniera, parallelo delle arti magiche e divinatorie
, specie se connesse all'arte della NUMEROLOGIA cui non fu nemmeno estraneo ANGELICO APROSIO (soprattutto per influenza dell'erudito spirito toscano di PIER FRANCESCO MINOZZI) nella stesura di vari scritti ed in particolare della CRITTOGRAFIA e dell'ENIGMISTICA a riguardo della sua opera moralistica intitolata LO SCUDO DI RINALDO in cui l'evidenziazione dei segni alfabetici rimandava a calcoli numerici (fatto per cui si può congetturare sulla base d'un passo aprosiano anche una non trascurabile conoscenza delle opere di Giovanni Tritemio).
Nelle forme più grezze la CABALA presume di poter gestire l'arte della DIVINAZIONE attraverso un rapporto di connessioni fra numeri, segni, sogni intesi come presagi da decifrare.
E' da collegare alla CABALA il GIOCO DEL LOTTO che ebbe origine proprio a Genova nel XVI secolo probabilmente per ideazione di un patrizio della città, tale Benedetto Gentile, che applicò questo gioco d'azzardo alle scommesse che venivano fatte sulle elezioni del Senato della Repubblica.
Al gioco veniva però dato anche nome di GIOCO DEL SEMINARIO forse dal luogo in cui originariamente si giocava.
E' anche vero tuttavia che si chiamava URNA DEL SEMINARIO quella in cui venivano deposti i foglietti coi nomi dei candidati da eleggere.
Non passò molto tempo che si sostituirono i nomi dei senatori con quelli dei numeri sì che il gioco divenne quello che di fatto è oggi.
Il consenso ricevuto dalla popolazione (tra la quale era comunque altissima la pratica del GIOCO D'AZZARDO) fu altissimo e permise agli organizzatori privati del LOTTO di gestire enormi guadagni.
Questo fatto attirò l'attenzione dello Stato che si sostituì ai privati istituendo nel 1643 una tassa.
Gli altri governi italiani, vedendo che anche molti loro sudditi si adopravano per giocare al LOTTO GENOVESE, emanarono severissimi bandi con cui si impediva ai non genovesi la partecipazione alla lotteria.
Le leggi non ottennero tuttavia grossi risultati e la partecipazione al gioco genovese di cittadini di altri Stati non venne meno.
I vari sovrani anzi, valutando l'impossibilità di proibirne la frequentazione e valutando i consistenti guadagni che esso garantiva al Governo che lo avesse autorizzato, lo liberalizzarono ed anzi ne assunsero l'esclusiva.
Fu questo il caso di Carlo Emanuele di Savoia che nel 1674 lo cedette in appalto a gestori privati lucrando sull'operazione.
Seguendo un suo piano moralizzatore il successore Vittorio Amedeo lo proibì nel 1713 ma ancora una volta i governanti sabaudi si trovarono a fare i conti con le giocate clandestine.
Per questo motivo, oltre che per trarne un guadagno fiscale, Carlo Alberto, che pure personalmente si dichiarava contrario al "Gioco del Lotto", lo fece ripristinare.
Il Sovrano non poteva infatti rinunciare ad un importante cespite di guadagno, che vigorosamente sosteneva l'erario statale: l'unica concessione al moralismo albertino fu l'imposizione di un limite massimo di giocata, sin al valore di una lira (1835).
Successivamente con R.D. 5-XI-1863 dichiarò mantenuto a vantaggio dello Stato il gioco del Lotto.
Poi (D.L. del 19-VII-1880) il governo venne autorizzato ad emanare due decreti per disciplinare le deroghe alla proibizione generale di svolgere pubbliche lotterie, comminando le sanzioni penali in caso di contravvenzione al divieto nonché per riunire e coordinare in un testo unico le tante disposizioni sin ad allora emanate in materia di LOTTO.




