PIETRO SARPI nacque a Venezia nel 1552; giovanissimo entrò nell'ordine dei Serviti, assumendo il nome di Paolo; si distinse presto per le sue capacità di studioso, sia nel settore umanistico sia in quello scientifico, come ebbero modo di osservare i suoi amici Fulgenzio Micanzio (suo primo biografo) e Galileo Galilei (Sarpi, in età matura, fu artefice dei rapporti che Galileo ebbe con il governo veneziano in merito al telescopio). CONSIDERAZIONI SOPRA LE CENSURE DELLA SANTITA' DI PAPA PAULO V CONTRO LA SERENISSIMA REPUBLICA DI VENEZIA Stimò sempre la Repubblica di Vinezia che il fondamento principale d'ogni imperio e dominio fosse la vera religione e pietà, et ha conosciuto per grazia singolare di Dio l'esser nata, educata et accresciuta nelvero culto divino, il quale ella ha con molta sollecitudine procurato sempre di accrescere, specialmente con fabricar molti edifici sacri, e quelli adornare magnificamente, provedendoli di condecenti ministri, e ricevendo quegli ordini di religiosi, che i tempi sono andati producendo nella Chiesa catolica.
Nel 1572 assunse vari incarichi presso i Gonzaga di Mantova, tra i quali quello di teologo di corte; successivamente ricoprì anche prestigiose cariche all'interno dell'ordine religioso di cui faceva parte.
Sostenendo gli ideali di una Chiesa aliena da interessi materiali e politici,
PAOLO SARPI
entrò in contrasto con le autorità ecclesiastiche controriformistiche, tanto che nel 1607 venne scomunicato, coinvolgendo nello scontro con Roma la Repubblica di Venezia, presso la quale operava come teologo e canonista; nello stesso anno, proprio per le sue idee antipapali, subì un grave attentato descritto dal discepolo F. Micanzio: cui sarebbe seguito un altro ma fallito attentato.
Nell'opera Storia dell'interdetto, il cui argomento è proprio il conflitto tra papa Paolo V e Venezia, Sarpi riaffermò, modernamente, la necessità di separare il potere spirituale da quello temporale.
Di questa ponderosa vicenda "dell'Interdetto" si è pensato di riprodurre qui le
CONSIDERAZIONI SOPRA LE CENSURE DELLA SANTITA' DI PAPA PAULO V CONTRO LA SERENISSIMA REPUBBLICA DI VENEZIA
che a giudizio di Gaetano Cozzi "tra le opere a stampa composte dal Sarpi durante la contesa dell'interdetto...ci è parso, quella dove si realizza una perfetta fusione dell'esposizione dei termini tecnico-giuridici della contesa, con l'impostazione delle premesse e del suo contenuto religioso, e con una concezione moderna del principe e dello stato e delle loro prerogative politiche e religiose".
L'opera più celebre del Sarpi, pubblicata a Londra nel 1619 con lo pseudonimo di Pietro Soave Polano, è l'Istoria del Concilio tridentino, nella quale si analizza mezzo secolo di storia della Chiesa, cercando di individuare con obiettività ed equilibrio le cause del rafforzarsi delle mire temporali delle gerarchie ecclesiastiche.
Il suo stile, caratterizzato da semplicità strutturale e dall'uso di un registro linguistico medio, rifugge la ricercatezza retorica tipica del suo tempo, nell'evidente intento di farsi comprendere da un vasto pubblico.
Paolo Sarpi morì a Venezia nel 1623.
Bibliografia:
Bianchi - Giovini, Biografia di Fra Sarpi (Brussels, 1836);
Campbell, Vita di Fra P. Sarpi (Torino, 1880);
Balan, Fra P. Sarpi (Venezia, 1887);
Pascolato, Fra P. Sarpi (Milano, 1893).
Note biografiche a cura di Giuseppe D'Emilio e Carmela D'Orazio.
Maledicent illi, et tu benedices
Psalm. CVIII
INDICE TEMATICO
1 - REPUBBLICA DI VENEZIA: RAPPORTI ISTITUZIONALI STATO CHIESA
2- REPUBBLICA DI VENEZIA: ECCLESIASTICI GIUDICATI DALLA GIUSTIZIA ORDINARIA
3 - REPUBBLICA DI VENEZIA: RISCHI DI SMODATI ARRICCHIMENTI ECCLESIASTICI A SCAPITO DI CASATE LAICHE
4 - REPUBBLICA DI VENEZIA: PROVVEDIMENTI FATTI AL FINE D'IMPEDIRE ARRICCHIMENTI ECCLESIASTICI A SCAPITO DI CASATE SECOLARI
5 - REPUBBLICA DI VENEZIA: APPROVAZIONE DI SIFFATTI PROVVEDIMENTI SINO AL PONTEFICE ROMANO CLEMENTE VIII INCLUSO
6 - REPUBBLICA DI VENEZIA: IMPREVISTA PRESA DI POSIZIONE DEL PONTEFICE ROMANO PAOLO V, SUCCESSORE DI CLEMENTE VIII DAL 1605, CONTRO I VINCOLI AGLI ACCLESIASTICI D'ACQUISIRE IMMOBILI
7 - REPUBBLICA DI VENEZIA: IMPREVISTA PRESA DI POSIZIONE DEL PONTEFICE ROMANO PAOLO V, SUCCESSORE DI CLEMENTE VIII DAL 1605, CONTRO L'AFFIDAMENTO ALLA GIUSTIZIA DELLO STATO DI ECCLESIASTICI REI DI GRAVI DELITTI
8 - REPUBBLICA DI VENEZIA: BREVI DI PAOLO V AI REGGENTI DI VENEZIA CONTRO LA PROIBIZIONE AGLI ECCLESIASTICI D'ERIGERE STABILI SENZA LICENZA E DI DOVER SOTTOSTARE SEMPRE GLI ECCLESIASTICI ALLA GIUSTIZIA ORDINARIA PER REATI GRAVI
9 - REPUBBLICA DI VENEZIA: RISPOSTA DEL SENATO REPUBBLICANO AI BREVI DI PAOLO V
10 - REPUBBLICA DI VENEZIA: CONSIDERAZIONI DI FRA P. SARPI
11 - REPUBBLICA DI VENEZIA: CONCETTO DI LIBERTA' ECCLESIASTICA NELLE CONSIDERAZIONI DI FRA P. SARPI
12 - REPUBBLICA DI VENEZIA: CONCETTO DI LIBERTA' DELLA CHIESA, IN ANTICO DA INTENDERSI LIBERTA' SIA DI ECCLESIASTICI CHE DI LAICI, MODERNAMENTE FRAINTESO CON QUELLO DI LIBERTA' ECCLESIASTICA, CIOE' DI LIBERTA' DEGLI ECCLESIASTICI SOLTANTO, NELLE CONSIDERAZIONI DI FRA P. SARPI
13 - REPUBBLICA DI VENEZIA: CONCETTO INDETERMINATO DI LIBERTA' ECCLESIASTICA: DISORDINE CONCETTUALE IN MERITO SECONDO FRA P. SARPI
14 - REPUBBLICA DI VENEZIA: DIMOSTRAZIONE SARPIANA CHE LA LIBERTA' ECCLESIASTICA NON E' ALTERATA DALLE ISTITUZIONI VENEZIANE
15 - REPUBBLICA DI VENEZIA: SULL'EREZIONE E/O ALIENAZIONE DI STABILI ECCLESIALI
16 - REPUBBLICA DI VENEZIA: SULLA CAUTELA NELL'INTRODURRE IN UNO STATO NUOVI ORDINI RELIGIOSI E SULLE OPPORTUNE LICENZE
17 - REPUBBLICA DI VENEZIA: OPPORTUNITA' ONDE CONCEDERE LICENZA D'EREZIONE DI VALUTARE TANTO IL RILIEVO STRATEGICO DEL SITO DELLA NUOVA CHIESA O MONASTERO QUANTO IL SUO DECORO MORALE
18 - REPUBBLICA DI VENEZIA: SIA LA CITTA' CHE IL DOMINIO DI VENEZIA HANNO UN ADEGUATO NUMERO DI EDIFICI RELIGIOSI BEN CURATI E CUSTODITI
19 - REPUBBLICA DI VENEZIA: IL SARPI ANALIZZA ORA LA LEGGE DEL 1605 CHE PROIBISCE AI LAICI DI ALIENARE STABILI A FAVORE DI ECCLESIASTICI
20 - REPUBBLICA DI VENEZIA: IL SARPI IN MERITO ALLA LEGGE DEL 1605 DIMOSTRA CHE IL PRINCIPE DELIBERA SU COSE DI SUA PERTINENZA E NON DI PERTINENZA ECCLESIASTICA
21 - REPUBBLICA DI VENEZIA: IL SARPI IN MERITO ALLA LEGGE DEL 1605 SOSTIENE CHE GLI ECCLESIASTICI NON DEBBONO, PER IL BENE DELLA CHIESA STESSA, POSSEDERE IL SUPERFLUO
22 - REPUBBLICA DI VENEZIA: RIPARTIZIONE DEI FONDI ECCLESIASTICI PER I DIVERSI SERVIZI
23 - REPUBBLICA DI VENEZIA: NON E' PERALTRO DA ECCLESIASTICI MERCANTEGGIARE ED ESERCITARE OPERE DI COMPRAVENDITA
24 - REPUBBLICA DI VENEZIA: OPPORTUNITA' DEL SENATO VENEZIANO DI LEGIFERARE AL FINE DI MODERARE LA CONCENTRAZIONE DI RICCHEZZE IN MANO A POCHI ECCLESIASTICI
25 - REPUBBLICA DI VENEZIA: DEGENERAZIONE NELL'USO DELLA RICCHEZZA DEI MODERNI ECCLESIASTICI A FRONTE DEGLI ANTICHI PADRI
26 - REPUBBLICA DI VENEZIA: NON EQUA RIPARTIZIONE DI BENI E RENDITE FRA GLI ATTUALI ECCLESIASTICI
27 - REPUBBLICA DI VENEZIA: DEGENERAZIONE MORALE DEL CONCETTO DI "ACQUISTO ECCLESIASTICO"
28 - REPUBBLICA DI VENEZIA: CENSURA SARPIANA AGLI ECCLESIASTICI SUOI CONTEMPORANEI
29 - REPUBBLICA DI VENEZIA: ELENCO DI LEGGI CHE ATTRAVERSO LA STORIA HANNO REGOLATO I POSSEDIMENTI ECCLESIASTICI, GLI ACQUISTI, LE DONAZIONI ECC.
