LA PIAZZA UNIVERSALE DI TUTTE LE PROFESSIONI DEL MONDO
DI TOMASO GARZONI
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da Bagnacavallo
(1549/1589) proviene dalla seguente
Prefazione con cui Bartolomeo, fratello di Tomaso, editò postumo il Serraglio degli stupori del mondo, adducendo testimonianze di prima mano sull'esperienza esistenziale precocemente interrotta del poligrafo che per le sue opere conseguì fama nel suo secolo sì che i suoi lavori vennero tradotti in francese, tedesco, castigliano: Pregato e ripregato da diversi a formar come in compendio la vita dell'autore, ne potendomi così di leggero sottrarre da tanta istanza: ecco che io D. Bartolomeo fratello vero di esso a ciò mi accingo ad incominciare. LE SOTTOSTANTI FRECCE SERVONO PER I LEMMI DI RICERCA OPPURE CLICCA QUI PER LA HOME PAGE DI CULTURA-BAROCCA
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Annotazioni sopra il CXII discorso.
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DISCORSO CVI =
DE' CARNEFICI E BOI
Epoca controversa si è scritto, epoca di contraddizioni, splendori e miserie anche: come impararono Aprosio già nei suoi viaggi giovanili e quindi D. A. Gandolfo nei suoi trasferimenti a Roma un'epoca
in cui ogni viaggio poteva esser pericolosissimo essendo strade e locande popolate da un'umanità dolente e feroce di emarginati, spesso disposti a tutto
la consuetudine di mascherarsi per non esser identificati era una costante = e addirittura tra i criminali mascherati già "orribilmente
mascherati o più propriamente sfigurati" per ordine dell'autorità giudiziaria tanti ricorrevano ad ogni espediente pur di "mascherarsi diversamente" = si trattava del triste gruppo degli infami che diversamente, a seconda della parte del corpo
in cui era stato applicato a fuoco il marchio di infamia cercavano di nasconderlo: e come non ricordare la perfida "Milady" del ciclo dei "Tre Moschettieri" di Dumas?
Eppure tra tanti, il più temuto ed odiato era un "servitore dello Stato", propriamente l'Assassino di Stato (si badi bene non l'Omicida
non ancora come oggi sinonimo di Assassino.
[ " Il boia o Carnifex in Roma Antica uccideva schiavi e stranieri (Plaut. Bacch. IV, 4, 37; Capt. V, 4, 22), ma non cittadini romani, che erano puniti in modo diverso rispetto agli schiavi. Aveva anche il compito di gestire la tortura. Questo impegno era considerato così disdicevole, che non gli era permesso di vivere in città (Cic. Pro Rabir. 5), infatti viveva fuori dalla Porta Metia o Esquilina (Plaut. Pseud. I, 3, 98), vicino al luogo destinato alla punizione degli schiavi (Plaut. Cas. III, 6, 2; Tac. Ann. XV, 60; Hor. Epod. V, 99), chiamato Sessorium sotto gl' imperatori (Plut. Galb. 20).
Alcuni storici, basandosi su di un passo in Plauto (Rud. III, 6, 19), credevano che il carnifex fosse anticamente il guardiano della prigione sotto i triumviri capitales; ma non ci sono sufficienti prove per questa ipotesi (Lipsius, Excurs. ad Tacit. Ann. II, 32)" si legge in William Smith, D.C.L., LL.D.:
A Dictionary of Greek and Roman Antiquities , John Murray, Londra, 1875 che sostanzialmente converge con Federico Lubker nella cui opera compare anche scritto "L'esecuzione della sentenza di morte contro i cittadini era compiuta dal littore; ai tresviri capitales toccava di strozzare i condannati (secondo una costumanza che nel Diritto Intermedio fu mediamente riservata -fatte salve esecuzioni perpetrate contro le norme del diritto avverso nemici politici specie nel "Cameroto" su volere per es. del veneziano Consiglio dei Dieci- ai nobili, evitando loro l'ulteriore ignominia della pubblica esecuzione per esempio sul patibolo eretto assai spesso per l'impiccagione alla vista della folla nel corso dei così detti "Spettacoli di Giustizia") nel carcere " ].
La lugubre maschera che indossava sul patibolo (quella nell'immagine è una maschera vera antiquaria di Boia di ambito germanico del '600 = ma poteva surrogarsi con un cappuccio in grado di garantire un difficile anonimato) era solo un patetico e in genere inutile tentativo di nasconderne le generalità; che l'espediente riuscisse (cosa rara) o non era comunque l'incarnazione dell'uomo nero, del male...era quello che più semplicemente era detto
Boia con una parola quasi per tutti derivata dal latino boia, perlopiù al plurale nella forma boiae derivato dal greco Boeiai stante ad indicare lacci di cuoio bovino usati sia per legare al ceppo del patibolo che per torturare nella camera dei dolori [era talmente temuto ed odiato da avanzarsi da parecchi il tema se in rapporto agli epocali
rituali della morte lo si dovesse seppellire una volta defunto anche per via naturale entro i cimiteri
o non piuttosto in terra sconsacrata (vedi da punto 172)]
E più che con altre perifrasi il sunto del generale disprezzo e terrore lo recuperiamo qui da questo capitolo CVI da LA PIAZZA UNIVERSALE... di T. GARZONI osservatore attento delle cose più svariate della sua epoca che appunto scrive:
"La signoria del BOIA [ma il Garzoni dedica pagine sarcastiche anche ai BIRRI che ritiene suoi pari in tutto e per tutto] anche ai suoi assistenti che per scettro tiene la secure in mano e per seggio l'orrido palco della giustizia, fu dagli antichi Romani, come attesta M. Tullio [Cicerone] nell'orazione per Caio Rabirio [pro Rabirio, V, 15], di maniera istimata che non solo era priva della cittadinanza romana, ma ancora dell'abitazione della città, bisognado viver di fuori, come alla bestiale sua maestà propriamente conviene.
E le leggi imperiali e canoniche insieme hanno condannato la sua magnificenza per infame, onde a guisa di fiera selvaggia vive sequestrata dal commercio di tutti, non degnadosi a pena il sole di porgere i benigni raggi alla monstruosa persona sua, vituperata per tutti i secoli e di mille vergogne accompagnata.
Ma la natura pietosa, avendo qualche riguardo alla necessità del suo mestieri, gli ha dato un poco di ristoro nella gloriosa compagnia della sbirraria che qualche volta gli è scudo e riparo contro gl'insulti della plebe.
Il qual sollevamento gli è levato quando, per impiccar il boia bisogna che'l zaffo [capo degli sbirri] diventi boia, abenché non muore in tutto senza regio onore, usandosi d'impiccarlo col laccio d'oro al collo, e con la mitra in testa, come re di Cartagine, famoso e segnalato [forse con gli addobbi da scherno usati per alcuni rei mandati al patibolo, specie per gli eretici?].
E nel morir confessa talora non esser stato sì infame e obbrobrioso appresso al mondo che non abbia trovato la signora Orsolina [quasi di certo una meretrice] che, ingannata dalla sua vista e dal mentito abito ornato, gli ha compiacciuto de' suoi cari abbracciamenti, spirando d'amorosa morte nelle fortunate braccia del boia.
E aggiunge a' suoi delitti nella confessione de' tormenti d'esser stato mille volte compagno di notte ai ladri, sotto sicura speme di non restar scoperto mai, non potendosi credere così facilmente che quel che impicca i ladri sia stato fautore e partecipe de' latrocini tante volte essequinti, senza potersene mai cavare indicio nè certezza alcuna.