-Johan Daniel MILIUS, oggi misconosciuto, ebbe nel '600 fama di profondo
ALCHIMISTA
amplificata da una certa alea di mistero che lo fece spesso confondere coll'idea del mago: il suo destino non fu inconsueto, era uno di quegli autori che tutti volevano leggere, ma in segreto, e che in pubblico tutti negavano di voler seguire (fu un poco come avvenne in campo medico per T.Z. Bovio medico paracelsiano tacciato di magia ma che operò pubblicamente anche a Genova, addirittura a Banchi e pure a servizio di potenti, e che per quanto venisse chiamato e ci si avvalesse spesso positivamente delle sue terapie si negava d'averne conoscenza parimenti per una certa sua nomea di mago; destino peraltro comune anche all'altro ancor più noto medico spagirico L. Fioravanti, in pubblico definito ciarlatano se non stregone ma in privato invocato anche per il reale successo di parecchi suoi interventi terapeutici).
Johan Daniel MILIUS fu in particolare autore di un'opera oggi rarissima, corredata di varie immagini di esperimenti condotti per la ricerca della PIETRA FILOSOFALE: Anatomia Auri sive Tyrocinium Medico-Chymicum. Continens in se partes quinque: Quarum I. Tradit concordantiam & harmoniam Solis coelestis cum Auro Terrestri: item Auri definitionem & confusam multorum Phisycorum de Auro opinionem; II. Agit de Medicinis aureis & Receptis antiquorum ac recntium Medicorum, Aurum ingredientibus, tam in simplici quam in preparata forma; III. Tractat de Auri potabilis praeparatione tam vulgari, quan Philosophica; IV. Exibet usum Medicinalem Auri potabilis tam communis quam veri & Philosophici; V. Demonstrat ideam Lapidis Phliosophici in duodecim figuris, Francofurti, sumptibus Lucae Iennisi, 1628: in 4°, bell'antiporta in rame con figure allegoriche ed astrali; pp.26, 204, 27. Stemma nobiliare in rame a piena pagina nel testo: 6 curiose tavole nel testo in rame con diverse figure. Prima edizione.
L' esemplare che si è studiato (coll. privata, di metà '700, legato in pergamena coeva, in 4°, di pp.70-48-168, con diversi disegni) esamina la CABALA in quanto strumento di DIVINAZIONE e PREVISIONE DEL FUTURO.
Nella prima parte si danno chiavi numeriche dell'alfabeto latino, greco ed ebraico in cui si spiega il metodo per formare le PIRAMIDI NUMERICHE e spiegarle.
Nella II parte del lavoro sono anche illustrate le NOVE TAVOLE dei NUMERI SIMPATICI, quelli che servono per il GIOCO DEL LOTTO.






PIETRA FILOSOFALE: la GRANDE PIETRA o PIETRA FILOSOFALE sarebbe lo strumento principe a al tempo stesso il fine ultimo della
RICERCA ALCHIMISTICA.
La sua fabbricazione renderebbe possibile la realizzazione di quella tintura o polvere di proiezione che potrebbe trasmutare qualsiasi sostanza dallo stato naturale e fisico alla perfezione assoluta. Esistono controversie su cosa si debba intendere per pietra filosofale. Secondo la tesi corrente o meno colta la "pietra filosofale" in quanto materia prima giunta alla pienezza della maturità sarebbe da identificarsi con la sostanza, presumibilmente minerale, che permetterebbe di trasmutare in oro ed argento qualsiasi metallo vile. La riduzione liquida della "pietra filosofale" consentirebbe poi di realizzare l'elisir di lunga vita o panacea universale: questo liquido conterrebbe tutti i principi vitali della natura. Ben diverse sono le interpretazioni psicologica e transpsicologica della pietra filosofale. Entrambe le correnti vedono nella pietra filosofale il termine trionfante di un processo di ascesi entro e oltre le forme della natura e della fisicità. Per i sostenitori dell'interpretazione psicologica la pietra consentirebbe di giungere all'estremo livello della conciliazione della coscienza individuale con le fasi dell'inconscio. Per i teorici dell'interpretazione transpsicologica il simbolismo espresso dall'azione della pietra filosofale alluderebbe all'atto con cui il singolo può pervenire a stati di coscienza coagulanti salvezza e potere, principio che necessariamente rimanda ad un'impostazione esoterica e gnostica di questa "scuola" interpretativa della pietra filosofale.













