Quinto Orazio Flacco
(Venosa 65 a.C. – Roma 8 a.C. )
Di ascendenza culturale omerica la straordinaria erba moli o erba moly è oggetto di dibattiti ancora ai tempi di Aprosio e Gandolfo: all'interno del Theatrum Sympatheticum, opera tanto ambita da Aprosio e tuttora nella sua "Libraria", dal GOCLENIUS, tra gli altri, è studiata in merito all' UNGUENTO ARMARIO e citata più volte, come si può leggere in questo primo passo ed in questa altra sequenza narrativa questo altro.
Vita.
La vita di ORAZIO è ricostruibile in maniera sufficientemente facile attraverso la biografia a lui dedicata da Svetonio e l'opera stessa del poeta, che continuamente ha parlato di sé (anche se le sue "confidenze" col lettore mai si aprono a vere "confessioni": in questo "gettare l'esca" alla curiosità del lettore sul conto della propria vita è, secondo I. Lana, uno dei maggiori motivi di fascino delle opere del venosiano, e soprattutto delle "Odi").
Come vedremo, questa stessa vita, così inscindibilmente legata all'attività poetica e culturale, "così scarsa in generale di vistosi eventi esteriori e così piena di intimità, di raccoglimento, di appartata contemplazione e meditazione, di semplicità, di gusto raffinato del bello, riflette pienamente il tono e l'accento vero della poesia oraziana" [Alfonsi].
Origini umili, ma studi eccellenti. Figlio di un liberto, ch’era riuscito a racimolare un piccolo patrimonio col mestiere di "coactor exactionum" (esattore delle pubbliche aste), O. fu portato a studiare proprio dal padre (quello ch’egli stesso definirà "il migliore dei padri", suo maestro di vita e di morale) nelle migliori scuole di grammatica e retorica di Roma (fu allievo, tra gli altri, del severo grammatico Orbilio), andando a perfezionarsi persino ad Atene versi i vent'anni (ma il nostro poeta avrebbe sempre sofferto del complesso d'inferiorità derivatogli dalle sue umili origini).
Il fervore repubblicano e la triste esperienza di reduce sconfitto. Lì O. aderì all'ideologia repubblicana dei giovani patrizi romani che vi studiavano, anche perché suggestionato dai temi delle scuole di retorica: fu coinvolto, così, dalla guerra dei "tirannicidi" Bruto e Cassio, ai cui comandi si arruolò come "tribunus militum", combattendo nella storica battaglia di Filippi (42). Si salvò miracolosamente (come lui stesso racconta, gettò lo scudo e si diede alla fuga: ma si tratta di una reminiscenza archilochea?), e riuscì a tornare a Roma durante un armistizio (41), profittando del condono politico di Ottaviano, ma senza protezioni politiche. Le sostanze lasciategli dal padre erano state inoltre confiscate: così, dopo aver sperimentato anche la povertà, per vivere s’impiegò come contabile nell’amministrazione statale ("scriba quaestorius").
L'incontro con Virgilio e Mecenate. In seguito, frequentò a Napoli la scuola epicurea di Sirone in compagnia di Virgilio. Iniziata l’attività poetica con gli "Epodi" e le "Satire", nel 39 fu presentato proprio da Virgilio a Mecenate, che ben presto lo legò a sé come amico e gli donò (33?) un podere nella Sabina: un'amicizia che non poté non alimentare le invidie e le malelingue dei ricchi romani del tempo.
La svolta cesarista: O. intellettuale "allineato". Il nostro poeta, così, tradendo la sua giovanile fede politica, fini con l'abbracciare, con sempre più convinzione e dedizione, le cause del cesarismo: Augusto gli offrì addirittura un lusinghiero posto di segretario, ma O. declinò l’invito, con molto garbo ma con altrettanta fermezza, assecondando tuttavia il programma del princeps sia sul piano politico sia su quello letterario: fu un intellettuale, dunque, sostanzialmente "allineato", se non addirittura "poeta vate". Nel 17 fu inoltre incaricato di scrivere il "Carmen saeculare" in onore di Apollo e Diana, da cantare appunto durante i "ludi saeculares": occasione, questa, particolarmente solenne, dato che quei ludi in quell'anno sancivano ufficialmente l'inizio della "Pax Augusta". Nel 20, O. iniziò a pubblicare le "Epistole"; nell’8 a.C. scrisse 4 libri di Odi.
La morte. Ma nel sett. dell’8 a.C., Mecenate moriva: O. si sentì perduto, tanto che anche lui di lì a poco si spense, forse a causa di un'emorragia cerebrale. Già da 5 o 6 anni, tuttavia, non componeva o pubblicava quasi più nulla, preferendo un completo "otium" di riflessione e di ricerca puramente speculativa. Fu sepolto proprio accanto alla tomba dell'amico e protettore, "la metà dell’anima sua", com'egli stesso lo definì.
Opere.
Premessa. L'attività poetica di O. si svolge su piani diversi e paralleli, coagulandosi essenzialmente su tre generi: satira esametrica, poesia giambica e poesia lirica. A tal proposito, si usa generalmente distinguere 3 fasi, "in prospettiva con l'evoluzione culturale dell'uomo e con la condizione politica di Roma:
1. la I fase (43-30 a.C. ca) appartiene all'età giovanile del poeta: è il tempo degli "Epòdi" e delle "Satire" più antiche, in cui emerge lo stato di agitazione e di sconforto del poeta, ed irrompe il suo risentimento verso i nemici politici dopo Filippi.
2. la II fase (30-23 ca) coincide praticamente con la composizione delle "Odi", e più esattamente dei primi 3 libri: è il momento in cui vengono a ridimensionarsi la dialettica e la lotta politica, e quasi di conseguenza il poeta, che aveva già cominciato ad usare nelle satire ultime (ossia nella maggior parte di quelle del II libro) un tono più moderato e bonario, si dedica decisamente alla lirica. E' così che egli scopre se stesso, e la sua tecnica si fa soggettiva ed introspettiva; lasciati da parte odii personali e contingenze particolari, eleva il tono universale della sua poesia, tripudiando per il successo di Ottaviano ad Azio, che pone fine alle lacerazioni delle guerre civili;
3. la III fase (23-13 ca), infine, è quella della piena maturità del poeta, emulo, come già Virgilio nell' "Eneide", della composizione di versi paradigmatici per i fasti della sospirata Pace augustea. Appartengono a questo periodo i 2 libri delle "Epistole", il "Carme secolare" e il IV libro delle "Odi". " [libero adattamento da Fiordelisi]
Per una migliore presentazione delle opere, dei loro contenuti e delle loro considerazioni in chiave umana e poetica, preferisco tuttavia procedere per mero ordine cronologico di composizione o di pubblicazione, esponendo le stesse opere in brevi monografie singole. Abbiamo, così:
Epòdi. Gli "Epòdi" (41-30 a.C.) sono 17 componimenti (O. li chiama "iambi"), ordinati metricamente, secondo la consuetudine alessandrina e neoterica. Il nome di "epodon liber", o più brevemente "Epòdi" (come appare nei manoscritti, ma forse solo dal III sec. d.C.), fu loro assegnato dagli antichi evidentemente per il fatto che, nelle strofe distiche dei primi dieci carmi, ad ogni trimetro segue un dimetro giambico detto, appunto, "epodo".
O. emula i giambografi greci, Ipponatte e soprattutto Archiloco (ma ne mutua - in modo peraltro decisamente originale - più che altro i metri e l’ispirazione aggressiva, non già i contenuti), anche se il suo "furor" è, in verità, talvolta alquanto o soltanto letterario. Tuttavia, gli "Epòdi", malgrado una certa ridondanza stilistica, sono fondamentalmente più violenti delle "Satire" (come vedremo), e più amari: il poeta vi deplora le disgrazie della patria e afferma la propria indignazione per alcuni scandali derivati dalle guerre civili (lo "scelus", la "culpa", il delitto originario, che diviene nella sua epoca la colpa di tutta una generazione). Il tutto tradisce, come dire, la matrice e l'ispirazione ancora giovanili di questa poesia.
Ora, quindi, sono appunto le ansie per il pericolo della guerra civile (epòdi VII e XVI); ora invettiva contro un abietto tribuno militare (IV), contro un ringhioso codardo (VI), contro un poetastro (X), contro una vecchia libidinosa (VIII e XII), contro una strega (V e XVII).
Tuttavia, in fondo, anche qui affiora la proverbiale "mitezza" di O.: timidamente in I e IX, indirizzati a Mecenate (il massimo ed unico dedicatario della sua poesia) al tempo di Azio e oscillanti tra ansia e fiduciosa serenità; più decisamente nei rimanenti, e soprattutto nel II, dove malgrado l’ironia finale c’è un forte gusto per la vita agreste; infine, nel XIII compare, forse per la prima volta, un altro tema caratteristico della sua poesia: quello della fugacità della vita.
In questi carmi, sono usati vari metri: strofe giambica, alcmania, archilochea, piziambica.
Satire. Le "Satire", dette dal poeta stesso "Sermones" (ovvero propriamente "conversazioni", e dunque scritte con stile e lingua studiatamente quotidiani), composte in esametri dattilici, sono divise in 2 libri: il I (35-33 a.C.) ne comprende 10, il II (30 a.C.) 8. Difficile ne è la cronologia interna.
Abbandonate le inquietudini e il disadattamento degli "Epòdi", attraverso certo i temi della predicazione filosofica (in specie, quelli della diàtriba cinico-stoica, ma stemperati dal loro rigido moralismo) e la lettura di poeti quali Lucilio (di cui vuol essere versione moderna, ma altresì originale: satire I4 e I10), O. cerca di elaborare in forma piana e discorsiva (si tratta di componimenti misurati, caso mai vivaci, ma come detto non sfoghi moralistici) un suo ideale di misura (il cosiddetto "giusto mezzo", I1 e I2) che lo salvi dalle tensioni interne e non gli precluda il godimento della vita ("autàrkeia" ["bastare a se stessi"] e "metriòtes" ["misura"]).
Il poeta insomma ricerca una morale di autosufficienza e di libertà interiore, valendosi di uno straordinario senso critico e autocritico, oltre che del suo tatto e della sua conoscenza del mondo: il ragionamento si mantiene sempre sul piano psicologico-umano, e la polemica non è tanto contro i vizi in sé, quanto contro la loro vera radice, ovvero l’eccesso: come dire che egli si propone non certo di cambiare la società romana ed il modello etico di riferimento, ma almeno di fornire qualche utile elemento di riflessione per intervenire sulla coscienza dei singoli.
Inoltre, nelle prime "Satire", O. si sforza di dimostrare che la morale epicurea non è in disaccordo con i valori tradizionali di Roma: moderazione, saggezza, rispetto dei costumi, eccetera. Insiste anche sulla semplicità dell’esistenza rurale quale condizione della felicità, parlando, in questo senso, un linguaggio simile a quello di Virgilio e precisamente nello stesso periodo, all’incirca, in cui questi componeva le sue "Georgiche". Affinità vi sono anche col linguaggio di Tibullo. Inoltre, l’amicizia da lui spesso elogiata non è scambio di favori, e ancor meno schiavitù (come spesso avveniva a Roma quando gli amici erano di condizioni ineguali), ma una comunione profondamente spirituale o, anche, ideale.
Appare chiaro, insomma, che i "Sermones" toccano una straordinaria pluralità di temi, che non si lasciano imbrigliare in una sterile didascalia; mi limito, così, a ricordare le satire ritenute dai più le più rappresentative, oltre quelle già accennate. Così, ad es., un'altra satira programmatica è la II1, dove O. risponde alle critiche rivolte a se stesso e al genere satirico. Spunti autobiografici, invece, si riscontrano nelle satire: I4 (sul padre adorato); I6 (sulla presentazione a Mecenate); I5 (sull'avventuroso viaggio a Brindisi al seguito di Ottaviano); II6 (in cui esprime la gioia per la villa donatagli). Satire più propriamente etico-filosofiche sono invece: I2 (sull’adulterio; vigorosa); II3 (sulla pazzia degli uomini, eccetto il filosofo; briosa); II6 (vi si trova l’apologo del topos campagnolo e del topos urbano, con cui il poeta esprime simbolicamente l'angoscia che prova in città ed il desiderio di rifugiarsi nella tranquillità della campagna).
"Dunque, le satire di O. non sono un'astrazione teorica, ma una proiezione della realtà, sia rispetto alla vitae ratio seguita dal poeta, sia rispetto alle sue dottrine letterarie, sia infine come quadro d'ambiente, che ci riporta al "Satyricon" di Petronio e agli "Epigrammi" di Marziale: hanno un valore di trasmissione culturale dei vizi sociali" [Fiordelisi].
Odi. Le "Odi" (titolo secondo i grammatici, "Carmina" per O.) constano in tutto di 4 libri: i primi 3 (88 odi), dedicati a Mecenate, furono pubblicati nel 23 a.C., il IV (15 odi: quindi, in tutto 103 odi) nel 14-13 a.C.. O. aggiunse il IV libro dopo molti anni, su richiesta di Augusto, per celebrare la vittoria di Druso e Tiberio su Reti e Vindelici.
Il criterio d’organizzazione del libro sembra essere quello della "variatio": sia dal punto di vista metrico-formale (ben 13 sono i metri usati, dall'alcaico al saffico all'asclepiadeo), sia per tono e contenuti (alternanza di temi politici e temi privati, di stile alto e stile leggero).
L’ispirazione oraziana qui si modifica e purifica in composizioni raffinatissime, chiuse nel giro di strofe perfette (il modello è nei poeti classici greci: Alceo, Saffo, ma anche Anacreonte, Bacchilide, Pindaro…): in questo senso, potremmo dire che le "Odi" si caratterizzano come un riuscito tentativo di trasferire a Roma i ritmi della poesia eolica e rappresentano, per molti versi, l'opera più matura del nostro poeta. Del resto, lo stesso O. altrove aveva precisato la distinzione, all'interno della sua produzione, tra poesia giambica e poesia lirica (una distinzione che evidentemente trascendeva il canone meramente metrico-formale), attribuendo proprio a quest'ultima il merito della sua gloria di poeta.
Lo stile diventa così esteriormente asciutto, la forma è rigorosa, quasi fredda; il tutto, insomma, caratterizzato da un lato dalla sapienza tecnica (la declamata "callida iunctura", cioè l’accorta disposizione delle parole e l’accurata articolazione del periodo) e dall’altro dal controllo di impressioni e sentimenti: O. si presenta come discepolo dei "poeti nuovi", alla ricerca anch’egli della perfezione formale e delle soddisfazioni derivanti dal superamento delle difficoltà.
Se O. nei "Sermones" era apparso, così, poeta e narratore, nelle "Odi" si rivela nelle vesti di un sublime "moralista": non perché vada (neanche qui) predicando una morale, ma perché eccelle nel cogliere e nell’esprimere in un ritmo, in un accostamento di parole, nella suggestione di un’immagine, un’ "esperienza" privilegiata che illumina l’anima e la rivela a se stessa.
La causticità polemica è allora qui abbandonata come giovanile intemperanza (I16): è invece insistente l’idea della "misura" ("aurea mediocritas", II10). Essa assume una dimensione nuova: da una parte viene ancorata saldamente al concetto di felicità con motivi tradizionali e stilizzazioni (modestia, parsimonia, campagna contro città, etc…: ad es., I18, II2-3-15-18, III1 e 16), ma con l’aggiunta del motivo - riflesso certamente autobiografico - della felicità di chi, oltre che saggio, è anche poeta (II16, III14…); dall’altra, sul piano della meditazione, è associata all’idea della morte, che tutto rilivella (II3 e 8, III1 e 24). Il senso della fugacità della vita acquista qui massimo rilievo e ispira tra le "odi" più celebrate: I11 (v’è il famoso motivo del "carpe diem"), I24 (in morte del poeta Q. Varo), I28 (sulla tomba del pitagoreo Archita), II14 (a Postumo), ecc…
Attinto alle correnti filosofiche dell’epoca (in special modo, l’epicureismo), ma filtrato dalla sensibilità dei lirici greci (ad es., Mimnermo), tale senso di fugacità aleggia come malinconia leggera su questa poesia, che è pure sostanzialmente limpida e serena. Di nuovo, dappertutto traspare la bonaria umanità, che si esprime soprattutto in un trepido senso dell’amicizia, nel gusto della compagnia (le cosiddette "odi conviviali"), nel controllo stesso delle passioni nelle non poche odi dedicate a donne i cui modi (Lidia, Làlaga, Cloe, Mirtale…) celano quasi certamente persone (e forse financo vicende) reali (O. aveva già manifestato a Mecenate la necessità di una poesia che cantasse l'amore: chiede infatti proprio all'amico di porlo tra i poeti lirici [I 35]).
I temi maggiori delle odi.