Allora si vede quanto ha sguazzato il boia, e quanto ha trionfato ponendosi nella frotta de' marioli, per esser egli padrone de' lacci, signore della forca e re de' capestri.
Vantasi il cornuto carnefice d'esser per altri rispetti degno di pregio e onore, sì perché nell'amministrar la giustizia publica serve per gentilezza a' prencipi e a' signori, sì perché passan per le sue mani infinite persone illustre e nobili, sopra le quali avendo libero dominio, gli par di meritare altro nome che quello di carnefice o di boia.
E quantunque talora abbia la scopa in mano [in segno di infamia si fustigava con scope], o i vimini in cambio di verga, e la berlina in vece di corona, ha nondimeno qualche volta ancora un tribunal [tribuna, palco] tanto elevato che da presso e da lontano ciascun lo giudica un Salomone [il leggendario trono di Salomone viene descritto in 3 Reg., X, 18-20] che seda nel funesto seggio tutto acerbo e spaventoso.
Né minimi esempi di ladrocelli frustati, o di strie [streghe] poste in berlina, o di cinedi [omosessuali - sodomiti - ermafroditi] percotati, diminuiscono un tantino la dignità boiesca, essendo che il carnefice pone il giogo alle più brave barbe che vadino intorno, e pone il piede sopra il collo a tale che non si tiene da meno che un re e un imperadore.
Gode l'empio lanista [in antico "maestro dei gladiatori" ma poi sinonimo per "boia"], e questi come d'un trionfo s'allegra, quando sul carro lugubre conduce i rei captivi, da immensa turba di sbirri attorniati; e quivi intanaglia [tormenta con tenaglie rese incandescenti = anche "straziatoio di seni" per le donne] questi, scopa quell'altro, a uno taglia la mano micidiale, a un altro dà del vindice cortello nel cuore, imbrattando il carro di sangue e lordando le strade delle cervella de' miseri nocenti [colpevoli].
Qui viene accompagnato [il Garzoni parla del condannato condotto sul carro del patibolo: in altre zone si usava il sistema ancor più umiliante detto a coda d'una bestia tratto"] dalle grida del popolo, da' stridi degli infelici giustiziati, dal strepito che fanno i zaffi, dall'ingiurie e villanie de' putti, rappresentando un trionfo de' più vergognosi e infami ch'habbia il mondo.
E se ne va come pavone superbo alla volta della piazza, ove gira la coda intorno della sua infame gloria, facendosi far largo da tutta la brigata, e tenendo lui solo possesso franco del luogo, all'orribile giustizia del mondo deputato.
Non si rallegra meno di vedersi in vita padrone delle membra di tanti afflitti e tribulati, e d'aver tanti servitori a suo comando che a un minimo cenno suo l'ubidiscono, come se fosse veramente un prencipe e un signore, perché oltra la sbirraria, ch'è ministra di sua signoria essecrabile, trova i cordari che gli danno le funi e il rinforzino, i lignaiuoli che gli piantan la forca e gli accomodan la beltresca [bertesca = palo della forca]; i fabri ferrari che gli fanno i ceppi; gli arruotatori che gli arruotano i cortelli e i rasoi, i contadini che gl'imprestano il carro e' buoi, e i mascherari che qualche volta lo servono d'una maschera di fuori per coprire la maschera della vergogna c'ha di dentro.
Se si volge poi d'intorno, può veder quanto potere egli abbia, considerando ch'è signor di tutti i tormenti e di tutti i supplicii del mondo.
Egli ha dominio sopra gli eculei [Eculeo = vedi anche: Cavalletto - Capra - Letto di Torture], da Sozomeno e da Prudenzio per gravissime specie di tormenti descritti; sopra le lame ardenti, da Marco Tullio [Cicerone] contra Verre nominate [In Verrem, actio secunda, 5, 163]; sopra l'ungule, delle quali Celio fa menzione [in Officina, III, 13, De suppliciorum diversis generibus]; sopra le stigma o bolle, delle quali accennando Quinziano scrive così:
Nota nulla dolosi
criminis hanc presso signabit stigmate frontem
[Quinziano Stoa in Cleopolis c. dIVr scrisse: "Nessuna F imprimerà un marchio di infamia su questa fronte: in questo caso la nota dolosi criminis che Garzoni chiama stigma, oramai esteso ad altra valenza, era il marchio d'infamia per i ladri corrispondente a f = fur = ladro]; sopra il culeo o sacco dove anticamente, come scrive Placido grammatico, erano legati i parricidi con una simia, un serpe, un cane ed un gallo d'India [errore del Garzoni riferendosi alla romanità: il gallo d'India era il tacchino]; e sopra mill'altre specie di tormenti che nelle vite de' Santi martiri hanno massimamente i tiranni antichi esercitati.
Esso è dominator della forca; padron della ruota, che da Aristofane al suo tempo viene nominata; prencipe a bacchetta del palo, e dispone a suo piacer di tutti gl'instrumenti che pon dar morte a' rei.
Suspende chi merida, come Acheo, re di Lidia, per le mani del carnefice restò suspeso, tiranneggiando il popolo soverchiamente; e Bomilcare, duce de' cartaginesi, insieme con Annone, secondo che narra giustino e Trogo, patì il supplicio della croce, venendo in suspicione a' cittadini di voler tirannicamente impadronirsi della patria.
Strangola i delinquenti, come Lentulo fu strangolato per commissione del senato in carcere, secondo Salustio; e Commodo imperatore, secondo Sesto Aurelio, morì della medesima sorte.
Scortica i furfanti, come fu scorticato Mane eretico, secondo il Volterrano, per comandamento del re di persia.
Ammazza col fumo de' carboni ardenti i ghiotti, come fu ammazzato Turino, secondo Paolo Manuzio ne' Proverbi, perché con tal supplicio uccideva gli altri.
Taglia la testa e il collo ai scelerati, come fu tagliata, secondo Zenodoto, a Cantaro, osto d'Atene, per le sue furfanterie [ qui in merito alla Decapitazione occorre una precisazione in quanto solo pochi Boia o Carnefici avevano la destrezza d'uccidere con un colpo ben preciso e spesso lo facevano sol se pagati: cosa non rara perchè i "Decapitati" erano i "Rei" dei ceti abbienti od egemoni: il tutto per procurare una morte il più possibile indolore. Ma molti, privi di capacità o comunque timorosi per la terribile morte da infliggere, prima di "uccidere lo sventurato reo" compivano una vera mattanza, colpendo ora a caso questo od altro membro che non provocava morte simultanea...lo spettacolo diveniva spaventoso e il fatto che alcuni Carnefici per incoraggiarsi si ubriacassero, come ben si capisce, rendeva ancora più atroce l'esecuzione; ma proprio per i vantaggi
concessi ai "rei di questi ceti egemoni" si diede quindi la facoltà ai parenti di far realizzare una macchina semi-automatica di morte esistente da molto tempo prima che Guillotin la trasformasse, con il suo nome, in una "macchina democratica di morte" sì che, di fronte alla più orribile delle sventure, ricchi e poveri per una volta fossero realmente uguali].
Precipita i malvagi, come fu M. Manlio, secondo M. Varrone, dal Sasso tarpeio, per man del carnefice precipitato.
Abbrugia [sul Rogo] i tristi, come rimase nel toro di bronzo Falari abbruggiato, secondo Ovidio.
Fa divorare altrui da' pesci, come, secondo Antipatro tarsense, fu divorata Gati, regina di Siria.
Fa squartar dalle bestie, come fu squartato e diviso Mezio Suffezio (secondo Aulo gellio) o Diomede, re di tracia, come riferisce Claudiano nel ratto di proserpina.