GIOVANNI ARGOLI nacque il 1 luglio del 1606 a Tagliacozzo, da una famiglia che, secondo il Moreri, il Crescenzi ed altri, sarebbe originaria di Arles in Provenza.
E' da credere che si rivelasse ben presto un precoce prodigio nel campo letterario, se a soli dodici anni aveva già scritto un lungo idillio pastorale a sfondo allegorico come annotò Angelico Aprosio ne la sua Biblioteca Aprosiana..., menzionando poi la corrispondenza tra loro intercorsa anche se la riprova delle relazioni dell'Argoli con il contesto culturale veneziano si evincono da altro passo della Biblioteca Aprosiana laddove Aprosio ne fece citazione come compartecipe di un'iniziativa culturale in qualche modo connessa alle disquisizioni culturali sviluppatesi in merito alla
polemica femminismo-antifemminismo.
Presso la Biblioteca Universitaria di Genova sono consultabili nel "Fondo Aprosio - epistolario dei corrispondenti"
lettere di Giovanni Argoli
scritte al frate ventimigliese per il periodo intercorrente fra il 1642 ed il 1646, quindi nel periodo in cui Aprosio si dedicò alla stampa della sua
SFERZA POETICA...
di cui intilò proprio a Giovanni Argoli
l'
INTRODUZIONE
che risulta interessante alla stregua di un manifesto letterario e programmatico utile al fine di chiarire tempi e modi della sua adesione al marinismo quanto all'ancor viva polemica avverso Tomaso Stigliani.
E per intendere le connessioni aprosiane a tale temperie spirituale basta peraltro scorrere l'elenco dei dedicatari dei capitoli dell'opera, elenco non casualmente seguito da una composizione lirica in latino di Pirro Mozzi Canfesceni pseudonimo-anagrammato del nome di un estremista teorico della bizzarria poetica qual fu Pier Francesco Minozzi.
Attratto dalla fama dell'Argoli il frate ventimigliese, in un tempo successivo, gli dedicò anche un capitolo dello Scudo di Rinaldo - parte I e progettò di parlarne anche nello Scudo di Rinaldo parte II, destinato a rimanere inedito, internamente al capitolo I (Sull'abuso degli specchi) quello dedicato al patrizio genovese TOMASO ODERICO e che sulla base d'un'analisi testuale risulta esser stato anche il
primo di tale opera a venire redatto.
Ritornando a parlare dell'esperienza esistenziale di Giovanni Argoli occorre dire che ancora adolescente si trasferì a Roma col padre, valente matematico, e di lì a Padova nel 1632, dove si laureò in utroque iure.
La sua vera e più profonda passione rimase comunque sempre quella per le lettere, tanto che all’età di 31 anni, previa presentazione del cardinale Bissia, fu chiamato alla seconda cattedra di Litterae humanae presso l'Università di Bologna.