30 - REPUBBLICA DI VENEZIA: LA LEGGE CONTESTATA DA PAOLO V E LE SUE SOLIDE BASI GIURIDICHE
31 - REPUBBLICA DI VENEZIA: DIFETTI INTRINSECI ALLA CENSURA DI PAOLO V AVVERSO LE LEGGI VENEZIANE
32 - REPUBBLICA DI VENEZIA: LA POTESTA' SPIRITUALE DEVE SOSTENERE QUELLA TEMPORALE, NON SOSTUIRSI AD ESSA
33 - REPUBBLICA DI VENEZIA: FORO LAICO E FORO ECCLESIASTICO (IL CASO DEI DUE ECCLESIASTICI IMPRIGIONATI DALLA GIUSTIZIA DELLO STATO)
34 - REPUBBLICA DI VENEZIA: DIBATTITO SUL DIRITTO DI FORO ECCLESIASTICO: RIFERIMENTI AI CODICI DEGLI IMPERATORI ROMANI E DEI MONARCHI D'OCCIDENTE
35 - REPUBBLICA DI VENEZIA: DIGNITA' DE IURE HUMANO E DE IURE DIVINO: PROVVEDIMENTI PAPALI NELLO STATO PONTIFICIO SIA IN LINEA ECCLESIASTICA CHE TEMPORALE
36 - REPUBBLICA DI VENEZIA: ANCHE NEGLI ALTRI STATI SUSSISTONO LE ESIGENZE E LE CONDIZIONI DELLO STATO DELLA CHIESA A RIGUARDO DEGLI ECCLESIASTICI
37 - REPUBBLICA DI VENEZIA: PERCHE' SIA NECESSARIO CHE I PRINCIPI TEMPORALI ABBIANO LICENZA DI PUNIRE GLI ECCLESIASTICI
38 - REPUBBLICA DI VENEZIA: LE PUNIZIONI DEL FORO ECCLESIASTICO SONO TROPPO MITI PER PUNIRE CERTE COLPE ESTREME COMMESSE DA RELIGIOSI
39 - REPUBBLICA DI VENEZIA: AGEVOLATI DALLA MITEZZA DEL FORO ECCLESIASTICO MOLTI RELIGIOSI SI LASCIANO ANDARE A GRAVI AZIONI DELITTUOSE
40 - REPUBBLICA DI VENEZIA: SARPI DEMOTIVA PARECCHIE GIUSTIFICAZIONI SULL'OPPORTUNITA' DEI GIUDIZI ECCLESIASTICI
41 - REPUBBLICA DI VENEZIA: VIENE CITATA, COME ALTRO ESEMPIO DI CATTIVA INTERPRETAZIONE ECCLESIASTICA, UNA LITE DEL 1602 TRA CERTO FRANCESCO ZABARELLA ED I MONAGI DI PRAGIA
42 - REPUBBLICA DI VENEZIA: BENI EMFITEOTICI DELLE CHIESE, LORO CARATTERISTICHE
43 - REPUBBLICA DI VENEZIA: RAGIONE DI CENSO RESERVATIVO DELLE CHIESE
44 - REPUBBLICA DI VENEZIA: RAGIONE DI FEUDO DELLE CHIESE
45 - REPUBBLICA DI VENEZIA: PERCHE' LE CHIESE RICORRANO PREFERIBILMENTE ALLE RAGIONI DI ENFITEUSI PER IMPOSSESSARSI DI UN BENE SECOLARE
46 - REPUBBLICA DI VENEZIA: IMPORTANZA STORICA DELLA CONSUETUDINE NELLA LEGISLAZIONE INTERMEDIA
47 - REPUBBLICA DI VENEZIA: IMPORTANZA DEI RESCRITTI NELLA LEGISLAZIONE INTERMEDIA E DEL SENATO VENETO IN PARTICOLARE
48 - REPUBBLICA DI VENEZIA: DIFETTI SPECIFICI AVVERSO QUANTO SOPRA NEL MONITORIO DI PAOLO V
49 - REPUBBLICA DI VENEZIA: CAUTELE DI CUI AVREBBE DOVUTO FARSI CARICO DI PAOLO V PRIMA DI COMMINARE UNA SCOMUNICA CAUSA DI TANTO SCANDALO INTERNAZIONALE
50 - REPUBBLICA DI VENEZIA: LA SCOMUNICA E L'INTERDETTO AVVERSO LO STATO VENETO VANNO CONTRO I CONSIGLI DEL CAPITOLO 24 SEXTUS DECRETALIUM DETTO ALMA MATER
51 - REPUBBLICA DI VENEZIA: INCONGRUENZE E MANCHEVOLEZZE DEL MONITORIO DI PAOLO V A GIUDIZIO DI P. SARPI
52 - REPUBBLICA DI VENEZIA: PAOLO V SCOMUNICANDO UNA COMUNITA', CIOE' TUTTO IL SENATO DI VENEZIA, HA CONTRAVVENUTO ALLE INTERPRETAZIONI DEI PADRI E DOTTORI DELLA CHIESA OLTRE CHE DEI PIU' GRANDI TEOLOGI
53 - REPUBBLICA DI VENEZIA: FALLIBILITA' DEL PONTEFICE IN MATERIA TEMPORALE E SUA POSSIBILITA' DI EMENDARE (ESEMPI STORICI)
54 - REPUBBLICA DI VENEZIA: NULLITA' SECONDO P. SARPI SIA DELLA SCOMUNICA AVVERSO DOGE E SENATO VENETO CHE DELL'INTERDETTO CONTRO IL DOMINIO TUTTO
55 - REPUBBLICA DI VENEZIA: ATTEGGIAMENTO DA TENERSI DA OGNI PRINCIPE AVVERSO UNA INGIUSTA SENTENZA ECCLESIASTICA SECONDO L'INTERPRETAZIONE DI S. GREGORIO
56 - REPUBBLICA DI VENEZIA: ATTEGGIAMENTO DA TENERSI DA OGNI PRINCIPE AVVERSO UNA INGIUSTA SENTENZA ECCLESIASTICA, ATTESO IL CONFRONTO FRA LE SENTENZE DI S. GREGORIO E PAPA GELASIO
57 - REPUBBLICA DI VENEZIA: SENTENZA GIUSTA - SENTENZA INGIUSTA ED INTERPRETAZIONI CORRELATE (INGIUSTA FU LA SENTENZA DI PAOLO V)
58 - REPUBBLICA DI VENEZIA: COMPORTAMENTO DEI SUDDITI VENEZIANI A FRONTE DELLA INGIUSTA SENTENZA DI PAOLO V
Di che fa manifesta fede il numero grande delle chiese riccamente dotate, e l'ampiezza de monasterij, non solo nella città di Vinezia, ma ancora nelle altre soggette: e ciò sempre con opportuno e necessario riguardo d'impedire tutti quegli accidenti che potessero esser nocivi alle città e dominii per le novità che s'introducono sotto pretesto di collegi, confraternità, società o congregazioni, et il danno e pericolo che portano alla publica sicurezza le fabriche grandi e situate in luoghi non opportuni: per il che ebbe sempre in considerazione quali sorti di persone s'introducessero nella sua città, et in qual luogo si fondassero li monasterij e chiese, per poter riceverle e sostentarle; e quando conobbe che la diligenza commune et ordinaria non bastava, insino l'anno 1337 satbilì per legge che in Vinezia non fossero fabricate chiese, monasterij, ospitali et tali altri tal luoghi senza licenza. La quale legge confermò et innovò poi nel 1515 e nel 1561. Ma avvertitosi che così fatta provisione era necessaria ancora per le altre sue città terrestri e maritime, nel 1603 comandò alli rettori che per l'avvenire non dovesse permettere a qual si voglia persona religiosa o laica di fabricar monasterij, chiese, ospitali o altri ridotti di religiosi o secolari, senza licenza del senato sotto pena di bando alle persone e di confiscazione della fabrica e del fondo.
Stimò anche sempre la Repubblica che sì come ella nelli tempi innanzi s'era esemplarmente conservata, così doversi conservare medesimamente nell'avvenire con l'uso della sincera et incorrotta giustizia amministrata alli soggetti suoi sapendo che la Scrittura Divina dice:" Regnum de gente in gentum transfertur propter iniustitias, iniurias, contumelias et diversos dolos".
Et in contrario: "Rex qui iudicat in veritate pauperes thronus eius in aeternum firmabitur".
Per il che conservando ciascuno in possesso delli suoi beni, con difesa e protezzione specifica dell'onore d'ogn'uno, ha mantenuta e perpetuata felicemente la quiete e tranquillità publica.
La quale perchè non avesse ad esser turbata con indebita usurpazione et offesa altrui, essendosi spesso trovati in atroci et enormi delitti diversi ecclesiastici, i quali con la bontà della vita e de costumi, com'è l'obligo loro, doverebbono essentarsi dalla giustizia criminale, non è restata la Republica di usarla contro di loro, per quanto la publica tranquillità ha ricercato, concedendo però loro essenzioni dalli magistrati nelli delitti communi per favorir quell'ordine, ad essempio delli principi circostanti, tenendo di questa maniera sempre li cattivi in timore, e consolati gl'offesi: e così essercitando la potestà datale da Dio ha costumato dal suo nascimento sino alli tempi presenti senza alcuna interruzzione, di giudicare e punire nelli delitti gravi qualonque ecclesiastico di qual si voglia grado et ordine; onde s'è continuato a godere et esercitare con la quiete publica l'antica et independente libertà del suo vero dominio.
Similmente la Republica in ogni tempo ha procurato di tenere li suoi soggetti abbondanti di possessioni e beni stabili, sapendo che alla sicurtà publica principalmente era di utilissimo servizio se il privato fusse stato commodo; laonde già circa 300 anni cominciò ad avertire che gli ecclesiastici andavano cercando cotidianamente di crescere in possessioni e rendite: cosa che (se bene essi non avevano tale intenzione) riusciva però non solo in danno delle famiglie secolari, che necessariamente bisognava mancassero scemandosi la quantità delli beni loro, ma ancora in detrimento delle publiche rendite e delle publiche forze.
Imperò che diminuendosi sempre il numero delli cittadini che attendono e servono al governo civile, e mancando la quantità de' beni loro, sopra le quali le publiche rendite sono fondate, e per il contrario crescendo il numero degli ecclesiastici che pretendono essenzioni da tutti li carichi necessari alla Republica, et augumentandosi la quantità de' beni loro, che pretendono pure essere essenti, era necessario che le cose publiche si andassero sommamente diminuendo.
Aggiungevasi che non potendo mai gli ecclesiastici alienar cosa alcuna, se non con qualche loro avantaggio, et essendo le chiese perpetue, se essi sempre acquistassero, e li secolari sempre diminuissero, era necessario in fine che restassero tutti li beni in mano degli ecclesiastici, e si estinhuesse ogni nobiltà ed ogni civiltà, riducendosi il mondo a due condizioni d'uomini, ecclesiastici e villani.
Per provedere adunque a così grave e noto inconveniente, ordinò la Republica l'anno 1333 che alle chiese non fosse donato o lasciato alcuno bene stabile in perpetuo nella città e ducato di Vinezia, e che se pur fosse lasciato dopo certo termine si vendesse, restando alle chiese il prezzo.
La qual legge variamente fu osservata sino al 1536, quando fu stabilita in questa forma: che non fossero da alcuno lasciati beni stabili alle chiese, se non per dui anni, nel qual tempo si dovesse venderli, e se ciò non fosse fatto dagli ecclesiastici, un magistrato avesse cura di farne l'essecuzione.
E dalle sopradette leggi si vidde in diversi tempi esser seguiti tanti beni e publici e privati, che alcune città delle soggette per constituzioni sue municipali decretarono l'istesso, parte anticamente, e parte in questi tempi nostri.
Le quai cose dal senato considerate, per ridur tutto lo Stato suo ad uniformità e provedere alle diminuizioni de' beni secolari, nel 1605 estese la legge, che era ordinata per la città di Vinezia, a tutto lo Stato insieme.
Aggiongendo che nissuno nella città di Vinezia o nel Stato possa sotto qual si voglia colore vendere, donare o in altro modo alienare a persona ecclesiastica beni stabili senza licenza del senato, da concedersi nel medesimo modo, come si concede nelle alienazioni de' beni publici, e ch'ogni alienazione altrimente fatta sia nulla, e li stabili confiscati con pena alli notari.
Per li quali rispetti, tre anni inanzi, del 1602, per moderar il soprabondante acqusito degli ecclesiastici, che sotto pretesto di ragioni dirette avute da loro in beni posseduti da laici, ogni giorno tentavano di appropriarseli, movendo lite ora a questo or a quello delli possessori, dando nome di enfiteusi alli censi e locazioni perpetue, e perciò eccitando pretensioni d'essere nelle vendite preferiti, overo che li possessori fussero decaduti, o che li beni non potessero passare ad ogni sorte di eredi, con molto danno delli sudditi, che erano travagliati et avviluppati in continue liti, deliberò il senato per occasione di certa controversia mossa dalli monachi di Pragia che le chiese non potessero appropriarsi beni posseduti da laici per ragioni di prelazione, estinzione di linee, consolidazione dell'utile, salvo loro il suo diretto.
Il che fu statuito attesa la consuetudine di più di 200 anni sempre, e gli innumerabili giudicii in conformità seguiti, per levare le occasioni delle controversdie e liti, e dar forma scritta alli giudici da seguire in ogni caso.