E finalmente adopera ogni maniera di supplicio contra coloro che nocentemente dai tribunali alla giustizia raccomandati sono.
E se ben qual'uno fugge la morte per mano del carnefice, entra talvolta per man propria in più fiera morte, come, secondo eutropio, s'uccise da se stesso l'empio Nerone; Sardanapalo si gettò nel rogo ardente da se medesimo, come narra Sidonio; e quella bella boia di se stessa, Cleopatra, secondo Plutarco, da sua posta prese il veneno, per liberarsi dal vituperoso trionfo d'Ottavio.
Vive adunque il carnefice onorato d'epiteti bestiali.
E fra gli altri suoi pregi, a guisa di sposo, porta i guanti in mano, facendo l'amor con quell'anime ladre ed assassine che vivono di latrocini e furbarie alla foresta.
E porta la bacchetta ancor per piazza, con la qual significa esser padrone della frusta, avisando i furbi e marioli, che da lui, come dal fuoco, debbano guardarsi.
Ma sopra tutto è commendato [scrive ancora a proposito del boia il Garzoni] assai quando fa bene il groppo all'impiccato, o che taglia la testa netta dell'omicida o che lesto come un daino salta ben sulle spalle a colui ch'è appeso, come fa mastro Ioseffo da Ravenna.
Nel resto egli communemente è un furfante e un sciagurato, e sì come vituperosamente vive, così ordinariamente su una forca more; e sì come al spettacolo degli altri fa correre la gente, così al spettacolo proprio fa correre tutto il mondo, desiderando ognuno avidamente di ver il boia per le mani del boia esser servito.
Or facciamo passaggio ad altri più civili mestieri.
Annotazione sopra il CVI discorso
Parmi degno di memoria quel bel caso che quattro anni sono successe nella città di Bologna a uno mio grandissimo amico, persona veramente grave e piena di rispetto, a cui venne un giorno dinanzi uno vestito assai comodamente, accompagnato da un servitore, il quale, con cortesi e acconce parole, portogli a donare un paro di capponi grassi quanto dir si possa, quantunque l'uno non avesse altra cognizione dell'altro, eccetto che il donatore sapeva questo mio amico possedere grandi amicizie e principali in Bologna.
Ove, rivolgendosi egli nella mente che costui col suo dono aspirasse di voler qualche servizio a favor di lui, almeno col tempo, li fece da gentiluomo onorato amorevoli proferte di quanto egli valeva.
Or sentendo l'uomo la galanteria del gentiluomo, riputò non esser più tempo di stare ascoso, e senza un rossore alcuno, istantemente lo pregò di questo favore che, essendo ai giorni passati vacato l'ufficio del boia in quella città Sua Signoria, come amorevole e benigna, e come quella che potea disporre in quella città di tanti amici, lo favorisse a questa dignità, che egli e il suo garzone li rimarebbono servitori devoti per ogni tempo".
Della qual cosa parte si rise tanto il gentiluomo, che fu per la soverchia risa per morire; e parte, nel fine, si turbò in modo che, se non era il rispetto della giustizia, fu per fargli appender tutta due, con quegli capponi a' piedi, da' suoi servitori, acciò fossero un essempio ai temerari di non cercar favori di tal sorte da persone principali e di rispetto com'era egli
[IMMAGINE DA ESEMPLARE MUSEALE TEDESCO DEL XVII SECOLO]
OPERA DI TOMASO GARZONI
DISCORSO CVLI
DE' SBIRRI O ZAFFI O AGOZINI
"Quantunque il mestiero de' BIRRI o ZAFFI sia per se stesso vile e infame [quasi quanto quello del boia], e per tale giudicato dalle leggi universali, nondimeno per mantener la giustizia in piedi e per servare il ben commune, è riputato non solamente utile, ma necessario appresso a tutti, imperò che senza esso impossibil sarebbe viver quietamente e goder l'amata pace, con piacer degli altri e suo proprio contento particolare.
Però in ogni stato, in ogni reggimento e governo s'è costumato sempre d'aver copia di tai ministri, che quando il tempo e gli eccessi lo richiedono, possino condurre altrui dinazi a' tribunali sforzatamente e contra voglia loro.
Furon per questo chiamati, secondo Aulo Gellio, anticamente da' Romani LITTORI [Noct. Att., XII, 3,1-2 = vi è citato anche da Cicerone il Pro Rabirio, 13 = "Littore, legagli le mani"], perché al lor mestiero s'appertiene di ligar le persone in modo che non scappino, e condurle in prigione, onde a questo proposito, nell'orazione di Marco Tullio [Cicerone] per Caio Rabirio, son scritte queste parole: "Lictor colliga manus".
Nella qual cosa (come dice Fritada [personaggio di servo furbacchione della Commedia dell'Arte]) son peggiori del diavolo, perché esso piglia l'anima, ma loro prendono l'anima e'l corpo insieme.
Ebbero anche il nome di VIATORI dal chiamar che facevano nella via, da parte de' consoli o d'altri, le persone di rispetto senza legarle.
Però disse Tito Livio in un luogo, ragionando d'un di costoro: "Consul viatorem misit, qui patri nunciaret, ut sine lictore ad consulem veniret" [Ab urbe condita, XXII, 11,5].
[Stupisce un poco -ma ai suoi tempi l'investigazione archeologica e letteraria in merito aveva dato ancora pochi risultati- che il Garzoni in questa sua ricerca di collerazione tra SBIRRI e SERVENTI DELLA GIUSTIZIA ANTICA non abbia tirato in ballo il romano CORPO DEI VIGILI o MILITIA VIGILUM la cui primaria funzione di reprimere gli incendi fu estesa in Roma imperiale anche da attività di sorveglianza e repressione della delinquenza cittadina, attivia specie durante la notte]
Di questa turba vile e inetta si servivano presso a' loro i dittatori, gli interregi, i consoli, i pretori e tutti chli altri magistrati, che non solamente avessero ufficio, ma imperio.
E la più parte (come riferisce Aulo Gellio [in Noct. Att., X, 3, 19] furono de' popoli Bruzzi, o Abruzzesi, i quali s'accostarono a Annibale mentre fece guerra a Roma, mentre vinti i Cartaginesi, furon da lor sforzati a far questo mestiero, e indi tutti i BIRRI furon chiamati a quel tempo per cognome "BRUZIANI", come oggidì in Italia alcuni costumano chiamarsi CALAVRESI e MARCHIANI, essendo che Fermo, per altro città onorata, e CAGLI nella MARCA, e così la CALAVRIA da' loro territori producono di questa semente in maggior copia ch'altri paesi.
I pretori (come attesta Appiano nell'Historia siria] e così i propretori n'ebbero sei deputati a' lor comandi, ma i consoli e i proconsoli (come vuol Carlo Sigonio, nel secondo libro De antiquo iure provinciarum, allegando Marco Tullio [Cicerone] in un luogo dove parla di Pisone proconsole della Macedonia) n'ebbero dodici destinati al loro servizio [vedi De antiquo iure civium romanorum, II,1, vol.2, pp. 123-124].
