cultura barocca

ERESIA

Termine di origine greca per cui si indica ogni dottrina contro i dogmi o le verità assolute della Chiesa. L'ERESIA (che specialmente tra XV e XVII secolo comporterà INVESTIGAZIONI E PENE SEVERE) è la negazione di parte o di tutta la Dottrina della Chiesa Cattolica che soprattutto dopo lo scisma di Lutero elaborò dei veri e propri prontuari per la classificazione di eretici ed eresie.
Il problema della deviazione dalla retta fede si presenta fin dalle origini del cristianesimo come evidenzia
S. AGOSTINO
nel suo trattato esplicitamente intitolato
SULLE ERESIE.
In antico la lotta alle eresie (Arianesimo, Monofisismo, Nestorianesimo ecc. in opposizione alla CHIESA CRISTIANA MELCHITA) , giustificata da un passo del "Vangelo di Matteo" e quindi condotta nel contesto dei CONCILI ECUMENICI, stimola un approfondimento e una precisazione dogmatica e teologica: ripresa dal CRISTIANESIMO POSTRIDENTINO nel contesto di TRATTAZIONI SPECIFICHE COME QUESTA estrapolata da un testo di DIRITTO CANONICO
Quando poi il cristianesimo diventa religione ufficiale dell'Impero, l'errore viene perseguitato anche dall'autorità politica. Le eresie più antiche riguardavano soprattutto le persone della Trinità e la loro natura e la divinità di Cristo come, fra tante, l' ARIANESIMO.
Coi concili di Nicea (325), di Efeso (431) e di Calcedonia (451) la Chiesa precisò i dogmi relativi alla natura della Trinità ed alla divinità del Cristo.
Nei secoli seguenti seguirono altri movimenti ereticali (ricordiamo quello degli ALBIGESI [strettamente connessi all'esperienza tipicamente medievale dei CATARI] concluso in un bagno di sangue ma che illuminò d'arte la Provenza).
Di solito le eresie furono direttamente perseguitate (come nel caso dell'ORDINE DEGLI APOSTOLI e subito dopo dei DOLCINIANI) dalla Chiesa attraverso il Tribunale dell'Inquisizione che comminava comunque le pene col concorso dell'Autorità civile.
Col tempo le condanne per eresia furono comminate non solo a chi rifiutava i dogmi della Chiesa ma pure a chi si ribellava alla corruzione degli ecclesiastici, a chi praticava "illecitamente" l'alchimia e quindi a chi si riteneva praticasse arti magiche sospette di patti diabolici. Le ultime eresie perseguitate furono il giansenismo (ispirato ad una visione severa dell'impegno religioso e ad una fede totale nel Cristo: eresia sorta in Francia, in qualche modo poi tollerata e penetrata in Liguria con un certo vigore dalla fine del '600) e il modernismo, Col Concilio Vaticano II (1962-'65) la Chiesa è giunta ad una diversa interpretazione dell'eresia, permettendo di aderire alla dottrina cristiana secondo diversi gradi di accettazione e rifiutando quindi di escludere dalla Chiesa chi professa opinioni non del tutto ortodosse.
E' comunque da precisare, per quanto il fenomeno ereticale sia prettamente cristiano, che il concetto di eresia si riscontra pure in altre religioni: eretici, ad es., sono reputati nell'ebraismo i samaritani e nell'Islam gli sciiti.


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-MONOFISISMO>Eresia cristiana che sancisce l'unicità della natura del Cristo. Sorse in seno alla teologia alessandrina e fu sostenuta da Eutiche ottenendo grande sviluppo nella chiesa orientale anche per l'appoggio degli Imperatori bizantini che vi vedevano giustificato il loro cesaropapismo cioè il loro simultaneo potere temporale e spirituale. Dopo la condanna del concilio di Costantinopoli del 448, poi di Leone Magno vescovo di Roma ed ancora del concilio di Calcedonia del 451 il quale sostenne decisamente che le due natura, l'umana e la divina, coesistono in Cristo, il "monofisismo" sopravvisse ad Antiochia, in Siria, in Egitto ma in forme mitigate fin a quando nel VI sec., per l'appoggio dell'imperatrice Teodora sposa di Giustiniano il Grande, Imperatore di Bisanzio e dell'Impero Romano d'Oriente, tale "eresia" riprese discreto vigore. Inoltre la condanna del "monofisismo" da parte del II concilio di Costantinopoli (553), contraddicendo in apparenza i dettami di quello di Calcedonia, concorse allo SCISMA DEI TRE CAPITOLI con gravi contrasti all'interno della Chiesa. Il "monofisismo" sopravvive all'interno delle chiese scismatiche siriana, copta, armena ed etiopica nella forma severiana (così detta da Severo patriarca di Antiochia tra 512 e 518) che non ammette due nature in Cristo, perché ritiene che esse equivarrebbero a due persone, mentre il Verbo è uno.


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NESTORIO-NESTORIANESIMO>Eresiarca siriano (fine IV sec., Germanicia oggi Maras, Turchia - 451 El-Kharga, Egitto).
Grande oratore tentando di confutare gli ariani Monofisiti elaborò una dottrina eretica contraria in cui affermava che Cristo esistevano non solo due nature ma anche due persone.
In Cristo la natura umana e quella divina sono unite "ab extrinseco", non fuse in una sola; perciò Maria, madre di Gesù uomo, non è madre di Dio.
Proprio la negazione del titolo di genitrice di Dio alla Vergine a Nestorio, ormai Patriarca di Costantinopoli costò la condanna del CONCILIO DI EFESO del 431 e l'allontanamento dal patriarcato nel 435.
Visse esule in Arabia e poi in Egitto nell'oasi di El-Kharga: in un'opera a difesa della sua posizione teologica mitigò alquanto la propria posizione ereticale; tuttavia, occorre precisare, che nelle opere di Nestorio (tra cui spicca il Libro di Eracleide) l'eresia appare abbastanza sfumata.