Queste leggi, ordinazioni et amministrazioni della giustizia sono molto bene state vedute, sapute et osservate dalli pontefici passati, sì per li avisi continui ch'hanno dagli ecclesiastici di questo Stato, come per li particolari che cotidianamente ricevono dalli nonci suoi residenti in questa città, senza che per se medesimi molti pontefici n'hanno avuta piena notizia et informazione: altri per esser nati et educati in questo Stato, altri per esser vissuti privati facendovi officio di confessore per molti anni, alcuni officio d'inquisitori, et altri vescovi di qualche città.
Di modo che ogni pontefice in qualche modo ha avuto notizia della giustizia et equità delle leggi veneziane e delli giudicii de' loro magistrati; onde si ha da presupporre che non avendo mai reclamato, tacitamente insieme gli abbiano approbati?
Li giudicii sopra le persone ecclesiastiche sono sempre stati essercitati, e per lo passato più frequentemente che nelli tempi prossimi; e le ordinazioni o leggi soprascritte, lasciando le più antiche memorie, si veggono esser state in uso già più di 300 anni, se bene in questi ultimi tempi alcune sono state confirmate altre estese, et altre dalla legge non scritta, con la quale s'osservano, ridotte in scrittura, e così finalmente espresse e publicate.
Delle quali, una del 1602 e l'altra del 1603 sono state vedute da papa Clemente VIII, zelantissimo e diligentissimo, ma con tutto ciò non hanno soddisfatto alla Santità
di papa Paulo V. Al quale per incognita cagione nel principio del suo pontificato è piaciuto di essaminare le leggi e giudicii della Republica.
E nel fine di ottobre prossimo passato [Paolo V] nella audienza ordinaria si dolse coll'ambasciadore [Agostino Nani] di essa Republica [di Venezia], perché nella sede vacante avesse fatto una legge che proibisce agli ecclesiastici di acquistar stabili, aggiungendo che, quantunque fosse constituita in virtù d'un'altra prima, li canoni però fanno invalida così la vecchia come la nuova; per il che omnimamente voleva che fosse annullata, imponendo all'ambasciadore di notificar questa sua volontà alla Republica.
Il che avendo fatto, e ricevuto ordine del senato di dar conto al pontefice [Paolo V] delle ragioni cause e giustizia della legge, e della potestà che la Republica ha di far simili ordinazioni, il pontefice, attento alla sua deliberazione, disse apertamente [all'ambasciatore Agostino Nani] che udiva per dar sodisfazzione, e non per mettere così fatte raggioni in alcuna considerazioni, e concluse di voler mandare sopra ciò un breve oratorio a Venezia, e mostrò una scommunica, che aveva fatto stampare contro un'altra città, significando in simil cause di non voler risposte o allegazione di ragioni, ma pronta obedienza: e soggiunse un'altra querela per la retenzione fattasi nelli mesi innanzi d'un canonico di Vicenza e dell'abbate di Nervesa, dicendo di volere che fossero rimessi al foro ecclesiastico, e che se la Republica ha privilegi di giudicar ecclesiastici, non si estendono né a tal sorte di persone né a tal genere di delitti, per li quali li sudetti sono carcerati.
E qui sarà necessario di digredire un poco, per narrar le cause della carcerazione di questi delinquenti.
Brandolino Valdemarino, abbate di Nervesa, fu querelato et imputato d'aver essercitato molti atti tirannici sopra la robba e mogli degli uomini abitanti nelle terre vicine a lui; d'aver levato di vita con veneno più persone, e tra queste un religioso sacerdote suo domestico; d'aver dato il veleno al padre et ad un fratello; d'aver fatto uccidere più uomini; d'aver tenuto commercio carnale continuato con una sua sorella naturale; d'aver essercitato molti atti magici et empi per venire al fine delle sue disonestà; e per altre cause, che non si può senza orrore narrare più particolarmente come apparisce nelle denonzie e querele fatte da diverse persone contro di lui.
E Scipione Saracino, canonico vicentino, fu imputato che con sprezzo avesse rotto li publici sigilli delli rettori di Vicenza, posti sopra la cancelleria del vescovato in sede vacante, per custodia e sicurezza delle scritture e ragioni del vescovato, a petizione et instanza del cancellier di quello; e di più d'aver insultato una gentildonna veneta, di famiglia principale vicentina, sua parente, con sporcargli la porta e la casa, dopo aver tentato per longo tempo, con modi indecenti la sua castità, con scandolo publico, perché non si asteneva costui di essercitare i suoi libidinosi tentativi anco nelle chiese.
Ma ritornando al pontefice, la Santità sua in diversi congressi con l'ambasciatore persuase la Republica a voler lasciare da canto le sue ragioni et ubidirla intieramente; e doppo alcuni giorni aggionse nuove querele per la legge soprascritta, che proibisce fabricare chiese senza licenza.
E si restrinse risolutamente che voleva fossero rivocate le due leggi sudette, et rimessi li dui prigioni al suo noncio residente in Venezia.
Et il dì 10 di decembre, formati due brevi, uno sopra le due leggi, e l'altro sopra il giudicar gli ecclesiastici [custoditi in a.s.v., Commemoriali, Reg.27, cc.28 v - 32 v], commise al noncio suo che li presentasse.
Ma il noncio [monsignor Offredo degli Offredi] forse mosso perché il senato in quegl'istessi giorni eletto un ambasciator straordinario per tentar ogni via umile e possibile di rimuovere la Santità sua dalla resoluzione presa innanzi la cognizione della causa, et indurla ad informarsi prima che venir ad altra esecuzione, differì la presentazione delli brevi, cosa che non fu approvata dal pontefice, ma gli spedì in diligenza commandamento di presentarli immediate.
Per il che il giorno della natività di Nostro Signore, quando il duce Grimani stava per render l'anima a Dio e che la Signoria era congregata con li senatori, de' quali alcuni avevano ricevuto il santissimo sacramento dell'eucarestia, altri erano per riceverlo, dimandò audienza, e presentò due brevi sigillati: li quali non furono aperti per la morte del duce, che successe nel seguente giorno, sino dopo l'elezzione del nuovo [Leonardo Donà, eletto il 10/I/1606].
I quali aperti si trovarono ambidui d'un istesso tenore. E contenevano esser venuto a notizia sua che la Republica nelli suoi consegli aveva constituito molte cose contro la libertà ecclesiastica e l'auttorità della Sede Apostolica, et in particolare aveva esteso a tutto il suo Dominio alcune leggi, che erano per la sola città di Venezia, ch'era di non fabricar chiese e monasterii e luoghi pii, et un'altra che proibiva l'alienazione de beni laici in ecclesiastici senza licenza del senato: le qual cose per esser contarie alla libertà ecclesiastica dichiara nulle et invalide, et chi le ha statuite incorsi nelle censure ecclesiastiche, e comanda sotto pena di scommunica latae sententiae che siano revocate e cancellate, minacciando, se non sarà obedito, di procedere più innanzi.
Al che il senato, sotto il dì 28 di gennaro, rispose [la stessa data in cui il Sarpi fu fatto consultore della Repubblica = l'autografo è nella F.5 del fondo Consultori in iure]: aver con dolore e maraviglia inteso dalle lettere di sua Santità che le leggi della Repubblica osservate felicemente per tanti secoli, non riprese da alcuno delli precessori suoi, le quali revocare sarebbe un revoltare li fondamenti del governo, si riprendino ora come contrarie all'auttorità della Sede Apostolica, e coloro che le hanno constituite, uomini di eccellente pietà, benemeriti della Sede Apostolica, che sono in Cielo, siano notati per violatori della libertà ecclesiastica: avere egli secondo l'ammonizione della Santità sua essaminato le leggi e vecchie e nuove, né trovato in quelle cosa che non abbia potuto per auttorità di supremo principe statuire; e toccato qualche particolare delle sue ragioni, concluse credere di non essere incorso in censure alcune, e che la Santità sua, piena di pietà e religione, non vorrà senza cognizione della causa persistere nelle comminazioni.
Questo luogo ricerca, prima che passiamo più innanzi, che si esplichi quali siano le opposizioni che il pontefice fa alle due leggi soprascritte, e quante siano di facile e pronta risoluzione, e quali siano insieme le ragioni, la giustizia e l'equità delle leggi, e quanto sia legittima nella Repubblica la potestà di costituirle.
Oppone il pontefice a tutte due queste leggi insieme, dicendo che sono "Sedis Apostolicae auctoritati et ecclesiasticae libertati immunitatique contrariae, tum generalibus conciliis et sacris canonibus, necon romanorum pontificum constitutionibus repugnantes".
Per il che, innanzi d'ogni altra cosa, sarà molto opportuno che vediamo che cosa sia libertà ecclesiastica, e donde abbia ricevuto origine.
Imperò che certa cosa è che questo nome è nuovo, e non inteso per 12 secoli nella Chiesa.
Fa mensione il santissimo apostolo Paulo della libertà cristiana nelle epistole alli Romani et alli Galati a pieno, quivi dimostrando che per lo peccato del primo padre nostro eravamo fatti servi del peccato, dalla qual servitù Cristo Nostro Signore ci ha liberati, riscuotendoci con il suo sangue. E però dice: "Cum servi essetis liberi fuistis iustitiae, nun vero liberati a peccato, servi autem facti Deo, habetis fructum quidem sanctificationem, finem vero vitam aeternam ["Roma 5, 20-22"].
Et alli Galati un'altra servitù propone alle cerimonie delle legge mosaica, della quale similmente Cristo ci ha liberati, quando dice: "Nun fratres non sumus ancillae filii sed liberae, qua libertate Christus nos liberavit" ["Gal. 4, 31"].
Non ad altri è stata donata tanta grazia di liberazione, che a ciascuno delli fideli di Cristo et alla Chiesa in corpo.
Per il che si ritrovarono alcuni delli santi antichi chiamarla libertà della Chiesa: a questa non si oppongono se non li ministri del demonio e la parte dell'inferno; e non ha dubbio che qualonque con le sue leggi pensasse derogarli in una minima parte sarebbe alieno della santa Chiesa cattolica.
Ma di questa non si parla al presente, poiché il famoso et augusto nome di Chiesa, che era commune a tutti li fideli anticamente, così clerici come laici, adesso pare che sia ristretto per lo più a significar li clerici solamente.
Onde se le è data anco una libertà propria loro, separata dalla sopradetta, della quale pare che Onorio III [successore di Innocenzo III, papa dal 1216 al 1226] fosse il primo a far mezione circa il 1220.
Ma quello che esso Onorio III intendesse per libertà ecclesistica, e Federico II imperatore, che nell'istesso tempo et ad instanza dell'istesso papa la nomina, né essi lo dichiarano, né tra li canonisti è in tutto ben deciso: poiché in tutta la legge canonica non si trova diffinita, né si dichiarano le cose che sotto essa si comprendono, né è data regola coma giudicarle; per lo che ancora non si accordano quando nasce disputa sopra alcuna cosa se sia contra la libertà ecclesiastica.
La libertà è diffinita dalli giuriconsulti essere una facoltà naturale di fare quello che ciascuno vuole quando le leggi lo permettono.
Alcuni pensano che questa facoltà nelli clerici di fare quello che piace a loro conforme alle leggi, sia la libertà della Chiesa; in modo che in questo senso quello istesso che è libertà assolutamente nel laico, è nell'ecclesiastico libertà ecclesiastica, e consiste in godere quella facoltà che la legge commune dà a ciascuno.
Pare che tale sia il senso del capitolo Eos qui, dove dice che se alcuno proibirà che non sia cotto pane, macinata biada, fatto servizio alli ecclesiastici ["De immunitate ecclesiae in Sexto" = Sexti decretales, lib. XV, tit. III, cap. 23], questo si presume in derogazione contra la libertà ecclesiastica.
Altri non vogliono così, ma sotto questo nome comprendono quelle cose che solamente agli ecclesiastici convengono, per privilegi concessi loro da Dio o dal papa nelle cose spirituali, e dalli principi nelle temporali; talmente che non voglia altro dire che privilegio di essenzione, concesso alla Chiesa universale, così nelle cose temporali, come nelle spirituali.