Come già risulta evidente, all'estrema varietà metrica e ritmica di quest'opera si associa un altrettanto straordinaria e variegata sequela di motivi filosofici, personali, amorosi, conviviali, storico-politici ed ideologici, tuttavia trattati in un'espressione sempre molto misurata della propria interiorità di poeta: O. trova, insomma, in quest'opera la sua più alta e completa espressione, con ampiezza di toni e ricchezza di sfumature. E' possibile, tuttavia, estrapolare alcuni temi che sono rimasti particolarmente e giustamente celebri per la profondità del loro insegnamento e per la partecipazione e la chiarezza con cui sono comunicati. Ad es., una delle intuizioni fondamentali dell’epicureismo era il valore proprio di ogni istante: O. se ne impadronisce e ne fa uno dei cardini privilegiati del suo lirismo. Il "carpe diem", nel quale si è pensato di poter riassumere questa sua "saggezza" (immiserendola, in questo modo, in una formula angusta e anche un po’ volgare), è innanzitutto il nucleo di una poetica: non è tanto la ricerca, cioè, fine a se stessa, del piacere, ma il tentativo di scoprirlo nel puro e semplice fatto di vivere. In questa prospettiva, O. canta l' "otium", che è anche e soprattutto quiete dell’intelletto e dell’anima, libertà interiore: il "carmen" prolunga la strada imboccata col "sermo", trasfigurando ciò ch’era stato consiglio obiettivo in scoperta dell’anima. Il pensiero stesso della morte, anziché rivelarsi amaro, dà tutto il suo valore alla rinnovata presenza della vita.
Forse anche il vistoso apparato mitologico presente nelle "odi" va inteso, al di là del richiamo alessandrino o degli agganci alla religione della Roma augustea, come un elemento di voluta fissità, oltre che di pindarica sublimazione della poesia; epicureo, O. non crede davvero all’intervento degli dèi nel mondo: egli ne fa un gioco, allargando la sua sensibilità di poeta alla creazione tutta intera, senza voler scoprire in essa il segno di una trascendenza divina. Ma, in fondo, non è un problema che lo interessi molto. Egli onora le divinità campestri della sua tenuta come presenze familiari che prolungano il suo personale universo interiore, non per manifestare ad esse la propria "adorazione".
Quasi sicuramente, infine, nessun latino ha avuto più di O. la coscienza di essere poeta, di essere cioè in grado di donare l'immortalità con i propri versi: non per nulla, accettò di divenire uno dei vati ufficiali del regime di Augusto: ne fa fede l’importante filone etico-politico che riscontriamo nelle "Odi" (ovvero i 6 componimenti - detti "odi romane", appunto - con cui si apre il III libro, e che vanno dall'iniziale esaltazione delle antiche "virtutes" e della religiosità degli avi alla scansione poetica dei momenti o eventi del mito e della storia di particolare importanza: ma accenni politici attraversano in verità l'opera nella sua interezza), nonché il successivo "carmen saeculare".
Carmen Saeculare.
Come già ricordato, Augusto nel 17 a.C. indìce i "ludi Saeculares", nel momento più adatto, scelto con grande abilità, per celebrare i ludi, testimonianza di un'epoca di guerre e di lotte civili che si chiude e di un'era di pace che si apre.
Morto Virgilio nel 19, nessun altro poeta poteva ricevere l'incarico di comporre l'inno per i ludi, perché nessuno più di O. aveva dimostrato, specialmente con le odi romane, di saper interpretare l'essenza della grandezza di Roma. O. accettò l'incarico, che significava per lui riconoscimento del suo ruolo di poeta nazionale e, più ancora, consacrazione della sua attività lirica, che appunto dalla composizione del "Carmen saeculare" trasse nuova linfa e riprese sostanza.
Così, il poeta affida al canto di due cori di giovani, l’uno maschile e l’altro femminile, il compito di invocare la protezione degli dèi su Roma.
Il "Carmen" presenta, ovviamente, i difetti propri delle composizioni eseguite su commissione, ma, se non è sorretto da altissima ispirazione, è tuttavia opera di altissima dignità artistica e, soprattutto, di profonda sincerità. Inoltre, in tutti quei luoghi in cui il poeta può liberarsi dagli obblighi impostigli dalle circostanze o dalla liturgia e dispiegare liberamente la sua fantasia, egli raggiunge "l'intensità poetica delle sue liriche più felici, interpretando con severità e serietà il mito storico di Roma e di Ilio, ma soprattutto esprimendo un ideale quasi ieratico di potenza e di predominio" [Turolla].
Epistole.
Le "Epistole" sono in esametri e si compongono di 2 libri: il I (di 20 componimenti) dedicato a Mecenate, uscì nel 20 a.C.; delle 2 epistole del II libro, quella ad Augusto è del 14 o 13, quella a Floro è del 18 ca.
L’epistola in esametri è probabilmente una sperimentazione originale: O. non si richiama, del resto, ad un inventore del genere. Con essa (di cui si discute il carattere "reale" o semplicemente "letterario"), il poeta cerca un dialogo più intimo e raccolto con sé stesso: c’è un bisogno di calma e di tolleranza, in cui si annida tanta esperienza umana, interiorizzata in una sorta di ascesi laica (e il tutto presuppone lo spostamento verso una periferia agreste, che risuona di memorie filosofiche: quasi un "angulus", insomma, di meritato "otium"): è il frutto della migliore lezione del suo epicureismo (non vi è dunque "svolta" in senso stoico, come taluno ha voluto supporre).
Le lettere, così, sono dirette ad una pluralità di personaggi, umili e potenti, giovani ed adulti, che rappresentano tutto il mondo relazionale ed affettivo del poeta; esse forniscono uno spaccato del suo mondo interiore, un punto di sintesi delle sue riflessioni sulla vita, sugli uomini, sulla filosofia; esprimono, insomma, la voce più matura di O., che vive con bonario distacco le vicende dell'esistenza e che attribuisce ai fragori ed alle inquietudini del vivere un valore ormai relativo: l'ammonimento a conseguire la saggezza, unico rimedio ai mali che affliggono l'uomo, è - sotto questo aspetto - il vero e genuino elemento che percorre tutta la raccolta.
Ars poetica.
Infine, al II libro è aggiunta l’epistola ai Pisoni, nota come "Ars poetica" (17 o 13 a.C.) in base alla definizione di Quintiliano, in 475 esametri (ma sin dall'antichità, essa andò separata dalle altre epistole, per la sua natura particolare e anche perché, data la sua lunghezza, costituiva un volumetto a parte): vedine qui il
testo latino integrale.
Ricca di riferimenti a Neottolemo di Pario e ancor più ad Aristotele, l' "Ars" è impostata sul problema dell’unità dell’opera d’arte e del rapporto tra contenuto e forma, esaminato prendendo come principale punto di riferimento il dramma.
Molto si è discusso, e si continua a discutere, se considerare quest'opera un vero e proprio trattato sull'arte poetica oppure semplicemente un insieme di riflessioni senza un progetto unitario (il tono è quello di una conversazione dotta, ma altresì amabile e confidenziale): comunque, sostanzialmente, essa è composta di due ben definiti nuclei concettuali, che trattano questioni relative all'arte del poetare ed alla figura del poeta.
Riguardo il primo punto, due tesi, in particolare, sono rimaste celebri: la necessità di fondere la spontaneità e l'immediatezza dell’ispirazione con lo studio metodico e il paziente lavoro di lima; e il noto principio dell’ "utile dulci", della fusione cioè, diremmo oggi, fra utile e dilettevole.
Riguardo, invece, la seconda questione (l' "artifex" della poesia), O. insiste molto sulla conquista della "sapientia": per lui, innanzitutto, il poeta - come uomo - deve raggiungere un alto grado di consapevolezza e di conoscenza, erudita e soprattutto interiore; è questo, infatti, essenzialmente, il presupposto l'inizio e la fonte dello scrivere bene. A ben vedere, una sorta di testamento umano e letterario che il nostro poeta ha lasciato ai posteri.
Conclusione.
Infine, questa breve ma icastica considerazione mutuata da I. Lana, che - volendo - compendia tutto quanto detto finora: "nella dotta Atene O. poco più che adolescente cercava di apprendere cosa fosse il vero ed il bene; nella quiete sabina degli ultimi suoi anni cercava ancora che cosa fossero il vero e il bene; questi, l'aspirazione di tutta la sua vita, e la sua poesia, la traccia lasciata da un'anima sorridente sì, ma inquieta".
ARS POETICA
Humano capiti ceruicem pictor equinam
iungere si uelit et uarias inducere plumas
undique collatis membris, ut turpiter atrum
desinat in piscem mulier formosa superne,
spectatum admissi, risum teneatis, amici?
Credite, Pisones, isti tabulae fore librum
persimilem, cuius, uelut aegri somnia, uanae
fingentur species, ut nec pes nec caput uni
reddatur formae. "Pictoribus atque poetis
quidlibet audendi semper fuit aequa potestas."
Scimus, et hanc ueniam petimusque damusque uicissim,
sed non ut placidis coeant immitia, non ut
serpentes auibus geminentur, tigribus agni.
Inceptis grauibus plerumque et magna professis
purpureus, late qui splendeat, unus et alter
adsuitur pannus, cum lucus et ara Dianae
et properantis aquae per amoenos ambitus agros
aut flumen Rhenum aut pluuius describitur arcus;
sed nunc non erat his locus. Et fortasse cupressum
scis simulare; quid hoc, si fractis enatat exspes
nauibus, aere dato qui pingitur? Amphora coepit
institui; currente rota cur urceus exit?
Denique sit quod uis, simplex dumtaxat et unum.
Maxima pars uatum, pater et iuuenes patre digni,
decipimur specie recti. Breuis esse laboro,
obscurus fio; sectantem leuia nerui
deficiunt animique; professus grandia turget;
serpit humi tutus nimium timidusque procellae;
qui uariare cupit rem prodigialiter unam,
delphinum siluis adpingit, fluctibus aprum.
In uitium ducit culpae fuga, si caret arte.
Aemilium circa ludum faber imus et unguis
exprimet et mollis imitabitur aere capillos,
infelix operis summa, quia ponere totum
nesciet. Hunc ego me, siquid componere curem,
non magis esse uelim quam naso uiuere prauo
spectandum nigris oculis nigroque capillo.
Sumite materiam uestris, qui scribitis, aequam
uiribus et uersate diu quid ferre recusent,
quid ualeant umeri. Cui lecta potenter erit res,
nec facundia deseret hunc, nec lucidus ordo.
Ordinis haec uirtus erit et uenus, aut ego fallor,
ut iam nunc dicat iam nunc debentia dici,
pleraque differat et praesens in tempus omittat,
hoc amet, hoc spernat promissi carminis auctor.
In uerbis etiam tenuis cautusque serendis
dixeris egregie, notum si callida uerbum
reddiderit iunctura nouum. Si forte necesse est
indiciis monstrare recentibus abdita rerum, et
fingere cinctutis non exaudita Cethegis
continget dabiturque licentia sumpta pudenter,
et noua fictaque nuper habebunt uerba fidem, si
Graeco fonte cadent parce detorta. Quid autem
Caecilio Plautoque dabit Romanus, ademptum
Vergilio Varioque? Ego cur, adquirere pauca
si possum, inuideor, cum lingua Catonis et Enni
sermonem patrium ditauerit et noua rerum
nomina protulerit? Licuit semperque licebit
signatum praesente nota producere nomen.
Vt siluae foliis pronos mutantur in annos,
prima cadunt, ita uerborum uetus interit aetas,
et iuuenum ritu florent modo nata uigentque.
Debemur morti nos nostraque. Siue receptus
terra Neptunus classes Aquilonibus arcet,
regis opus, sterilisue diu palus aptaque remis
uicinas urbes alit et graue sentit aratrum,
seu cursum mutauit iniquom frugibus amnis,
doctus iter melius, mortalia facta peribunt,
nedum sermonem stet honos et gratia uiuax.
Multa renascentur quae iam cecidere, cadentque
quae nunc sunt in honore uocabula, si uolet usus,
quem penes arbitrium est et ius et norma loquendi.
Res gestae regumque ducumque et tristia bella
quo scribi possent numero, monstrauit Homerus.
Versibus impariter iunctis querimonia primum,
post etiam inclusa est uoti sententia compos;
quis tamen exiguos elegos emiserit auctor,
grammatici certant et adhuc sub iudice lis est.
Archilochum proprio rabies armauit iambo;
hunc socci cepere pedem grandesque coturni,
alternis aptum sermonibus et popularis
uincentem strepitus et natum rebus agendis.
Musa dedit fidibus diuos puerosque deorum
et pugilem uictorem et equom certamine primum
et iuuenum curas et libera uina referre.
Discriptas seruare uices operumque colores
cur ego, si nequeo ignoroque, poeta salutor?
Cur nescire pudens praue quam discere malo?
Versibus exponi tragicis res comica non uult;
indignatur item priuatis ac prope socco
dignis carminibus narrari cena Thyestae.
Singula quaeque locum teneant sortita decentem.
Interdum tamen et uocem comoedia tollit,
iratusque Chremes tumido delitigat ore;
et tragicus plerumque dolet sermone pedestri
Telephus et Peleus, cum pauper et exul uterque
proicit ampullas et sesquipedalia uerba,
,
si curat cor spectantis tetigisse querella.
Non satis est pulchra esse poemata; dulcia sunto
et, quocumque uolent, animum auditoris agunto.
Vt ridentibus adrident, ita flentibus adsunt
humani uoltus; si uis me flere, dolendum est
primum ipsi tibi; tum tua me infortunia laedent,
Telephe uel Peleu; male si mandata loqueris,
aut dormitabo aut ridebo. Tristia maestum
uoltum uerba decent, iratum plena minarum,
ludentem lasciua, seuerum seria dictu.
Format enim natura prius non intus ad omnem
fortunarum habitum; iuuat aut impellit ad iram,
aut ad humum maerore graui deducit et angit;
post effert animi motus interprete lingua.
Si dicentis erunt fortunis absona dicta,
Romani tollent equites peditesque cachinnum.
Intererit multum, diuosne loquatur an heros,
maturusne senex an adhuc florente iuuenta
feruidus, et matrona potens an sedula nutrix,
mercatorne uagus cultorne uirentis agelli,
Colchus an Assyrius, Thebis nutritus an Argis.
Aut famam sequere aut sibi conuenientia finge
scriptor. Honoratum si forte reponis Achillem,
impiger, iracundus, inexorabilis, acer
iura neget sibi nata, nihil non arroget armis.
Sit Medea ferox inuictaque, flebilis Ino,
perfidus Ixion, Io uaga, tristis Orestes.
Siquid inexpertum scaenae committis et audes
personam formare nouam, seruetur ad imum
qualis ab incepto processerit et sibi constet.
Difficile est proprie communia dicere, tuque
rectius Iliacum carmen deducis in actus
quam si proferres ignota indictaque primus.
Publica materies priuati iuris erit, si
non circa uilem patulumque moraberis orbem,
nec uerbo uerbum curabis reddere fidus
interpres nec desilies imitator in artum,
unde pedem proferre pudor uetet aut operis lex.
Nec sic incipies, ut scriptor cyclicus olim:
"Fortunam Priami cantabo et nobile bellum".
Quid dignum tanto feret hic promissor hiatu?
Parturient montes, nascetur ridiculus mus.
Quanto rectius hic, qui nil molitur inepte:
"Dic mihi, Musa, uirum, captae post tempora Troiae
qui mores hominum multorum uidit et urbes".
Non fumum ex fulgore, sed ex fumo dare lucem
cogitat, ut speciosa dehinc miracula promat,
Antiphaten Scyllamque et cum Cyclope Charybdim.
Nec reditum Diomedis ab interitu Meleagri,
nec gemino bellum Troianum orditur ab ouo;
semper ad euentum festinat et in medias res
non secus ac notas auditorem rapit, et quae
desperat tractata nitescere posse relinquit,
atque ita mentitur, sic ueris falsa remiscet,
primo ne medium, medio ne discrepet imum.
Tu quid ego et populus mecum desideret audi,
si plosoris eges aulaea manentis et usque
sessuri donec cantor. "Vos plaudite" dicat.
Aetatis cuiusque notandi sunt tibi mores,
mobilibusque decor naturis dandus et annis.
Reddere qui uoces iam scit puer et pede certo
signat humum, gestit paribus conludere et iram
colligit ac ponit temere et mutatur in horas.
inberbus iuuenis tandem custode remoto
gaudet equis canibusque et aprici gramine Campi,
cereus in uitium flecti, monitoribus asper,
utilium tardus prouisor, prodigus aeris,
sublimis cupidusque et amata relinquere pernix.
Conuersis studiis aetas animusque uirilis
quaerit opes et amicitias, inseruit honori,
commisisse cauet quod mox mutare laboret.
Multa senem circumueniunt incommoda, uel quod
quaerit et inuentis miser abstinet ac timet uti,
uel quod res omnis timide gelideque ministrat,
dilator, spe longus, iners auidusque futuri,
difficilis, querulus, laudator temporis acti
se puero, castigator censorque minorum.
Multa ferunt anni uenientes commoda secum,
multa recedentes adimunt. Ne forte seniles
mandentur iuueni partes pueroque uiriles;
semper in adiunctis aeuoque morabitur aptis.
Aut agitur res in scaenis aut acta refertur.
Segnius inritant animos demissa per aurem
quam quae sunt oculis subiecta fidelibus et quae
ipse sibi tradit spectator; non tamen intus
digna geri promes in scaenam multaque tolles
ex oculis, quae mox narret facundia praesens.
Ne pueros coram populo Medea trucidet,
aut humana palam coquat exta nefarius Atreus,
aut in auem Procne uertatur, Cadmus in anguem.
Quodcumque ostendis mihi sic, incredulus odi.
Neue minor neu sit quinto productior actu
fabula, quae posci uolt et spectanda reponi;
nec deus intersit, nisi dignus uindice nodus
inciderit; nec quarta loqui persona laboret.
Actoris partis chorus officiumque uirile
defendat, neu quid medios intercinat actus,
quod non proposito conducat et haereat apte.