Sono costoro [i BIRRI] nell'ufficio loro di terrore a tutti, perché, rappresentando il prencipe, quanto all'essecuzione della giustizia, comandano sotto pena della disgrazia sua, che si vada con essi, e, toccando solamente con la BACCHETTA (come s'usa in Napoli) [BACCHETTA, vedi Francesco da Barberino in Documenti d'amore; der. del lat. BACCUS da BACULUM, variante di BACULUM = BASTONE, CON -ETTA femminile = bastoncino di legno, metallo o altro materiale usato per percuotere, indicare, sorreggere, ecc.: bacchetta del maestro, BACCHETTA DE' BIRRI donde l'espressione punir con tot numero di BACCHETTATE forma teoricamente minore di tortura e/o pena corporale per piccoli reati: originariamente BASTONE DI COMANDO ma poi in questo ultimo caso antesignano di MANGANELLO come arma peculiare e sfollagente] le persone di rispetto, sono ubiditi.
Usano di ZAFFAR [acciuffare, imprigionare] la plebe fra le braccia, menar per il DITO GROSSO (ch'è la PRESA DA SBIRRO) [portar legati per il pollice], legar con le funi, incatenare, porre in prigione, metter le manette, ficcar ne' ceppi, cacciar ne' fornelli, ne' camuzzoni [CAMUZZON voce veneta per PRIGIONE SEGRETA ove si perpetravano tutte le forme di vessazione e donde mai si uscivi da vivi], nelle forti, dar la corda con contrappesi di piombo o di ferro, con la camiscia bagnata, col scuoter della bacchetta, il fuoco a' piedi, il tormento della celata, i dadi infuocati, l'agucchie nelle unghie, il bolgicchino [BORZACCINO o STIVALETTO = strumento per tormentare i piedi], il cavallo, la cordella per bocca, la vegghia, l'eculeo o la capra, e mille altri martirii che, negli eccessi gravi, e massime ne' peccati di lesa maestà, sono adoprati contra i malfattori protervi e ostinati.
Sono accarezzati [blanditi, comprati] da' PRIGIONI, perché han bisogno di loro; e qualche volta convitati, acciò col mezzo dell'ebrietà possino uscir di PRIGIONE quando gli piaccia.
Sono onorati da' villani estremamente, perché sempre han paura d'andar prigioni per qualche cosa e, quando van da loro, mettono del meglio c'hanno in tavola per fargli carezze; benché per questo i furfanti non portan rispetto loro, anzi non basta essergli gravi con le spesse cavalcate a casa, ché sono i primi a esser visitati quando accade a tor de' pegni, o correr dietro a' banditi, o scorrer per le feste, o far qualche PRIGIONE appresso alla villa.
In alcune cittadi e castella ancora, vengono istimati particolarmente come DONZELLI del Signore, dove che a Bergomo [Bergamo] l'usa che loro apparano in chiesa le sedi del magistrato; e in alcuni castelli di Romagna servono per compagni de' podestà quando vanno a spasso per la terra, mentre le genti son soddisfatte assai bene della melonaggine [stupidaggine] loro.
Ma l'onor principale ch'hanno vien da' signori, quando gli fanno assistenti alle barriere e ai steccati - con gran vergogna della MILIZIA che manca di risentirsi in tal disonore- e quando son mandati contra BANDITI in compagnia delle FANTERIE, degli ARCOBUGIERI A CAVALLO, e de' CAVI LEGGIERI, quasi che la SBIRRARIA infame debba far concorrenza con l'arte militare così onorata.
E pochi si trovano che, cupidi di gloria, voglian seguir l'essempio de' tedeschi di Milano e dei CAVAI LEGGIERI di Ravenna che, alcuna volta, per voler essi portar le lancie e l'alabarde, arme pertinenti alla milizia loro, gli han fatto rilevar brutte ferite per la testa, con vergogna di quelli e onor grande della loro professione [casi di SOLDATI che hanno picchiato degli SBIRRI].
Il PROPRIO UFFICIO del BIRRO è circondar d'intorno e raggirar per tutta la città, sol per veder se si trova chi rubba, o chi porti arme senza licenza, o chi uccida, o chi facci contrabbando, o chi vada spiando, o chi perverta in qualunque modo le leggi communi overo municipali.
Dove che il giorno prattica per le bettole, per le piazze, per gli ridotti, per le baccane, e scorre per le campagne alla foresta; e di notte va attorno le MURA, per gli chiassi, su le feste, per le strade, per le calli, cercando d'inciampare in qualche legno, o d'urtare in qualche palo che li rompa le spalle.
E' malizioso veramente in ogni azione quanto dir si possa, perché, per buscare, si fa amico de' furbi, porta il lume dinanzi a tutte le ladrarie, tien compagnia con loro, serve a essi per spia, dissimula i latrocini, e s'allontana per non pigliare i ladri a bellissimo studio.
Se vien dimandato degli OMICI finge di non esser stato presente, o non aver conosciuto le persone, o che i BRAVI erano in troppo numero, o che son scappati troppo presto, o che non ha potuto ritrovargli; anzi li avisa, gli raguaglia, gli fa animo, tradendo per dinari la giustizia occultamente.
Nel DAR LA CORDA stringe ben chi gli piace, e mal chi egli vuole; racconcia le braccia a alcuni, ad altri le stroppia; avvisa uno in prigione, un altro lo stenta; aiuta di cibo questi e lascia morir di fame quest'altro.
Nel cercare i contrabandi overo che troppo minutamente mette sossopra ogni cosa, mostrandosi curioso e presontuoso insieme, overo che con due gazzette si fa tacere; e benché faccia vista di fermar la robba, di gridar se v'è cosa da GABELLA, nondimeno nell'aprir della borsa s'acheta a un tratto, e, come rana, ammutisce subito col boccone.
Mentre si corre dietro a FUORUSCITI gioca da largo col cavallo: non è il primo a dar l'assalto, si discosta più che puole, si trattien da parte più che volentieri, e per salvar la pelle per i fichi fugge ogni rischio del corpo contra di loro.
Nel caminar di notte usa da buon furfante di SMORZARE I LUMI a posta a qualcuno per farlo trarre i soldi, acciò non sia condotto in PRIGIONE; overo affronta un altro e fa mostra di cercar per l'ARMI, e gli piglia la borsa con soperchieria.
Tiene prattica con le MERETRICI.
Per cogliere, se può, qualcuno ch'abbia in SPIA, ha commercio con gli osti perché dà ricetto a' furbi dentro all'ostarie.
Ed è compagno del MAGNIFICO BOIA, perché la simpatia de' mestieri gli ha legato il budello insieme a tuttadue.
Sono infinite le malizie d'un SBIRRO , perché s'alleva fra le FORCHE e le BERLINE; prattica co' PRIGIONI c'hanno il diavolo addosso; conversa ne' palagi dove ascolta molte furfanterie; ode i tratti de' furbi e mariuoli, i colpi de' TRADITORI e ASSASSINI, gli atti delle PUTTANE e de' RUFFIANI, gli inganni e stratagemi de' FUORUSCITI, le malizie di QUEI CHE ROMPONO LE PRIGIONI: talché, in processo di pco tempo, diviene come volpe astuto e malizioso.
Fra l'altre sue malizie ottengono il principato queste: che molte volte favorisce i ghiotti (GALEOTTI), con lasciarli fuggire, apre lor le prigioni, disserra i cadenazzi e gli spicca per forza dalla forca; altre volte s'accorda co' REI ed esce insieme con loro a RUBBARE; qualche volta tien mano a ruffianesmi, lascia stracorrer le LIBIDINI a suo piacere; talora stenta i miseri nel riscatto, facendosi pagare la CATTURA di soverchio; tal volta dà MARTORO molto maggior che non gli è comandato; e , alcuna volta, come ebio di crudeltà, amazza chi non ha colpa né peccato.
I vizi di questi ZAFFI passano la misura da ogni parte, perché essi son compagni del GIUOCO, fratelli della CRAPULA, parenti stretti dell'EBRIETA', amici cari della BESTEMMIA, servitori della disonestà, schiavi del vitupero, e un nodo istesso con la viltà, con la vergogna e con l'infamia.