Un'altra opinione compone ambedua queste insieme. Altri chiamano libertà ecclesiastica ogni cosa fatta a favor de clerici, e dicono essere contra a quella li statuti per li quali li clerici si rendono più timidi, e li laici più audaci; la qual diffinizione è di Bartolo [bartolo da Sassoferrato (1314-1357): a margine della copia a stampa del XVII secolo è scritto: Authent. cassa, can. sacr. sanct. Eccl. nei Commentaria], e pare la più accomodata all'essaltazione dell'ordine clericale.
Ora anderemo mostrando che preso il vocabolo di libertà ecclesiastica in qual si voglia di questi sensi, le ordinazioni della Republica di Venezia e la carcerazione e condannazione di persone ecclesiastiche non levano alcuna libertà, et insieme risolveremo le opposizioni che particolarmente si fanno a ciascuna delle leggi.
Non dice il papa altra ragione speciale perché la legge del non potersi fabricar chiese l'offende, se non per essere statuita, così sono le parole formali del suo breve: "Quasi ecclesiae et ecclesiasticae personae temporali vestre iurisdictioni subiectae aliquo modo essent, vel qui ea ratione in vestris ditionibus ecclesias et alia pia ac religiosa loca extruerent, tanquam in qliquo scelere deprehensi multandi viderentur".
Né altra ragione medesimamente allega per provar la sua intenzione che sia contra libertà ecclesiastica la proibizione a laici di non lasciare o donare in perpetuo e non alienare stabili nelli ecclesiastici, se non che pare che si fondi in una certa usurpata giurisdizzione che la potestà secolare abbia nei beni ecclesiastici, e queste sono le parole sue: "Perinde ac si temporablibus dominis liceret in ecclesiastica bona quae ecclesiis ecclesiasticis personis ac aliis locis piis a testatoribus et caetersis Christi fidelibus pro remedio peccatorum et exoneratione conscientiae plerunque relinquuntur aut alio modo conferuntur, ius aliquod exercere.
Ma primieramente ciascuno che con interna diligenza vorrà considerare, penetrarà da se stesso ch'l far una legge che proibisca ad ogn'uno, così ecclesiastico come laico, di non fabricar chiese senza licenza, non è (come il pontefice oppone) essercitar potestà soprala chiesa, ma sopra il fondo, sopra l'area o superficie ove si può fabricare, la qual nissuno negarà che non sia pura e meramente secolare.
Nissun privato, che proibisca ad un ecclesiastico fabricar una chiesa nel suo fondo, si dirà che ordini cosa alcuna sopra la chiesa né a persona ecclesiastica, ma che disponga del fondo suo a suo beneplacito, e che vieti l'uso della cosa a chi non è obligato per legge concederlo.
Non si chiama chiesa quella che si può fabricare, ma quella che è già dedicata: ogni privato ha dominio sopra il fondo suo, et il principe sopra tutti li fondi del dominio ha una potestà maggiore; per il che, sì come è ingiustizia fabricar una chiesa nel fondo di un privato senza sua permissione, così è ingiustizia fabricare in qual si voglia loco d'un principe contro la sua proibizione.
Non viene levata qui libertà all'ecclesiastico in nissuno delli sopranominati sensi: nel primo, perché nissuno ha libertà d'usar la cosa altrui contro il voler del padrone; nel secondo medesimamente, perché Dio, universal Signore d'ogni cosa, dando libertà alli ministri della Chiesa di edificar tempii, non ha levato il dominio del privato né l'imperio del principe sopra il fondo: né il papa ha disposto altrimente, né potrebbe disporre, per esser cosa temporale; né principe alcuno con suo privilegio ha potuto disponere alcuna cosa nello stato di questa Republica nata libera; e così non è derogato in conto alcuno alla libertà ecclesiastica.
E se questa ragione valesse: la chiesa è cosa spirituale, adunque chi dispone sopra il fabricarla, dispone sopra cosa spirituale, ne seguirebbe che un principe, che proibisce mettere nelle fabriche delle chiese roveri, che sogliono servire al fabricar galere, barche, ponti et in altro, overo che proibisce coprirle di piombo per carestia che n'avesse per uso di guerra, si direbbe far legge sopra le chiese e loro coperti, essendo nondimeno vero che fa l'ordinazione sopra li roveri e sopra il piombo, che sono cose meramente laiche.
Qual cosa è, che non possa esser dedicata al culto divino?
Forse non si troverà alcuna, ché non essendo se non il solo peccato contrario a Dio, ogni cosa gli può esser consacrata; adunque chi disporrà d'una cosa, vietando che non possa esser dedicata, offenderà Dio?
Non certo.
Il precetto dell'onor divino, essendo affermativo, non comprende tutte le materie, tutti li luochi, tutti li tempi, come vorrebbono quelli che tirano tutto all'ecclesiastico, ma admette che quando non manca cosa alcuna a lui, il resto s'applichi ad usi umani, et ad esso si attribuisca quanto gli è appunto condecente.
Se fosse lecito contro il voler del principe fabricar chiesa in qualonque luogo, sarebbe lecito similmente contro il suo volere adoperar qual si voglia materia o qual si voglia artefice, il che estendendo anco alli paramenti et ornamenti delle chiese et alli vasi sacri, restarebbe ogni panno, ogni metallo, ogni legno et ogni altra cosa appartenenerebbe all'ecclesiastico: l'assurdità delle quali conseguenze mostrano chiaramente che, sì come la chiesa già dedicata appartiene al spirituale, così nissuno luogo può esser dedicato senza la permissione del prencipe temporale, e la equità di questa legge fu sempre conosciuta dal mondo.
Cicerone nell'orazione pro domo sua mostra che in quei tempi nissuna area poteva esser consecrata "iniussu populi".
Sotto gli imperatori gentili ancora erano quattro leggi che vietano potersi consacrare cosa alcuna senza licenza del prencipe, le quali avendo Giustiniano portato nelli Digesti, senza dubbio le ha accomodate alla nostra religione, e dato loro virtù anco sopra i fabricar le nostre chiese [vedi la legge sacrae autem res entro il Titolo VIII, libro I: vedi anche le Institutiones di Giustiniano al libro II, titolo I sotto la legge Nullius autem sunt res sacrae et religiosae et sanctae].
E chi leggerà le istorie ecclesiastiche e le Novelle di Giustiniano, vederà che nelli tempi dell'imperatori, così in oriente come in occidente, al prencipe sopra tutti gl'altri è stato deferito in questa parte, sì che non solo da loro è stata richiesta licenza del far nuove chiese, ma ancora nissuno ha mai pensato di erigere una chiesa in catedrale o metropolitana senza permissione et espresso decreto del principe.
Si può vedere sopra ciò la novella 67 di Giustiniano, e quello che Balsamon [Teodoro Balsamone, canonista bizantino del XII secolo, patriarca di Antiochia molto estesamente riferisce sopra il XVII canone nel concilio calcedonense [Canones XXX sanctae et oecumenicae quartae synodi chalcedonensis = P. G. del Migne, CXXXVII = il canone XVII commentatto alle coll. 450-453].
Nè sarà fuor di proposito aggionger qui il costume di Francia, dove non si possono fabricar chiese senza lettere regie di espressa concessione, et appresso senza arresto [deliberazione] del parlamento.
E per portar anco esempio di qualche luogo d'Italia si ricordarà qui che nella Republica di Genova si ha particolare constituzione che senza licenza di ambdua li collegi non si possa fabricar monasterii, in pena di confiscazione del loco.
Ma non tanto alle chiese materiali la Republica di Venezia ha avuto risguardo, quanto anco alle persone che devono averle in governo, poiché non in ogni luogo sta bene ogni sorte di religiosi.
Abbiamo un ottimo essempio del famosissimo governo dei re di Castiglia, poiché senza la licenza regia non si può introdur nuovi religiosi in quelli regni; per il che sino al presente li padri capuccini non hanno potuto avervi ingresso; e non sono molti anni che li padri di S. Francesco di Paula diedero principio a fabricar una chiesa in Madril senza la permissione regia, la quale opera il re Filippo II fece che si fermasse, restando in essempio la chiesa così principiata et imperfetta. E la Santità sua, essendo nuncio straordinario a quel re, l'ha potuta molto ben vedere.
Li fondamenti di ciò non sono men ragionevoli, legali e legitimi che necessari; perché sì come non sarebbe permesso ad un numero di persone d'alieno stato, contrarie di costumi e con fini diversi da quelli d'una republica, che entrassero nello stato di lei e si riducessero in un sol luogo insieme, si facessero un capo e trattassero con li soggetti del prencipe in secreto, poiché questa, come sospetta e perniziosa conventicula, sarebbe subito impedita: così, col pretesto d'un monasterio nuovo potendo venir insieme sotto un capo molti di altre nazioni, alle volte contrari di costumi e di sensi, e per la commodità che hanno di trattare per le confessioni o altri colloqui spirituali, insinuandosi con li sudditi del prencipe, e così corromperli nella fedeltà, questo similmente con ottima ragione deve esser molto bene avvertito, per la publica conservazione e quiete dello stato. E per questo rispetto convenne pur alla Republica, pochi anni sono, licenziar di Venezia alquanti padri di un monasterio, tutti di nazione aliena, per esser stati da loro sviati molti uomini dell'arsenale.
E così gl'oratorii e collegi che si fanno di tutta una nazione in una città, massime piena di molte sorti d'uomini, non sono senza gravissimo pericolo, quando non sia consapevole il prencipe di quello che nelle sue ridozzioni si tratta.
Si aggionge che le fabriche, se non sono situate in luoghi convenienti, portano gravi danni alle città, spezialmente a quelle che sono forti; e si sa quante città sono perite alle volte per una chiesa di fuori poco lontana dalla fossa, occupata dall'inimico accampato, e quanto danno abbia recato medesimamente una fabrica tale vicina alle mura di dentro; e quante machine et edifici sacri similmente per importanti rispetti ha bisognato spianare per sicurtà publica, con qualche maraviglia delle persone semplici e devote.
Non solo al ben publico è cosa utilissima, come di sopra si è discorso, che non si fabrichino chiese senza licenza, ma ancora è per bene di esse chiese, acciò che ad arbitrio di chi si sia non siano fabricate in luoghi indecenti, appresso prostibuli, appresso cloache, né di forma indecente e senza decoro conveniente alla mestà della religione, sì che siano più tosto a derisione che ad altro: né si vede che il molto e soprabondante numero delle chiese sia utile per la devozione, anzi in contrario, perché quando sono troppo, non si può prestare li debiti servizi a tutte, e cagiona più indevozione una chiesa mal tenuta che diece ben custodite; e le limosine anco non bastano per tutte le chiese, quando il numero è eccessivo, sì che né le vecchie né le nuove hanno i suoi debiti servizi.
Per grazia di Dio non mancano chiese e luoghi pii nella città di Venezia e nelle altre tutte dello Stato: e queste sono tali e tante, che alcune città colme di reliquie d'innumerabili martiri, che restano poco decentemente conservate, possono venir a prendere essempio da queste; e con tutto ciò non ha tralasciato il senato, quando l'opportunità si sia presentata, di dar licenza di fabricar nuove chiese e luoghi pii dovunque è occorso, e di dare parimente ingresso a nuovi religiosi, anco dopò fatta la stessa legge.
Ma chi non si maravigliarà udendo riprendersi la pena della legge veneziana imposta a chi fabrica chiese senza licenza, dicendosi da chi oppone che il fabricarle è opera in sè non cattiva, quasi che l'opera in sé e di sua natura buona, se sarà fatta senza le debite circostanze, non sia viziosa e meriti castigo. Non dalla materia overo oggetto solamente, disse Aristotile, e dopò lui tutti li teologi, si piglia la bontà dell'azzione, ma dalla integrità di tutte le circostanze ["Ethica,2,6"].
E' bene fabricar chiese in luogo e tempo e modo conveniente, ma non è bene senza queste condizioni il fabricar in luogo altrui una chiesa, e senza consenso del patrone non è dovere. Il prencipe, oltre il dominio che il privato ha, tiene sopra ogni luogo una potestà molto maggiore, alla quale et il patrone et il luogo sono soggetti, sì che di essi non si può fare quello che il prencipe proibisce o non consente.