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Il DONATISMO fu un movimento religioso-politico i cui seguaci furono detti donatisti dal vescovo di Cartagine furono indulgenti contro quei cristiani che, intimoriti dall'autorità dello Stato, avevano ceduto ed avevano rinnegato la propria fede: tra questi una posizione di rilievo erastata assunta da Ceciliano. Quando la Chiesa di Roma, succube dell'autorità imperiale, elesse proprio Ceciliano a vescovo di Cartagine ben 70 vescovi della Numidia elessero al suo posto Maggiorino dando vita allo scisma dai connotati più politici che ereticali. A capo del movimento donatista furono dapprima lo stesso Donato e quindi Parmeniano: questo si estese rapidamente tra i ceti umili, rurali ed in genere antiromani: l'imperatore Costante combattè il movimento, più o meno direttamente appoggiato da Ottato di Mileti e da S. Agostino che accusò di arianesimo lo scritto più noto di Donato, un trattato "Sullo Spirito Santo".
I donatisti erano rigoristi cioè non ritenevano validi i sacramenti amministrati da sacerdoti o vescovi che avessero commesso qualche colpa. Non risulta comunque che i donatisti seguissero un culto diverso da quello di Roma salvo che per il rifiuto dell'Epifania e, senza dubbio, la loro organizzazione gerarchica rispondeva ad esigenze di maggior linearità e funzionalità di quelle della Chiesa romana del tempo.


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ALBIGESI>Seguaci di una frazione della setta dei Catari di origine orientale che si diffusero dalla metà del XII sec. nel sud della Francia, particolarmente in Linguadoca e Provenza prendendo nome dalla città di ALBI sulla riva sinistra del Tarn, nella Linguadoca, loro centro principale e dei cui antichi monumenti si può tuttora ammirare il PALAZZO DELLA BERBIE.
Gli Albigesi non riconoscevano l'autorità ecclesiastica e negavano la divinità del Cristo.
Sostenevano teorie dualistiche che ammettevano l'esistenza di due principi supremi, uno buono ed uno malvagio, e praticavano un duro ascetismo come forma di lotta per il trionfo del principio del bene su quello del male.
Raimondo VI conte di Tolosa nel XII sec. li appoggiò, anche per estendere la sua influenza sulla vasta regione provenzale, permettendo loro di confiscare monasteri e chiese.
Nel 1208 Innocenzo III, indignato perché era stato ucciso il suo legato Pietro di Castelnau, indisse la Crociata contro gli Albigesi che si risolse in una spedizione militare ispirata a motivi politici.
Simone di Montfort, alla testa di molti feudatari del nord della Francia e della Germania, saccheggiò (1209-1213) la Provenza, massacrando, senza distinzione di religione, tutti gli abitanti e troncando di colpo il fiorire della civiltà provenzale e della letteratura in lingua d'oc: anche la dinastia dei conti di Tolosa fu travolta dalla terribile sconfitta patita dagli Albigesi nella battaglia di Muret (1213): SI TRATTO' DI UNA CARNEFICINA, CUI SEGUIRONO LE PERSECUZIONI, I PROCESSI, IL ROGO DEI VOLUMI SOSPETTI D'ERESIA, I CONDANNATI MANDATI A MORTE SECONDO UN RITUALE CHE IL TRIBUNALE DELL'INQUISIZIONE AVREBBE MANTENUTO A LUNGO CONTRO GLI APOSTATI.