I signori Assunti dello Studio bolognese con la loro relazione sul giovane talento ne hanno lasciato un disegno interessante dal lato critico:
"Il sig. Giovanni Argoli, gentiluomo di trentadue anni, ha, oltre lo studio delle leggi, nelle quali si dottorò, una squisita erudizione di Lettere Toscane Latine e Greche, non senza qualche cognitione, ancora, dell’Hebraiche; fu però il suo studio particolarmente sopra le cose Humane, nelle quali ha alzato grandissimo grido. Essendo di dodici anni dedicò al Serenissimo Principe Cardinale di Savoia l'Idillio della Bombace e della Seta, Trasformationi Pastorali: di 18 compose, imitando l'Adone del Marino, il suo poema dell’Endimione, ch’usci alle stampe dell'anno 1626. Venuto avanti poi nell’età ha scritto, conforme nota l'Allacci nelle sue Api Urbane a car. 144 e 260 lin. 13, dove egli raccoglie il catalogo dell’opere di questo ingegno, le seguenti composizioni: In stil latino: Vita columellae, Vita Q. Curtis Rufi, In auctorem ad Erennium animadversiones, Philippica Ciceronis nomine in M. Antonium, De aqua Martia libellus, Commentar. in Tacitum, Notae in Juvenalem et Persium, Indagines ubi expunctiones Auctorum ac eorum mendae continentur. In verso latino: De armamentario navali veneto poemation, De stipe Neptuni vulgo sponsalitio del Mare in Venetia poem., De pegmate subitariae navis poemation, Epulae Principis Veneti, Elegiar. liber, Epigrammaton lib. 2, De morte Neronis earmen, Suasoriae militum ad Alexandrum Magnum ne intret Oceanum. In verso toscano: Un canto della Gerusalemme distrutta, sonetti, canzoni, madrigali.
Ha tradotto dal latino in toscano: La discordia di Petronio Arbitro in ottava rima, Il Pontano de Stellis in verso sciolto. Dal greco: La Jatro, Laurea dell’Allacci. Traduce hora li Commen ti di Eustatio Arcivescovo di Tessalonica sopra Dionisio d’.Alicarriasso e Theone sopra Auto. Vien lodato questo ingegno in più luoghi dagli autori di questa età: come dal P. Tomasini nella vita del Petrarca, in due luoghi - da Gio. Rodio, nel Trattato ch’egli fa dell’Accia - da Baldassarre Bonifacei nella Epig. che si legge nell’Api Urbane a car. 261 - da Gabriel Nande francese nel suo Sintamma Militare - da Fortunio Liceto ne’ Dialoghi e da molti altri. Fu aggregato all’accademia degli Humoristi in Roma, in quella del signor Cardinale Barberini di lingua greca portatovi da soggetti Emin.mi, in quella dei Ricoverati di Padoa, dove ebbe i primi carichi, nell'una e l'altra degl’incogniti in Venetia, nelle quali tutte vivono onorate memorie di lui. E il detto sig. Argoli figliuolo di Andrea Argoli, c’hora legge le Matematiche nello studio di Padoa, autor delle Tavole del Primo e Secondo Mobile e dell’Efemeridi, gentiluomo di nascita e di costumi honoratissimi
".
Fu in considerazione dei suoi alti meriti, dunque, che il 22 dic. 1637 fu deciso dal senato accademico di chiamare excellentem D. Doctorem Johannem Argolum di Taliacozzio ad secundam litterarum Humanarum Cathedram... idque ad triennium .
Scaduta la nomina, l'Argoli nell’estate del 1639 si portò a Padova per trattenesi ivi per alcuni negotii con suo padre.
Tornato a Bologna, potè avere la conferma dell’incarico solo dopo una pressante raccomandazione del card. Barberini.
Infatti, il 26 nov. 1640 i Signori del Reg.to di Bologna, convinti che il soggetto raccomandato e di profonda eruditione e persona che ha letto assai e che e in concetto di saper molto, si dichiarano favorevoli a confermarlo. Per anni cinque col primiero Honorario di L. 1500 e coll’esentione Urbana di più, purché egli legga all’avvenire anco privatamente in casa, come richiede la qualità della soggetta materia per beneficio degli scolari .
Solo però nel gennaio 1642 il Senato accademico richiamò D. Jo. Argolum a Taleacotio ad humanarum litterarum lecturam in Archigymnasio pubblice profitendam idque ad quinquennium (1).