Certamente ho consumato molto più parole di quelle che bisognavano per far capace ogn'uno che abbi il senso commune delle ragioni che sono per questa legge: ma non me ne pento, perché servono anche a difesa della seguente del 1605, che proibisce a laici alienar stabili a ecclesiastici.
Imperò che meno questa dispone di cosa ecclesiastica, né commanda agli ecclesiastici cosa alcuna, ma solamente a secolari, e sopra bene secolari.
Che ingiuria farà mai un prencipe che commandi a' suoi sudditi di non contrattatre con una sorte di persone?
E' cosa usatissima in tutti li regni la proibizione di non trasportare fuori o di non introdurre alcuna sorte di merci, adunque ed è offesa de forestieri?
Non credo che alcuno assentirà in questa consequenza, e tanto più quanto li privati fanno tal legge sopra li beni suoi, quando nelli contratti livellari pongono condizioni che il livellario non possi venedere o alienar li suoi utili nella Chiesa: e pure questo si fa da tutti.
Et altri nelli testamenti per conservar la robba in casa sua la condizionano sì che non può mai passar nella Chiesa.
Tutte le leggi de' fidecommissi sarebbono contro la libertà ecclesiastica, perché vietano che il bene sia lasciato alla Chiesa; e quelle della falcidia trebellianica ancora, perché tutte detraeno alla Chiesa quella porzione che vogliono sia detratta dalli legati e resti dell'erede.
So che alcuno molto zelante di qual si voglia augumento delle cose ecclesiastiche nel temporale, afferma che così sia: ma non credo che l'opinione sua avrà molti seguaci.
Et è una gran risoluzione il dannare azzioni et ordinazioni che tutto il mondo cristiano, da 1500 anni e più in qua, ha, non voglio dire solamente ammesso, ma lodato, commendato e tenuto come servizio di Dio.
Sono bene alcuni che per far un gran favore al secolare dicano che sarebbe stato e saria lecito statuir una legge che nessuno potesse vender li suoi stabili senza licenzia; la qual così generale comprenderebbe anco gl'ecclesiastici, e potrebbe il prencipe richiesto della licenza concederla sempre, quando l'alienazione dovesse passar ad un laico, e negarla quando ad un ecclesiastico, che non sarebbe contro la libertà ecclesiastica.
A' quali bisogna ben rispondere con qualche libertà che studiando un poco di logica trovarebbono che, concesso tutto il genere, viene concessa ogni specie in particolare e solitaria: laonde chi concede ch'l prencipe possa assolutamente proibire l'alienazione, bisogna che confessi poterla proibire in forastieri, in nobili, in ecclesiastici et in qual si voglia altra sorte di persone in particolare.
Essi dicono: può assolutamente a tutti, ma non però agli ecclesiastici soli, e la logica dice: se può universalmente a tutti, adunque anco alli soli ecclesiastici.
Ma più severamente gli parleremo che studino un poco la Divina Scrittura, dove gli ammonirà S. Paulo: "Nolite errare, Deus non irridetur" ["Gal. 6,7"].
Bella cosa certo: se non è peccato questo effetto di operare che li beni laici non possino passare in ecclesiastici, perché lo dannano, perché lo riprendono? Non ha fatto il prencipe assai bene, se non ha offeso Iddio? E se è peccato, quando, restando l'istesso effetto, averanno mutate le parole, che averanno altro fatto che burlatosi di Dio e creduto d'ingannarlo con artificii? Dio non voglia che in animo cristiano cadano simili pensieri. Se fosse voler di Dio che gl'ecclesiastici, instituiti da lui per attendere alle cose spirituali, mutata la sua instituzione, si facessero patroni non solo d'una parte delle cose temporali, ma di tutte ancora non dovressimo onorarli di sole parole, ma con fatti procurare d'affettuar quanto prima questo voler divino.
Ma passiamo a mostrar più chiaramente che il prencipe in tal legge ordina sopra cosa veramente sue e non ecclesiastiche. E' pur cosa chiara che, s'una possessione ha qualche servitù, non può il patrone d'essa lasciarla alla Chiesa, sì che non ritenga la servitù istessa. Ma qualunque stabile si ritrova in uno stato ha soggezzione al prencipe, la quale è molto maggiore e più stretta di qual si voglia altra cosa che possa avere con alcun privato, imperò che la potestà del prencipe sopra li beni è maggiore che'l dominio del privato. Può il prencipe per la potestà sua, a fine di ben publico, derrogare e levare il dominio privato, non può il patrone privato derrogare in parte alcuna alla potestà del prencipe. Per il che, anco per sua donazione o testamento o altro non può fare che il prencipe non vi abbi la sua potestà. Pensi questo ciascuno, e pensi come sia conforme alla natura che passi un bene per disposizione del privato nella Chiesa, e perciò resti libero dalla soggezzione del prencipe. Ma risponderanno contentarsi che passi con gl'istessi oblighi di pagare quello che pagava quando era nel laico. Bene: ma perché adesso solamente consentono così, e per lo passato hanno voluto essentarsi da ogni obligo? Diremo poi appresso ch'l prencipe ha altre ragioni sopra lo stabile, oltre li tributi ordinari, poiché vi ha anco li straordinari, senza il qual obligo non è dovere che esso stabile passi, per poterlo come aggravare di altre gravezze. E se questa par dura condizione pure è naturale. Ma di più se il prencipe riceve servizio personale dalli possessori, di milizie, offizi, curiali et altro, perché doverà perderlo? Et oltre di ciò il prencipe ha ius di confiscare quel stabile per li delitti del patrone: ma quando passa alla Chiesa non è più confiscabile, e però il prencipe perché doverà perder il suo ius? E qui serva uno essempio notissimo per convincere li contradicenti.
Li benefici ecclesiastici vacano per la morte de' beneficiati, e la corte di Roma ha perciò l'annata et il prezzo delle bolle.
essendo assai beneficii uniti a monasterii, capitoli et altre università, avvertirono li pontefici che per tal unione si perdeva quell'emolumento che per la morte del beneficiato ricevevano; e considerarono che sottosopra la vacanza averebbe potuto occorrere ogni quindeci anni, e però statuirono che ogni quindici anni delli beneficii uniti si pagasse la quindena. Adunque potrebbe anco il prencipe così riputare che sottosopra ogni cento anni un bene potrebbe esser confiscato, e far pagare ogni cento anni la confiscazione.
Al che per provedere, in alcuni regni si costuma che quando alcun stabile è lasciato alla Chiesa ella è obligata dare uomo vivente, moriente e confiscabile sino che lo stabile sia per autorità regia amortizato.
Lo stabile ancora spesso si vende, e per ciò paga al prencipe gabella, o si lascia ad eredi stranieri, onde similmente paga certa porzione. Facciasi parimente che in tempo di tanti anni occorra uno di questi accidenti, sarà il dovere che'l prencipe senza suo consenso venga privato di queste sue ragioni? E per tanto è molto onesta e giuridica l'ordinazione del 1605. E se appresso la licenzia si ricercasse anco per le sopradette cause una gabella propria quando lo stabile ha da passar nella Chiesa, non sarebbe ingiusto: anzi in Francia et in molti altri regni, quando un bene passa all'ecclesiastico, eziandio con licenzia, paga una terza parte, dicono per l'amortizazione, cioè perché quel stabile è come morto al prencipe, che non se ne prevale e serve come prima.
Non è adunque contra la giustizia et equità se il Prencipe, che tante cose perde, vedendo che hanno gl'ecclesiastici venticinque volte tanto di quanto si doverebbono contentare, delibera e risolve che si fermino e non acquistino più senza licenzia, la quale nondimeno si darà loro quando sarà conveniente. I quali rispetti di confiscazione, vendite e legati ad estranei, potendo occorrere anco alle superficie dove alcuni dissegnano di fabricar chiese, non è maraviglia se il Prencipe non permette che senza licenzia sua sia amortizato.
Ma passando più oltre, quelli che negano al prencipe secolare il poter far leggi sopra cose ecclesiastiche, e che gl'ecclesiastici siano soggetti alle leggi secolari, consentono nondimeno che per il ben commune si possa far ogni sorta di leggi che comprendano eziandio gl'ecclesiastici.
Ma il ben publico ricerca che si conservi questo membro principalissimo della republica, cioè il secolare, che porta li pesi, fa le fazzioni publiche, così personali come reali, acciò non avvenga quello che Ulpiano dice "quod viribus et viris destituta erat respublica" [vedi Lex 3 in Digesta L, tit.IV].
E' adunque giusta la legge, et è conveniente che sia in questo membro protetto dal Prencipe, sì che, conservandosi li suoi beni in esso, resti colle forze necessarie per servir la Republica. E se da questo nasce che gl'ecclesiastici hanno meno di quello che averebbono, ciò non è direttamente inteso dal prencipe, ma accidentalmente occorre; né mai la ragione e le leggi attendono a quello che indirettamente o per accidente segue [vedi Codice di Giustiniano = IV, tit. II = "c. quia diversitatem tit. de concessione prebend." in Decretales Gregorii IX, lib. III, tit. VIII, cap.5].
]
Nè quegli presume far ingiuria al prossimo che ha per meta l'utilità propria, se bene di là viene ch'l compagno sia privato di qualche guadagno che farebbe. Se non fosse questa legge, l'ecclesiastico s'arricchirebbe più, lo confesso; ma l'ordinata carità et Iddio commandano che ciascuno riguardi prima alle cose a sé necessarie, e questo è attendere alla vocazione sua. Chi conserva il suo, senza dubio impedisce che non vada in un altro, né mai uno si fa ricco, se altri non si fa povero. Non è però contra la carità ovviare alla propria povertà, perché insieme s'impedisce la ricchezza altrui. Deve il prencipe curare che la tranquillità e le forze del suo imperio si mantenghino.
Se di qua viene che gli ecclesiastici non averanno maggior abondanza, a questo non debbe risguardare il prencipe. Gaetano ["In summa ver. ecom. c. 31"], seguito da tutti, nega essere contra la libertà ecclesiastica lo statuto secolare dove si restringa e ponga modo alle spese de funerali, sponsalizi e messe nuove; e pure da queste segue più manifestamente che gli ecclesiastici sono privati di que' guadagni che averebbono, se fosse lecita qualonque sontuosità.
Se vorranno gli ecclesiastici comprare, di quali denari compreranno? Comandò il canone Concesso [Decretum Gratiani, causa "12 quaestio 2"] che siano fatte quattro parte dell'entrate ecclesiastiche, la prima per il vescovo, la seconda per il vitto del clero, la terza per la fabrica, la quarta per le limosine de' poveri.
Il che fu anco da Carlo Magno nel suo capitolare confirmato ["lex I cap. 87"].
Non vorranno gli ecclesiastici acquistar con la prima né seconda parte; né è dovere che si levino gli alimenti.
Lasciar cader le fabriche per acquistar di nuovo non è ragionevole, né il ben publico lo consente; d'implicarci la quarta parte che è la debita alli poveri, la pietà non lo comporta, nè il detto del Signore, poiché S. Paulo ci comanda di avere sempre in memoria :"Beatius est magis dare quam accipere" [Act., 20, 35].
Per il che, passando alli stabili donati o lasciati, è d'avvertire che le chiese per questa legge non sono impedite dall'avere tutto quello che loro viene donato o lasciato: il che se non hanno in propria spezie, hanno però il prezzo, il quale è equivalente alla cosa.
Sarebbe forsi fuori di luogo l'aggiungere, ma pur con brevità non fia tanto male, che non è utile agli ecclesiastici il possedere superfluamente, poiché così sono deviati dal servizio di Dio, al quale è carico loro l'attendere.
E si ha nelle leggi ecclesiastiche tutto un titolo "Ne clerici vel monaci secularibus negotiis se immisceant" ["in Decretal.", lib. III, tit. L delle Decretales Gregorii IX] dove particolarmente il primo capitolo pare fatto per proibire li disordini presenti; e S. Paolo con poche parole comanda: "Nemo militans Deo implicat se negotiis secularibus, ut ei placeat cui se probavit" ["2 Tim. 2", 4].