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Il nome di CATARI, peraltro già noto alla cosmologia antica, deriva dal greco (CATAROS nel senso di "PURO"): col passar del tempo, più esattamente, finirono per essere indicati i seguaci dell'eresia dualistica medievale che si diffuse in Europa centromeridionale tra XII e XIV secolo, interessando ogni ceto sociale.
Assunsero nomi diversi a seconda delle aree geopolitiche così come si verificò in Francia (bougres cioè bulgari, albigeois cioè originari di Albi, bonnes hommes), in Italia (patarini: della Pataria, milanese dell' XI secolo) ecc.
Il movimento dei CATARI fu favorito da un'inquietudine spirituale, accesa da un formidabile desiderio di rinnovamento e di voglia di diversificazione dalla Chiesa ufficiale ritenuta corrotta: in particolare si ambiva ad una più stretta adesione alle Sacre Scritture e agli insegnamenti del Santo vangelo, soprattutto ad una partecipazione alla spiritualità seguendo non tanto il messaggio dottrinale delCristo quanto i suoi ammaestramenti pratici e le sue azioni: il CATARISMO rappresentò appunto momento estremo e radicale di questa esigenza nuova di rinnovamento, un'esigenza che agli occhi della Chiesa ufficiale, timorosa di una sua destabilizzazione, fu presto bandita dal mondo del lecito con la terribile accusa di eresia.
I C. sono testimoniati per la prima volta e quasi contemporaneamente in Renania, a Tolosa fra il 1145 e il 1149; nel giro di pochi decenni si diffondono, e in gruppi abbastanza numerosi, in Germania (Bonn, Colonia, ecc.), in Francia (Tolosa, Albi, Carcassonne, ecc.), in Italia (Milano, Verona, Brescia, Mantova, Firenze, Orvieto), mentre la loro presenza è accertata anche in Catalogna e nella penisola balcanica. I C., sulla cui origine e provenienza si è a lungo discusso in sede storiografica, sono oggi ritenuti l'espressione di gruppi ereticali diversi, originari dei Balcani, che si diffusero nell'Occidente europeo, mantenendo le loro originarie differenze, organizzandosi in chiese vivacemente polemiche fra loro, ma unite e concordi contro la chiesa cattolica.
I C. sono anzi, fra i vari movimenti ereticali, l ' unico a darsi una rigida organizzazione ecclesiastica, divisa in rigide gerarchie e diversi gradi iniziatici e contrapposta a quella ufficiale.
Prima fra tutte le espressioni della tradizione dei Catari giunse in Occidente la CHIESA BOGOMILA che ben presto organizzò delle diocesi ereticali in Italia e in Francia meridionale.
Sui bogomili disponamo di una fonte di informazione diretta: la Interrogatio Johannis, che espone con grande ricchezza di particolari i miti relativi all'origine dell'universo, della terra, dell'umanità, all'incarnazione di Cristo e alla sua opera di redenzione fino alla fine dei tempi; numerose poi le fonti che ci vengono dai loro awersari.
Forti della loro fede e convinti della superiorità dei loro maestri i bogomili disprezzavano gli altri cristiani, contrapponendo l'austera condotta dei loro capi alla corruzione del clero.
Predicavano la povertà, lavoravano di domenica violando le norme ecclesiastiche , rifiutavano la vita coniugale, si astenevano dalla carne e dal vino.
A questa prima chiesa catara d'origine bulgara si affiancò ben presto un'altra, originaria di Dragowitsa nel territorio di Filippopoli che ebbe la sua solenne affermazione in Occidente in occasione del concilio eretico di Saint-Feleix de-Caraman che rappresenta forse l'atto più importante della storia catara. Si tenne intorno al 1170 presso Tolosa per motivi religiosi e per esigenze organizzative. Il motivo religioso era la presenza di un uomo di chiesa cataro venuto dalla penisola balcanica o da Bisanzio, il quale dopo avere organizzato l'eresia in Italia era stato chiamato dai tolosani che erano senza vescovo e che da lui chiesero ed ottennero in gran numero il consolamentum cioè il rito dell'imposizione delle mani.
Il C. che fino alla venuta di Niceta era stato orientato verso il dualismo moderato di origine bogomila accolse la voce dell'altro dualismo, quello radicale, che cominciò a causare dissensi e discussioni, operando da potente fermento religioso e anche da segno di contraddizione.
Da questo concilio emerse l'organizzazione delle chiese catare d'Occidente.
I C. della Francia meridionale (albigesi) aderirono alla nuova chiesa, mentre in Italia violenti contrasti dottrinali condussero alla formazione di varie chiese.
La più numerosa fu quella di Concorezzo, presso Milano, continuatrice della tradizione più antica per cui Dio è l'unica potenza creatrice cui nulla è uguale e che non teme confronti. Importante, ma meno ricca di seguaci fu quella di Desenzano sul lago di Garda, detta anche albanese, che aderì alle nuove idee; sorta da un'esigenza di differenziazione dottrinale aveva anch'essa il suo mito, la cui caratteristica spiccata era appunto il dualismo radicale.
Per i C. di Desenzano, come per gli albigesi, alla base di ogni realtà vi sono due principi perfettamente identici, ma opposti, uno buono, Dio, uno malvagio, Satana, il primo spirituale e luminoso, il secondo materiale e oscuro.
Nella sua malvagità Lucifero figlio di Satana, riuscì ad infiltrarsi fra gli angeli della luce incitandoli alla ribellione; sconfitto fu costretto a tornare nel regno del padre trascinando con sè i ribelli che vennero rinchiusi nei corpi materiali dal Dio malvagio che riesce a perpetuare la loro prigionia mediante la riproduzione dei corpi e la trasmigrazione delle anime.
Pur differenziandosi sul piano dottrinale, tutte le chiese avevano in comune i precetti di vita e di morale, e i riti.
I perfetti fedeli dovevano astenersi da ogni contatto sessuale e da quanto vi fosse legato, rinunciando alla carne, al latte e latticini e alle uova e obbligandosi a lunghi digiuni periodici.
Queste norme, consigliate a tutti, anche in caso di adesione solo formale alla fede dei C., erano obbligatorie per coloro che ricevevano consolamentum durante la vita (i comuni fedeli o credentes lo ricevevano solo in punto di morte) e divenivano così perfetti.
Per questi ultimi una sola infrazione comportava la perdita della validità del rito; perciò taluni, dopo averlo ricevuto, si davano la morte mediante il digiuno (endura) o il dissanguamento.
Il consolamentum, conferito solo dopo lunga preparazione (abstinentia), consisteva nell'imposizione delle mani da parte di almeno due perfetti, uomini o donne, preceduta da una lunga predica e dalla cosiddetta consegna del libro (tradiitio libri), cioè del Vangelo, permanente esempio per il perfetto. Fra i perfetti venivano scelti il vescovo delle varie diocesi, i suoi due collaboratori detti figli, maggiore e minore, destinati a succedergli, e i diaconi.
Tutti avevano diritto agli atti di riverenza da parte dei fedeli (la cosiddetta adoratio consistente in inchini e parole di omaggio).
I perfetti, o il più anziano dei presenti, avevano il diritto di compiere la fractio panis, cerimonia nella quale veniva benedetto il pane portato dai fedeli e spezzato fra loro, decisamente distinta dalla consacrazione eucaristica dei cattolici, che i C. rifiutavano rigidamente.
Ben organizzati e ben diretti, nonostante le divergenze interne, si presentarono come precisa alternativa alla chiesa ufficiale, accusata di corruzione.
Nella Francia meridionale si inserirono nella classe dirigente borghese e di feudale, da cui ebbero appoggi e protezione, in Italia ebbero grande peso nella vita dei comuni, mescolandosi ai contrasti interni, e appoggiando di solito i ghibellini.
Di fronte alla minaccia catara, la chiesa cattolica non esitò a ricorrere all'appoggio della forza politica, come nel concilio di Verona (1184) in cui Lucio III e Federico Barbarossa condannarono varie eresie (fra cui quella dei C.), o nella crociata contro gli albigesi, che insanguinò per decenni la Francia meridionale, o all'atto di incoronazione di Federico II (novembre 1220) il quale introdusse la pena del rogo per gli eretici e specialmente per i catari.
Lo strumento di lotta più efficace contro l'eresia fu rappresentato dai nuovi Ordini religiosi, quello dei predicatori (o domenicani) e quello dei minori (o francescani).
Il primo agì soprattutto mediante la predicazione e un'intensa attività di evangelizzazione, il secondo soprattutto attraverso l'esempio della personalità di Francesco d'Assisi che fece efficacemente presa sul popolo.
L'opera di predicatori e minori fu più efficace della stessa Inquisizione organizzata verso il 1230 per la ricerca e la punizione degli eretici, spesso odiata dalla popolazione, anche cattolica, per gli abusi e gli scandali di cui si rese protagonista.
In seguito alla sconfitta della feudalità della Francia meridionale e dei ghibellini in Italia, e grazie all'opera degli Ordini mendicanti e all'attività dell'Inquisizione, nella seconda metà del sec. XIII i C. persero lentamente terreno e consistenza numerica, anche se all'inizio del Trecento nella Linguadoca e nei Pirenei, la predicazione di Pietro Autier (finito poi sul rogo nel 1311) favorì il risveglio dell'eresia.
In Italia, nella seconda metà del Trecento, un gruppo cataro è sicuramente testimoniato a Chieri, in Piemonte (ca. 1370).
Ma la lotta senza tregua sferrata su vari piani e con vasto spiegamento di mezzi dalla chiesa contro i C. li costrinse a fuggire, a nascondersi, a disperdersi, ad isolarsi, fino a scomparire lentamente ma inesorabilmente, dopo aver esercitato nella storia dei secc. XII e XIII un peso religioso eccezionale, impegnando la chiesa in uno sforzo che portò con sè un attento processo di approfondimento speculativo e un proposito di rinnovamento e di riforma le cui conseguenze durarono per secoli. (Raoul Manselli , in voce "Catari" in Grande Dizionario Enciclopedico, IV, UTET, Torino)