Benché nominato per un quinquennio, tuttavia il suo nome si trova solamente registrato nel rotulo di quell’anno. Perocché, applicatosi nuovamente allo studio della legge, sostenne diverse dignità ed impieghi nello Stato della Chiesa, fra i quali, merce il favore del Cardinale Antonio Barberini, quello di Podestà di Cervia e poi di Lugo (2). Non si sa altro di notevole della sua vita.
Secondo il Papadopoli e il Mazzucchelli, morì nel 1660.
Per avere un elenco completo delle opere scritte dall’Argoli, a quelle sopra citate bisogna aggiungere le seguenti altre ricordate dal Minieri Riccio:
1) Onuphrii Panvini etc. De ludis circensibus libri 2; De triumphis lib. I etc. cum not. Jo. Argoli etc., Padova 1642, in fol.;
2) Epistula de lapide speculari etc. (a pag. 112 nel libr. Responsa de quaesitis per epist. a claris Viris di Fortunio Liceto, Bologna 1640, in 4”);
3) Epistula de templo Dianae Nemorensis (nel volume XII del Thes. Antiq. Roman. del Grevio);
4) Alcuni versi latini sopra un’antica mensa di cui si servi il Petrarca (a pag. 142 del Petrarcha redivivus del Tommasini);
5) Epithalamiun in nuptiis DD. Taddaei Barberini et Annae Columnae, Sonetti (a pag. 592 delle Tre Grazie di Antonio Bruni, Roma 1630, in 12’);
6) Epigramma latino (in fronte all’opera del padre Exactissimae coelestium motum ephemerides, Padova 1648, in 4 );
7) Un opuscolo antiquario inserito dal Tommasini nell'opera De Donar. cap. 2 e 34 (cfr. : A. L. Antincri, opere mss., Biblioteca Provinciale dell’Aquila) .
Giorgio Morelli ha poi individuato tra i manoscritti del cod. Barberiniano Latino n. 3901, una Canzone in lingua rustica cicolana di Giovanni Argoli, che Vittorio Clemente ha poi illustrata su Regione Abruzzese (n. agosto 1967), rilevandone l'importanza non tanto per il contenuto, quanto per la validità del vernacolo che l’autore ha usato con forme sincretiche e condensazioni poetiche.
NOTE
1) Tutti i documenti citati o di cui si fa cenno, furono raccolti nell'Archivio di Stato di Bologna Assunteria di Studio. Essi sono riportati integralmente nell’opera di V. Balzano I legisti ed artisti abruzzesi lettori nello Studio di Bologna , 1892.


































CORSARO> a termini di diritto pubblico e commerciale, passa fra "pirata" e "corsaro" una sostanziale differenza, comunque poco avvertita dall'opinione pubblica tesa a confondere i due termini: il "Corsaro" può infatti essere legalmente autorizzato mercé le "lettere di marco" (o "patenti"), durante una guerra marittima, a dar la caccia a bastimenti nemici, mentre il "Pirata" è sempre fuori della legge ed assale qualunque nave senza distinzione di nazionalità> "Diz. univ. dell'economia polit. e del comm." del "BOCCARDO" (il cap.27 del
lib. II dei Libri Criminali di Genova di metà 500 -editi come qui si vede sotto titolo di Figliastri di Dio,"a coda d'una bestia tratto dalla non più esistente casa editrice Coopers- di metà '500 (articolo che detta dal latino, come tutto il testo in cui è redatto, la frase Quod nemo piraticam exerceat: nec furetur in littore maris lascia intuire qualche concessione senatoriale su forme di "pirateria di stato" che rimandano alla vaga idea del "Corsaro": il termine PREDONE = chi ruba ed estorce con violenza, minacce, rapine e saccheggi è da intendere quale brigante da strada, masnadiero di una banda organizzata ma nel genovesato risulta anche sinonimo di Pirata -mai di Corsaro- quale "brigante di mare".
PIRATA dal latino pirata, a sua volta dal greco, nel valore di "provo, tento, assalto" è termine di origine indoeuropea> "chi esercita" la Pirateria o "brigantaggio marittimo".