Vi è un longo discorso in S. Gio. Crisostomo dove mostra dalle ricchezze della Chiesa nascere dui mali, uno, che li laici cessano di essercitarsi nelle limosine; l'altro, che gli ecclesiastici, lasciato l'officio loro, ch'è la cura delle anime, diventano procuratori, economi e dacieri, esercitando cose indegne del suo ministerio ["In Matthaeum homilia XXVI" in Migne, P. G., LVII, coll. 327-334].
Dicono qualche volta gli ecclesiastici con gravi querele che viene proibito loro quello che è concesso a tutte le altre sorti di persone, eziandio vili et infami, quasi che siano di peggior condizione.
Al che si può rispondere: prima, che non tutto a tutti conviene; né conseguita, se una cosa viene permessa agl'altri, debba esser permessa a loro: si concede a' soldati et a' gentiluomini andar armati, adunque a loro ancora doverà permettersi l'istesso?
E se non si concederà, doveranno riputarsi offesi e trattati come inferiori agl'altri tutti?
Poi, se alcuna sorte di persone nella republica possiede più della parte sua, a quella non conviene acquistar più.
Costantino Porfirogenito, Romano e Bsilio, imperatori costantinopolitani, fecero leggi che li patrizi e senatori, vescovi, monasteri etc. non potessero acquistar da' loro inferiori per compra, donazione, o testamento, per conservare quel membro necessario alla republica [Imperatoriae Constitutiones del Corpus iuris civilis = la legge citata va sotto nome di Romano senior, De praediorum acquisitione e risulta citata al III capitolo sotto le leggi Basilio Porfirogeneto dettando "Lege etiam sanxit, ne potentiores multiplicandis praediis augescerent quamquam eadem etiam ab avo eius Costantino huiusque socero Romano lata fuit: trattasi di imperatori del X secolo e Basilio II Bulgaroctono era nipote di Costantino II Porfirogeneto].
Così potrà fare il senato altra legge sopra li beni delli sudditi suoi, conveniente al suo buon governo quando ne sarà di bisogno: e la fa fa al presente sopra gli ecclesiastici, perché conviene tener così regolato il corpo della Republica, acciò che un membro non cresca più del dovere, sì che faccia il corpo mostruoso, e prendendo più alimento del conveniente, dannifichi le altre membra, togliendo loro il suo debito; e per se stesso non potendo digerire il superfluo, si riempia di mali umori, onde nasca prima infirmità in lui, e poi corrozzione di tutto il corpo.
ma lo stato degli ecclesiastici in questo Dominio è un membro che può essere una centesima parte di tutto il numero delle persone, et ha tirato in sè una porzione delli beni a questo corrispondente, ma nel Padoano più d'un terzo, nel Bergamasco più della metà; e non vi è luogo dove almeno non abbia un quarto delli beni; e se li fosse concesso acquistar ancora, non è dubbio che s'impatronirebbe di tutto il paese, lasciando tutti gli altri poveri, ignudi e servi e levando alli secolari ogni alimento.
Il luogo e tempo presente ricerca una legge che proibisca un tale eccesso.
Anticamente già, quando l'ecclesiastico era governato secondo la maniera che li santi apostoli lo instituirono, e li santi padri a loro imitazione seguitarono d'osservare, era cosa utile che avesse molti beni; e nel corpo della republica era come un stomaco che prendeva tutto il cibo sì, ma ne gigeriva poco per sè e molto per gli altri.
Così, gl'ecclesiastici, possedendo molto, e partecipando delle rendite delli beni per sé parchissimamente, e tutto il rimanente dando in elemosina, erano molto proficui alla republica.
Per il che anco tutti procuravano accumular loro possessioni e beni, nella quale erano gli ecclesiastici tutori e procuratori per li poveri e bisognosi, sì che non seguiva nissuna mostruosità, essendo li beni ecclesiastici come beni communi, che faceano accrescimento in tutto il corpo proporzionalmente, e non in una parte sola.
Ma mutata questa lodevole consuetudine, li beni e facultà passate negli ecclesiastici eccedono in grandezza, e ciò è troppo sproporzionato al corpo della republica, alla quale sarebbe di grandissimo incommodo quando più crescesse, né si potrebbe reggere, ma sarebbe necessario o che si riducessero alla debita misura, o che ne succedesse la rovina di tutto il corpo. E se bene abbiamo parlato delli beni ecclesiastici come communi a tutti loro, non perciò la possessione è ugualmente divisa tra essi, anzi tre quarti delli religiosi non vivono sopra le rendite ecclesiastiche, ma di limosine et oblazioni de' secolari, essendo le possessioni et entrate in un piccolissimo numero de clerici, il quale appena arriva alla quarta parte di essi.
E quello che più importa è che di questi la metà abita fuori dello stato, e questi tirano a sé tutte le rendite loro, con danno del publico servizio.
E se nelli tempi migliori, quando gli uomini pensavano più al cielo che al mondo, e quando fiorivano gli Augustini, che rifiutavano l'eredità lasciate alla Chiesa, privati li figli ["Ad fratres in eremo sermo 52" di Agostino = Migne, P.L., XXXIX, coll. 1570-1571], s'è fatto un tanto acquisto, che sarebbe nell'avvenire?
trovandosi ora di quelli che con artifici vanno persuadendo maggiori acquisti, sarebbe da temere al sicuro che in due o tre centinara d'anni crescessero tanto gli acquisti, che divenissero patroni del tutto.
Sono monasterii fabricati già 300 anni, e non hanno il quarto dell'entrata di quelli che non è più di 40 anni che sono edificati.
Adesso vi sono assai religiosi che hanno proibizione di posseder stabili, la quale quando fosse levata, che probabilmente potrebbe farsi, poiché vediamo ciò essersi fatto con quattro numerosissime religioni [ordini religiosi], oltre molte altre minori, pensi chi ha giudicio quali acquisti si fariano in un momento.
Molte cose nelli principii loro sono buone, che in progresso alterandosi si fanno perniciose.
L'acquisto degli ecclesiastici, nel suo principio ottimo, è venuto per quattro gradi allo stato presente.
Prima le possessioni si vendevano, e del prezzo si nutrivano gli ecclesiastici e li poveri ["Actus...",4,32-36].
Si pensò poi di ritenere gli stabili e nodrire li poveri delle rendite [Decretum Gratiani, causa 12, quaestio I, cap. 15 "futuram Ecclesiam spesso semplificato in "futurum" e cap. 16 Videntes autem].
Nel terzo luogo si passò a far quattro parti, una per il vescovo, la seconda per il clero, la terza per la fabrica, la quarta per li poveri ["c. concesso" in Decretum Gratiani, causa XII, quaest.II, cap. XXVI].
Adesso sono fermati li benefici, e nata l'opinione, che da tutti i teologhi e buoni canonisti è reprobata, che "clerici sunt domini fructuum", con tutto che abbiano li sacri canoni e li santi padri costantemente predicato che li beni ecclesiastici sono de' poveri [assunto che il Sarpi svilupperà nel Trattato delle materie beneficiarie].
Per il che anco il sacro concilio di Trento "Omnino interdicit episcopis ne ex reditibus ecclesiae consanguineos familiaresve suos augere studeant, cum et apostolorum canones prohibeant ne re ecclesiasticas, quae Dei sunt, consanguineis donent, sed, si pauperes sint, iis ut pauperibus distribuant". E poco di sotto: "Quae vero de episcopis dicta sunt, eadem non solum in quibuscunque beneficia ecclesiastica tam saecularia quam regularia obtinentibus pro gradus sui conditione observari, sed ad sanctae romanae Ecclesiae cardinales pertinere decernit" [Concilium tridentinum = vedi sessio XXV - de reformatione I e specificatamente dal capoverso de reformatione I "Omnino interdicit episcopis"].
E però non doverebbono gli ecclesiastici interpretar così in sinistro una legge fatta per necessità publica, tanto conforme all'equità e giustizia, e dire che sia fatta per tenerli inferiori agli uomini vili. Più tosto potrebbono dire che meglio sarebbe che vivessero conforme agli apostoli ["Actus 4", 32].
Vogliono forse affermare che essi apostoli, vendendo tutti li stabili e dando limosina, fossero di condizione inferiori alle persone vili? Vogliono dire che siano di peggior condizione che gl'infami? Forse tante congregazioni de regolari, che non possedono, dovranno esser riputate infami? E se rispondono che questi lo fanno volontariamente, se può replicare che il volontario o involontario fanno ben differente circa l'esser virtuoso o meritevole, ma non circa l'esser onorato o vile. In questo proposito è degno d'esser considerato un canone, dove si dice: "Bonifacius martyr et episcopus interrogatus si liceret in vasculis ligneis sacramenta conficere, respondit: Quondam sacerdotes aurei ligneis calicibus utebantur, nun e contrario lignei sacerdotes aureis utuntur calicibus" [Decretum Gratiani = "De consecratione distinctio I c.
Ma contentisi essi volontariamente di quello che hanno, che eccede di tanto la sua parte, e così restariamo accordati.
E' degno d'imitazione l'esempio di Moisè a c. 36 dell'esodo, il quale, avendo invitato il popolo ad offerire oro, argento et altre cose preziose per la fabrica del tabernacolo, quando fu offerto più di quello che bisognava, per publica proclama ordinò che nissuno più offerisse cosa alcuna.
Ma soggiungasi un'altra ragione ancora.
Se per queste leggi fosse lesa la libertà ecclesiastica, adunque per leggi pontificie che proibiscono agli ecclesiastici alienare a' secolari, sarebbe offesa la libertà secolare.
E di questa maniera essi potriano far leggi che levano altrui la libertà: e gli altri non potranno far verso loro l'istesso?
E tanto più è forte la ragione, quanto, se ben gli stabili laici non possono passar negli ecclesiastici, può nondimeno passarvi il prezzo e con la licenza anco essi beni a giusta compra: ma gli ecclesiastici non possono alienar per qual si voglia contratto gratuito, né vendere o permutare se non con avantaggio: e se li secolari, che più ne hanno ragione, non si lamentano di questo, perché doveranno essi lamentarsi di cosa di minor apparenza?
Finirò questa parte con dire che, innanzi l'anno 400 della nostra salute, Valentiniano, Valente e Graziano fecero legge che i clerici non potessero acquistar cosa alcuna dalle donne etc. [vedi Codex Theodosianus = 16.2.0. - De episcopis, ecclesiis et clericis = legge 20].
La qual legge fu anco inviata a Damaso, pontefice romano di que' tempi, che la pubblicasse; e si pubblicò; e fu anco per longhissimo tempo osservata in Roma.
E S. Girolamo, che che ne fa menzione nell'Epistola ad Nepotianum [Epist.,LII,6 in Migne, P.L., XXII, col. 532], dice non dolersi della legge, perché i clerici l'avevano meritata, ma dispiacerli l'avarizia loro, ch'avesse data occasione a' principi di farla.
Fu fatta una simil legge in Sassonia da Carlo Magno di gloriosa memoria, e servata longamente.
Del 1300 Odoardo III re d'Inghilterra fece una legge precisamente come questa, e quantunque gli ecclesiastici ripugnassero alquanto, fu posta però in essecuzione ["Polydorus, liber 13 Historiae Anglicae"].
Lodovico Molina attesta nelle ordinazioni di Portogallo esser una legge, che le chiese e monasterii per compra, successione o donazione non possono acquistar stabili, acciò non crescano più del dovere a danno de' laici le possessioni e rendite ecclesiastiche, aggiungendo che anco negli altri regni di Spagna sia in uso l'istessa legge ["De contractibus t. 2, disput. 140, l. 2, t. 8].