Dal lato linguistico PAPA è l'adattamento in tardo latino e quindi in volgare italiano di un titolo greco (PAPAS, con accento acuto sulla prima vocale, ="papà") che venne conferito al vescovo di ROMA e Capo della Chiesa Cattolica quale successore di S. Pietro, l'apostolo al quale Cristo conferì il primato fra i suoi seguaci.
La DOTTRINA DEL PRIMATO PAPALE evolutasi attraverso i millenni ha rappresentato una variabile complessa sia per la storia della Chiesa sia per la vera e propria storia generale.
Nei secoli primigeni del Cristianesimo in effetti non sussisteva ALCUNA ELABORAZIONE DOTTRINALE DI TALE PRIMATO.
Al vescovo di Roma si riconosceva solo una posizione di massimo prestigio morale e spirituale, in grado di offrire giustificazione a determinati suoi interventi sulla vita intera dell'ecumene cristiana.
Successivamente (anche elaborando le scelte dell'imperatore romano COSTANTINO IL GRANDE a favore del Cristianesimo) concentrando in sè alcune caratteristiche del potere imperiale quali l'ASSOLUTISMO e l'UNIVERSALISMO i PAPI finirono per acquisire estese prerogative di primato sia in campo spirituale che temporale.
Il principio del PRIMATO DEL PAPA [vedi qui anche la voce PONTIFEX ROMANUS (e dei PONTEFICI ROMANI la SERIE DA S. PIETRO AL XVIII SECOLO) nella BIBLIOTHECA CANONICA.... del teologo francescano Lucio Ferraris] si affermò nel mondo occidentale ma trovò forte opposizione in Oriente di modo che quando il PRIMATO PAPALE venne ufficializzato con la riforma gregoriana dell'XI secolo si giunse allo SCISMA DELLA CHIESA ORTODOSSA DEL 1054.
Una nuova e ancora più grave frattura si ebbe per effetto della RIFORMA PROTESTANTE che appunto negò il tema del PRIMATO DEL PAPA DI ROMA.
In siffatto contesto, nel XIX secolo, il tema di centralizzazione dei cattolici intorno alla FIGURA DEL PAPA (punto che divenne culminante sotto PAPA PIO IX con l'affermazione del DOGMA DELL'INFALLIBILITA' PAPALE proprio mentre di fatto si dileguava il POTERE TEMPORALE DEL PAPA CON LA SCOMPARSA DELLO STATO PONTIFICIO) finì per identificarsi col punto più basso del suo prestigio extraecclesiale, po recuperato soprattutto dopo il CONCILIO VATICANO II grazie alla rinnovata accentuazione del carattere religioso e spirituale del suo mandato.




Quello di CARDINALE è uno dei titoli dati ai massimi prelati della CHIESA dopo il PAPA: tutti membri del SACRO COLLEGIO.
Dal VI secolo il titolo spettava ai sacerdoti che reggevano le 25 CHIESE TITOLARI della Diocesi di ROMA: il nome esatto era quello di presbyteri cardinales ossia "presbiteri ovvero preti" che svolgono la funzione di "cardine della Cristianità".
Due secoli dopo il titolo venne esteso anche ai sette vescovi delle diocesi suburbicariae, che cioè sorgevano confinanti con la diocesi romana.
Circa 100 anni dopo il titolo fu altresì esteso ai diaconi-palatini.
Si formarono così tre ordini di CARDINALI: i CARDINALI VESCOVI, i CARDINEALI PRETI e i CARDINALI DIACONI.
La denominazione in teoria perdura tuttora ma in effetti dai primi dell'Ottocento i CARDINALI erano almeno PRETI e dal 1962 il titolo di CARDINALE viene conferito solo a chi già ricopre la dignità di VESCOVO.
Dal 1059 i CARDINALI detennero il diritto esclusivo di eleggere il PAPA.
Il numero dei CARDINALI non fu costante: nei secoli XII - XIII scese anche a meno di 20, poi Sisto V ne fissò il numero a 70: questo venne successivamente elevato da Pio VI a 120.
Attualmente sono nominati CARDINALI i titolari delle DIOCESI più importanti e dei più significativi uffici della Curia di Roma.
La PORPORA che i CARDINALI indossano è simbolo del loro impegno a versare il proprio sangue per la Chiesa.