Ille bonis faueatque et consilietur amice
et regat iratos et amet peccare timentis;
ille dapes laudet mensae breuis, ille salubrem
iustitiam legesque et apertis otia portis;
ille tegat commissa deosque precetur et oret,
ut redeat miseris, abeat Fortuna superbis.
Tibia non, ut nunc, orichalco uincta tubaeque
aemula, sed tenuis simplexque foramine pauco
adspirare et adesse choris erat utilis atque
nondum spissa nimis complere sedilia flatu,
quo sane populus numerabilis, utpote paruos,
et frugi castusque uerecundusque coibat.
Postquam coepit agros extendere uictor et urbes
latior amplecti murus uinoque diurno
placari Genius festis impune diebus,
accessit numerisque modisque licentia maior.
Indoctus quid enim saperet liberque laborum
rusticus urbano confusus, turpis honesto?
Sic priscae motumque et luxuriem addidit arti
tibicen traxitque uagus per pulpita uestem;
sic etiam fidibus uoces creuere seueris
et tulit eloquium insolitum facundia praeceps,
utiliumque sagax rerum et diuina futuri
sortilegis non discrepuit sententia Delphis.
Carmine qui tragico uilem certauit ob hircum,
mox etiam agrestis Satyros nudauit et asper
incolumi grauitate iocum temptauit eo quod
inlecebris erat et grata nouitate morandus
spectator functusque sacris et potus et exlex.
Verum ita risores, ita commendare dicacis
conueniet Satyros, ita uertere seria ludo,
ne quicumque deus, quicumque adhibebitur heros,
regali conspectus in auro nuper et ostro,
migret in obscuras humili sermone tabernas,
aut, dum uitat humum, nubes et inania captet.
Effutire leuis indigna tragoedia uersus,
ut festis matrona moueri iussa diebus,
intererit Satyris paulum pudibunda proteruis.
Non ego inornata et dominantia nomina solum
uerbaque, Pisones, Satyrorum scriptor amabo,
nec sic enitar tragico diferre colori
ut nihil intersit Dauusne loquatur et audax
Pythias, emuncto lucrata Simone talentum,
an custos famulusque dei Silenus alumni.
Ex noto fictum carmen sequar, ut sibi quiuis
speret idem, sudet multum frustraque laboret
ausus idem; tantum series iuncturaque pollet,
tantum de medio sumptis accedit honoris.
Siluis deducti caueant me iudice Fauni
ne, uelut innati triuiis ac paene forenses,
aut nimium teneris iuuenentur uersibus unquam
aut inmunda crepent ignominiosaque dicta;
offenduntur enim quibus est equos et pater et res,
nec, siquid fricti ciceris probat et nucis emptor,
aequis accipiunt animis donantue corona.
Syllaba longa breui subiecta uocatur iambus,
pes citus; unde etiam trimetris adcrescere iussit
nomen iambeis, cum senos redderet ictus,
primus ad extremum similis sibi; non ita pridem,
tardior ut paulo grauiorque ueniret ad auris,
spondeos stabilis in iura paterna recepit
commodus et patiens, non ut de sede secunda
cederet aut quarta socialiter. Hic et in Acci
nobilibus trimetris adparet rarus, et Enni
in scaenam missos cum magno pondere uersus
aut operae celeris nimium curaque carentis
aut ignoratae premit artis crimine turpi.
Non quiuis uidet inmodulata poemata iudex,
et data Romanis uenia est indigna poetis.
Idcircone uager scribamque licenter? An omnis
uisuros peccata putem mea, tutus et intra
spem ueniae cautus? Vitaui denique culpam,
non laudem merui. Vos exemplaria Graeca
nocturna uersate manu, uersate diurna.
At uestri proaui Plautinos et numeros et
laudauere sales, nimium patienter utrumque,
ne dicam stulte, mirati, si modo ego et uos
scimus inurbanum lepido seponere dicto
legitimumque sonum digitis callemus et aure.
Ignotum tragicae genus inuenisse Camenae
dicitur et plaustris uexisse poemata Thespis
quae canerent agerentque peruncti faecibus ora.
Post hunc personae pallaeque repertor honestae
Aeschylus et modicis instrauit pulpita tignis
et docuit magnumque loqui nitique coturno.
Successit uetus his comoedia, non sine multa
laude; sed in uitium libertas excidit et uim
dignam lege regi; lex est accepta chorusque
turpiter obticuit sublato iure nocendi.
Nil intemptatum nostri liquere poetae,
nec minimum meruere decus uestigia Graeca
ausi deserere et celebrare domestica facta,
uel qui praetextas uel qui docuere togatas.
Nec uirtute foret clarisue potentius armis
quam lingua Latium, si non offenderet unum
quemque poetarum limae labor et mora. Vos, o
Pompilius sanguis, carmen reprehendite quod non
multa dies et multa litura coercuit atque
praesectum deciens non castigauit ad unguem.
Ingenium misera quia fortunatius arte
credit et excludit sanos Helicone poetas
Democritus, bona pars non unguis ponere curat,
non barbam, secreta petit loca, balnea uitat;
nanciscetur enim pretium nomenque poetae,
si tribus Anticyris caput insanabile nunquam
tonsori Licino commiserit. O ego laeuus
qui purgor bilem sub uerni temporis horam!
Non alius faceret meliora poemata; uerum
nil tanti est. Ergo fungar uice cotis, acutum
reddere quae ferrum ualet exsors ipsa secandi;
munus et officium, nil scribens ipse, docebo,
unde parentur opes, quid alat formetque poetam,
quid deceat, quid non, quo uirtus, quo ferat error.
Scribendi recte sapere est et principium et fons.
Rem tibi Socraticae poterunt ostendere chartae,
uerbaque prouisam rem non inuita sequentur.
Qui didicit, patriae quid debeat et quid amicis,
quo sit amore parens, quo frater amandus et hospes,
quod sit conscripti, quod iudicis officium, quae
partes in bellum missi ducis, ille profecto
reddere personae scit conuenientia cuique.
Respicere exemplar uitae morumque iubebo
doctum imitatorem et uiuas hinc ducere uoces.
Interdum speciosa locis morataque recte
fabula nullius ueneris, sine pondere et arte,
ualdius oblectat populum meliusque moratur
quam uersus inopes rerum nugaeque canorae.
Grais ingenium, Grais dedit ore rotundo
Musa loqui, praeter laudem nullius auaris;
Romani pueri longis rationibus assem
discunt in partis centum diducere. "Dicat
filius Albini: si de quincunce remota est
uncia, quid superat?. . . Poteras dixisse. -- Triens. -- Eu!
Rem poteris seruare tuam. Redit uncia, quid fit? "
Semis". An, haec animos aerugo et cura peculi
cum semel imbuerit, speramus carmina fingi
posse linenda cedro et leui seruanda cupresso?
Aut prodesse uolunt aut delectare poetae
aut simul et iucunda et idonea dicere uitae.
Quicquid praecipies, esto breuis, ut cito dicta
percipiant animi dociles teneantque fideles.
Omne superuacuum pleno de pectore manat.
Ficta uoluptatis causa sint proxima ueris,
ne quodcumque uolet poscat sibi fabula credi,
neu pransae Lamiae uiuum puerum extrahat aluo.
Centuriae seniorum agitant expertia frugis,
celsi praetereunt austera poemata Ramnes.
Omne tulit punctum qui miscuit utile dulci,
lectorem delectando pariterque monendo;
hic meret aera liber Sosiis, hic et mare transit
et longum noto scriptori prorogat aeuum.
Sunt delicta tamen quibus ignouisse uelimus;
nam neque chorda sonum reddit quem uolt manus et mens,
poscentique grauem persaepe remittit acutum,
nec semper feriet quodcumque minabitur arcus.
Verum ubi plura nitent in carmine, non ego paucis
offendar maculis, quas aut incuria fudit,
aut humana parum cauit natura. Quid ergo est?
Vt scriptor si peccat idem librarius usque,
quamuis est monitus, uenia caret, et Citharoedus
ridetur, chorda qui semper oberrat eadem,
sic mihi, qui multum cessat, fit Choerilus ille,
quem bis terque bonum cum risu miror; et idem
indignor quandoque bonus dormitat Homerus;
uerum operi longo fas est obrepere somnum.
Vt pictura poesis; erit quae, si propius stes,
te capiat magis, et quaedam, si longius abstes;
haec amat obscurum, uolet haec sub luce uideri,
iudicis argutum quae non formidat acumen;
haec placuit semel, haec deciens repetita placebit.
O maior iuuenum, quamuis et uoce paterna
fingeris ad rectum et per te sapis, hoc tibi dictum
tolle memor, certis medium et tolerabile rebus
recte concedi; consultus iuris et actor
causarum mediocris abest uirtute diserti
Messallae nec scit quantum Cascellius Aulus,
sed tamen in pretio est; mediocribus esse poetis
non homines, non di, non concessere columnae.
Vt gratas inter mensas symphonia discors
et crassum unguentum et Sardo cum melle papauer
offendunt, poterat duci quia cena sine istis,
sic animis natum inuentumque poema iuuandis,
si paulum summo decessit, uergit ad imum.
Ludere qui nescit, campestribus abstinet armis,
indoctusque pilae disciue trochiue quiescit,
ne spissae risum tollant impune coronae;
qui nescit, uersus tamen audet fingere. Quidni?
Liber et ingenuus, praesertim census equestrem
summam nummorum uitioque remotus ab omni.
Tu nihil inuita dices faciesue Minerua;
id tibi iudicium est, ea mens. Siquid tamen olim
scripseris, in Maeci descendat iudicis auris
et patris et nostras, nonumque prematur in annum
membranis intus positis; delere licebit
quod non edideris; nescit uox missa reuerti.
Siluestris homines sacer interpresque deorum
caedibus et uictu foedo deterruit Orpheus,
dictus ob hoc lenire tigris rabidosque leones;
dictus et Amphion, Thebanae conditor urbis,
saxa mouere sono testudinis et prece blanda
ducere quo uellet. Fuit haec sapientia quondam,
publica priuatis secernere, sacra profanis,
concubitu prohibere uago, dare iura maritis,
oppida moliri, leges incidere ligno.
Sic honor et nomen diuinis uatibus atque
carminibus uenit. Post hos insignis Homerus
Tyrtaeusque mares animos in Martia bella
uersibus exacuit, dictae per carmina sortes,
et uitae monstrata uia est et gratia regum
Pieriis temptata modis ludusque repertus
et longorum operum finis: ne forte pudori
sit tibi Musa lyrae sollers et cantor Apollo.
Natura fieret laudabile carmen an arte,
quaesitum est; ego nec studium sine diuite uena
nec rude quid prosit uideo ingenium; alterius sic
altera poscit opem res et coniurat amice.
Qui studet optatam cursu contingere metam,
multa tulit fecitque puer, sudauit et alsit,
abstinuit uenere et uino; qui Pythia cantat
tibicen, didicit prius extimuitque magistrum.
Nunc satis est dixisse: "Ego mira poemata pango;
occupet extremum scabies; mihi turpe relinqui est
et, quod non didici, sane nescire fateri."
Vt praeco, ad merces turbam qui cogit emendas,
adsentatores iubet ad lucrum ire poeta
diues agris, diues positis in fenore nummis.
Si uero est unctum qui recte ponere possit
et spondere leui pro paupere et eripere atris
litibus implicitum, mirabor si sciet inter
noscere mendacem uerumque beatus amicum.
Tu seu donaris seu quid donare uoles cui,
nolito ad uersus tibi factos ducere plenum
laetitiae; clamabit enim: "Pulchre, bene, recte",
pallescet super his, etiam stillabit amicis
ex oculis rorem, saliet, tundet pede terram.
Vt qui conducti plorant in funere dicunt
et faciunt prope plura dolentibus ex animo, sic
derisor uero plus laudatore mouetur.
Reges dicuntur multis urgere culillis
et torquere mero, quem perspexisse laborent
an sit amicitia dignus; si carmina condes,
numquam te fallent animi sub uolpe latentes.
Quintilio siquid recitares: "Corrige, sodes,
hoc" aiebat "et hoc"; melius te posse negares,
bis terque expertum frustra; delere iubebat
et male tornatos incudi reddere uersus.
Si defendere delictum quam uertere malles,
nullum ultra uerbum aut operam insumebat inanem,
quin sine riuali teque et tua solus amares.
Vir bonus et prudens uersus reprehendet inertis,
culpabit duros, incomptis adlinet atrum
transuorso calamo signum, ambitiosa recidet
ornamenta, parum claris lucem dare coget,
arguet ambigue dictum, mutanda notabit,
fiet Aristarchus, nec dicet: "Cur ego amicum
offendam in nugis?" Hae nugae seria ducent
in mala derisum semel exceptumque sinistre.
Vt mala quem scabies aut morbus regius urget
aut fanaticus error et iracunda Diana,
uesanum tetigisse timent fugiuntque poetam,
qui sapiunt; agitant pueri incautique sequuntur.
Hic dum sublimis uersus ructatur et errat,
si ueluti merulis intentus decidit auceps
in puteum foueamue, licet "succurrite" longum
clamet "io ciues", non sit qui tollere curet.
Si curet quis opem ferre et demittere funem,
"qui scis an prudens huc se deiecerit atque
seruari nolit?" dicam, Siculique poetae
narrabo interitum. Deus inmortalis haberi
dum cupit Empedocles, ardentem frigidus Aetnam
insiluit. Sit ius liceatque perire poetis;
inuitum qui seruat, idem facit occidenti.
Nec semel hoc fecit nec, si retractus erit, iam
fiet homo et ponet famosae mortis amorem.
Nec satis apparet cur uersus factitet, utrum
minxerit in patrios cineres, an triste bidental
mouerit incestus; certe furit, ac uelut ursus,
obiectos caueae ualuit si frangere clatros,
indoctum doctumque fugat recitator acerbus;
quem uero arripuit, tenet occiditque legendo,
non missura cutem nisi plena cruoris hirudo.
Pedro Hurtado de Mendoza [di cui all'intemelia Biblioteca Aprosiana si conserva il volume Disputationum a summulis ad metaphysicam a Pedro Hurtado de Mendoza ..., Tolosae : apud Dominicum Bosc., 1617-1618. - 4 v. ; 8°] fu sacerdote gesuita che vide la luce a
Valmaseda/Vizcaya nel 1578 (spegnendosi poi a Madrid il 10.XI.1641) sì che per tal ragione venne anche nominato con gli appellativi di Valmesadeno o Puente Hurtado.
Fu un importante filosofo e teologo della prima metà del '600.
Entrò nella Compagnia di Gesù il 12.IX.1595 a Salamanca e venne ordinato sacerdote nel 1607 sempre a Salamanca mentre fece la professione di fede dell'Ordine il 5.II.1612 a Villagarcia de Campos (Valladolid).
Svolse i suoi studi presso il collegio gesuita di Salamaca, venendo formato da Benito de Robles fiché presso Martin de Albiz (magister meus, BUS Ms. 621, 83r) approfondì la conoscenza della filosofia nel celebre Collegio di Pampeluna (1608-11): dal 1611 studiò la teologia a Salamanca ove fu collega di Valentin de Herice (synmagister meus, BUS Ms. 621, 83r).
Divenne censore e qualificatore del Santo Ufficio: ed al debutto della sua carriera conseguì lestamente la celebrità per la pubblicazione delle Disputationes a summulis ad metaphysicam (I ed., 1615), un completo corso di filosofia snodantesi dalla logica alla metafisica che godette di varie riedizioni e di notevole diffusione compreso il contesto riformato e protestante (l'opera vennere ristampata a Mayence nel 1619), ove le sue Disputationes risultano ben più appressate di quelle di Francisco Suárez).
Lo stesso Leibniz apprezzò i suoi lavori e scrisse in merito: mirabilia quaedam habet per Suarezium Petrus Hurtado de Mendoza (quantumvis renitente Gabriel Vasquio) (ed. Grua, p. 356).
L'insegnamento di Hurtado fu contraddistino da una notevole lettura di tipo "nominalista" dell'opera di Tommaso d'Aquino. Il nominalismo si può definire come la posizione filosofica che sostiene che i concetti astratti, i termini di portata generale e quelli che in metafisica sono chiamati universali non posseggono una loro propria esistenza, ma esistono solo come nomi. Questo modo di vedere porta a ritenere che solo gli oggetti (fisici) particolari possono essere considerati reali, mentre gli universali esistono solo post rem, come convenzioni verbali associate agli oggetti specifici, ovvero nella immaginazione o memoria di chi ne parla.
Il nominalismo si contrappone al concettualismo e al realismo filosofico, la posizione che sostiene che i termini generali dei quali si fa uso, come "albero" e "verde", rappresentano forme di portata generale che posseggono un'esistenza in mondo di astrazioni indipendente dal mondo degli oggetti fisicamente definiti. Tale posizione si richiama in particolare a Platone. Nella filosofia moderna il nominalismo è sostenuto da George Berkeley e da David Hume. Molto controversa è la concezione lockiana dell'astrazione. Autorevoli studiosi di John Locke, come John Yolton e Michael Ayers, lo considerano un nominalista. Tuttavia, altri studiosi sostengono la tesi del concettualismo, fondata su molti passi del terzo libro del Saggio sull'intelletto umano (1690). Favorevoli all'interpretazione concettualistica della concezione lockiana dell'astrazione sono R. Aaron, Sally Ferguson e Maurilio Lovatti. L'interpretazione nominalista si fonda invece su alcuni passi del secondo libro del Saggio. Il nominalismo è molto diffuso nella filosofia analitica contemporanea.