Certo è che Giacomo, re d'Aragona, statuì nelli regni soggetti a quella corona che li beni di realenco (così chiamano quelli che pagano alcuna cosa al re) non possino passar nell'ecclesiastico senza licenza ["Petr. Bolug. in spe. princ. R. 13": è P. Belluga, Speculum principis = il passo venne menzionato pure da R. Choppin, De sacra politia forensi libri III ad Henricum III, Parisiis, 1577, p. 528].
In Francia la medesima legge fu constituita da S. Lodovico, che è cosa molto notabile, e poi successivamente confirmata da Filippo III, da Filippo il Bello, da Carlo Bello, da Carlo V, da Francesco I, da Enrico II, da Carlo IX e da Enrico III [la citazione si rivolge alle leggi, menzionate da Sarpi in un'epistola a Leschassier del 17/III/1609, emanate da Enrico III a Blois nel 1579 e Carlo IX nel 1560 = vedi B. Ulianich, Lettere ai gallicani, Wiesbaden, 1961].
Et avendo però fatto, già 300 anni, la Republica di Venezia questa legge per la città e ducato suo, non si ha da dire che la sua estensione a tutto lo Stato sia una innovazione, poiché Salvio Giuliano rispose: "Omnes debere sequi leges et consuetudines urbis Romae". come Giustiniano imperatore riferisce [Codice di Giustiniano = lib. I, tit. 17 = legge 10].
Et in Sicilia del 1296 il re Federigo (sì come è scritto nel capitolare di quel Regno) fa una legge della forma stessa della legge veneta del 1536, se non che dà termine un anno solamente.
Pio V similmente, nella terra del Bosco [Pio V, al secolo Michele Ghislieri era nato a Bosco Marengo] dove egli nacque, avendo quivi fabricato un gran monasterio, perché ella non si distruggesse, proibì in perpetuo agli ecclesiastici il poter comprar da laici; e Clemente VIII, avvertendo quanto la santa casa di Loreto possedesse, per conservar li laici proibì che essa più comprasse.
E pur anco in Genova vi è costituzione generale che tutti li beni siano affetti alla Republica, sì che non possano essere alienati ad ecclesiastici.
Risponde bene alcuno che papa Clemente fece tal legge come principe temporale, avendo avendo richiesto licenzia a sé come papa di farla.
Considerazione molto sottile, ma non conforme alla soda dottrina teologica e morale, la quale vuole che, avendo Dio dato un stato in governo a chi tiene la maestà cin potestà independente nelle cose temporali, gl'abbia anco data auttorità di fare da sé, e senza licenza o permissione di qual si voglia, tutte quelle leggi che sono necessarie per mantenerlo.
Non si troverà mai che Dio abbia fatto un precetto, che per adempirlo bisogni pigliare la licenza da altri.
Nelle cose indifferenti, overo nelle buone ma libere, può occorrere che si commetta errore, facendole contra il volere del superiore; ma in quelle che sono di precetto espresso di Dio serve quello che disse S. Pietro: "Obedire oportet Deo magis quam hominibus" ["Actus 5", 29].
Che Dio dica al prencipe: "Fa quelle leggi che sono necessarie alla tranquillità publica, e se mancarai, io lo riceverò ad offesa"; e ci voglia licenza per obedirlo? Licenza si ricerca, dove senza non licet: addunque quello che Dio commanda non è lecito?
La natura quando dà un fine, dà ancora tutte quelle potenze che sono necessarie per ottenerlo: e Dio darà un fine et un precetto che non si possa essequire senza riconoscere in grazia degli uomini? Questo è troppo grande inconveniente.
Ma ritorniamo alla materia della legge, la quale sì come non è una nova invenzione, così di lei ancora i iureconsulti celebri hanno trattato e l'hanno difesa per giusta; e tra gl'altri Baldo ["Bal. cap. quae in ecclesiarum, c. ecclesiae S. Mariae de constit."], l'Archidiacono [soprannome di Guido da Baisio arcidiacono della cattedrale di Bologna = "Archid. cap. Romana, de appellat. in Sexto" = Sextus Decretalium, lib.II, tit.XV,cap.3], l'Abbate ["liber I, consilium 63" = Abbas siculus o Panormita pseudonimo di Niccolò de Tedeschi], Signorolo ["consilium 21" = Signorollo degli Omodei di Milano: i suoi consulti furono stampati nel 1497], Alessandro ["Alex. consilium 93" = Alessandro tartagna (1424-1477): fu famoso per i consigli ma anche per commentari al Digesto e alle Decretali], barbaccio ["Barbat. liber 2 consilium 14" = Andrea Barbazza messinese del XV secolo autore di Commentari, del De praestantia cardinalium e del De cardinalibus et legatis a latere], Croto ["Crotus libr I consilium 5" = Johann Jaeger soprannominato Crotus Rubianus da Lutero di cui fu seguace prima di abbandonarlo in nome di una riforma interna della Chiesa], Tiraquello ["Tiraq. de retractu consang. I, gl.13" = Andreas Tiraqueau, giurista francese], Gaelio ["Gail. liber 2 consilium 32" = Andrea Gail di Colonia consigliere di Massimiliano II e di Rodolfo II], Copino [Capit. de pac. pol. liber 3 to. I = R. Choppin].
Dalla lezione de' quali ogn'un potrà scoprire se questa era una causa dove convenisse procedere con censure, e massime non essendosi servate le cose sustanziali del giudicio.
Onde sarà se non molto a proposito il dire anco qualche cosa intorno l'ordine servato da sua Santità, acciò si veda quante nullità sono passate nel maneggio, dirò, così di fatto negozio, perché giudicio non si può chiamare, mancando di materia.
I teologhi dicono che il giudizio ingiusto può bene nell'esteriore parere giudicio, ma in sé non già; et ogni giudicio ingiusto esser eziandio da sé nullo; né esser il giudicio ingiusto più giudicio di quello che l'uomo morto sia uomo.
Ma ancora vederemo in ciò mancamento di forma, e così sustanziale, che lo rende di niun momento.
Primieramente, senza citazione alcuna precedente cien dichiarato che le leggi vecchie e nuove del non alienar beni e non fabricar chiese senza licenza siano contra l'auttorità della Sede Apostolica e della libertà ecclesiastica, e che siano incorsi nelle censure gli stessi legislatori.
E pure la citazione essere de iure naturali, e ricercarsi anco nelle declaratorie, eziandio di censure, è cosa notissima appresso tutti li iurisconsulti.
Il che basta per nullità così del breve sudetto, come di tutto quello ch'è seguito dopò in virtù di esso.
ma che adesso siano dichiarati per escommunicati tanti uomini pii defonti in Cristo, i quali hanno continuamente communicato con li pontefici de' tempi loro, che altro è, se non condannare gli precessori della santità sua, et affermare che non abbiano essercitato la cura delle anime come dovevano?
E pure tra quelli vi furono pontefici di eccellente virtù e santità.
Rende il papa la causa perché abbia deliberato proceder contra la Republica, dicendo:"...cum praetermisso officii nostri et causae ecclesiae desertae a nobis rationem extremo iudicii die exigi a Deo nullo modo velimus. Neque enim extimetis nos qui alioquin pacis et quietis publicae cupidissimi sumus, omnesque nostros cogitatus eo intendimus, ut soli Deo inservientes rem christianam, quantum possumus, pacate gubernemus, quique omnium animos, praesertim maximorum principum, nobiscum ea in re consentientes esse optamus, si aliquando Sedis Apostolicae authoritas laedatur, si ecclesiastica libertas et immunitas impetatur, si canonum decreta negligantur, ecclesiarum iura et ecclesiasticarum personarum privilegia violentur, quae muneris nostra summa est, id aliquo modo dissimulaturos aut officio nostro defuturos. Hac vero in re id vobis persuasum esse volumus, nos nullis humanis rationibus moveri, aut quidquam praeter Dei gloriam quaerere, aliudque habere propositum, nisi perfectam, quoad eius fieri possit, apostolici regiminis functionem".
E non senza ragione teme sua Santità il giudicio divino, quando mancasse del debito pastorale, perché Dio per Geremia [Ier., 23, 1-2 e 3,15] minaccia: "Vae Vae pastoribus qui dispergunt et dilacerant gregem pascuae meae, dicit Dominus: Ideo haec dicit Dominus Deus Israel ad pastores qui pascunt populum meum: dispersistis gregem meum et eiecistis eos, et non visitastis eos. Ecce ego visitabo super vos malitiam studiorum vestrorum, ai Dominus". Et al popolo promette: " Dabo vobis pastores iuxta cor meum, et pascent vos scientia et doctrina".
Imperò che certa cosa è la somma del carico pastorale essere la predicazione dell'Evabgelio, le sante ammonizioni et instruzzioni delli costumi cristiani, il ministerio delli santissimi sacramenti, la cura delli poveri, la correzione delli delitti che escludono dal regno di Dio: cose che Cristo Nostro Signore ha raccomandate a S. Pietro, e datele per carico; le quali sole sono state essercitate tanto da lui, quanto dalli santi martiri suoi successori e dalli santi confessori ancora, che sono succeduti di tempo in tempo, non in quel modo che le tenebre succedono alla luce.
La gloria di Dio nelle Scritture Divine vediamo essere nella propagazione dell'Evangelio e nella buona vita delli cristiani: et, in somma, come S. Paolo dice, nella mortificazione dell'uomo esteriore e vita dell'interiore, e nell'esempio delle opere di carità ["2Cor.4", 7 sgg.].
Ma se la gloria di Dio stasse nell'abbondanza delli beni temporali, averessimo molto da temere di noi medesimi, poiché agli suoi Cristo ha promesso se non povertà, persecuzioni, incommodi ["Ioan. 15", in effetti 16, 1-4]; e finalmente, come l'istesso vulgo conosce, li travagli e patimenti sono le visite e le prove degli amici di Dio, e niuno, dice l'Evangelio, segue Cristo, se non doppo aver presa sopra le spalle la propria croce ["Matth. 8", in effetti 10,38].
E' molto differente dalla dottrina di S. Paolo quello che da alcuno è stato disseminato in molti luoghi et a molte persone, e cioè che non si sa vedere perché in questa città si possa commendare di religione, imperò che, se bene vi vi abondano le limosine et opere pie verso li poveri, et il decoro delle chiese et il culto divino, il cimento però del cristiano è il favorire la giurisdizione ecclesiastica; e di questo si vede in Venezia il contrario;. La sentenza di S. Paolo è: "Si tradidero corpus meum ita ut ardeam, charitatem autem non habuero, nihil sum" ["Chor. 15", in vero 13, 3: il testo della Vulgata non riporta sum ma mihi prodest]. Leggesi nel Santo Evangelio che il Nostro Salvatore nel giorno del giudicio dimandarà conto alli reprobi delle opere di pietà e di misericordia non esercitate: "Esaurivi enim, et non dedistis mihi manducare: sitivi, et non dedistis mihi potum: hospes eram, et non collegistis me: nudus, et non operuistis me: infirmus et in carcere, et non visitastis me" ["Matth. 25", 42-43].
ma che sia levata a' scelerati la licenza di offendere il prossimo, che sia lasciata alli secolari una parte della porzione de' beni che loro conviene, non è da temere che Dio ne ricerchi ragione; anzi possiamo animosamente dare tutti li beni della Chiesa a' poveri, senza dubitare che Dio per ciò resti offeso.
Né si deve tralasciare qui di ponderare anco l'ultime parole di quel breve, dove si dice: "Quin immo nulla alia ratione melius publica illa christianae religionis incommoda [religionis hostium incommoda nel testo del breve papale], in quibus evitandis tantopere insistitis, longe a vobis propulsabitis, quam si ecclesiarum et ecclesiasticorum, qui pro vobis dies ac noctes excubant et assiduas ad Deum preces effundunt, immunitates et iura (prout religiosos et pios vires decet) conservaveritis".