Le parole scorrette, le dissoluzioni compite, le furbarie perfette, tutte le furfanterie del mondo hanno fatto un chaos in loro.
Però non è maraviglia se sono essosi appresso a tutte le persone d'onore, e se ogn'uno ha vergogna di pratticar coi ZAFFI, essendo macchiati d'una pece così brutta e vergognosa.
E par che il mondo a tante lor sciaguratezze abbia trovato assai degno castigo, perché ogn'uno gli odia, ciascun gli sprezza, chi gli chiama furfanti, chi gli dice poltroni, chi li nomina bricconi, chi canaglia, chi schiuma di gaglioffi, chi gli ordisce qualche trappola da fargli traboccar di notte e rompersi le gambe.
Ma son TRE SORTI DI PERSONE, sopra tutto, che son veramente la salsa de' ZAFFI: cioè i SCOLARI, i BRAVI e i FUORUSCITI.
Da' primi [cioè gli SCOLARI (o STUDENTI)] non ricevono essi altro che burle strane, di lacci tesi di notte per fargli precipitare, di dargli una corsa buona per fargli sudare, di serrarli in qualche stretto per poterli commodamente a lor modo stringare.
Da' secondi [BRAVI: nel genovesato si usava però l'espressione SCAVEZZI] non acquistano altro che SFRISI [sfregi] in sul mostaccio, PUGNALATE in su la testa e ferite nella vita.
Dagli ultimi [FUORIUSCITI] non tranno altri avanzi che buone ARCOBUGIATE, altro guadagno ch'esser' uccisi, altro premio che restar vituperosamente per la gola appiccati.
Con costoro non vaglion denoncie, non querele, non lamenti dinanzi ai podestà, non relazioni o riportamenti, non invenzioni o bugie (delle quai son pieni communemente), perché qui non si risponde se non con le mani, non si parla se non con la SCOPETTA, non si favella se non coi colpi di SIMITARRE o PISTOLESI.
Per questo i BIRRI fuggono d'andar contra BANDITI e d'impacciarsi contra BRAVI e SCOLARI, né il capitan mancino, né il Moretto, né Fontenovo, né Tartaglia, né il Capitan Sfrisato, né il Grighetto, né il Bassano [personaggi della Commedia dell'Arte] ardiscono di tentare il DIAVOLO di costoro, perché son come furie scatenate contra d'essi, e nemici loro mortali per natura e professione.
Saran buoni da fare una CATTURA addosso a un povero meschino che non possa muoversi, andandoli di dietro e ZAFFANDOLO strettamente per le braccia; o torre un pegno a una povera villana; o farsi dar da cena a un grammo [povero] contadino; o pigliar su una festa, in sessanta o settanta, un pover'uomo di nascosto, ove allora mostrano la valentigia loro.
ma alla caccia de' FUORUSCITI gli treman le viscere nel corpo, impallidiscono i volti per timore, hanno la febre fredda per spavento e si lordano tutti per paura che non gli tocchi a loro.
E quando tornano a dietro, chi suda per il fuggire, chi ansia per lo scampare, chi smania per l'affrettare, chi ha il CAVALLO stracco come un asino. chi è senza PICCA o senza LANCIA, chi è stroppiato d'una gamba, e chi è portato alla città dentro a una barella.
Or questi sono i frutti che ricevono i BIRRI del lor mestiero, a' quali è necessario sopra tutto aver buona fortuna, perché molti di loro essendo compagni del BOIA, passano per le sue mani o alla FORCA o almeno alla BERLINA; alla quale gli lascieremo attaccati, sotto pena che, chi gli spicca, debba esser da loro alla forca accompagnato.
Annotazione sopra il CLI discorso
Circa questi zaffi dice qualche cosa Alessandro d'Alessandro a carte 43 [del cap. 27, libro I]
Nacque il P. D. Thomaso (così nominato all'ingresso in Religione, poiché nel secolo fu detto Ottaviano), l'anno del Signore 1549 nel mese di marzo in Bagnacavallo, Terra molto nobile e illustre, o per il territorio fruttifero, o per gli uomini in arme e in lettere famosi, sì che nella Romagna ove risiede, tiene luogo celebratissimo.
I genitori suoi e miei furono per beni di fortuna deboli, ma generosissimi oltre il loro grado nel provvedere ai figli ogni buona educazione.
Il Padre si chiamò Pietro di casa Garzoni, la madre Altabella di casa Lunarda.
Dalla natura si vide dotato di gran vivacità d'ingegno...
Nelle lettere umane fece prestissimo profitto sotto la disciplina di quella veneranda memoria di M. Filippo Ossano da Oriolo Castello dell'Imolese e di 14 anni cominciò a studiar legge, andando prima a Ferrara e dopo a Siena, ma non finì appena il terzo anno, che cambiò pensiero dandosi a studiare alla facoltà di logica, e tocco da particolar illuminazione si mise a far vita ritirata con disciplinarsi e mortificarsi, frequentando a più potere i Santissimi Sacramenti... ascoltando (il predicatore) dottissimo e eccellentissimo P. Predicatore D. G. F. Gori da Bagnacavallo... entrò nella Congregazione Lateranense nella celebre Canonica di Santa Maria in Porto di Ravenna il giorno di S. Luca del 1566 in età di 17 anni e mesi tre, dal molto venerando D. Vitale de Mercati di Ravenna fu con allegria vestito.
[...] In questo stato non è facile raccontare quanto apparisse mirabile ora in dispute, ora in prediche, ora in letture, ma senz'altro fu ragguardevole nel comporre Hinni, Salmi e Cantici spirituali; possedé più di una lingua, così bene parlava lo spagnolo, e con grande ardore si mise ad imparare la lingua ebraica, e fece stupire gli insegnanti per il gran progresso.
Non fu storico tra i latini e i volgari (che) da lui non fosse studiato, non oratore, non poeta sicché in queste professioni fu singolare e pochi gli furono eguali.
La sua memoria fu tenacissima: l'apprensione acutissima e la disposizione tanto vigorosa, che non solo componeva a lungo senza cancellazioni, ma in brevissimo tempo portava a compimento ogni suo discorso.
Quindi non è meraviglia se per le stampe vola la sua fama in ogni lato con ali d'oro e sommi applausi e con eccelsa gloria.
Ma non voglio tacere, che se ben spinto dall'altrui compagnia giovanile, e da una sua particolare inclinazione alle cose umane, proprie a soggetti accademici, acconsentì alla formazione di quelle opere, cioè: "Del teatro dei cervelli umani", "Dell'hospedal de' Pazzi", "Della sinagoga universale", "Della Piazza universale".
Nondimeno non essendo affatto gravi, egli usò maturità et grande giudizio, mentre non volle apporre al suo nome il titolo di religioso, qual in altre più accomodate a tal stato egli non negò, come: "Le vite delle donne illustri e laide della Sacra Scrittura", "Traduzione dei novissimi di Dionisio Cartusiano", "Revisione delle opere di Ugo di S. Vittore", "Discorso curiosissimo dell'huomo astratto".
S'affaticò inoltre nel comporre altre opere, ma in particolare la presente da lui promessa sotto il nome di "Palagio"; ma è parso bene a me intitolarla così.
Et nel fine di tutte le opere chi può negare che non aspirasse a cose alte?
Egli qual altro S. Tomaso vicino alla morte incominciò a comporre sopra la Cantica di Salomone.