Molti lavori teologici di Pedro Hurtado de Mendoza sono rimasti alla stato di manoscritti:
De auxiliis gratiae Dei per Christum, BU Salamanca, Ms 109/6.
De beatitudine, BU Salamanca, Ms 106/5.
De peccatis, BU Salamanca, Ms 109/5.
De peccato originali, BU Salamanca, Ms 269/2.
De praedestinatione, BU Salamanca, Ms 101/1; Tractatus de praedestinatione (1638), BC Palencia, Ms. 83; De praedestinatione, Madrid BRAH, Arch. Doc. Esp. 23.
De scientia Dei, BU Salamanca, Ms 62; Ms 96/1.
De Trinitate, BU Salamanca, Ms 106/4.
De visione Dei, BU Salamanca, Ms 106/4.
De voluntate Dei, BU Salamanca, Ms 96/3; Disputationes de voluntate Dei (1622), BC Palencia, Ms 74/5.
Disputationes de Deo, BU Salamanca, Ms 621.
Disputationes de Deo homine, pars altera, BU Salamanca, Ms 27.
Memorial al Rey sobre el tomismo en Salamanca, Madrid AHN.
Tra le opere che hanno invece visto la luce e son state stampate si citano:
Disputationes a summulis ad metaphysicam, Valladolid, typ. Juan Godinez de Millis, 1615 [Badajoz BPE; Burgos BPE; Caceres BPE; Cuenca BPE; Huesca BPE; Loyola BSI; Madrid UPC; Palencia BPE; Pamplona BGN, BCCap ; Santiago LCSF; Toledo BPE; Zaragoza BU]
ristampate sotti i titoli di:
Disputationes de universa philosophia, Lyon, typ. Antoine Pillehotte, 1617 [Augsburg UB; Paris BNF; Vitoria FT], reprint IDC.
Disputationes a summulis ad metaphysicam, Toulouse, apud Dominicum Bosc : ex typographia Ioannis Boudei...iuxta Collegium Fuxense, 1617-18, 5 vol. [Huesca BPE; Lyon BM; Paris BNF].
Disputationes de universa philosophia, Mainz, 1619 [München BSB].
Universa philosophia, Lyon, typ. Louis Prost, héritier Roville, 1624 [Granada BU; Lyon BM; Madrid BNE; München BSB; Palma BPE; Segovia BPE; Soria BPE].
Universa philosophia. Nova editio quinque anterioribus tertia fere parte auctior et locupletior, Lyon, sumptibus Iacobi & Petri Prost fratrum, 1634 [Palma BPE; Valencia BU].
>
Disputationes scholasticae et morales de tribus virtutibus theologicis. De fide volumen secundum (sic), Salamanca, typ. Jacinto Taberniel 1631 [Burgos BPE; Caceres BPE; Madrid BUC, UPC; Palencia BPE; Palma BPE; Poyo MSJ; Santiago LCSF; Toledo BPE]
Disputationes scholasticae et morales de spe et charitate, volumen secundum, Salamanca, typ. Jacinto Taberniel, 1631 [Albacete BPE; Burgos BPE; Caceres BPE; Ciudad Real BPE; Huesca PBE; Madrid UPC, BUC; Palencia BPE; Palma BPE; Santander BPE; Santiago LCSF; Toledo BPE]
Disputationes de Deo homine, sive de Incarnatione Filii Dei , Antwerpen, typ. Martinus Nutius, 1634 [Bamberg UB; Burgos BPE; Ciutadela SD; Granada BU; Lyon BM; Madrid BRAH; München BSB; Palencia BPE; Palma BPE; Paris BNF; Poyo MSJ ; Toledo BPE].
De comoediis quando sint scandalum, in F. Taviani, La fascinazione del teatro (Roma, 1970), 85-89.
Bibliografia
Hurter, Nomenclator, Innsburck 1907³, III, 927 sq.; — Sommervogel IV, 534-535; — Antonio, Biblioteca Hispanica Nova, II, 202; — Pedro Ribadeneyra, Bibliotheca Scriptorum Societatis Jesu, Rome 1676, p. 676 y s. — DThC VII/1 (1922), 332; — Fraile, Historia, I, 358. — Polgar 3/2, 246; — Risse, Logik der NeuzeitI, 404 sq. — Díaz Díaz IV (1991), 96-97; — DHCJ (2001), 1983-1984 [L. Martínez Gómez / J. Escalera]; — Emilio Cotarelo y Mori, Bibliografía de las controversias sobre la licitud del teatro en España, (Madrid, Revista de Archivos, Bibliotecas y Museos, 1904), 364; — Mario Méndez Bejarano, Historia de la filosofía en España hasta el siglo XX, s.a. Madrid, 305 sq. (ca. 1920); — Ernst Lewalter, Spanisch-jesuitische und deutsch-lutherische Metaphysik des 17. Jahrhunderts (Hamburg, 1935), 28, passim; — Marcelino Ménendez Pelayo, La ciencia española, ed. Enrique Sánchez Reyes, Santander, 1953-54, II, 339; III, 33, 69. — Bernhard Jansen, Die scholastische Philosophie des 17. Jahrhunderts, in Philosophisches Jahrbuch 50 (1937), 401-444; — Bernhard Jansen, Die Pflege der Philosophie im Jesuitenorden während des 17./18. Jahrhundert (Fulda, 1938), passim; — Melquíades Andrés, Manuscritos teológicos de la Biblioteca Capitular de Palencia, Anthologia Annua 1 (1953), p. 447-450; — M. Ramírez, Manuscritos mariológicos posttridentinos en la biblioteca de la Universidad de Salamanca, ATG 13 (1950), 252-293; — Bernhard Jansen, Die scholastische Psychologie vom 16. bis 18. Jahrhundert, Scholastik 26 (1951), 342-363 (p. 352); — Piero di Vona, Studi sulla scolastica della Controriforma (Firenze, 1968), ad indicem; — F. Taviani, La fascinazione del teatro (Roma, 1970), 85-89; — Ramón Ceñal, La historia de la lógica en España y Portugal de 1500 a 1800, Pensamiento 28 (1972), 291; — Ester Caruso, Pedro Hurtado de Mendoza e la rinascita del nominalismo nella Scolastica del Seicento (Firenze, 1979); — Ester Caruso, L'arbitrarietà del segno in Hurtado de Mendoza e in John Locke, ACME 34 (1981), 266-287; — Jesús Menéndez Peláez, Los jesuitas y el teatro en el Siglo de Oro (Oviedo: Universidad de Oviedo/Servicio de Publicaciones, 1995), 121-122; — Leen Spruit, Species intelligibilis (Leiden, 1995), vol. 2; — Marco Forlivesi, Materiali per una descrizione della disputa e dell'esame di laurea in Età moderna, in Dalla prima alla seconda Scolastica. Paradigmi e percorsi storiografici, a cura di Alessandro Ghisalberti (Bologna, 2000), 253-260; — Sven K. Knebel, Wille, Würfel und Wahrscheinlichkeit. Das System der moralischen Notwendigkeit in der Jesuitenscholastik 1550-1700 (Hamburg, 2000), ad indicem.
["Scholasticon on line" - voce redatta con la
collaborazione de Marco Forlivesi (Bologna) e di José Escalera, S.J. (Madrid)].
L'acido solforico è un acido minerale forte, liquido a temperatura ambiente, oleoso, incolore e inodore; la sua formula chimica è H2SO4.
Il suo numero CAS è 7664-93-9.
I suoi sali vengono chiamati solfati.
Un solfato molto comune è il gesso, che è solfato di calcio diidrato.
In soluzione acquosa concentrata (>90%) è noto anche con il nome di vetriolo cosa diversa dal VETRIOLO ROMANO.
Soluzioni di anidride solforica al 30% in acido solforico sono note come oleum fumante.
Solubile in acqua e in etanolo con reazione esotermica anche violenta, in forma concentrata può causare gravi ustioni per contatto con la pelle.
L'acido solforico ha svariate applicazioni, sia a livello di laboratorio che industriale.
Tra queste si annoverano la produzione di fertilizzanti, il trattamento dei minerali, la sintesi chimica, la raffinazione del petrolio ed il trattamento delle acque di scarico.
È altresì l'acido contenuto nelle batterie per autoveicoli.
In combinazione con l'acido nitrico forma lo ione nitronio (NO2+), intermedio nella reazione di nitrazione, impiegata industrialmente per la produzione del trinitrotoluene (TNT), della nitroglicerina e del fulmicotone.
Tra gli additivi alimentari, è identificato dalla sigla E 513.
La scoperta dell'acido solforico risale al IX secolo ed è attribuita al medico ed alchimista islamico Ibn Zakariya al-Razi, che lo ottenne per distillazione a secco di minerali contenenti ferro (II) solfato eptaidrato FeSO4 • 7 H2O - noto come vetriolo verde - e rame (II) solfato pentaidrato CuSO4 • 5 H2O - noto come vetriolo azzurro.
Per effetto del calore questi sali si decompongono nei rispettivi ossidi di ferro e rame, in acqua ed anidride solforica SO3; queste ultime due si combinano formando una soluzione diluita di acido solforico.
Il metodo si diffuse in Europa attraverso la traduzione degli scritti di fonte islamica, per questo l'acido solforico era noto agli alchimisti europei nel medioevo con nomi quali come olio di vetriolo o spirito di vetriolo.
Nel XVII secolo il chimico tedesco-olandese Johann Glauber preparò l'acido solforico bruciando zolfo e salnitro in presenza di vapore acqueo.
Il salnitro ossida lo zolfo a anidride solforica, SO3, la quale si combina con l'acqua a dare l'acido.
Joshua Ward, un farmacista londinese adottò questo metodo per una produzione su grossa scala nel 1736.
Nel 1746 a Birmingham, John Roebuck iniziò a produrre industrialmente l'acido solforico sfruttando lo stesso metodo, ma operando in camere di piombo, che erano più robuste, più grandi e meno costose dei recipienti di vetro usati fino ad allora.
Questo processo a camere di piombo, successivamente adattato e rifinito negli anni, è rimasto per quasi due secoli il processo industriale più diffuso per produrre acido solforico.
L'acido prodotto da Roebuck aveva una concentrazione media del 35-40%.
Successivi miglioramenti del processo apportate dal chimico francese Joseph Louis Gay-Lussac e dal chimico inglese John Glover portarono il prodotto ad una concentrazione del 78%.
Tuttavia, la produzione di alcune tinture nonché alcuni processi chimici richiedevano l'uso di acido solforico più concentrato, che per tutto il XVIII secolo fu ottenuto solo per distillazione dei minerali, in modo analogo a come si operava nel medio evo, arrostendo la pirite (solfuro di ferro, FeS2) in presenza di aria per trasformarla in solfato ferrico Fe2(SO4)3 che veniva poi successivamente decomposto per riscaldamento a 480°C in ossido ferrico e anidride solforica.
L'anidride solforica veniva poi aggiunta all'acqua nelle proporzioni desiderate ottenendo acido solforico alla concentrazione desiderata.
Questo processo era però particolarmente costoso e non portò mai alla produzione di grandi volumi di acido solforico concentrato.
Nel 1831 fu un commerciante di aceto, il britannico Peregrine Phillips, a brevettare un processo più economico per la produzione di anidride solforica e acido solforico concentrato.
Nel suo processo lo zolfo o la pirite venivano bruciati a dare anidride solforosa, SO2, che veniva successivamente trasformata con alte rese in SO3 tramite reazione con l'ossigeno dell'aria passando su un catalizzatore di platino ad alta temperatura.
La domanda di acido solforico concentrato all'epoca non fu tale da giustificare la realizzazione di un impianto; il primo impianto che utilizzò questo processo (detto a contatto) fu costruito nel 1875 a Freiburg, in Germania.
Nel 1915 la tedesca BASF sostituì il catalizzatore di platino con un più economico catalizzatore di vanadio pentossido, V2O5.
Questo, unito alla crescita della domanda, portò alla graduale sostituzione degli impianti a camera di piombo con impianti a contatto.
Nel 1930 questi ultimi fornivano al mercato circa un quarto della produzione totale di acido solforico, oggi ne forniscono la quasi totalità.
Alle origini di queste riflessioni sta quel passo di Omero in cui si narra che mentre Odisseo procedeva imprudentemente verso la casa di Circe, che aveva già trasformato in porci alcuni suoi compagni, gli apparve Ermes dicendogli: "Ecco, va' nelle case di Circe con questo benefico farmaco, che il giorno mortale può allontanare dal tuo capo. Ti svelerò tutte le astuzie funeste di Circe. Farà per te una bevanda, getterà nel cibo veleni, ma neppure così ti potrà stregare: lo impedirà il benefico farmaco che ti darò, e ti svelerò ogni cosa".
Dopo avergli spiegato come avrebbe dovuto comportarsi, "... mi porse il farmaco, dalla terra strappandolo e me ne mostrò la natura. Nero era nella radice e il fiore simile al latte. Gli dei lo chiamano moly e per gli uomini mortali è duro strapparlo: gli dei però possono tutto" [Omero, Odissea, X, 302-306].
Ispirandosi all'Odissea un epigramma dell'Antologia palatina interpretava l'episodio come un'allegoria dell'uomo diviso fra le due sfere -del celeste e del terrestre: "Lontana da me, tu caverna tenebrosa di Circe: son nato da progenie celeste, ed è per me vergogna le ghiande mangiare come un bruto! ... Concedermi il Nume voglia del moly, il fiore che scaccia i cattivi pensieri"[Antologia Palatina XV, 12].
Qui Odisseo simboleggia l'uomo eterno, posto fra il chiarore celestialmente luminoso di Ermes e le tenebrose seduzioni di Circe [La narrazione omerica riflette una tarda immagine di Circe, quella imposta dalla civiltà patriarcale achea alla precedente tradizione matriarcale. In realtà Circe, come capii Apollonio nelle Argonautiche, è una sciamana che getta gli uomini che le si abbandonano in transes totemiche. Fiaba del Sole, incarna la sapienza che separa il durevole dal transitorio. Quanto a Odisseo, di là dall'interpretazione omerica, egli pretende da Circe una iniziazione ierogamica che gli consenta di affrontare successivamente la discesa agli inferi. Cfr. a questo proposito E. Zolla, Verità segrete esposte con evidenza, Venezia 1990, pp. 131 - 143. Ma nel contesto omerico dobbiamo attenerci all'interpretazione che ne dà il poema omerico per capire la funzione simbolica dell'erba moly].
La salvezza verrà dalla pianta che, donata dal messaggero degli dei, gli scaccerà "i cattivi pensieri": pianta dalla radice nera e dal fiore bianco, che è nello stesso tempo simbolo sensibile di quanto avviene nell'anima. "Grazie al potere che è in quest'ultimo" scrive Hugo Ralmer "1'uorno si svincola dalle potenze tenebrose nelle quali egli sa che anche la sua radice è immersa: egli è una progenie celeste che col suo fiore, il suo 10 spirituale, si dischiude verso l'alto, bianco come latte e puro. Ma (e questo è l'elemento determinante nella simbolica del mito) ciò gli è possibile solo in quanto egli riceve soccorso da Dio, in quanto gli viene incontro il potere errante di Ermes"
[H. Ralmer, Miti greci nell'interpretazione cristiana Bologna 1980, pp. 205-207].
La misteriosa pianta ha suscitato nei botanici una tale curiosità che ne è nata una piccola biblioteca di studi antichi e moderni con diverse interpretazioni. La prima risale a Teofrasto secondo il quale il moly crescerebbe realmente sul monte greco Cillene e presso il fiume Peneo, nei luoghi tradizionalmente consacrati al cultodi Ermes. La sua radice sarebbe a forma di cipolla e le foglie simili a quelle della scilla marittima (Urginea inaritinia), una pianta mediterranea che ha un grosso bulbo pesante circa due chili, da cui sorge lo scapo alto un metro e fornito di fiori bianchi in grappolo: un'agliacca dunque. In epoca moderna Linneo chiamò invece Afflum moly un tipo di porro.
L'interpretazione agliacca dell'erba moly parrebbe suffragata dalla comune credenza che queste piante garantirebbero da ogni maleficio. L'aglio in particolare sarebbe talmente potente da provocare malesseri gravissimi alle streghe e ai vampiri che si avvicinano, tant'è vero che in sanscrito è detto "uccisore di mostri". Una invocazione antijettatoria napoletana dice: "Agli e favagli fattura che non quagli./ Corne e bicorne/ capa 'alice e capa d'aglio". Per questo motivo si consigliava di portarlo sotto la camicia nella notte di San Giovanni, insieme con altre erbe come l'iperico, la ruta o l'artemisia, per difendersi dalle streghe che passavano numerosissime per il cielo recandosi al gran sabba annuale.