Le LEGGI SICCARDI vennero proposte (sulla scia dell'inasprimento dell'EXEQUATUR e più estesamente dell'ANTICLERICALISMO POSTILLUMINISTA) nel 1850 al Parlamento subalpino dal ministro di grazia e giustizia G. SICCARDI (1802 - 1857) per ridurre i privilegi riconosciuti al clero, prevedevano l'abolizione del Tribunale ecclesiastico, del diritto d'asilo nelle chiese e nei conventi per i ricercati della polizia, la riduzione del numero delle festività religiose e il divieto per le corporazioni ecclesiastiche di acquistare bene, ricevere eredità o donazioni senza l'autorizzazione del governo. Approvate dopo aspri scontri parlamenaleri le LEGGI SICCARDI suscitarono forti reazioni da parte della SANTA SEDE e dell'ARCIVESCOVO DI TORINO L. Fransoni che venne arrestato e quindi condannato all'esilio.


BETTINO RICASOLI (Firenze 1809 - Brolio, Siena 1880) nel 1846 sollecitò il governo ducale toscano alle riforme costituzionali.
Durante la I Guerra di Indipendenza (1848 - 1849) fece parte del gruppo dell'opposizione liberalmoderata nei confronti della dittatura democratica instaurata da G. D. Guerrazzi.
Nel 1859, fuggito l'austriacante granduca Leopoldo II, divenne dittatore della Toscana e ne proclamò l'annessione al Piemonte.
Esponente della DESTRA STORICA più severa (gli fu dato il soprannome di "il barone di ferro") fu uomo di profonda religiosità ma non clericale.
Succedette a Cavour come presidente del Consiglio nel 1861 - 1862 e tentò di trovare una soluzione alla QUESTIONE ROMANA (venutasi a creare già dai tempi dell'operato del Siccardi) in modo tale da operare il POTERE TEMPORALE DEI PAPI pur riconoscendone la SOVRANITA' PERSONALE.
Proprio il suo sfibrante lavoro di COMPORRE IL CONFLITTO TRA STATO UNITARIO ITALIANO E SANTA SEDE finì per costringerlo alle dimissioni nel 1867 (nonostante il coraggioso comportamento tenuto per evitare umiliazioni diplomatiche all'Italia dopo il conflitto sfortunato del 1866 -III Guerra di Indipendenza- che, nonostante le sconfitte patite dall'impero austroungarico, grazie all'alleanza con la vittoriosa Prussia rese possibile all'Italia l'annessione del Veneto).
Gli effetti della politica del RICASOLI in materia religiosa, proprio in prossimità delle sue dimissioni, ebbero riscontri nel ponente ligure e in particolare a VENTIMIGLIA.
Continuando il programma di dimensionamento temporale del potere della Chiesa sotto il suo governo del '66 si procedette alla soppressione delle comunità conventuali non dedite a particolari funzioni sociali quali l'istruzione o la cura degli infermi. Pertanto il ventimigliese convento della Consolazione o di S. Agostino (visto che agli agostiniani non spettavano compiti sociali ma solo culturali e spirituali) fu soppresso e divenne proprietà del Demanio: una sua parte, nell'ala nord, fu invece adattata ad abitazione del parroco preposto alla limitrofa chiesa, ex conventuale, della Consolazione (ora detta di S. Agostino).
Successivamente, come si legge nell'estratto di processo verbale del 30 ottobre 1872 a norma delle leggi del 7 agosto 1866 numero 3036 e del 15 agosto 1867 numero 3848 redatto dalla Prefettura di Imperia, il Comune, acquistò (in seguito a verbale d'incanto del 22 novembre 1872) al prezzo globale di 7150 lire:
A - Il fabbricato sito in via Aprosio (ora via Cavour) ad uso di Convento dei Minori Osservanti di San Francesco (forse perché nell'ex convento agostiniano oltre al Seminario trovarono sistemazione i Minori francescani, con l'annesso orto, composto di numero 2 piani e vani 24.
B - Il piazzale ed un'area fabbricabile con numero 2 piante di gelso: il prezzo parziale di questa proprietà è indicato in 720 lire. I locali così acquistati furono successivamente adibiti a Caserma dei carabinieri fino al 1896 e poi a CARCERE DEGLI ESPULSI DALLA FRANCIA. Nel frattempo a peggiorare le sorti dell'ex conventi, contribuì il parroco Bonaggiunta Conio che tra il 1882 ed il 1889 progettò ed attuò l'eliminazione dell'ala sud per farvi erigere un edificio, ad uso abitazione e botteghe, prospiciente la piazza dove allora si svolgeva il mercato.
Inoltre nel 1893 venne innalzato un piano sulla parte del convento adibita a CASA PARROCCHIALE mentre in seguito il superstite giardino monastico fu purtroppo eliminato per costruire sul luogo una sala di notevoli dimensioni.
Dopo i tragici eventi della II guerra mondiale il CARCERE DEGLI ESPULSI assunse funzione e nome di CARCERE GIUDIZIARIO che fu però soppresso dal Ministero di Grazia e Giustizia nel 1964 che restituì all'antico proprietario, il Comune di ventimiglia, lo stabile dell'ex Convento: il Ministero aveva infatti preso in affitto tali locali.
Bisogna tuttavia precisare che, che con atto di retrocessione deliberato dalla Giunta comunale il 10 agosto 1964 n. 628 alcuni locali a nord furono restituiti alla chiesa in virtù della legge di attuazione del Concordato: in conseguenza di ciò la chiesa di s. Agostino risultava proprietari dei 2/5 dell'intero fabbricato.
Il Comune in un primo tempo vi ospitò (a.s. 1968 - 1969) il Liceo Ginnasio G. Rossi il cui edificio, in piazza hanbury, stava subendo lavori di ampliamento.
Dal 1970 dopo adattamenti edili gran parte del fabbricato (ala est) era dato in uso alla sezione coordinata di ventimiglia dell'Istituto professionale per il Commercio "Martini" di Sanremo.