Pertanto con queste scelte preminenti giunse il P. D. Thomaso all'ultimo dei suoi giorni, era l'anno del Signor 1589, avendo finito il quadragesimo di sua età agli otto di giugno fra le 18 e 19 ore, intendendo sempre quanto egli diceva e ragionando egli in proposito fin all'estremo, chiuse molto contrito gli occhi alla presenza mia et de' cari Genitori in Bagnacavallo con gran concorso nella Chiesa di S. Francesco; et honorandolo con bellissima orazione funerale M. R. P. Fra Francesco da Tussignano nobilissimo soggetto franciscano.
OPERA DI TOMASO GARZONI
DISCORSO CXVLIV
DE' MAESTRI DA NAVIGI, DE' NAVIGANTI O MARINARI O NOCCHIERI, BARCARUOLI E GONDOLIERI, PASSAPORTI O PORTONARI, E ZATTERI E GALIOTI E PIRATI O CORSARI
Bellissimo edificio, non di minore importanza che fatica, è stato riputato sempre quello de' navigi, i quali - per la varietà loro, per la mirabil construzione, per la notabile forma, per le diverse utilità ch'apportano all'uomo, per l'artificio singolare, per la spesa importante, per l'imprese varie e diverse alle quali servono - illustrano con eterna memoria gli ingegnieri e architetti d'essi, perciò degni d'amplissimo nome e di gloria corrispondente alla grandezza delle machine che da loro si fanno.
Vedesi il mirabile ingegno loro in tante sorte di legni navigabili, così in acqua dolce come in mare.
I quali tutti si dividono in legni senza vela e con vela.
Fra quelli senza vela si connumera il sandalo, la pescarezza, la fisolare, il battello o palischermo, la piatta, i pardai di Calecut, la barca, il burchiello [barca a remi ma anche con vela per il trasporto di passeggeri: il burchio è una grande barca a fondo piatto con coperta parziale o totale], i porti da passar fiume ed i foderi.
I legni con vela si dividono in legni da vele quarre [quadrate, in effetti trapezoidali da contrapporre alle vele latine o triangolari] o da vele latine, o dall'uno o dall'altro insieme.
Fra i primi son comprese le lavagnotte, le saettie, gli squarciapini, gli schirazzi, gli burchi, le caravelle, i brigantini, i galeoni e le navi.
Fra' secondi: le gondole, le pedottine, le pedotte, i burchi ferranti, i grippi, i schiffi, le fregatte, i brigantini, le barche lunesse, le fuste, le galeotte, le galee bastarde, le galee sottili e le galeazze.
Fra' terzi: le marciliane, che portano le vele quarre e le latine insieme.
Ma per dar qualche raguaglio alle persone intelligenti de' navigi degli antichi, le fuste loro erano dette col vocabolo (come dice Nonio Marcello) di myoporones; e Cicerone nel III. libro della repubblica - facendo menzione di quel Diogene pitrata che, preso da Alessandro Magno, fu dimandato per che causa infestava il mare e dava travaglio ingiustamente alle riviere; a cui rispose ch'egli, ch'adoperava una fusta sola, era chiamato corsaro, e lui, che l'infestava con una grossa armata, era detto imperatore - usa il vocabolo di myoparo, a quel tempo vulgato e commune a tutte le fuste del mare.
I brigantini son quelli, secondo il Budeo, che anticamente furon detti parones.
Le fregattine eran chiamate per testimonio di Cesare ne' suoi Commentarii, catascopia, e secondo cecilio prosumiae, e secondo sallustio lenunculi.
Le pescarezze (come si trae da plauto nel suo Rudente) erano dette horiae.
I burchielletti, che secondo Plinio furon trovati dai Cirenensi, erano detti lembi.
I passaporti erano detti hipaggia, overo pontones, secondo Apuleio.
E i portonari furon chiamati, secondo il Biondo nel quinto libro della sua Roma Trionfante, portitores thelonarii, overo secondo Asconio Pediano, portorii. L'ufficio de' quali è sempre stato di passare i viandanti, riscuoter le gabelle debite a loro, impedire il transito de' fuorusciti o d'altra gente sospetta, guardare le robbe che passano, usar gran diligenza intorno ai contrabandi, e non far trarre le persone, come oggidì s'usa da molti, stentarli nel passo, chiederli più dell'ordinario, non voler'essentare quelli che son privilegiati.
Dalla qual cosa nascono infiniti scandali, restando molte volte scommunicati, alle volte accusati dinanzi ai prencipi come troppo molesti, qualche volta ingiuriati estremamente da' viandanti, alcuna volta offesi nella vita, e alle volte ai porti vengon tagliate le corde, rotte le catene, cavati i pali, affondati i burchi, abbrugiate le capanne.
E simili piacevolezze intervengono loro, essendo per lo più questa razza di gente simili a quei da Francolino, dalle Fornaci, dalla Stellata e da Santo Alberto [sono tutte località d'attracco e di mulini sul Po], fra' quali è riputato cortesia l'essere asini verso ogni forastiero che passi.
Le marciliane, poi furon chiamate damenae, e si videro la prima volta all'isola di Samo, essendo state ritrovate, secondo Plinio, da Policrate, di quel luogo tiranno.
I battelli si nominaron scaphae, secondo Vegezio.
La piatta fu già detta buris, secondo Erodoto, e questa fu usata dagli Egizi a portar i lor morti alla sepoltura.
La barca grossa fu nominata fasellus, come si trae da Nonio Marcello.
La nave grande, com'erano le asiane, fu detta circerus, come si cava da Plauto.
La galea fu chiamata con più nomi, secondo gli ordini de' remi che in essa si trovavano.
Della bireme narra Plinio che fu inventore Damastene; della trireme Amocle corinzio; della quadrireme i Cartaginesi; della quinquereme e diecireme Nesictone salamino; di quella da sei ordini di remi Xenagora siracusano; di quella da dodici Alessandro Magno; di quella da quindici Tolomeo Sother; di quella da trento Demetrio d'Antigono; di quella da quaranta Tolomeo Filadelfo; di quella da cinquanta Tolomeo Filopatore [stupisce che l'attento T. Garzoni non abbia fatto cenno ai primi ritrovamenti di due grandi NAVI ROMANE A REMI molto tempo dopo sottratte alle acque del LAGO DI NEMI]
Le zatte furon dette rates, overo schedia e da esse son venuti i zatteri, che vengon giù per i fiumi con le zatte di legni o travi, benissimo legati insieme, de' quali gran copia se ne vede venir giù per Ticino, per l'Adige a Verona, per la Piave a Conigliano, per il Tagliamento nel Friuli.
De' quali legni adoprano grandemente in Venezia i tintori e altre sorti di di mecanici, essendo necessari e utili sommamente al loro mestiero.
Le barchette da fiume [continua in questo suo DISCORSO SULLA STORIA DELLA NAVIGAZIONE l'attento T. GARZONI] furon dette cimbae, e con tal nome nomina spesso Virgilio la barchetta di Caronte, e da essa son detti i barcaruoli "gente del diavolo", per lo più infedeli, bestemmiatori, ubbriachi, spergiuri, sfrosatori di daci [frodatori di gabelle], senza conscienza al mondo, e senza vergogna d'alcuna sorte, ai quali meglio starebbe tirar l'alzana [alzana, fune con la quale i cavalli o i muli tiravano i battelli dalla riva] che ai cavalli da nuolo, o che facessero vela come fece il riccamatore da Fermo [proverbio indecifrabile] con la pelle sdruscita dal resto della carne [Il Garzoni denota una certa conoscenza della navigazione fluviale in uso presso i Romani -e per certi aspetti passata attraverso i secoli sia come forma di fluitazione che parimenti di traghetti per colmare l'eventuale assenza di ponti- ma non ha stranamente contezza di quel gigantesco apparato navale fluviale con cui Roma controllò spesso con grande successo i corsi del Reno e del Danubio: vale a dire la Classis Germanica]
In questi son congregati come in un mucchio tutti i vizi degli altri, e nelle barche loro s'impara quanto di tristo sa un soldato, quanto di ghiotto sa un mercante, quanto di reo sa un ruffiano, quanto di cattivo sa un ebreo, quanto di furbo sa un scolare, quanto di maladetto sa una meretrice, e tutta la somma si riverscia addosso al barcaruolo, il qual si tiene a mente il tutto e se ne serve quando bisogna a luogo e tempo.