Plinio Seniore, nella sua Storia Naturale ribadisce in definitiva queste postulazioni scrivendo in libro XXV, 26 - 28: "L' ERBA PIU' FAMOSA DI TUTTE, IN BASE ALLA TESTIMONIANZA DI OMERO, E' QUELLA CHE, SECONDO LUI, GLI DEI CHIAMANO MOLI: EGLI NE ATTRIBUISCE LA SCOPERTA A MERCURIO E LA SPIEGAZIONE DELL'USO CONTRO I PEGGIORI AVVELENAMENTI. DICONO CHE OGGI CRESCA NEI PRESSI DEL FENEO E SUL CILLENE, IN ARCADIA; E PARE SIA QUEL TIPO DESCRITTO DA OMERO, CON LA RADICE ARROTONDATA E NERA, GROSSA COME UNA CIPOLLA, E CON LE FOGLIE DELLA SCILLA; SI ESTRAE PERO' SENZA DIFFICOLTA'. GLI AUTORI GRECI HANNO DISEGNATO IL SUO FIORE DI COLORE GIALLO, MENTRE SECONDO OMERO ERA BIANCO. HO TROVATO, TRA I MEDICI ESPERTI D'ERBE, UNO IL QUALE SOSTIENE CHE ESSA NASCE ANCHE IN ITALIA, E CHE LUI ME LA POTEVA PORTARE DALLA CAMPANIA NEL GIRO DI QUALCHE GIORNO, DOPO AVERLA RACCOLTA IN ZONE SASSOSE E DISAGIATE; LA RADICE SAREBBE LUNGA 30 PIEDI, E NEPPURE NELLA SUA INTEREZZA MA STRAPPATA".
A questa tradizione si oppone però quella che considera le aliacee contrarie alla fioritura spirituale. I faraoni e i sacerdoti egizi se ne astenevano stimandole sgradite agli dei celesti, ma le somministravano agli schiavi che costruivano piramidi per preservarli da infezioni. I taoisti a loro volta sostengono, non diversamente dai bramini, che l'aglio nutre i demoni del corpo e perciò se ne astengono. Lo Yoga Prapidika lo considera infine uno degli alimenti da cui ci si deve astenere se ci si avvia sulla strada dello yoga. Si tratta di un'antica tradizione che già si ritrova nella religione prebuddhistica bón, oggi diffusa soprattutto nel Tibet orientale. Nel trattato gZl-brjid si ammonisce: "Accidia, oscurità e languore, insensibilità e attaccamenti passionali ne provengono. Si somiglia allora al gattaccio in foia, i voti si trascurano, i sacramenti s'infrangono... Contaminati dall'agliaceo peccaminoso si soffre nella fangaia, nell'inferno della putredine. Contaminati dall'agliaceo dannoso si soffre nel lago di pus e di sangue. Contaminati dall'agliaceo debilitante malattie sciagurate compaiono nel corpo"[Vedi: E. Zolla ne Le meraviglie della natura, Milano 1975, p.72].
Non diversamente Elémire Zolla scrive nel nostro secolo: "Che si varcasse un grado ulteriore nel percorso discendente del Kali Ybiga o ciclo della Distruttrice, attorno alla metà di questo secolo, fu chiaro allorquando andò smarrita la nozione, netta dianzi nella buona società, data per scontata nelle battute di Shakespeare, che almeno l'aglio fosse sconveniente e increscioso. In verità sono piante, le agliacee, soffuse di crudo zolfo, ottundono le facoltà sensitive e turbano il raccoglimento spirituale. Suscitano pertanto oggidì nelle anime deliberatamente rudi un amore che giunge al proselitismo, quasi costoro temessero di incontrare chi, non per capriccio del gusto, ne aborra"[Ibidem].
Un altro gruppo di botanici sostiene che l'erba moly sia la ruta [vedi qui l'interpretazione di Amato Lusitano] basandosi su Dioscoride Pedanio che scriveva: "Quella pianta viene chiamata ruta montana e anche, in Cappadocia e Galazia, nioly. Altri la chiamano harmala, i Siri besasa, i Cappadoci moly".' Non erano, le sue, notizie di seconda mano perché Dioscoride proveniva proprio da quella zona. "Quindi moly è parola cappadoce" scrive Hugo Ralmer. "E v'è di più: la ruta montana significata con questo nome è per i Saqi persiani abitanti in Cappadocia il surrogato dello hom che avevano in patria e che era anch'esso un'erba magica.
Plutarco continua a chiamarla moly: nella lingua sira questo moly si denomina
besasa. In aramaico la denominazione della ruta montana suonava besas, e nella tradizione sira di Galeno, che attinge da Dioscoride, basaso.
Secondo Dioscoride la ruta montana ha una radice nera e fiori bianchi e perciò corrisponde
perfettamente all'erba di cui parla Omero.
In una interpolazione che si legge nello Pseudo
Apuleio ed è tratta da Dioscoride, si dice: "Dai Cappadoci essa viene detta moly, da altri arniala, dai Sri besasa". Nel VI secolo dopo Cristo il cosiddetto Dioscoride Longobardo riferisce: "Un'altra specie di ruta alligna in Macedonia e nella Galazia dell'Asia Minore, e gli abitanti la denominano moly. La sua radice consiste in una radice maestra da cui si dipartono molte radici minori e che butta un fiore bianco" [De materia medica, III. 46].
Fra le erbe cacciadiavoli usate nella notte di San Giovanni, essa ha una funzione importantissima, pari all'aglio e all'artemisia, tant'è vero che fu chiamata nel Rinascimento Herba de fuga demonis. Già Aristotele ne raccomandava l'uso contro gli spiriti e gli incantesimi. Nel Medioevo si ponevano corone di ruta sulle tombe per allontanare gli spiriti maligni e, fino al secolo scorso, la piantina serviva anche nelle pratiche esorcistiche. Questa sua funzione potrebbe essere stata ispirata dalla forma vagamente a croce dei petali.
Negli Abruzzi la si considerava un amuleto contro le streghe: se ne cucivano delle foglie, preferibilmente quelle su cui una farfalla aveva depositato le uova, in un borsellino che si portava celato sul seno. La si consigliava anche contro il malocchio, come credevano le donne del popolo in Toscana.
Fin dall'antichità veniva prescritta per curare veleni e morsi dei serpenti: lo testimonia anche un emblema rinascimentale, riportato dall'iconologo Cesare Ripa, "Difesa contro i nemici malefici e venefici" dove una donnola porta in bocca un ramo di ruta? L'iconologo la utilizza anche per un altro emblema, "Bontà", raffigurata come una donna ben vestita d'oro, con una ,ghirlanda di ruta e con gli occhi rivolti al cielo, mentre tiene in braccio un pellicano con i suoi figliolini presso un verde arboscello in riva al fiume. La bontà è bella, spiega platonicamente, perché la si conosce dalla bellezza. E' vestita d'oro perché l'oro è l'ottimo fra i metalli o meglio, come aggiungiamo noi, perché è simbolo dell'essere supremo, del Buono per eccellenza. L'albero rammenta le parole di Davide nel primo salmo dove si dice che l'uomo che segue la legge di Dio è simile a un albero piantato sullariva di un limpido ruscello. Quanto al piriti maligni.... Ha ancora proprietà di sminuir l'amor venereo, il che ci manifesta che la vera bontà lascia da banda tutti gli interessi e l'amor proprio il quale solo sconcerta e guasta tutta l'armonia di quest'organo che suona con l'armonia di tutte le virtù".
Vi è però chi, ispirandosi a una definizione degli scolii omerici ("Moly è una quintessenza di pianta, il cui nome proviene dal potere di rendere innocui i veleni")[Scholia Graeca in Homeri Odysseum (Dindorf, II, p.467)], sostiene che sia una pianta favolosa, una comune espressione poetica usata per indicare un antidoto. Sicché il modo migliore per capirne la "natura" sarebbe quello mitico-simbolico, già adottato dalla filosofia stoica, come testimonia Apollonio il Sofista: "Cleante, il filosofo, diceva che il moly significa allegoricamente il Logos dal quale vengono mitigati i bassi istinti e le passioni" [Cleante, fr.526 (von Amim, Stoicorm veterum fragmenta, 1, 118)]: logos che nella filosofia stoica si doveva intendere come la legge di vita dell'uomo razionale. Lo conferma anche l'autore degli scolii all'Odissea: "Essendo un saggio, Odisseo ricevette il moly, che significa il perfettissimo Logos, per il cui aiuto coli non soggiacque a passione alcuna".
Con il tardo platonismo l'interpretazione protoilluministica dello stoicismo venne ribaltata alla luce della concezione per la quale Ermes non era più la personificazione della ragione, ma l'ambasciatore di Dio, e l'erba moly un dono divino: la quale altro non era se non la paidéia, l'educazione interiore dell'uomo tesa a liberare le sue potenzialità di luce dalle tenebre della passionalità terrena. Ermes psicopompo, che concedeva l'erba moly, conosceva la strada e concedeva la forza spirituale poiché era il Logos.
Grazie a questa interpretazione i cristiani poterono recepire allegoricamente i versi omerici sull'erba moly nella loro riflessione teologica, tant'è vero che Giustino paragonava Ermes Logos a Gesù-Logos dei cristiani: "Quanto alla nostra credenza che egli nascesse da Dio, Logos di Dio, essa è comune con la vostra di Ermes, detto da voi Logos annunciatore da parte di Dio".
Da quel momento le interpretazioni allegoriche proliferarono fino alla più recente che vede il moly come il simbolo dello stesso uomo, dell'eterno Odisseo: "l'eterno Odisseo" scrive ancora Hugo Raliner "sta fra Elios risplendente e Foscura caverna. Nel suo proprio intimo infuria la battaglia fra il nero sangue del gigante e la luminosa natura solare. E lui medesimo il moly dalla nera radice e dal fiore bianco. Ma egli viene soccorso, salvato, elevato nella luce soltanto se la radice rigogliosa viene liberata con uno strappo deciso dalla madre terra. E' un'arte divina che solo Ermes può insegnare".
[Da "Esoterismo - on line": La misteriosa
erba moly
di A. C.]
Amatus : Lusitanus
fu pseudonimo di João Rodriguez de, medico israelita, professore di anatomia a Ferrara, nato a Castel Branco (Portogallo) nel 1511 e morto a Salonicco nel 1568
: nelle edizioni citato quale: Amatus Lusitanus; Ioannes Rodericus.
Importante, tra altre opere, fu questa interpretazione di Dioscoride in cui Amatus Lusitanus oltre a trattare di piante curative (ma anche di animali e minerali) trascrive in varie lingue antiche e moderne l'etimologia usata per ogni singolo "nome di pianta, animale, minerale" ed elenca criticamente non solo le qualità curative, vere o presunte (mirando a vanificare con un certo metodo radicate convinzioni] ma disserta pure con perizia su tipologia e proprietà alimentari:
Amati Lusitani ... In Dioscoridis Anarzabei de medica materia libros quinque enarrationes eruditissimae. Quibus etiam tum simplicium medicamentorum nomenclaturae Gracae, Latinae, Italicae, Hispanicae, Germanicae, & Gallicae proponuntur tum errores aliorum omnium, qui ad hanc usque diem de hac materia scripserunt, improbantur. Cum rerum ac vocum memorabilium indice locupletissimo,
Pubblicazione: Venetijs : ex officina Iordani Zilleti, 1557 (Venetiis : ex officina Iordani Zilleti, 1557)
- [12], 514, [30] p. ; 4°
- Cors. ; gr. ; rom
- Iniziali xil.
-
Segn.: +6a-z4A-2Y4
- Impronta - deo- pet, e-sa sude (3) 1557 (A)
- Marca editoriale: Stella cometa con altre stelle piu piccole tra le punte. Motto: Inter omnes
di cui esistono, secondo l'SBN, esemplari in
Biblioteca municipale Antonio Panizzi - Reggio Emilia
Biblioteca universitaria - Pavia
- Biblioteca comunale Augusta - Perugia
- Biblioteca Estense Universitaria - Modena
- Biblioteca civica Giovanni Canna - Casale Monferrato
- Censimento delle edizioni del 16. sec. nelle biblioteche dell'Emilia-Romagna - CE
- Biblioteca comunale - Piazza Armerina - EN
- Biblioteca nazionale centrale - Firenze
- Biblioteca nazionale Braidense - Milano
- Biblioteca Oliveriana - Pesaro
- Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II - Roma
- Biblioteca Casanatense - Roma
- Biblioteca civica Gambalunga - Rimini - SI
- Biblioteca dell'Accademia di medicina - Torino.
L'opera è qui assai utile per interpretare la specificità di varie piante officinali di cui si sono attraverso i secoli modificati i nomi come
camedafne
- celidonia
- dafnoide
- maratrum, - meu - titimalo - latiri - calamintha - calamenthum -
seseli [erron. e volg. = sesseli/sessali]
- usnea
- dauco
- pentafilon
- berbena
- solatro maniaco = solatrum furiosum - bdellio (resina gommosa ottenuta dal Balsamodendron africanum, usata per impiastri e cerotti medicati) - olibanum
Nel suo enciclopedico lavoro Amatus Lusitanus giunge però assai utile anche per l'inquadramento di quelle sostanze non vegetali
che variamente rivestono un ruolo importante nella composizione di balsami, unguenti ed altri prodotti officinali dell'erboristeria; ricordiamo qui dalla sua opera:
Allume - Cadmia - Ponfolige - Spodio ("Lana filosofica" = ossido di zinco) - Antispodio - bitume - Rame combusto - Fior di rame - Lamina/scaglia di rame - Stomoma = Lamina/scaglia di ferro - Verderame - Scoria di ferro - Ruggine di ferro - Lavatura di piombo - Cottura di piombo - Scoria di piombo - Pietra di piombo - Antimonio - Stibium - Molybdaena artificialis (Galena) - Molybdaena fossilis seu naturalis - Scaglia d'argento - Litargìrio -
Cerussa - biacca - Chrysocolla - borace (borato idrossido di piombo) - Pietra armena - Lapislazzuli (lazurite) - Vetriolo (romano) - pece nera - "pece delle navi" - petrolio
Nel II libro del suo enciclopedico lavoro Amatus Lusitanus analizza pure "animali" e prodotti del mondo animale che variamente rivestono un ruolo importante nella composizione di balsami, unguenti ed altri prodotti officinali dell'erboristeria: riccio di mare - riccio di terra - cavalluccio di mare - porpora - mitile - mitili - tellinae - conchiglie di mare - onix blatta = conchiglia - chiocciole - lumache - lumache di mare - granchi di fiume - scorpione - scorpione di mare - " dragone di mare " -
scolopendra - torpedine - vipera - spoglia delle serpi = muta - lepre di mare (pesce velenoso secondo Plinio) - lepre di terra - de pastinaca pisce - seppia - triglia - ippopotamo (usato in medicina "testicolo di ippopotamo") - castoro - donnola - rana - storione - smaris = piccolo pesce marino di cattiva qualità - menola = sardella, piccolo pesce marino che salato nella romanità serviva da companatico per la povera gente - gobius = piccolo pesce marino - tonno - garum - brodo di pesce - cimice - cimici - millepiedi - piattola - piattole - "polmone marino" = "mollusco, sorta di medusa" - "polmoni di vari animali" = discussioni varie sui poteri terapeutici o non dei polmoni di diversi animali - "fegato di vari animali" = discussioni varie sui poteri terapeutici o non del fegato di diversi animali - "verga del cervo" = discussioni varie sui poteri terapeutici o non (anche come contravveleno) dei genitali del cervo e della "lacrima di cervo" o pietra belzahartica - unghie di animali - "porri delle gambe dei cavalli" = per Galeno giovevoli contro i morsi di tutte le fiere - "cuoio di scarpe usate" = supposta ma discutibile sua valenza contro i serpenti - "gallo - gallina" = supposta valenza terapeutica di loro carni in combinazione con piante officinali - "uovo - uova di gallina" = valenza in combinazione o non con piante officinali - cicala - cicale - locusta - locuste - ossifraga - frosone = sorte di aquila - "allodola col ciuffo" - rondine = la cenere di rondine sarebbe assai giovevole nella cura delle angine - rondine = la cenere di rondine sarebbe assai giovevole nella cura delle angine -
avorio = polverizzato e mescolato nel vino, tra le varie qualità curative, avrebbe quella di contrastare i disturbi gastro-intestinale e di agevolare la fecondazione delle donne - piede di porco/suino - "corno di cervo" = polverizzato in bevanda acquosa, miscelato con piante officinali, sarebbe giovevole contro i vermi dei bambini e le complicanze febbrose - bruco - bruchi -
cantaride - cantaridi = discussioni varie su proprietà terapeutiche (dall'insetto si estrae la cantaridina, farmaco vescicante) - "bupresti" - bruchi dei pini - salamandra = l'autore si cura di sfatare la leggenda che possa vivere nel fuoco - ragno - ragni = l'autore sfata molte leggende sul ragno ritenendo però efficiente la proprietà emostatica ed antiemorragica della sua tela - lucertola - lucertole = l'autore descrive le varietà di lucertole e cita in medicina oftalmica un collirio contenente sterco di lucertola da molti ritenuto giovevole per affezioni oculari - tarantola - tarantole - coccodrillo - lombrichi: se ne ricaverebbe un olio giovevole per dolori muscolari - toporagno - topo: l'autore precisa che nessuno gli ha mai riconosciuto proprietà medicamentose ma che il topo campestre da alcuni è ritenuto una vera leccornia in tavola - latte: l'autore sottolinea i pregi dei vari tipi di latte = in particolare celebra il "latte di asina" giovevole per gli hectici o affetti da "febbri continue" - topo: l'autore precisa che nessuno gli ha mai riconosciuto proprietà medicamentose ma che il topo campestre da alcuni è ritenuto una vera leccornia in tavola - siero di latte - "latte acetoso" - formaggio - burro = indicato come ricostituinte e da usare in vari tipi di linimenti - lana - oesypum = untume della lana di pecora non lavata da cui si ricavava un unguento cosmetico usato dalle donne romane - caglio = ritenuto giovevole, bevuto in miscuglio con aceto, contro il mal caduco od epilessia - sevo = usato, in varie combinazioni officinali nella lenizione di forme tumorali e soprattutto nella sedazione di dolori - "midolla di ossa animali" = dotate di proprietà emollienti e assunte nel cibo utili a provocare, quando necessario, il vomito -
fiele di animali = in composizione officinale utile come vermifugo - bevuto nel vino risulterebbe vantaggioso contro le calcolosi - assunto per via nasale gioverebbe contro le fistole lacrimali ed il mal caduco -
sangue: in particolare l'autore dibatte la storica questione dei pregi del sangue, se bevuto sangue di umani giovani possano ringiovanire i vecchi e se effettivamente delle "vecchiette dette streghe" si nutrano di sangue di infanti -
sterco di animali: in questa occasione l'autore Amato Lusitanto riporta le postulazioni di Galeno per cui lo sterco di cane disciolto in latte bollito curerebbe l'angina ed arresterebbe la dissenteria - l'autore raccomanda poi, nel caso venga ucciso un lupo, di conservarne le interiora con le feci, il tutto ridotto in polvere e somministrato per bevanda sarebbe utilissimo contro le coliche - seguono ulteriori osservazioni sull'uso medicamentoso delle feci di altri animali ancora -
urina: l'autore cita l'uso moderno di somministrare urina per via di clisterii - riporta, assieme ad altri usi, anche il consiglio di Galeno di servirsene terapeuticamente, specie fra le popolazioni agresti, contro le ulcerazioni delle dita dei piedi -
miele: l'autore dopo aver parlato del "miele buono" e di quello "velenoso" ed ancora delle proprietà terapeutiche si sofferma sulla recente introduzione su grande scala commerciale dello saccarum [classic. succharon] non ignoto ai classici [cita in particolare Varrone] ma pochissimo usato: ora invece proveniente sia dalle Indie Orientali che dalle Occidentali, massimamente dalla "nuova terra Brasilio" -
cera: l'autore ne elenca gli usi in medicina -
pròpoli: L'autore parla poi del "pròpoli": il pròpoli è una sostanza resinosa che le api raccolgono dalle gemme e dalla corteccia delle piante. Si tratta quindi di una sostanza di origine prettamente vegetale anche se le api, dopo il raccolto, la elaborano con l’aggiunta di cera, polline ed enzimi prodotti dalle api stesse. Il colore può variare moltissimo nelle tonalità del giallo, del rosso, del marrone e del nero. L’odore è fortemente aromatico.