Nei secolo XVI e soprattutto XVII-XVIII, con l'espressione latina EXEQUATUR (= VENGA APPLICATO / -A) si esplicava il diritto di controllo da parte dei monarchi sulla pubblicazione ed esecuzione di atti dell'AUTORITA' ECCLESIASTICA e di ratifica della NOMINA DEI VESCOVI.
Fortemente contestato dall'AUTORITA' PAPALE [in ciò è emblematica una poco nota lettera di PIO IX]tale diritto in Italia (peraltro già fortemente ridimensionato e messo in discussione dalla LEGGE DELLE GUARENTIGIE) venne definitivamente abolito dal CONCORDATO.


Con il termine ANTICLERICALISMO si indica l'insieme dei COMPORTAMENTI POLEMICI avverso il CLERO ed in particolare la sua tendenza di esorbitare nella sfera del POTERE TEMPORALE cioè dello STATO.
Le origini antiche dell'ANTICLERICALISMO si riscontrano nell'età medievale quando furono mosse aspre critiche (che non mancarono di alimentare MOVIMENTI ERETICALI) contro un clero giudicato troppo distante dalle premesse evangeliche.
L'ANTICLERICALISMO venne quindi riaffermato nel RINASIMENTO e più decisamente nell'epoca della RIFORMA.
In seguito trovò nuove energie in EPOCA ILLUMINISTICA quando si vennero affermando atteggiamenti apertamente antireligiosi, materialistici ed atei: l'elemento eclatante di questa ANTICLERICALISMO SETTECENTESCO si identificò nella SOPPRESSIONE DELL'ORDINE DEI GESUITI
L'ANTICLERICALISMO andò a costituire un vero e proprio fenomeno di massa con la RIVOLUZIONE FRANCESE e quindi coi moti dell'Ottocento.
Il dissidio tra CHIESA CATTOLICA e CULTURA MODERNA (contestualmente all'urto fra CHIESA e STATO) inasprì sempre più la polemica tra CLERICALISMO e ANTICLERICALISMO soprattutto nei Paesi di tradizione cattolica come Italia, Franci, Spagna, Portogallo, Belgio, America latina.
L'opinione pubblica e le principali forze politiche ritenevano poi improponibile la persistenza di antichi privilegi giuridici ed economici della Chiesa.
L'ANTICLERICALISMO incentrato sul principio di RIVENDICAZIONE DELLA LAICITA' DELLO STATO fu sostenuto dalla MASSONERIA e dal libero pensiero del POSITIVISMO: col tempo divenne una componente significativa dell'ideologia di alcuni partiti politici di ispirazione democratico-liberale e socialista sì da costituire in seguito un ELEMENTO DI DIVISIONE in vari episodi di URTO POLITICO e RIVOLUZIONARIO come in MESSICO e soprattutto in SPAGNA, negli anni 30 del XX secolo.


La SOPPRESSIONE DELL'ORDINE DEI GESUITI si colloca storicamente in piena epoca illuministica e in sintonia coi dettami riformatori del dispotismo illuminato quando l'Antico Regime (Sovrani assoluti) con una serie di mirate riforme tentò di salvare dal disfacimento il proprio apparato di potere.
Grazie anche al sostegno filosofico del pensiero illuminista verso la metà del '700 i GESUITI vennero colpiti da varie misure repressive ad opera degli STATI che non ne tolleravano più l'influenza politica.
Nel 1759 il governo di Pombal confiscò i beni dell'Ordine e cacciò i GESUITI dal PORTOGALLO.
A tale esempio si rifecero presto altre potenze europee a partire (1762) dalla FRANCIA dove le tendenze antigesuitiche erano sostenute da una forte adesione al pensiero illuminista e all'ideologia religiosa del GIANSENISMO.
Succedette quindi l'espulsione dalla SPAGNA del 1767 e gradualmente quella da vari altri Paesi.
Di fronte al dilagante problema il PAPA CLEMENTE XIV acconsentì alla SOPPRESSIONE DELL'ORDINE sì che i GESUITI poterono sopravvivere solo nelle loro Case della Prussia e della Russia Bianca pur non mancando vari tentativi, variamente clandestini, di conservare vivo lo spirito dell'Ordine.
Questo venne quindi RICOSTITUITO da PIO VII nel 1814 alla fine dell'avventura di Napoleone.


Propriamente per VESCOVO [EPISCOPUS in latino: ma spesso gli eruditi corrispondenti di Aprosio usano l'espressione ANTISTES, -ITIS dal latino puro CHRISTIANAE LEGIS ANTISTES = "PRIMO SACERDOTE DELLA LEGGE CRISTIANA" coniato dal classico ANTISTES, -ITIS cioè "PRIMO SACERDOTE DI UN TEMPIO"] si intende il sacerdote che è stato insignito del potere di governare la Chiesa: infatti all'atto dell'investitura egli è stato consacrato quale SUCCESSORE DEGLI APOSTOLI e nel contesto della CHIESA CATTOLICA gli compete la giurisdizione su una DIOCESI
In età medievale tuttavia i VESCOVI esercitarono anche, in assenza spesso di un effettivo potere secolare, l'autorità politica su determinati territori: di conseguenza si iniziò ad eleggerlo prima ad opera dei chierici della DIOCESI di competenza e quindi dal PAPA.
La concorrenza dell'IMPERATORE per la nomina dei VESCOVI diede origine all'annosa LOTTA PER LE INVESTITURE.
Successivamente, nei secoli XVIII-XIX, nuovo conflitti tra CHIESA e STATO si ebbero nel tentativo da parte del potere temporale di ridimensionare l'autorità dei VESCOVI.
In Italia il problema, specialmente con l'avvento della QUESTIONE ROMANA, risultò strettamente connesso al principio sostanzialmente anticlericale dell'EXEQUATUR che tra altre cose comportava l'assenso ad opera dell'autorità statale alla nomina dei VESCOVI.
Comunque anche le relazioni tra i VESCOVI ed i PAPI ebbero dei contenziosi come in merito al principio del CONCILIARISMO.
Il CONCILIARISMO è una dottrina che comporta tra i suoi principi l'affermazione della SUPERIORITA' DEL CONCILIO ECUMENICO DELLA CHIESA su tutti i singoli membri della gerarchia ecclesiastica compreso il PAPA, obbligato per ciò ad accettare qualsiasi documento elaborato da un CONCILIO DI VESCOVI.
Tale interpretazione fu inaugurata dal canonista di scuola bolognese UGUCCIO nel 1210 e quindi dal domenicano GIOVANNI DI PARIGI nel 1306: fu successivamente ripresa da MARSILIO DA PADOVA nel 1342 e da GUGLIELMO DA OCCAM nel 1349 anche per contratstare le varie forme di accentramento burocratico e amministrativo esercitato tanto dalla CURIA DI ROMA che dai PAPI.