Quivi si contan favole, si caccian carote, si dicono istorie, si conta, si gioca, si ride,, si mormora, si sguazza, si trionfa, si bestemmia, e mille disonestà si commettono ognora.
E il barcaruolo è sempre in campo con qualche menzogna, con qualche bestemmia, con qualche buffonaria, con qualche parolaccia scandalosa, con qualche maledizione, con qualche bravata, con qualche affronto di cavallo da alzana, con qualche pagamento di porto, o di gabella, o di passo, o di portello, o d'aiuto poltronesco per la barca, con qualche muraiola, o gazetta, che bisogna buttar fuora, come avvien per il Po e per la Brenta, i cui barcaruoli passano gli altri d'asinità, di tristizia, d'iniquità d'animo, avendo per poco d'urtare in un molino, se sono irritati alquanto; o legar la barca a una ripa, per non andar innanzi; o farti straneggiar da' gabellieri, accordandosi seco; o cacciare un cavallo in acqua e romper le corde, se gli vien talento; o empir la barca d'acqua per farti saltar fuori, se il capriccio e il ciumuro gli viene in capo.
ma sopra tutto i ladronecci son particolari de' barcaruoli, e ben lo confessano i ferraresi e Mantoani, perché, accordati con un barcaruolo maladetto di far la burla a un certo ebreo ch'era in barca, il qual portava seco un caratello di tonina [salcicce fatte di tonno], tirarono galantemente l'ebreo alla volta d'un'ostaria, e poi lo piantarono tornando alla barca, dove tutti insieme devorarono la robba del caratello, ch'eran le polpe di suo padre morto a vercelli, uomo di settantacinque anni; né mai s'accorsero nel mangiare, se non quando l'ebreo, tornato in barca e dato d'occhio al mastelletto, con lagrime dirotte gravemente si dolse che suo padre gli fosse stato da cristiani così ingordamente mangiato; ove il buon barcaruolo e i suoi compagni, correndo chi da prora, chi da poppa, alla presenza dell'ebreo revocarono a un tratto quella putrida spagnuola [olla putrida - pentola putrefatta = piatto spagnolo a base di ceci e salsicce], che malamente potevano ritener nel ventre.
Le gondole, poi furon chiamate con questo diminuitivo di cimbulae, e da essi son stati nominati i gondolieri, il qual mestiero è massimamente noto e manifesto.
E tutti costoro son gente bassissima e utilissima, onde anco si diportano alla giornata da quel che sono, perché costoro han sempre in bocca parole sporche, giuramenti vani d'ogni sorte, imprecazioni terribili affatto, di cancheri, di fuoco di sant'Antonio, di mal di San lazaro [lebbra], di peste che gli alloggi, della forca che gli impicchi, della berlina che gli abbracci e del boia che gli facci il groppo.
In costoro non si trova una verità, non si scopre una creanza, non si vede una bontà, perché la più parte di loro è meza canaglia, che per un bagatino alle volte sta impiccato dalla mattina fino alla sera a in traghetto, come s'usa.
Fra tutte l'altre cose, il mestiero de' ruffiani si confa loro.
Perché le cortigiane come Diana, Lauretta, Lucia, Cecilia, Isabella, fan lor sapere, se capitan Tedeschi o Francesi o Polacchi, che di grazia sian recapitati da loro.
E qua si vede un brutto gondoliere, per questa promessa galante, aver in preda la bellezza d'una Lucilla, d'un'Angioletta, d'una Doralice, d'una Lucrezia, che non sarà stato degno d'un mercante nobilissimo nè d'un gentiluomo de' principali talora d'aver un guardo, non che un bacio da lei, lasciandosi la reina sottoporre al nano, per mercè del guadagno che le vien dato dal suo traghetto.
Quanto di piacevol o di buono si scopre in tal mestiero è questo: che con molta commodità si va per tutti i luoghi della città, e il gondolieri t'aspetta ovunque ti piace.
E nelle gondole vai quieto, riposato, sicuro, e solo e accompagnato; e puoi cantare, ridere, solazzare, giocare e far quanto t'agrada che mai non ti rincresce, se non quando sei preso al traghetto, che i bezzi ti dimandan licenza di traghettar ancora loro. L'ufficio poi di questi mascalzoni è tanto noto che non accade farvi troppe dicerie sopra, conciosia che il traghettare, il buttare, il remigare, il premere, lo stare, il vardare [guadare], e altre cose tali siano le cose pertinenti a quelli.
Non vi mancarono presso agli antichi altre sorti di legni navigabili, coi quali i nostri moderni avranno forsi somiglianza, come quei ch'eran chiamati "navi onerarie" delle quai fa menzione Polibio nel primo libro e Appiano nel quinto delle Guerre civili, che sarebbon i burchi grossi ferraresi e le marciliane e grippi [bastimenti a vela]; l'"attuarie", veloci e agili come i burchielli minori, e altre tali delle quali tratta alla longa Giulio Polluce nel suo primo libro dell'Onomasticon, marcello giureconsulto sopra i Digesti al titolo De captivis, il Biondo nel 6 libro della sua Roma Trionfante, Isidoro nel 19 delle sue Etimologie, e Plinio e Aulo gellio e Nonio Marcello e altri assai.
Or gli maestri de' navigi (per far ritorno a loro) hanno avuto derivazione da quegli antichi imperò che tutte le sorti di navigli quasi hanno avuto principio dall'antichità.
Onde si legge in Erodoto che i Focensi furono i primi che trovarono le navi lunghe, benché Filostefano presso a Plinio nel 7 e Diodoro Siculo nel quinto libro attribuiscano la sua costruzione a Giasone, Egesia a Paralo, Ctesia a Samira, Stefano a Semirami, e archimaco a Egeone.
L'onerarie, che son navi da carico, furon trovate, secondo Pòinio, da Ippo tirio, la cimba da' fenici, il circiro da' Cipriotti, la safa dagli Illiri; i lentri da' Germani; che con essi andavano navigando per il Danubio; le navi lunghe coperte da' Tasi.
E della prima nave l'invenzione è ascritta da Eusebio ai Samotraci, da Clemente a Atlante, da Plinio a Danao, da altri a Nettuno, da altri a Tifi, da altri ai Tiri, al qual parere evidentemente s'accosta Tibullo in quel verso:
Prima ratem ventis credere docta Tyros [Eleg., I, 7, 20]
E la materia da far cotesti legni è sempre stata varia e diversa, perciò che nel principio, secondo Plinio e massimo Tirio, trovata l'arte del navigare da Nettuno, per parer di Diodoro, si cominciarono a solcar l'acque con le zatte congionte di legni, e si dice che i Misi e Troiani le ritrovarono quando mossero la guerra dell'Elesponto contra Traci.