Il nome pròpoli, che può essere utilizzato sia al maschile (il pròpoli) che femminile (la pròpoli), deriva dal greco propole: pro (davanti) e polis (città) ovvero “davanti alla città”. La parola, in senso figurato, assume il significato di difensore della città. Il termine è stato usato da Plinio il vecchio nella sua Naturalis historia e da Aristotele. Le api, infatti, lo utilizzano per difendere la loro città (l’alveare) dai pericoli che possono minacciarla: le malattie, i predatori.
Il pròpoli ha proprietà:
antibiotiche (batteriostatiche e battericide) -
anti-infiammatorie -
antimicotiche -
antiossidanti e anti-irracidenti -
antivirali -
anestetiche -
cicatrizzanti -
antisettiche -
immunostimolanti -
vasoprotettive -
antitumorali -
La proprietà di maggiore rilievo consiste nell’avere tutte le proprietà sopra indicate concentrate tutte insieme in un unico prodotto di origine naturale.
Esistono diverse teorie sull’origine del pròpoli. La più accreditata attualmente è quella formulata da Rosch che ha osservato le api raccogliere le resine dagli alberi con le mandibole per poi elaborale con le zampe anteriori, mediane e posteriori fino a condurle nella borsa pollinica di quest’ultimo paio di zampe. La teoria che ipotizza un’origine del pròpoli interna all’alveare è meno accreditata in quanto non è stata ancora dimostrata.
È impossibile definire una composizione esatta ed universalmente valida del pròpoli in quanto estremamente variabile a seconda della vegetazione di origine, della stagione e di molti altri fattori. Nel corso di numerosi studi su propoli di varia origine sono stati identificati più di 150 diversi composti biochimici ed altri ne vengono scoperti ancora oggi.
Per semplificare possiamo suddividere i principali componenti in cinque grandi gruppi:
resine (45-55%),
cera e acidi grassi (25-35%),
oli essenziali e sostanze volatili (10%),
polline (5%)
composti organici e minerali (5%)
Entrando in dettaglio tra le componenti di maggiore interesse possiamo citare:
Minerali: Mg, Ca, I, K, Na, Cu, Zn, Mn e Fe. -
Vitamine: B1 (tiamina), B2 (riboflavina), B6 (piridossina) C (acido ascorbico) e E (tocoferolo).
- Enzimi: succinato deidrogenasi, glucosio 6-fosfatase, acido fosfatase.
- Acidi: acido caffeico feniletilestere (CAPE) contenuto nelle resine e nei composti organici, fenolo, adenosintrifosfato (ATP)
- Derivati dell’acido benzoico: acido gentisico, acido salicilico, acido protocatechico, acido-3-ossibenzoico, acido-4-ossibenzoico, acido gallico, acido-4-metossibenzoico
- Derivati dell'acido cinnamico: acido caffeico, acido ferulico, acido isoferulico, acido idrocaffeico, acido p-cumarico, acido o-cumarico, acido m-cumarico
- Cumarine: cumarina, esculetina, scopoletina
- Alcoli: alcol benzilico, alcol cinnamilico, alcol feniletilico, alcol pentenilico, alcol 3,5-dimedossibenzilico
- Aldeidi: vanillina, isovanillina, aldeide cinnamica
- Flavonoidi
- flavoni: 5-idross-7,4’-dimetossiflavone, acacetina, apigenina-dimetiletere 7,4’, crisina, pectolinarigenina, tettocrisina
flavonoli: 3,5-diidrossi-7,4’-dimetossiflavone, betuletolo, ermanina, galangina, isalpinina, isoramnetina, kaempferide, kaempferolo, quercetin-3,3’-dimetiletere, quercetina, ramnazina, ramnetina, ramnocitrina
- flavanoni: 5-idrossi-7,4’-dimetossiflavanone, isosakuranetina, pinocembrina, pinostrobina, sakuranetina
- diidroflavonoli: pinobaksina, pinobanksina-3-acetato
- Terpeni: sono contenuti nelle resine e negli oli essenziali e conferiscono il caratteristico odore al propoli
- Idrocarburi: cariofillene, a-guaiene, ß-selinene
- Alcoli sesquiterpenici: ß-eudesmolo, guaiolo
- Amminoacidi
- Acidi grassi
-Chetoni
- Varie: steroli, polisaccaridi, lattoni. [l'approfondimento sul pròpoli deriva da "WIKIPEDIA, ENCICLOPEDIA ON LINE - SOTTO VOCE"]
Lo speziale veneziano Giorgio Melichio, titolare della "Spetiaria allo Struzzo in Venezia" , nella pubblicazione Avertimenti nella compositioni de' medicamenti per uso della spetiaria del 1595) volendo insegnare ai colleghi il modo di realizzare i medicamenti, descrive la preparazione della TERIACA/TRICA con siffatte parole:
"Dirò però quel tanto che noi usiamo farla nell'inclita Città di Vinegia, giardino e publica piaza di tutta Europa: ornata di così periti & esperti Spetiali che sono anni ratione al mondo.Dirò hora quel tanto che s'ha avertito nella Theriaca fatta da me in Vinegia il presente anno ordinatamente.Fur preparati tutti i simplici necessarij per la composizione così della Theriaca come del Mithridato e fattone scelta furno messi in bellissimi vasi e riposti in luoco publico & molto ornato per tre continui giorni ad effetto che sian spettaculo a tutti e che ciascun potesse volendo esaminare le predette cose: & al quarto giorno, convocati gli Eccellenti Priori, e Consiglieri così di Medici, come di spetiali, e fatto diligente esamina de gli ingredienti, furno con molta diligenza tolti a peso secondo la descrizione presente di modo che non si prendeva cosa se non co'l giusto peso non variando ponto di più o meno.
Dopo si toglievano le cose a pestare grossamente e tutti si mettevano in un gran bacile così rotte e poi meschiate bene insieme si partivano in sei mortari & si davano a pestare perchè le cose umide s'unissero con le secche acciochè non s'attacassero nel mortaro se ben l'ontuosità della mirrha il facesse anco.
Primo fur contusi li trochisci di vipere; imperochè quando son ben preparati è la loro sostanza simile alla colla del carniccio difficili a pestarli: poi si aggiungono il pepe longo e poco dopo la cassia, il cinamono e rotti si rimetton nel bacile [in pratica di queste stesse piante, non sempre decifrabili oggi, parla anche il cinquecentesco medico veneto Zefiriele Bovio nel suo Melampigo...].
Poi si rompe pestando l'irios, il costo, la gentiana,l'aristologia, il centaurio,il pentasilon, il meo, il phu, il stecado, il squinanto & il spigo; quali rotti si mischiatano con gli altri nel bacile.
Appresso si pestano li semi de i navoni, il pettosello,gli anisi, seseli, finocchio, thlaspi, ammi, dauco & l'amomo.
Et rotte furo aggionte con l'altre; avertendo che per ciascun ordine di cose che si pestavano aggiungevano nel mortaro un poco di mirrha a tal che nel pestar le cose le spetie non s'attenessero al fondo del mortaro imperochè l'ontuosità della mirrha tiene unite le cose eshalabili. Dopo si pesta il scordio, dittamo, marrobio,calamento, polio, chamepiteo, folio & hiperico.
La gomma e l'incenso si pestaranno in altro mortaro sole, acciò non s'attaccassero con l'altre spetie, come in altri con esperienza s'è visto.
Li trochisci scillini, e gli hedicroi insieme soli sian pesti e uniti all'altre spetie.
Le rose & zaffrano sian messe un poco al sole & dopo peste & gionte all'altre.
Il reupontico sia pesto & aggionte con l'altre.
La terra lemnia si trita senza fatica,l'agarico sia fregato al tamiso & così si facci in polvere. Le gomme saran ben contuse & dopo vi si aggionga del vin malvatico & stiano per una notte infuse & e il dì sequente con debita portion di detto vino sian passate per il staccio,il simil parimenti si fara nel succo di liquiritia & e de l'hipocistis:l'acatia si triturarà con li semi cioè che sia messa con essi nel triturarli, percioche l'orientale è si secca & arida che facilmente si pestrarà con li semi.
Nella Francia del grand siècle il monachesimo, con le correnti e riforme cui diede origine, rivisse una straordinaria stagione. Il movimento di rinascita monastica post-tridentina si era già espresso in terra francese con la fondazione di una congregazione monastica, la Congregazione di saint Vanne di Verdun, i cui fondatori, rimasti vivamente impressionati durante un viaggio in Italia dalla regolarità di vita riscontrata a Montecassino, decisero di adottarne le costituzioni. Tale congregazione varcò presto le frontiere della sua patria d'origine, la Lorena, e annoverò tra i suoi membri eruditi come Agostino Calmet, valente esegeta e autore di un commento alla Regola di san Benedetto tuttora apprezzato. La sua espansione in altre regioni della Francia suggerì il proposito di dar vita a una nuova congregazione, quella di san Mauro, che deve la sua origine, nel 1621, all'opera di dom Gregorio Tarrisse (dom, abbreviazione di dominus, è l'appellativo usato dai monaci francesi). La Congregazione dei maurini conobbe un rapido sviluppo, fu divisa in sei province, annoverò 191 monasteri. Era retta da una legislazione molto prudente ed equilibrata, che associava all'impegno spirituale e liturgico quello intellettuale. La vita ascetica era seria ed esigente, spinta fino a un certo rigorismo penitenziale. Dom Tarrisse godette in Francia di grande prestigio ed esercitò un ruolo decisivo nella formazione spirituale di Jean-Jacques Olier, il grande autore ascetico del Seicento francese, ma soprattutto impresse uno sviluppo straordinario all'organizzazione degli studi ecclesiastici e monastici della sua congregazione con un programma preciso in fatto di corsi, biblioteche, lavori compiuti in comune. Il quartier generale di questa immensa operosità intellettuale, ammirata da tutto il mondo dei dotti, era l'abbazia parigina di Saint-Germain-des-Prés.
Questa applicazione così massiccia e programmata nel campo degli studi non mancò di sollevare critiche presso i sostenitori di concezioni monastiche diverse. E' il caso del fondatore dei trappisti, il famoso e focoso abate Rancé che compose al riguardo uno scritto polemico. Per incarico dei superiori, gli rispose il più illustre di tutti i monaci maurini, Jean Mabillon, con il suo Trattato sugli studi monastici (1691). Va osservato che, ai fini propriamente spirituali, le considerazioni di Rancé erano più fondate in quanto rivolte alla formazione spirituale dei monaci e al compito loro spettante nella vita della Chiesa, mentre le indicazioni di Mabillon riguardavano specificamente l'ambito intellettuale. La polemica terminò con l'incontro e la rappacificazione dei due grandi monaci, ma sancì la presenza di diversi orientamenti nel mondo monastico del tempo, destinati a ripresentarsi nel periodo successivo.
Sarebbe troppo lungo enumerare tutte le opere edite dai maurini, ma vanno almeno ricordate le grandi edizioni, spesso insuperate, dei padri della Chiesa - prima fra tutte per l'importanza intrinseca e per i dibattiti dottrinali che sollevò l'edizione di sant'Agostino - poi confluite nell'Ottocento nelle due Patrologie del Migne; occorre menzionare anche la Gallia christiana in 13 volumi, gli Acta Sanctorum Ordinis Sancti Benedicti in 9 volumi, gli Annales Ordinis Sancti Benedicti in 6 volumi, l'Histoire littéraire de la France, continuata in seguito a opera delle pubbliche istituzioni. Anche dal punto di vista delle discipline ausiliarie i maurini lasciarono nei vari settori una traccia profonda: con il suo trattato De re diplomatica del 1681 il Mabillon gettava le basi dell'odierna critica storica al punto che il libro è stato definito una pietra miliare nella storia dello spirito umano. Certo, come nei maurini non compare più la visione provvidenzialistica della storiografia medievale basata sulla considerazione della historia salutis, così non figura ancora quello sforzo di ricostruzione storica di vasto respiro proprio della storiografia moderna. I maurini raccolsero fonti e pubblicarono testi, e i materiali da loro apprestati conservano nella maggioranza dei casi tutto il loro valore rendendo possibile quelle sintesi che erano allora premature.
L'ideale erudito dei maurini si diffuse in tutta l'Europa influendo sensibilmente anche sull'attività culturale dei monasteri austriaci e tedeschi e assicurando al cattolicesimo francese un primato indiscusso nel campo dell'erudizione sacra. Molto andò disperso nelle vicende della Rivoluzione francese, ma molto rimane ancora inedito. E che questa così accentuata preoccupazione intellettuale non avesse compromesso nei maurini il genuino spirito religioso lo si vide allorché, scoppiata la Rivoluzione francese, il loro superiore generale con quaranta monaci, veri confessori della fede affrontò serenamente il supplizio della ghigliottina. Dopo la Rivoluzione la Congregazione di san Mauro non risorse più, ma l'ideale di una comunità monastica dedicata agli studi di erudizione relativi alla tradizione della Chiesa esercitò un fascino profondo sul restauratore del monachesimo in Francia, l'abate Guéranger.
Anche in seno all'Ordine cistercense operavano in quest'epoca numerosi fermenti di rinnovamento. Sorsero movimenti di riforma - la Stretta Osservanza sopra ricordata - che trovarono la loro espressione più significativa nella corrente della Trappa. Già preceduta da qualche tentativo del genere, essa deve la sua origine al celebre abate Armand La Bouthillier de Rancé († 1700). Nato a Parigi nel 1626, egli aveva compiuto un ottimo corso di studi in cui aveva avuto come compagno Bossuet. Dopo una giovinezza un po' fatua, si era convertito e aveva deciso di ridar vita a un monastero di cui era abate commendatario, il monastero della Trappa, nel Perche. Allo scopo vi fece venire alcuni monaci, esponenti della Stretta Osservanza, dall'abbazia di Perseigne, dove egli stesso compì il suo noviziato, emise la professione e ricevette la benedizione abbaziale (1664). Se nella lotta tra le diverse osservanze dell'Ordine cistercense il cardinale Richelieu era stato eletto abate di Citeaux (1635), la costituzione In Suprema di Alessandro VII del 1666 riconosceva ufficialmente la Stretta Osservanza, formata ormai da 40 monasteri. Uno dei suoi principi basilari era l'astinenza perpetua dalle carni. Di fatto Rancé accentuò tale carattere di austerità nel vitto, nell'orario degli uffici, nell'ambiente di riposo con la durezza dei giacigli, nella pratica del silenzio, ne lavoro manuale, nelle umiliazioni volontarie. In tal modo il distacco reale dagli altri rami dell'Ordine cistercense cresceva sempre più, benché giuridicamente l'ordine fosse ancora uno solo sotto un solo abate generale.