Per ARCIVESCOVO si intende infine quel VESCOVO a cui è stata attribuita una PREMINENZA ONORIFICA sugli altri VESCOVI.
Ciò in genere riguarda i TITOLARI DI DIOCESI METROPOLITANE (le diocesi ritenute più antiche o proprie di grandi città) o direttamente soggetta alla SANTA SEDE: donde il titolo di METROPOLITA (nella CHIESA LATINA sinonimo di ARCIVESCOVO - nella CHIESA GRECO-ORTODOSSA termine indicante invece un DIGNITARIO che occupa un grado gerarchico intermedio tra il PATRIARCA e l'ARCIVESCOVO).
La titolatura di ARCIVESCOVO può comunque essere estesa ai NUNZI APOSTOLICI o ad ALTI FUNZIONARI DI CONGREGAZIONI ECCLESIASTICHE ai quali l'onore viene concesso attraverso uno specifico INDULTO PAPALE.




Col termine di CONCILIO ECUMENICO si intende l'ASSEMBLEA GENERALE DI TUTTI I CARDINALI, DEI PATRIARCHI, DEGLI ARCIVESCOVI, DEI VESCOVI, DEI SUPERIORI GENERALI DELLE CONGREGAZIONI E DEGLI ORDINI RELIGIOSI, DEI RAPPRESENTANTI DELLE ASSOCIAZIONI LAICALI convocata espressamente dal PAPA che la presiede di persona oppure si avvale di VICARI da lui nominati allo scopo di dibattere e deliberare in materia di fede e di disciplina. i DECRETI che vengono votati nell'ambito delle assemblee plenarie dei CONCILI ECUMENICI hanno quindi vigore di LEGGE per la Chiesa cattolica quando vengono ratificati dal PAPA.














Con il termine di GIURISDIZIONALISMO si indicò dal XVIII secolo una dottrina politica che affermava la preminenza dello STATO sulla CHIESA per ciò che concerneva le nomine ecclesiastiche e le disposizioni sui beni ecclesiastici.
Il GIURISDIZIONALISMO si sviluppò nell'epoca illuministica del Dispotismo Illuminato partendo dal presupposto che ogni SOVRANO non potesse esimersi dal DOVERE di vigilare sulla qualità della fede, del culto e dell'organizzazione della Chiesa nel suo Stato.
Tale dottrina condusse al rafforzamento delle CHIESE NAZIONALI e conseguì la sua migliore formulazione nel contesto di quello che probabilmente fu il più evoluto degli STATI retti secondo il teorema del DISPOTISMO ILLUMINATO vale a dire l'IMPERO (l'AUSTRIA e i tanti Stati soggetti al suo dominio) rivitalizzato dalle RIFORME di MARIA TERESA e di suo figlio e successore GIUSEPPE II sì che si giunse anche ad una identificazione tra GIURISDIZIONALISMO e GIUSEPPINISMO.




Il GALLICANESIMO finì per costituire un insieme di dottrine volte a teorizzare l'autonomia della Chiesa di Francia, e quindi a mitigare il principio dell'assoluta obbedienza del suo clero, nei riguardi della Curia romana.
La prima espressione di siffatti orientamenti la troviamo nella PRAMMATICA SANZIONE di Carlo VII nel 1438.
Il dibattito, sempre controverso dalla Curia di Roma, si inasprì quando il re Sole Luigi XIV entrò in uno stato conflittuale, diplomatico e non, con la Santa Sede.
In tale periodo il vescovo J. -B. Bossuet concentrò i principi del GALLICANESIMO nelle tesi dei Quattro articoli del gallicanesimo che furono approvate da un concilio nazionale di vescovi francesi tenuto a Parigi nel 1682 e detto DECLARATIO CLERI GALLICANI.
In definitiva per quanto concerneva i problemi temporali e di amministrazione statale non si riconosceva più alcun potere superiore a quello del sovrano.
Di conseguenza il PAPA, avvalendosi della sua presunta autorità storica oltre che di quella effettiva e spirituale, non aveva più facoltà di deporre il sovrano emancipandone i sudditi dal voto di obbedienza.
Oltre a ciò si affermava il CONCILIARISMO cioè il principio della superiore autorità del CONCILIO rispetto al PAPA oltre all'intangibilità di privilegi della CHIESA GALLICANA a suo tempo rigettati dalla CURIA ROMANA.
Successivamente (1693), per convenienze diplomatiche, Luigi XIV ritrattò tale dottrina: poi, gradualmente, il GALLICANESIMO prese a confluire in quel vasto campo di revisione dei rapporti fra STATI e SANTA SEDE che prese il nome di GIURISDIZIONALISMO.