Contro i Pirati (e soprattutto i Pirati turcheschi per quanto organizzati in una possente flotta al servizio del Solimano sì da praticare la pirateria come alterativa alla lotta "ufficiale" con la Cristianità) che flagellarono l'Italia e la Liguria, ma con una formidabile e vittoriosa resistenza a Taggia, celebrata in un poema di Nofaste Sorsi alias Stefano Rossi) la Repubblica di Genova organizzò o potenziò, per gran parte del litorale rivierasco, una trama di fortezze, in parte armate di cannoni in parte destinate a dar ricetto alla popolazione, a guardia del mare ed in contatto visivo tra loro per via di comunicazione con segnali luminosi> DURANTE - POGGI - TRIPODI, I "graffiti della storia": Vallecrosia e il suo entroterra, Erio,s ed., Vallecrosia, pp.135-140 e pp.153-156.
Nonostante questo sistema difensivo ancora nel '600 A. Aprosio fu limitato nei suoi viaggi per mare dal timore di incursioni piratesche o di Corsari.
In una lettera del 1673 il nobile genovese Gio.Nicolò Cavana scrisse all'Aprosio: "...Quando Vostra Paternità Molto Reverenda è in viaggio sempre sto attendendo avviso del Suo arrivo con quell'ottima salute che Le viene da me desiderata; spero quanto prima sentire sia giunta in Ventimiglia vedendo dall'amabilissima Sua come era in Savona e come li corsari si facevano sentire..."(difficile dire se il Cavana alludesse alle ultime tracce di Pirati turcheschi o d'altre potenze o se confondesse la voce Corsari con quella di Pirati: è comunque evidente che ancora a fine '600 un viaggio per mare tra Savona e Ventimiglia poteva essere un azzardo per il rischio di quegli attacchi briganteschi già denunciati e perseguiti nei capi 27, 28, 29 del libro II dei Libri Criminali genovesi del '56> lettera datata Genova, 20-V-1673, in Civ. Bibl. Apros. di Ventimiglia in MS. 40, "scritti diversi", carta 4 recto.
La PIRATERIA sopravvisse comunque a rivoluzioni ed a trasformazioni giurisdizionali: di essa si può ancora leggere
per esempio nel Codice per la marina mercantile del Regno d'Italia del 1865.




































Aprosio lo si può studiare sotTo mille prospettive, essergli favorevoli o per lo più criticarlo specie limitandosi a studiare il giardinetto della critica antistiglianea (che sostanzialmente gli era poi servito per accedere nei ruoli alti della cultura che conta, quella egemonica: nulla di nuova sotto il sole, senza scrupolo si agisce così tuttora = adeguamento al potere culturale dominante ed un pizzico di capacità garantiscono almeno un buon, momentaneo successo).
Ma Aprosio non era questo, o meglio non era solo questo.
Attraverso il tempo egli maturò soprattutto una grande capacità, derivata dalla sua mostruosa bibliofilia, quella del grande e moderno bibliotecario, del bibliotecario per cui la cultura non è solo, direbbe Umberto Eco per bocca dei suoi personaggi dal Nome della Rosa,
mera conservazione del sapere
ma piuttosto sua
amplificazione ed espansione
ancor meglio se per il tramite di una grande
biblioteca come l'Aprosiana di Ventimiglia
in grado di custodire l'antico ed accogliere il nuovo, selezionando senza fretta ma anche privi di inerzia, individuando i
plagiari
, vera feccia della cultura,
ma soprattutto salvaguardando dalla colpevole dispersione
(di cui si macchiò anche lo scolasticamente decantato, ma giammai senza mende, illuminismo)
quelle tante opere magari in certi tempi obliate per varie e non sempre corrette motivazioni quanto in altre destinate ad esser disperatamente cercate per un irrinunciabile recupero,
diventare in definitiva quale
moderno bibliotecario e maestro di biblioteconomia
(e questo mai si dimentichi perché D. A. Gandolfo suo successore ne ereditò assolutamente la mentalità) una vera e propria
"tromba delle glorie altrui",
un'idea che in vero non fu solo d'Aprosio né da lui per primo coniata ma che certo egli sentì profondamente, come un senso della sua vita, un senso da rispettare e forse anche, in queste epoche di buio intellettuale, da ammirare, emulare e proporre.