Il movimento della Trappa, nonostante il suo accentuato indirizzo rigoristico, riscosse ampi consensi nell'opinione pubblica e suscitò l'ammirazione di tutta una società la quale riscopriva in tal modo alcuni dei valori più profondi della vita cristiana. I postulanti accorsero in gran numero ma Rancé non volle diventare il capo di una nuova congregazione monastica, tanto che tutte le fondazioni trappiste sono posteriori alla sua morte. Nelle turbolente vicende della Rivoluzione francese a tale corrente risale il merito di aver promosso l'ulteriore diffusione dell'Ordine cistercense in vari paesi. In quelle circostanze, infatti, il maestro dei novizi della Trappa, dom Agostino de Lestrange, nel 1790 cercava rifugio con 24 monaci nella certosa svizzera della Val Sainte. Costretto a fuggire anche di lì, insieme con numerosi giovani oblati dell'ordine percorse a piedi e su carri quasi tutta l'Europa centrale, giunse poi in Russia e approdò infine in America. Egli praticò e prescrisse un'ascesi ancora più severa di quella imposta dall'abate Rancé, ma il suo nome è legato specialmente a quella che è stata chiamata l'Odissea monastica del XIX secolo, premessa per l'ulteriore espansione della corrente della Trappa nell'epoca contemporanea.
Una diffusione molto più limitata, dovuta alla peculiarità della sua origine e della sua tradizione, ottenne un'altra congregazione monastica sorta in questo periodo, quella dei mechitaristi. Il suo fondatore, il Venerabile Pietro Mechitar, era un armeno che, nato nel 1676, aveva ricevuto un'accurata formazione teologica e ascetica in Oriente. Per propagare la fede cattolica nell'Armenia sottoposta ai musulmani, fondò a Costantinopoli una piccola comunità monastica, poi trasferita nei domini veneziani in Grecia. A causa della guerra greco-turca, nel 1715 tale comunità fu costretta a trasferirsi a Venezia, dove il governo veneziano le concesse l'isola di San Lazzaro nella quale i monaci mechitaristi, che avevano adottato nel frattempo la Regola di san Benedetto, risiedono tuttora. Nell'isola di San Lazzaro i monaci mechitaristi realizzarono un attivissimo focolaio di cultura e di spiritualità armena, divulgando l'importante patrimonio della loro letteratura religiosa con edizioni di alto livello scientifico. Divisi in due congregazioni, di Venezia e di Vienna, i mechitaristi contribuiscono oggi con i loro collegi all'educazione cristiana dei numerosi armeni sparsi in Occidente [Dall'età barocca alla Rivoluzione francese
di Gregorio Penco O.S.B.
- dal libro Il monachesimo – Mondadori]
DON FRANCESCO MOLES, nato a Napoli, figlio di don Diego, presidente della Real Camera e dell’unica figlia di Don Francesco Cacciuttolo da Procida, anche lui presidente, fu avvocato dei poveri, giudice della Vicaria e presidente della Real Camera.
Comprò il feudo di Parete da don Marico Caracciolo, principe della Torella, col titolo di duca, nel 1675 per 65.000 ducati, raggiunse alte cariche a Napoli, in Spagna, fu nominato gran cancelliere a Milano, divenne ambasciatore a Venezia, nel Portogallo, in Austria.
La moglie di questo personaggio, Maria Ursino, dei conti di Oppido e Pacentro, morì a Parete nel 1697 e fu sepolta a fianco dell'altare maggiore della chiesa parrocchiale. Il figlio di don Francesco Moles e di donna Maria Ursino, Giovanni Moles, che aveva sposato a Milano una Trivulzio, scomparve a Parete nel 1717 e fu sepolto come la madre dall'altra parte dell'altare maggiore.
Giovanbattista Pacichelli, teologo, giurista, diplomatico, uomo di lettere e storiografo nel suo Del Regno di Napoli in prospettiva, pubblicato nel 1703, scrisse: "Nel più fertile, et ameno sito della Campania Felice è situata la Terra di Parete otto miglia lungi da Napoli, e due d'Aversa, ella a tutte quelle che la circondano, non ha che cedere in fertilità di grani, vino, frutti, e tutto ciò ch'è necessario al sostegno dell'humana vita, adorna di giardini, belle strade, pianezza di sito, e buon genio d'habitanti; già fu posseduta dai signori Principi d'Avellino, et oggi è sotto il dominio dell'Eccellentissimo signor Reggente MOLES, che se ne fregia col titolo di DUCA".
L'Urbs sanguinum, ovvero la "città dei sangui", è per antonomasia Napoli, e così fu definita nel 1632 da un osservatore dell'epoca rimasto attonito di fronte alle tremila reliquie di martiri cristiani gelosamente custodite in città nel chiuso dei conventi o delle dimore private.
[L'osservazione su Napoli è prioritaria e basilare anche se nel XVII secolo il culto del sangue in merito a fenomeni miracolistici e fideistici ebbe diffusione panitaliana].
Sebbene il miracolo dello scioglimento del sangue abbia finito con l'identificarsi con San Gennaro, tanti altri santi compivano e tuttora compiono il prodigio. Gli autori del libro tracciano in itinerario alla scoperta dei prodigi del sangue e dei luoghi in cui ciò avviene. Il materiale d'informazione e di conoscenza viene offerto senza la pretesa di far luce su tali prodigi, nella consapevolezza che si tratta comunque di fenomeni non solo religiosi, ma anche storici e culturali che ormai fanno parte integrante della città di Napoli. Così si deduce dall'analisi del bellissimo libro di Malafronte Lucia, Maturo Carmine,
Urbs sanguinum/
Itinerario alla ricerca dei prodigi di sangue a Napoli,
Prefazione di Marino Niola; disegni di Alessia Cianflone
, Volume in 8° (cm 21 x 15); pp. 116,
Napoli, Intra Moenia, 2000. Da esso basti citare:
Santa Patrizia, p. 29
San Giovanni Battista, p. 33
San Pantaleone, p. 39
Chiesa di San Gregorio Armeno, p. 43
San Lorenzo, p. 45
Chiesa di San Lorenzo Maggiore, p. 49
Santo Stefano Protomartire, p. 49
Chiesa di Santa Chiara, p. 55
Sant'Alfonso de' Liguori, p. 57
Chiesa di Santa Maria della Mercede, p. 61
San Luigi Gonzaga, p. 63
Chiesa del Gesù Vecchio, p. 67
Il sangue di San Gennaro, p. 69
Sontuosa oltre che estremamente utile risulta la presentazione di Marino Niola qui parzialmente riproposta:
"
Sono trascorsi ormai quasi tre secoli da quando Charles de Brosses, nel 1737, defini' il miracolo di San Gennaro un graziosissimo capitolo di chimica, una trappola acchiappagrulli. Da allora una ininterrotta diatriba ha contrapposto due schiere agguerrite. Da una parte gli scettici , dall'altra i credenti si son combattuti, per lo più per mostrare gli uni la falsità, gli altri la verità del miracolo. Finendo cosi' per ridurre una questione simbolica tanto complessa ad un quesito referendario.
Ciò ha spesso posto in second'ordine le ragioni "proprie" di un fenomeno: la sua genesi, il suo significato, le sue costanti e le sue metamorfosi, la sua permanenza e, questione di portata decisiva, il suo simbolismo. Ovvero il linguaggio nel quale il fatto viene enunciato, codificato, comunicato e trasmesso. E' ben nota la centralità simbolica del sangue nel Mezzogiorno, ma soprattutto a Napoli.
Sono tante, e circondate da un'aura particolarmente miracolosa, le numerose ampolle e fiale contenenti il sangue di santi e beati che hanno rigato di innumerevoli rivoli scarlatti l'anima religiosa della città. Tante liquefazioni prodigiose che hanno, proprio nel miracolo di San Gennaro, il loro paradigma. San Giovanni Battista, Santa Patrizia, Pantaleone, Andrea Avellino, moltissimi altri. Fonti ormai secche, però, con l'eccezione di Patrizia.
Era tale il numero delle ampolle miracolose, orgoglio e vanto dei monasteri più potenti, che Jean Jacques Bouchard nel 1632 defini' Napoli urbs sanguinum, ovvero la "città dei sangui". Come un filo di Arianna la geografia del sangue lega diversi tempi e culture che compongono la storia napoletana e la sua geologica stratificazione. Dove il corpo ed il sangue, ovvero i riferimenti più arcaici, sono ancora attuali.
Lucia Malafronte e Carmine Maturo ci invitano a dipanare alcuni interessanti fili di questa mappa mettendoci sulle loro tracce, seguendoli nella loro flanerie nello spazio e nel tempo. Nella convinzione che dietro il folklore, e persino dietro il colore, c'è sempre un giacimento culturale che chiede solo di essere riportato alla luce.
In questo senso il lavoro dei due autori diventa un metafora del compito cui sono chiamate oggi le energie migliori di cui questa città è ricca. Far riemergere le ragioni nascoste di una potenzialità attrattiva, di cui per il momento affiora solo lo scintillio del passato, facendola rifluire nel presente, in quella circolazione più ampia che costituisce oggi il vero flusso sanguigno del villaggio globale. Facendo scorrere Napoli nelle vene del mondo".
Du Moulin, Pierre [Molinaeus, Petrus, teologo e polemista (vedi gli scritti contro il Pietrasanta, nato il 16.10. 1568 a Pfarrerssohn, morto il 10.3. 1658 a Sedan di cui resse la cattedrale]
L' anti-barbare ou Du langage ingogneu: tant es prieres des particuliers qu'au seruice public: ou aussi sont representees les clauses principales de la messe, qui scandaliseroyent le peuple s'il les entendoit. Par Pierre du Moulin, A Geneve: Aubert, Pierre, 1631
Du Moulin, Pierre, Petri Molinaei ... Anatome missae; docens authoritate Sacrae Scripturae, & testimoniis veteris ecclesiae, missam pugnare cum verbo Dei, & avertere homines a via salutis. Latino sermone donata a Ludovico Molinaeo, authoris filio, Lugd. Batavor.: Elzevier, Bonaventura & Elzevier, Abraham 1.>, 1637
Du Moulin, Pierre, Anatomie de la messe. Ou' est monstre' par l'ecriture saincte, & par les tesmoignages de l'ancienne eglise, que la messe est contraire a la parole de Dieu, ... Par Pier du Moulin ministre de la parole de Dieu en l'eglise de Sedan, ..., A Geneve: Aubert, Pierre <1.>, 1636
Du Moulin, Pierre, Petri Molinaei Opera philosophica. Logica, Physica, Ethica, Amsterdami, 1645
Du Moulin, Pierre, In nuptias Martini Pilii I.C. et lectissimae virginis Ianae Olivariae epithalamia, Lugduni Batauorum: Raphelengius, Franciscus <1.>, 1594
Du Moulin, Pierre, De monarchia temporali pontificis Romani liber, quo imperatoris, regum, & principum iura aduersus vsurpationes papae defenduntur: et docetur quibus artibus papa ab humili statu ad tantae potentiae culmen ascenderit: & liber serenissimi ac potentissimi regis jacobi ad adversiorum obiectionibus, praecipue vero Roberti Bellarmini & Cuffetelli dominicani, vindicatur. Cum indice, Francofurti: Winkler, Johann Jakob, 1716
Du Moulin, Pierre, Regii sanguinis clamor ad coelum adversus parricidas anglicanos, Hagae-Comitum: Vlacq, Adriaen, 1652
Du Moulin, Pierre, Apologie pour la saincte cene du Seigneur contre la presence corporelle, et transsubstantiation. Item, Contre les messes sans communians. Et contre la communion sous vne espece. Par Pierre du Moulin ..., A La Rochelle, 1609
Du Moulin, Pierre, Petri Molinei De monarchia temporali pontificis romani liber, quo imperatoris, regum, & principum jurs aduersus vsurpationes Papae defenduntur: et docetur quibus artibus Papa ab humili statu ad tantae potentiae culmen ascenderit ..., Londini: Norton, Bonham & Bill, John, 1614
Du Moulin, Pierre, Anatome Arminianismi seu, Enucleatio controuersiarum quae in Belgio agitantur, super doctrina de Prouidentia: de Praedestinatione, de morte Christi, de natura & Gratia. Authore Petro Molinaeo pastore Ecclesiae Parisiensis, Lugduni-Batauorum: Elzevier, Bonaventura, 1619
Du Moulin, Pierre, 21: Iustification de monsieur Du Moulin, contre les impostures et calomnies de Leonard le Maire, dit Limburg ..., A Geneue, 1659
Du Moulin, Pierre, 22: Esclaircissement des controuerses salmuriennes: ou defense de la doctrine des eglises reformees sur l'immutabilite des decrets de Dieu ... Par Pierre Du Moulin ..., A Geneue: Aubert, Pierre heritiers, 1649
Du Moulin, Pierre, 23: La Vie et religion de deux bons papes, Leon premier et Gregoire premier. Ou est monstre que la doctrine & religion de ces pontifes ... est contraire a la religion romaine de ce temps. Par Pierre Du Moulin ..., A Geneue, 1659
Du Moulin, Pierre, 24: Heraclite ou de la vanite et misere de la vie humaine. Plus autre traicte intitule Theophile ou de l'amour diuin, contenant cinq degrez, cinq marques, cinq aides de l'amour de Dieu, A Geneue, 1660
Du Moulin, Pierre, 25: Du combat chrestien: ou des afflictions. A messieurs de l'eglise reformee de Paris. Par Pierre du Moulin ..., A Geneue, 1659
Du Moulin, Pierre, 27: Familiere instruction pour consoler les malades. Auec plusieurs sur ce sujet. Par Pierre Du Moulin ..., A Geneue: Aubert, Pierre <1583-1636>, 1636
Du Moulin, Pierre, 28: Le Sainct resveil spirituel. Ensemble un traite de la iuste prouidence de Dieu, et une lettre escrite a un sien ami en Hollande. Le tout par Pierre du Moulin ..., A Geneve, 1659
Du Moulin, Pierre, 29: Lettre du sieur Drelincourt a monsieur Du Moulin. ENsemble la response du sieur Du Moulin a ladite lettre. Sur l'imposture descouverte du pretendu ministre Villeneuvve, A Geneue, 1659
Du Moulin, Pierre, 30: Lettre de monsieur du Moulin, a monsieur de Balzac, A Geneue: Aubert, Pierre heritiers, 1637
Du Moulin, Pierre, 31: Lettres de messieurs Riuet, de la Milletiere, et Du Moulin, A Geneue, 1660
Du Moulin, Pierre, 33: Premiere-dixieme decade de sermons ... Par Pierre Du Moulin ..., A Geneue, 1661
Du Moulin, Pierre, 32: Lettres que messieurs Du Moulin et Amiraut se sont escrites pour temoigner leur mutuelle bienvueillance, A Geneue, 1660
Du Moulin, Pierre, 34: Trois sermons faits en presence des peres Capucins, qui les ont honorez de leur presence. Par Pierre du Moulin ..., A Geneue, 1659
Du Moulin, Pierre, 34: Elements de la logique francoise. Par pierre Du Moulin, A Geneue: Chouet, Jacques <3. ; 1607-1653>, 1641
Du Moulin, Pierre, 35: Physique ou science naturelle. Auec une table des matieres & chapitres. Par Pierre Du Moulin, A Geneue, 1660
Du Moulin, Pierre, 36: Ethique ou science morale comprise en dix livres. Auec une table des matieres & chapitres. Par Pierre Du Moulin, A Geneue, 1667
Du Moulin, Pierre, L' anti-barbare ou Du langage ingogneu : tant es prieres des particuliers qu'au service public, ou aussi sont representees les clauses principales de la messe, qui scandaliseroyent le peuple s'il les entendoit. Par Pierre Du Moulin, ..., A Geneve: Aubert, Pierre, 1630
Du Moulin, Pierre, Eaulx de Siloe pour esteindre le feu du purgatoire, & noyer les traditions, les limbes, les satisfactions humaines & les indulgences papales. Contre les raisons et allegations d'un Cordelier portugais, defendues par trois escrits, ...Par Pierrre du Moulin ministre de la parole de Dieu, A La Rochelle, 1608
Du Moulin, Pierre, Response du sieur du Moulin aux lettres du sieur Gontier, escrites au Roy sur le suiect de la conference tenue le 11. auril 1609, senza nome, 1609
Du Moulin, Pierre, P. Molinei Idyllium Murtia Bataua in natalem diem illustrissimi comitis, Henrici-Federici Guilielmi F, Lugduni Batauorum: Raphelengius, Franciscus <1.>, 1594
Du Moulin, Pierre, De la vocation des pasteurs. Par Pierre Du Moulin, ministre de la parole de Dieu en l'eglise de Paris, A Sedan: Iannon, Jean
Du Moulin, Pierre, Bouclier de la foy ou defense de la confession de foy des eglises reformees du Royaume de France, contre les objections du Sieur Arnoux Iesuite ... par Pierre Du Moulin ministre de la parole de Dieu en l'eglise de Paris ..., A Geneve: Aubert, Pierre, 1635
Du Moulin, Pierre, Elemens de la logique francoise. De Pierre Du Moulin, A Rouen: Cailloue, Jacques, 1627
Du Moulin, Pierre, Regii sanguinis clamor ad coelum adversus parricidas Anglicanos, Hagae-Comitum, 1652