Altri dicono che nell'oceano Britanico, di cuoio cucite, la prima volta vedute furono, mentre fecero il viaggio all'isola di Mictim, onde nasce il piombo più schetto e più purificato che in altro luogo si trovi.
E Plinio narra che nel Nilo si facevano già d'un legno detto papiro, e di vimini e di canne.
Erodoto nel primo libro conta che i legni di coloro che van per il fiume verso Babilonia son fatti di cuoio e di salice dai pegorari armeni, che abitano sopra gli Assiri.
Plinio loda l'abete per materia de' legni navigabili: e aggionge che nell'Egitto e nella Soria per inopia d'abete s'è usato il cedro.
E intorno al Nilo narra Erodoto essersi usato un arbore detto spina.
E Plinio nel libro nono al capitolo decimo conta che nell'isole intorno al Mar rosso in India s'è navigato con legni superficialmente acconci con testuggini marine.
Ma questa è anco grande: che narra come i compagni d'Alessandro Magno riferirono nell'isola di Tile esser certi arbori da far vasselli che, se ben si sommergono, durano sottacqua ducento anni senza corrompersi o putrefarsi mai.
Ma i moderni maestri de' navigi (essendo i nostri legni più artificiosi che gli antichi) fanno una struttura tanto grande e magnifica intorno a' vasselli principali, come son le navi e le galere, che rendono maraviglia e stupore a tutto il mondo.
Conciosia che in una nave si ricercano aste da prora; colombe, calcagnuol da poppa, ale, tachi della gradella, stili, vanticori da prora, corbi da propra e da poppa, paramenzali, versene, sopra verzene e sotta verzene, forcami della man di mezzo, contramagieri, sotto contramagieri, contracento, cadene della prima coperta, frisetti, forcami della man d'alto, forcami di brandi, contonali, lumiere, falconere, cadene d'armizo, sogie del balador, contomali del balador, stili del balador, centoline del balador, brazioli de' frisetti, brazioli di poppa via, brazioli da prora, cadene longhe, parascosole, cente, magieri di bocca e bastardelle[il limite di questa descrizione è che il Garzoni dipende da una fonte terminologica veneta = ad esempio la "filatessa" di A. Calmo, Lettere, III, 22, ed. V. Rossi, p. 206].
OPERA DI TOMASO GARZONI
DISCORSO CXII
DE' NOTATORI
Quello che è naturale e proprio de' pesci, e a molti altri animali - come all'anetre, all'ocche, alle folice [folaghe] - comune, è con grandissima fatica e arte acquistato dall'uomo, cioè il notar nell'acqua, essendo egli tanto misero che da piccoli animali in molte azioni d'importanza è superato e vinto.
[In merito a questo DISCORSO obbiettivamente sorprende che un erudito del livello di T. Garzoni non abbia che queste competenze, piuttosto moderne, sull'arte di immergersi e che nulla per esempio paia aver conosciuto dell'ARS URINATORIA
Nondimeno si sono ritrovati alcuni che hanno fatto cotal profitto in questo essercizio che sono apparsi al mondo veramente eccellenti e maravigliosi.
Fra questi scrivono il Pontano, oratore egregio, e Alessandro di Alessandro giureconsulto chiarissimo ne' suoi Giorni geniali, enumerarsi quello che fu chiamato il pesce Colano, uomo nato in Catania, nel regno di Sicilia, il qual da picciolo fanciullo allevato nell'acque marine al noto, crebbe col tempo tanto in cotesto essercizio che qualche volta, anco per fiera tempesta, notò senza mai riposarsi cinquecento stadi, che sarebbon sedici o dicisette leghe di Spagna; e tal volta, a guisa d'un pesce, da una ripa all'altra del mare scorse notando con maraviglia de' merinari che l'incontrarono in mare, e con stupore di quei di terra che riceverono da lui certissime nuove de' legni e de' navigli che s'erano dal porto dipartiti.
E questo felicemente gli successe fin a quel giorno che il re Alfonso di Napoli, in una festa che fece in Messina, porto di mare notabile in Cicilia, per provare il notare di quest'uomo et d'altri che si persuadevano molto in questa professione, gettando una coppa d'oro di gran valore in acqua, esso con gli altri lasciatosi andar al fondo, ritenuto forse in un luogo concavo ch'era nel fondo, là dentro si sommerse.
E il medesimo Alessandro, nell'istesso libro e nell'istesso capitolo, narra d'aver conosciuto un nocchiero così gran notatore che in un giorno andava e tornava da un'isola ch'è a vista di napoli, chiamata Enaria, fin a Prochita [procida], luogo in terra ferma, ch'è la distanza di cinquanta stadi, che fanno più d'una lega e meza.
E di più: che un battello un giorno uscì fuor nell'istesso tempo con lui, dove alcuni uomini con buoni remi vogavano, e con tutto ciò non potuero tenergli dietro col lor remare.
Degli Indi occidentali parimenti raccontano gli istorici cosa meravigliosa: che dove si cavano le perle, essi si gettano in mare e vanno al fondo, dove si stanno per tanto spazio di tempo che qualcheduno penserebbe talora che mai più tornassero di sopra; e nondimeno con le perle vengono su con infinito stupore di chi gli vede, si narra pur anco d'un certo Delio, il quale fu in questa professione tanto esperto che passò per proverbio "Delio notatore".
Di cotesto esercizio fecero tanta stima gli antichi Romani che, come scrive Vegezio, i tironi loro, ch'eran la gente nuova di guerra, erano isforzati ad imparar di notare, e per simile effetto era un certo sito nella ripa del Tevere, appresso campo Marzio, dove facevan tutti essercitarsi, giudicando essi il notare cosa giovevole e necessaria, per tanti casi e disgrazie che sogliono avenire nella guerra, nel passaggio di fiumi o laghi, o fortune di mare, così acerbe e pericolose.
A' tempi nostri in Italia e Veneziani e Genovesi [ scrive in QUESTO CAPITOLO l'erudito cinquecentesco T. Garzoni, riferendosi appunto a quelli che gergalmente erano, sia a Venezia che a Genova, detti MARANGONI per l'abilità nel nuotare sull'acqua e sott'acqua, svolgendo anche lavori di estrema importanza ] portano la palma del notare, benché per tutti i liti maritimi e presso a' fiumi ancora, vi siano molte altre genti che fanno professione d'uguagliar cotesti.
Dicono gli astrologi a questo proposito che colui che avrà il segno del pesce in ascendente, sarà grandissimo notatore, benché di questo lor parere si possi far quella istessa considerazione che de' pescatori di getulia dice Gregorio santo in una sua omelia [nelle Hom. in Evang., X, 5].
Un'altra cosa dicono i filosofi naturali, cioè che l'uomo ch'avrà molto picciolo il braccio, sarà molto agile e destro nel notare: il che non è punto irragionevole e inconveniente, essendo che con maggior facilità e agevolezza può allargarlo e raccoglierlo a sé, come è bisogno in questo essercizio lodevole e alla vita umana poco meno che necessario.
S'impara communemente da' putti, e col longo essercizio si possede, incominciando con le zucche o con certi cesti o barili [antesignani dunque dei moderni "salvagente"] che sostentano fuor di modo sopra l'acqua, fin che la prattica abbi giovato tanto che senza questi impedimenti si possa andar notando, come il pesce per il mare.
In questa professione altra magagna non si trova se non che alcuna volta si fan tombole tali ne' gorghi maritimi che si diventa esca de' pesci senza mai più tornare a dietro.
Ma perché a sufficienza abbiamo ragionato di costoro, parlamo alquanto ancora degli altri professori.
Circa i notatori leggi Alessandro d'Alessandro, a carte 87.