La valutazione di DIVERSITA' nel DIRITTO INTERMEDIO era estrema tanto da poter proporre un PRIMO FONDAMENTALE INDICE SULLE PRESUNTE CATEGORIE DI DIVERSI
e ciò fu alla radice anche giustificatoria ed istituzionale di ogni forma di
EMARGINAZIONE-PERSECUZIONE DI TANTI PRESUNTI "DIVERSI" RITENUTI "ATTENTATORI ALL'ORDINE ISTITUZIONALE": TANTO NUMEROSI DA RENDER NECESSARIA LA STESURA DI QUESTO INDICE IN ORDINE ALFABETICO.
Primi per rilievo socio-cuturale ed economico tra i così detti DIVERSI erano da sempre gli EBREI DI CUI QUI SI PROPONE
L'ANTICA, COMPLESSA E SPESSO TRAGICA STORIA.
Tra tanti altri "diversi" variamente "perseguiti" una peculiare condizione di DIVERSI era attribuita ai NOMADI cui si attribuivano PRATICHE ILLECITE SIA IN SENSO PURAMENTE CRIMINALE CHE PRETRNATURALE: e ad essi ancora ai primi del XVIII secolo il giurista e teologo francescano padre Lucio Ferraris attribuiva la nomea di MALI HOMINES alla voce ZINGARI - ZINGARAE da lui sviluppata nella sua monumentale BIBLIOTHECA CANONICA....
Oggettivamente i 12 paragrafi in cui il Ferraris sviluppa l'argomento sono un concentrato di verità e credulità connesse alla STORIA DEGLI ZINGARI: in primo luogo l'autore li ritiene, sulla base di vari interpreti, dediti, specie fra la gente di umile condizione, alla pratica perseguibile dal Sant'Ufficio della DIVINAZIONE.
Soppesati i vari testi della sua sterminata bibliografia l'autore giunge però di seguito a due conclusioni; la perseguibilità degli ZINGARI è lecita qualora cadano nella pratica di SORTILEGI che comportino la violazione delle sacre leggi sin al crimine di SACRILEGIO ma, se non sussiste coinvolgimento di sacri argomenti, ad essi non è ascrivibile alcun reato e tutto il loro agire può esser dimensionato nel campo della BUFFONERIA (ma a questo punto si innescava una catena perversa per cui tutti quanti lavoravano da nomadi come mercanti di meraviglie nelle fiere cioè GIOCOLIERI CIRCENSI, ILLUSIONISTI, BIRBANTI, ORSANTI, AMMAESTRATORI DI ANIMALI, SALTIMBANCHI ECC. ECC.
finirono per esser definiti ZINGARI MA QUASI SEMPRE NELL'ACCEZIONE NEGATIVA ORAMAI ASSUNTA DA TAL NOME).
Per quanto riguarda i Cristiani che consultano gli ZINGARI per la previsione del futuro sempre di seguito l'autore precisa che peccano mortalmente se ad essi si rivolgono con credulità e ferma volontà di violare i segreti del tempo mentre peccano venialmente se tutto si riduce ad una consultazione fatta magari durante i giorni di fiera o festa allo scopo di ridere e divertirsi senza prestar fede alcuna a quanto predetto.