Du Moulin, Pierre, Les Oeuures theologiques de Pierre Du Moulin ministre de la parole de Dieu & professeur en theologie a Sedan. Ensemble sa philosophie francoise, A Geneue: Chouet, Pierre <2.>, 1631-1673
Du Moulin, Pierre, 1: Recit des dernieres heures de monsieur du Moulin. Decede a Sedan le 10. mars 1658, A Geneue, 1661
Du Moulin, Pierre, 2: Meditation de deffunt monsieur du Moulin sur la grande maladie qu'il eust, A Geneue, 1662
Du Moulin, Pierre, 3: Bouclier de la foy, ou defense de la confession de foy des eglises reformees du royaume de France, contre les obiections du sieur Arnoux Iesuite ... Par Pierre Du Moulin ..., A Geneue, 1670
Du Moulin, Pierre, 4: L' Anti-barbare ou du langage inconnu: tant es prieres des particuliers qu'au service public ... Par Pierre Du Moulin ..., A Geneue, 1660
Du Moulin, Pierre, 5: Apologie pour la saincte cene du seigneur, contre la presence corporelle, et transsubstantiation ... Par Pierre du Moulin ..., A Geneue, 1660
Du Moulin, Pierre, 10: Accomplissement des propheties. Ou est monstre que les propheties de S. Paul, & de l'Apocalypse ... Par Pierre Du Moulin ..., A Geneue, 1660
Du Moulin, Pierre, Anatomie du livre di sieur Coeffetau intitule Refutation des faussetes contenues en la deuxieme edition de l'Apologie de la Cene du Ministre du Moulin. Par Pierre Du Moulin, A Sedan: Baillet, Jean, 1610
Du Moulin, Pierre, Accomplissement des propheties. Troisieme partie du liure de la defense de la foi du Serenissime Roi Iaques 1. Roi de la Grand' Bretagne. Ou est monstre que le Propheties de S. Paul, et de l'Apocalypse, et de Daniel, touchant les combats de l'Eglise sont accomplies., Par Pierre du Moulin Ministre de la Parole de Dieu en l'Eglise de Paris., Edition derniere reueue et beaucoup augmentee par l'Autheur, A Geneue : pour Pierre Aubert, 1624., 406, 2 p. ; 8o, Aubert, Pierre
Du Moulin, Pierre, Defense de la foy catholique, contenue au liure de trespuissant et serenissime Roi Iaques 1. Roi de la grand' Bretagne & d'Irlande. Contre la reponse de F.N. Coffeteau Docteur en Theologie, et Vicaire general des Freres Prescheurs. Par Pierre du Moulin Ministre de la Parole de Dieu en l'Eglise de Paris, A Geneve: Aubert, Pierre, 1624
Du Moulin, Pierre, Cartel de deffy du Sieur de Bouiu surnomme de Beau-Lieu, enuoye au Sieur du Moulin. Auec les responses et repliques de part et d'autre. Sur le point de la Cene, & des Marques de la vraye Eglise, A Geneue: Aubert, Pierre, 1625
Du Moulin, Pierre, Trentedeux demandes proposees par le pere Cotton. Auec les solutions adioustees au bout de chasque demande. Item soixante quatre demandes proposees en contre-eschange. Par Pierre du Moulin ministre de la parole de Dieu en L'Eglise de Paris ..., A Geneue: Aubert, Pierre, 1625
Du Moulin, Pierre, Reponse a quatre demandes, faites par un gentil-homme de Poictou. Par Pierre du Moulin, Ministre de la Parole de Dieu, A Geneue: Aubert, Pierre, 1624
Du Moulin, Pierre, Veritable narre de la conference entre les Sieurs Du Moulin & Gontier, seconde par Madame la Baronne de Salignac, A Geneue, 1625
Du Moulin, Pierre, Nouueaute du papisme, opposee a l'antiquite du vray christianisme. Contre le liure de monsieur le cardinal du Perron, intitule Replique a la response du serenissime roy Jaques 1. Roy de la Grand' Bretagne. Par Pierre du Moulin ..., A Sedan, 1627
Du Moulin, Pierre, Hippolyti Frontonis Caracottae Strigil adversus commentationem Authoris anonymi ad loca quaedam Novi Testamenti quae de Antichristo agunt, aut agere putantur, Amstelodami: Jansson, Jan <1. ; 1608-1665>, 1640
Du Moulin, Pierre, Du combat chrestien ou des afflictions a Messieurs de l'Eglise Reformee de Paris par Pierre du Moulin, ministre de la parole de Dieu, & professeur en theologie, A Geneve: Tournes, Jean Antoine de & Tournes, Samuel de, 1666
Du Moulin, Pierre, Apologie pour la saincte cene du Seigneur: contre la presence corporelle, et transsubstantiation. Item, Contre les messes sans communians. Et contre la communion sous vne espece. Par Pierre du Moulin ..., A Geneue: Le Preux, Esaias, 1610
Du Moulin, Pierre, Esclaircissement des controverses salmuriennes. Ou defense de la doctrine sur l'immutabilite des decrets de Dieu, l'efficace de la mort de Christ, la grace universelle, l'impuissance a se convertir: et sur d'autres matieres. Par Pierre Du Moulin, ..., A Leyden: Maire, Joannes, 1648
Du Moulin, Pierre, Theses ethicae, de vita beata et virtute. ... sub praesidio doctissimi ... D.P. Molinaei afferere conabor Iosias Vosberghius ... 4. Idus Decemb. anno 1594. ..., Lugduni Batauorum: Raphelengius, Franciscus <1.>, 1594
Du Moulin, Pierre, Le Capucin. Traitte auquel est descrite l'origine des Capucins, & leurs voeux, regles, & disciplines examinees. Par Pierre Du Moulin, avec une addition du Journal des des Capucins, & de plusieurs praticques secrettes de leur ordre. Par le Sr. F. Clouet, A la Haye: Spruyt, Franco : de, 1641
Du Moulin, Pierre, De la vocation des pasteurs. Par Pierre Du Moulin ... Derniere edition, reueue & corrigee par l'Autheur, A Geneve: Aubert, Pierre <1.>, 1624
Du Moulin, Pierre, Septieme decade de sermons. Par Pierre du Moulin ministre de la Parole de Dieu a Sedan, & professeur en theologie, A Geneve: Chouet, Pierre <3. ; 1649-1675>, 1655
Du Moulin, Pierre, Huictieme decade de sermons. Par Pierre du Moulin ministre de la Parole de Dieu a Sedan, & professeur en theologie, A Geneve: Chouet, Pierre <3. ; 1649-1675>, 1655
Du Moulin, Pierre, Neufvieme decade de sermons. Par Pierre du Moulin, ministre de la Parole de Dieu a Sedan, & professeur en theologie, A Geneve: Chouet, Pierre <3. ; 1649-1675>, 1671
Du Moulin, Pierre, Dixieme decade de sermons. Auec un Traitte de Melchisedec. Par Pierre du Moulin ministre de la Parole de Dieu a Sedan, & professeur en theologie, A Geneve: Chouet, Pierre <3. ; 1649-1675>, 1672
Du Moulin, Pierre, Premiere decade de sermons. Par Pierre du Moulin, ministre de la Parole de Dieu a Sedan, & professeur en theologie, A Geneve: Chouet, Jacques <3. ; 1607-1653>, 1643
Du Moulin, Pierre, Deuxieme decade de sermons. Par Pierre du Moulin, ministre de la Parole de Dieu a Sedan, & professeur en theologie, A Geneve: Chouet, Jacques <3. ; 1607-1653>, 1643
Du Moulin, Pierre, Troisieme decade de sermons. Par Pierre du Moulin, ministre de la Parole de Dieu a Sedan, & professeur en theologie, A Geneve: Chouet, Jacques <3. ; 1607-1653>, 1643
Du Moulin, Pierre, Quatrieme decade de sermons. Par Pierre du Moulin, ministre de la Parole de Dieu a Sedan, & professeur en theologie, A Geneve: Chouet, Jacques <3. ; 1607-1653>, 1643
Du Moulin, Pierre, Cinquieme decade de sermons. Par Pierre du Moulin ministre de la Parole de Dieu a Sedan, & professeur en theologie, A Geneve: Chouet, Jacques <3. ; 1607-1653>, 1642
Du Moulin, Pierre, Apologie pour la saincte cene du seigneur, contre la presence corporelle. Et transsubstantation. Item, Contre les messes sans communians. Et contre la communion sous une espece. Par Pierre Du Moulin, ..., A Geneve: Aubert, Pierre, 1630
Du Moulin, Pierre, Petri Molinaei, S.S. Theologiae professoris Enodatio gravissimarum quaestionum de providentia Dei. De statu innocentiae. De peccato originali. De libero arbitrio. De praedestinatione. De perseverantia. Qua asseritur veritas, & excutitur sententia Pontificiorum, & Arminianorum. His inserti sunt duo tractatus, unus de omniscientia Dei, alter de ejus imagine, Lugduni Batavorum: Elzevier, Bonaventura & Elzevier, Abraham 1.>, 1632
Du Moulin, Pierre, Petri Molinaei Hyperaspistes Siue Defensor veritatis aduersus calumnias & opprobria ingesta in veram religionem a Syluestro Petrasancta iesuita romano. Opus in tres libros digestum, quibus maxima pars controuersiarum inter nos & Ecclesiam Romanam excutitur, & aperitur mysterium iniquitatis, Genevae: Chouet, Jacques <3. ; 1607-1653>, 1634
Du Moulin, Pierre, Petri Molinaei De poenitentia et clauibus. Liber quo falsa poenitentia impugnatur: et imperatorum ac regum, supremorumque magistratuum iura defenduntur, Sedani: Chayer, Francois, 1652
Du Moulin, Pierre, Le capucin. Traitee, auquel est descrite & examinee l'origine des Capucins, LEURS voeux ... par Pierre Du Moulin ..., A Geneue, 1641
Du Moulin, Pierre, Des traditions et de la perfection et suffisance de l'Escriture saincte. Qui est le quatriesme traitte du iuge de controuerses. Auec vn catalogue ou denombrement des traditions Romaines. Par Pierre Du Moulin ..., A Geneue, 1632
Du Moulin, Pierre, L' antibarabre ou du langage incogneu: tant es prieres des particuliers qu'au serivce public... Par Pierre u Moulin, ministre de la Parole de Dieu et Professeur en Theologie a Sedan, A Geneve: chez Pierre Aubert imprimeur ordinaire de la Republique et Academie: Aubert, Pierre, 1631
Du Moulin, Pierre, Apologie pour la saincte cene du Seigneur, contre La presence corporelle et transsubstantiation. Item, contre les messes sans communions, et contre la communion sous une espece. Par Pierre Du Moulin. Derniere edition revue & augmentee, en laquelle est satisfait a toutes les accusations des aduersaires, A Geneve: Chouet, Pierre <2.> & Chouet, Jacques <3.>, 1615
Du Moulin, Pierre, Anatomie du liure du sieur Coeffeteau, intitule Refutation des faussetez contenues en la deuxieme edition de l'Apologie de la cene, du ministre du Moulin. Par Pierre Du Moulin, A Geneve: Aubert, Pierre <1.>, 1625
Du Moulin, Pierre, Accroissement des eaux de Siloe. Pour esteindre le feu de purgatoire, & noyer les satisfactions humaines & les indulgences papales. Contre les raisons et allegations d'un cordelier portugais, ... Par Pierre Du Moulin, A Geneue: Aubert, Pierre <1.>, 1624
Du Moulin, Pierre, Apologie pour la Saincte Cene du Seigneur. Contre la presence charnelle ettranssubstantiation. Par Pierre Du Moulin, ministre de la Parole de Dieu, en l'Eglise de Paris, A La Rochelle, 1607
Du Moulin, Pierre, Sixieme decade de sermons. Par Pierre du Moulin ministre de la Parole de Dieu a Sedan, & professeur en theologie, A Geneve: Chouet, Pierre <3. ; 1649-1675>, 1655
RIVET (Rivetus), André (Andreas) nato il 22.6. 1572 (2.7. 1572 secondo il calendario gregoriano) in St. Maixent (Poitou) morto il 7.1. 1651 in Breda.
Nelle biblioteche italiane si è riscontrata la:
Biblia sacra, siue Testamentus vetus, ab Im. Tremellio et Fr. Iunio ex Hebraeo Latine redditum, et Testamentum nouum, a Theod. Beza e Graeco in Latinum versum ... , Amstelodami : apud Ioannem Ianssonium, 1648 , 4, 941, 1 p., 1 c. di tav. : ill. ; 12o , Dedica di Andreas Rivetus, Front. inciso, Segn.: A-2Qoo 2R6 , La c. 2R6v bianca , Impronta, o-nt m.i- u*i- rivu (3) 1648 (R): vari collaboratori : Du Jon, Francois <1545- 1602> , Tremellius, Immanuel <1510-1580> , Bez, Theodor <1519-1605>, Rivetus , Andreas <1572-1651> , Paese di pubblicazione: NL Lingua di pubblicazione: lat Localizzazioni: VC0020, Biblioteca civica De Gregoriana, Crescentino, VC.
Vedi anche:
Dannhauer, Johann Conrad <1603-1666>, Iconothetes christianus, adiaphorus, libertatis vindex, medius, sequester inter idoloplasten ... accessit appendix vindex collegii decalogi, ab Andrea Reueto ... auctore Johanne Conrado Dannhawero, Argentorati : impensis Georgii Andreae Dolhopffii, & Joh. Eberhardi Zetzneri ..., 1665, 108 p. ; 4. , Segn.: A-N4,O2. , Impronta, com, nsad adro trcu (3) 1665 (R), Localizzazioni: Biblioteca Estense Universitaria, Modena
"Secondo Marie-Jo Bonnet [ Marie-Jo Bonnet, Un choix sans équivoques: recherches historiques sur les relations amoureuses entre les femme XVI-XX siècle, Paris: Denöel, 1981. ] il nome tribade da cui tribadismo, di origine greca, arrivò agli umanisti francesi del Rinascimento attraverso le traduzioni di autori latini (Luciano, Marziale, Fedro) dove le tribadi vengono decisamente condannate, e fu per tre secoli il termine più usato per indicare una donna che aveva rapporti sessuali con un'altra donna.
In Francia compare nel 1566 ad opera di Henry Estienne (Apologie pour Hérodote), ma viene registrata nei dizionari francesi solo a partire dal 1680. Il suo significato sarebbe legato all'importanza attribuita alla clitoride, la dulcedo veneris, conosciuta da greci e romani, ma dimenticata e "riscoperta" solo alla fine del 1500 [Sulla controversia riguardante chi avesse per primo scoperto la clitoride vedi anche Thomas Laqueur, 1990. Making Sex: Body and Gender from the Greeks to Freud, Harvard: Harvard University Press, tradotto in italiano nel 1992 come L'identità sessuale dai greci a Freud, Bari, Laterza.]. Jacques Duval, 1612 [Jacques Duval, 1988 (1612) = pubblicato a cura di Valerio Marchetti come L'ermafrodito di Rouen: una storia medico-legale del XVII secolo. Venezia: Marsilio] cita altri sinonimi seicenteschi per "tribas": subigitatrix, ribaude, frictrix. Nel 1587 Bourdeille comincia a scrivere le sue Mémoires contenant la vie des dames illustres de son temps ma pubblicate solo nel 1666 [Brantôme, 1982 [1666], Le dame galanti .Milano: Adelphi.]. Vi compaiono dames lesbiennes che si chiamano tribades e fricatrices "ou qui font la fricarelle en mestier de donna con donna [in italiano nell'originale], comme l'a trouvé ainsi aujourd'huy" ("che fanno la fricarella in mestiere di donna con donna").
Qualche pagina dopo però precisa che gli "amori muliebri si compiono in due modi, gli uni per mezzo di fricarelle", gli altri, come dice Marziale nell'epigramma a Bassa, con geminos committere cunnos. I danni avverrebbero quando s'aiutano con alcuni strumenti a foggia di ... e chiamati 'godemichi'. Questi godemichi [da un termine che risulta elaborato dal ben comprensibile latino gaude mihi] sono gli olisboi, noti anche ai greci [ne troviamo per esempio citazione in Aristofane al verso 109 della sua commedia Lisistrata].
Nel XVI secolo fu possibile il passaggio concettuale da una tribade che si procura il piacere senza l'uomo (secondo l'etimo greco unicamente con lo sfregamento dei genitali), a quella che l'ottiene come un uomo (grazie alla clitoride eccezionalmente grande, con la quale poteva "abusare" di un'altra donna) [Marie-Jo Bonnet, 1981, Un choix sans équivoque, op. cit.] . Il passaggio inverso potè invece avvenire nel XIX secolo, quando l'attenzione si spostò e si concentrò sulla vagina...
In Inghilterra tribade viene riportato per la prima volta nel 1601 (William King, The Toast) ma sarebbe stato usato, secondo Donoghue [Emma Donoghue, 1993. Passions Between Women: British Lesbian Culture 1668-1801. London: Scarlet Press ], fino a tutto il 1700; Friederich Karl Forberg (1824) in De figuris veneris usa questo termine per descrivere gli "Alexandrian colleges" esistenti nella Londra di fine '700. "Tribady" avrebbe fatto la sua comparsa solo nel 1811 in occasione di un processo per questo reato [Martha Vicinus, 1992. They Wonder to Which Sex I Belong: The Historical Roots of the Modern Lesbian Identity in "Feminist Studies", 18(3): 467-497]. In Olanda "tribadie" comparve nel 1650 [ Nella traduzione del libro Observationum Medicarum di Nicolaas Tulp. Vedi Rudolph M. Dekker, Lotte C. van de Pol, 1989. The Tradition of Female Transvestism in Early Modern Europe, London: Macmillan Press. Secondo questi autori non c'erano ancora termini olandesi per l'omosessualità (solo il generico "sodomia", sia per gli uomini che per le donne), ed anche "tribadie" fu usato raramente].
In italiano il termine tribade è presente almeno dal Rinascimento: Angelico Aprosio lo usa con cognizione di causa in questo passo del capitolo XI della Grillaia