Ha bisogno certamente la Republica di essere aiutata con le orazioni degli ecclesiastici, per il che ella anco assiduamente si raccomanda loro; e ben sa quello che il savio dice: "Deprecatio pauperis ex ore usque ad aures perveniet" ["Eccli. 21", 6]. E si duole quando alcuni, poco intenti a queste sante opere, sono causa col male essempio di molti peccati nelli laici; onde, in luogo di placare la divina giustizia e commuoverla a misericordia verso noi, si irrita tanto più lo sdegno suo a castigarci col mezo degl'infedeli. Né dobbiamo credere che le orazioni dei più ricchi e meglio agiati siano per piegare maggiormente la Maestà Divina, della quale è scritto: " Neque despexit deprecationem pauperis" ["Psal. 21", 25], con ciò sia che molto male averebbono fatto e farebbono con questa dottrina tanti santi monachi et eremiti, che vissero e vivono in estrema povertà e abiezzione, con ferma credenza che in tale stato le orazioni loro debbano più facilmente ascendere alla presenza di Dio.
Ma è tempo di passare al terzo capo controverso [annota il Sarpi in questa sua opera], il quale è in materia del giudicare gli ecclesiastici: la qual cosa debbe esser trattata separatamente, poiché anco in diverso tempo fu presentato il breve sopra essa materia. Forse la Provvidenza Divina dispose che, come abbiamo detto, da quali si sia delli ministri pontificii fusse errato nel presentar delli brevi, acciò che la Santità sua avesse qualche tempo di pensar meglio di quanto momento fosse il negozio che s'incominciava: ma non però restò sua Beatitudine di commandare che l'altro breve sopra li dui carcerati fosse presentato, come fu fatto a' 25 di febraro, con la soprascritta Marino Grimano duci et Reipublicae Venetorum, ancor che la Santità sua fosse consapevole della morte di quel principe, successa dui mesi prima, et avesse fatti fare gli uffici di congratulazione col Serenissimo principe presente, suo succesore [il breve recava, come il precedente, la data del 10 dicembre e quindi il nuovo doge Leonardo Donà si lamento del ritardo della consegna, dell'incongruenze formale e della severità dei contenuti = come si legge nell'Archivio di Stato di Venezia (Esposizioni collegio 25 febbraio 1606) il nunzio apostolico gli replicò: Io non posso rispondere altro alla Serenità vostra, se non che nostro Signore non ha innovato alcuna cosa, mentre che questo breve de preggioni si doveva presentare con l'altro delle parti li mesi passati, e se nbene è dricciato al principe morto, è anco dricciato, come si può vedere alla Repubblica].
Qualche canonista defenderebbe questa azzione con la dottrina loro: Papa est iudex vivorum et mortuorum; ma più tosto si deve credere che abbia pensato, essendo l'istessa dignità, non importasse la mutazione della persona, in che averà li canonisti tutti contrari, i quali vogliono che, trattandosi di censure, chiamate materia odiosa, le parole debbano esser strettissimamente interpretate. Laonde se pretende che il Serenissimo duce presente sia per ciò ammonito, non glielo concederanno: sì che contra di lui, anco per questo capo, ha proceduto senza servare un atto ch'è sustanziale al giudicio, e cioè la citazione per la declaratoria, e l'ammonizione per le censure. Si deve tener per cosa certa che se il pontefice avesse ascoltate le ragioni, dove la Republica di venezia fonda l'autorità sua di giudicar gli ecclesiastici, mai averebbe sopra ciò mossa parola; ma non avendo voluto trattar et udire le ragioni di essa Republica con quella pazienza, carità e maturità che si prometteva dalla Santità sua, come padre universale della cristianità, non è maraviglia se biasma li giudicii della Republica, affermandoli fondati sopra uso e consuetudine vòtissima, e sopra alcuni brevi de Pontefici. Rispose il senato al breve del pontefice in poche parole: maravigliarsi che nasca cotidianamente nova materia di dissensione, e che si tenti di sovertire quelli fondamenti, sopra quali la sua libertà è stabilita per 1200 anni, imperciò che dal nascimento della republica li maggiori suoi hanno ricevuto da Dio l'auttorità di opunire qualunque delinquente, la quale hanno essercitato continuamente ad onor di Sua Maestà Divina, con quiete publica et approbazione delli precessori di sua Santità, e lode universale. Di consuetudine non si fece menzione alcuna, atteso che ha la potestà sua molto più altamente e fermamente fondata che sopra un uso, se bene immemorabile; perché ella tiene per indubitata la dottrina dei teologhi e dei migliori canonisti, che l'essenzione degli ecclesiastici dal foro secolare nelli delitti non ecclesiastici ma temporali, o, come Giustiniano dice, civili, non sia de iure divino, ma per privilegio de' principi, se però alcuno non volesse pigliare il significato della parola ius divinum tanto largamente o abusivamente che vogli dire ius humanum.
Questa dottrina, che se gl'ecclesiastici non fossero per privilegio e grazia essentati sarebbono soggetti a' magistrati secolari, si mostra e conferma con gl'essempi del vecchio Testamento, dove si vede che tutti li re hanno commandato e giudicato e punito li sacerdoti e questo esser stato fatto non dagli re cattivi overo mediocri solamente, ma dai santissimi e piissimi David, Salomone, Ioas, Ezechia e Iosia, lo abbiamo precisamente nell'Evangelio, nelle parole di Cristo Nostro Signore dette a Pilato: "Non habens potestatem adversus me ullamo, nisi tibi datum de super" ["Ioan. 19",11]; aggiuntovi (se alcuno volesse dargli qualche senso stravagante) l'esposizione di S. Agostino ["Super Ioann. tract. 116" in Migne, P.L., XXXV, coll.1942-1943], di S. Bernardo ["Epist. 42" Ad Henricum Senonensem], del cardinale gaetano ["in 2 quaestio 62, art. I" nel commento sulla Secunda Secundae di Tommaso d'Aquino], che il giudicio di Pilato fu bene iniquissimo, ma non usurpato. Oltre di che si ha la confirmazione ancora nell'essempio di S. Paolo, il quale avendo congiettura che Festo, sotto pretesto di giudicarlo in Ierusalem, volesse darlo in mano agl'Ebrei, appellò a Cesare ["Act. 25"]; cosa che mai averebbe fatta, quando non fosse stato legitimo suo giudice, essendo peccato mortale a chi non ha potestà legitima. Vien ben fatta certa considerazione da un scrittor moderno, Che S. paolo avrebbe appellato a Pietro, ma che non lo fece, perché sarebbe stata stimata pazzia. Considerazione ben degna d'un intelletto perspicace, ma non già degna della risoluta constanza di S. Paolo, che fosse restato di dire una verità per timore d'esser riputato pazzo. Non ebbe egli questo rispetto innanzi a Festo, né restò di dir parole per causa delle quali il prefetto gli rispose "Insanis, Paule" ["Act. 26",24] ed esso stesso S. Paolo dice: "Nos predicamus Iesum Christum crucifixum Hebrais quidem scandalum, gentibus autem stultitiam" ["I Cor. I", 23]. E pure non restava di dire e predicare quello che sapeva essere riputata pazzia. Però non faccia in modo alcuno questa ingiuria a S. Paolo, poiché veramente quel santissimo et essemplarissimo apostolo non la merita. Ma che diremo dei precetti di S. Pietro e del medesmo S. Paolo? I quali sono: " Subiecti igitur estote omni humanae creaturae propter Deum, sive regi, quasi praecellenti, sive duvibus, tamquam ab eo missis ad vindictam malefactorum, laudem vero bonorum, quia sic est voluntas Dei"["I Petr. 2", 13-15]. E di questo: " Admonet illos principibus et potestatibus subditos esse, dicto oboedire" ["ad Tit. 3",1]: e quello che si ha nel decimoterzo capitolo Agli Romani ch'è come un sole per rischiarare tenebre quali si siano di dubitazione: "Omnis anima potestatibus subdita sit: non est enim potestas nisi a Deo; quae autem sunt, a Deo ordinata sunt. Itaque qui resistit potestati, Dei ordinationi resistit; qui autem resistunt, ispsi sibi damnationem acquirunt. Nam principes non sunt timori boni operis, sed mali. Vis autem non timere potestatem? Bonum fac, et habebim laudem ex illa, Dei enim minister est tibi in bonum. Si autem malum feceris, time: non enim sine causa gladium portat, Dei enim minister est, vindex in iram ei qui malum agit. Ideo necessitate subditi estote, non solum propter iram, sed etiam propter conscientiam. Ideo enim et tributa praestatis, ministri enim Dei sunt, in hoc ipsum servientes. Reddite ergo omnibus debita: cui tributum, tributum; cui vectigal, vectigal; cui timorem, timorem; cui honorem, honorem".
Veggasi S. Agostino, che in quel numero de' soggetti al prencipe secolare pone anco se stesso ["Expositio ad Romanos nume. 72" = Expositio quorundam propositionum ex epistola ad Romanos, 62, in Migne, P.L., XXXV, coll. 2083-2084]. Veggasi Grisostomo ["super epistulam ad Romanos Homel." = Homilia XXIII, in Migne, P.G., LX, coll. 613-618], Teodoreto, Teofilatto et Ocumenio [Teodoreto vescovo di Ciro moderato sostenitore delle teorie nestoriane = Commentarius in omnes S. Pauli Epistulas; Teofilatto arcivescovo di Bulgaria, esegeta del passo paolino in Commentarius in epistulam ad Romanos, in Migne, P.G.,CXXIV, col. 514; Ecumenio -alla latina Oecumenius- vescovo di Tricca in Tessaglia )X sec.) la cui esposizione del passo paolino si trova nel Commentarius in epistulam ad Romanos, in Migne, P.G., CXVIII, coll.575-578 che con pertissime parole includono apostoli, evangelisti, profeti, sacerdoti e monaci.
Leggasi S. Tomaso sopra quel medesimo luogo, e vederassi che afferma apertamente ogni essenzione ecclesiastica esser per privilegio de' principi [Super epistolas S. Pauli Commentaria praeclarissima..., Venezia, 1510, f. 45-46].
Ma S, Bernardo ad un arcivescovo scrivendo più chiaramente dice: "Omnis anima potestatibus sublimioribus subdita est: si omnis est, est et vestra, quis vos excipite ab universitate? Si quis tentat excipere conatur decipere" [ep. 42, il cui citato passo si legge in capo VIII, in Migne, P.L., CLXXXII].
Considerino i contradicenti se mai alcuni dei santi pontefici, vescovi o altri sacerdoti hanno detto d'essser essenti dalla potestà del prencipe e de' magistrati; che mai ne troveranno, ma sì bene troveranno che ciascuno ha confessata la suggezzione, solo negando la giustizia nella causa perché erano condennati.
Un famoso essempio abbiamo di S. Policarpo vescovo di Smirna, discepolo di S. Giovanni Evangelista, uno degli fondatori della nostra fede, dopò gli apostoli, eccllentissimo; le parole del quale portate da Eusebio sono queste: "Magistratibus enim et potestatibus a Deo constitutis eum honorem, qui nostrorum animorum saluti nostraeque religioni nihil affert detrimenti, pro dignitate tribuere docemur" ["Euseb. liber 4 c. 4" = dell' Historia ecclesiastica].
Alcuni dicono esser commandata dall'apostolo la soggezione agli prencipi quando erano infideli, ma non dapoi che sono fatti cristiani, e questo perché gli ecclesiastici per l'ordine sacro e per auttorità spirituale sono maggiori.
Et a costoro S. Gio. Crisostomo risponde in poche parole: "Si enim Paulus, cum gentiles adhuc essent principes, praecipit, multo magis oportet et fidelibus exhibere; quod si maiora tibi concredita esse dixeris, disce non nunc honoris tui tempus esse: peregrinus enim hic es et advena. Tempus erit cum omnibus apparebis illustrior; nun vero vita tua abscondita est cum Christo in Deo: quando Christus comparuerit tunc et vos comparebitis in gloria" [Homilia XXIII = coll. 617-618].
Costantino Magno [continua il Sarpi in questa sua opera], circa il 315 essentò gli ecclesiastici dalle fazzioni publiche, personali e curiali; Constanzo e Constante suoi figli aggiunsero le essenzioni dalle fazzioni sordide e dalli censi, e concessero alli soli vescovi essenzioni dalli giudicii del foro secolare, restando gl'altri ecclesiastici