Continuando a parlare di ZINGARI e ZINGARE [di cui, ignorando l'esatta provenienza e la componente etnica, l'autore precisa esser ufficialmente da nominarli EGIZIANI (risultando quello di ZINGARI solo un appellativo volgare e popolareggiante dervante dall'alterazione del greco medievale athigganos nel significato di "intoccabile")] Lucio Ferraris indugia su una questione puramente burocratica, quella per cui gli ZINGARI (sulla cui credibilità qual TESTIMONI erano da tempo posti molti divieti) son da giudicare TESTIMONEI IDONEI a provare lo stato di celibato per altri ZINGARI che intendano contrarre matrimonio.
Successivamente l'autore afferma che chi compra dagli ZINGARI qualsiasi cosa deve preoccuparsi, senza rientrare in possesso del denaro sborsato, di restituirla all'autentico padrone: simile postulazione verte sul fatto che una vasta tradizione giuridica ha attribuito agli ZINGARI la storica PRESUNZIONE DI FURTO: si aggiunge nel testo che essi, in conformità della licenza concessa dalla legge con cui si regolano, EDUCANO I FIGLI a perpetrare il FURTO come CONFESSATO DA UNO ZINGARO SOTTOPOSTO AD ESAME INQUISITORIALE E POI PROCESSATO - verisimilmente dopo esser stato sottoposto a TORTURA - alla maniera esplicitata dal giureconsulto romano Domenico Orsaio (sec. 17-18) nelle sue Institutiones criminales usui etiam forensi accommodatae quatuor libris absolutae in quorum primo agitur de criminibus mere ecclesiasticis. In secundo de criminibus mere saecularibus. In tertio de criminibus mixti fori. In quarto exponuntur aliqua omnibus criminibus communia. Authore Dominico Ursaya ...Editio innovata, tertia plus parte auctior...., Romae : ex typographia Ioannis Francisci de Buagnis, 1706.
Constatazione che induce di seguito il Ferraris a proporre, anche per furti di relativa entità, l'applicazione avverso gli ZINGARI di PENE ESEMPLARI.
Siffatta severità avverso gli ZINGARI in CHIUSURA DELLA VOCE dapprima viene dal Ferraris sancita su basi esclusivamente laiche: egli in particolare ( dopo aver rammentato una serie di reati attribuiti agli ZINGARI tra cui quali l'esser PERPETRATORI DI INGANNI, LADRI, TRADITORI, RAPITORI per lucro e guadagno) cita un EDITTO del 1549 con cui l'IMPERATORE CARLO V ordinò di perseguirli quali SPIE E TRADITORI DEI CRISTIANI A VANTAGGIO DEI NEMICI TURCHI.
Ad integrazione di quanto detto il Ferraris cita quindi nello stesso luogo altri provvedimenti per cui, a causa di reati morali e di ladrocinii, sarebbero stati cacciati dal Regno di Napoli e dallo Stato della Chiesa.
A questo punto l'autore sulla BASE DELLA COSMOGONIA BIBLICA E DELLA CREAZIONE SECONDO LA GENESI elabora una sorta di giustificazione "scientifica" della MALVAGITA' INTRINSECA NEGLI ZINGARI essendo DISCENDENTI DI CAINO ed avendo negato alla VERGINE MARIA FUGGIASCA DALLA GIUDEA PER LA PERSECUZIONE DI ERODE LA LORO OSPITALITA' NEL NATIVO EGITTO come registrato sulla base di alcune fonti, poi sorprendentemente confutate, da Giovanni Domenico Rinaldi nell'opera Jo. Dominici Raynaldi ... Observationum criminalium, civilium et mixtarum liber primus -tertius! ... Cum additionibus ac suppletionibus seorsim antea impressis ... necnon indicibus argumentorum ac materiarum accurate congestis, Venetiis : apud Paulum Balleonium, 1699: autore però il Giovanni Domenico Rinaldi ulteriormente ripreso dal Ferraris onde sostenere che presso i TURCHI per pubblica sanzione sarebbe concesso agli ZINGARI di far esercitare liberamente alle proprie donne la PROSTITUZIONE.


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