Il GIANSENISMO fu un movimento di pensiero religioso che si sviluppò in ambito teologico soprattutto tra i secoli XVII e XVIII.
Esso mutuò il proprio nome da un teologo di Lovanio, Cornelis Jansen (1585 - 1638) il cui nome venne latinizzato (e poi italianizzato) alla moda del tempo in GIANSENIO.
Affrontando il complesso tema, allora alquanto dibattuto della GRAZIA DIVINA, Giansenio fece proprie diverse tesi di Agostino di Ippona ed accentuò il principio dell'irresistibilità della grazia fino alla predestinazione arrivando, pericolosamente, a sfiorare la dottrina ereticale per Roma del CALVINISMO.
Tutto il sistema giansenista verteva poi sulle solide basi della sanzione di una MORALE RIGORISTA che coimplicava una adesione letterale ai contenuti biblici ed una visione episcopalista contaria al principio storico del PRIMATO PAPALE.
L'area di diffusione di questo pensiero religioso fu costituita dal monastero femminile cistercense di PORT-ROYAL a Parigi.
Il seguito in francia del GIANSENISMO fu notevole (per esempio vi aderirono intellettuali del calibro di A. ARNAULD e di BLAISE PASCAL) ma fu soprattutto tra il "ribelle clero dei paesi Bassi" che il GIANSENISMO assunse aperti toni di ribellione alla CURIA ROMANA: per esempio ad UTRECHT, l'anno 1723, si formulò una CHIESA SCISMATICA GIANSENISTA.
La CURIA ROMANA reagì in modo perentorio, quasi in un nuovo clima di CONTRORIFORMA, mettendo all'INDICE DEI LIBRI PROIBITI l'opera di Giansenio dal titolo Augustinus.
Poco tempo dopo i PAPI romani (da Innocenzo X a Clemente XI che promulgò la BOLLA Unigenitus nel 1713) condannarono le idee giansenistiche che ebbero comunque, anche nel XIX secolo, una certa diffusione in Italia specie fra intellettuali e borghesi medio-alti con punte di adesione notevoli proprio in LIGURIA, forse per la stessa vicinanza alla Francia donde venivano tali nuove idee religiose: caso emblematico (ma niente affatto isolato) resta per esempio quello di MARIA DRAGO madre di Giuseppe Mazzini




Il GRANDE SCISMA D'OCCIDENTE (1378-1417).
Durante la cattività avignonese, i papi tentarono di soggiogare i signori ribelli dello Stato pontificio.
Solo nel 1377 il papato riuscirà a riportare la sede a Roma, ma appena questo avvenne scoppiò il grande scisma d’Occidente.
Casus belli dello scisma fu l’elezione del nuovo pontefice Urbano VI, cui si oppose il Collegio dei Cardinali, in maggioranza francesi, i quali dichiararono d’essere stati costretti a votarlo sotto la minaccia del popolo, che reclamava un papa romano o almeno italiano.
Per reazione i cardinali ribelli elessero un antipapa, Clemente VII, che si insediò ad Avignone, dopo aver cercato senza risultato di eliminare Urbano VI.
La cristianità risultò frammentata, con scandalo e confusione amministrativa, in due fazioni.

Per arginare tale scandalo, molti cardinali delle due sedi si riunirono nel Concilio di Pisa (1409), ove decisero di deporre i due papi e di eleggerne un terzo, Alessandro V, con sede a Bologna.
I due papi "deposti" non accettarono però di riconoscere come legittimo tale Concilio: in effetti, stando al diritto canonico, ogni CONCILIO ECUMENICO avrebbe dovuto essere convocato dal papa e da lui presieduto o quanto meno da un vicario da lui stesso eletto.
Lo scisma fu comunque risolto solo col successivo Concilio di Costanza (1414-18), che, convocato dall’imperatore Sigismondo con l’approvazione dei tre papi, decise "di deporre i tre papi, eleggendone un terzo (Martino V); di trasformarsi in un istituto permanente, ovvero in un organo costituente della chiesa (in grado di convocare altri concili), al fine di dare alla chiesa un ordinamento parlamentare, nel quale il potere monarchico del papa fosse subordinato a quella del concilio (Martino V tuttavia seguirà una politica ostile, anche se cauta, al movimento conciliare o conciliarismo); il Concilio condannò le dottrine di Wycliff e mandò Huss al rogo, giudicati eretici (anticiparono le idee di Lutero).
Il PICCOLO SCISMA D'OCCIDENTE (1439-49)
La lotta tra le tesi papiste e quelle conciliariste determinò un altro scisma all’interno della chiesa.
Eugenio IV, infatti, successore di Martino V, dopo aver convocato un Concilio a Ferrara e poi a Firenze per discutere con la chiesa greca la riunificazione delle due confessioni (cattolica e ortodossa), chiese che quello ecumenico di Basilea (già convocato da Martino V per discutere il problema dell’autorità del papa) fosse sciolto (a Basilea infatti si stavano affermando le tesi conciliariste).
I prelati di Basilea opposero un netto rifiuto, deposero Eugenio IV ed elessero papa Amedeo VIII duca di Savoia col nome di Felice V.
Questa volta però ebbe la meglio il papa di Roma, poiché da un lato poté far valere a suo prestigio il ritorno della chiesa greca alla disciplina di Roma (i bizantini speravano nell’aiuto dei latini contro i turchi), dall’altro riuscì ad ottenere l’appoggio dell’imperatore germanico Federico III d’Asburgo, che chiuse d’autorità il concilio di Basilea.
Il papato poté così ripristinare il suo primato sul Concilio.
Fallì al contrario il tentativo di riunificazione con l’ortodossia, poiché la sconfessarono immediatamente le popolazioni e il clero orientali.




Sotto il nome di LOTTA PER LE INVESTITURE si colloca un contrasto di molteplice natura (politica, giurisdizionale, ideologica e religiosa) che si sviluppò a partire dall'XI secolo e che mise di fronte il PAPA e le AUTORITA' TEMPORALI in merito al DIRITTO DI CONFERIRE LE CARICHE ECCLESIASTICHE.
Tutta una sequela di eventi aveva quasi meccanicamente condotto gli eventi a tal punto di rottura e scontro.
In primo luogo l'IMPERO CAROLINGIO, nella sua stessa essenza, finiva per riconoscere a re e imperatore un CARATTERE SACRALE che ne faceva collimare l'autorità con quella ecclesiastica.
Contestualmente i GRANDI ORDINI RELIGIOSI, assuntosi il compito di ripopolare e ricivilizzare l'Europa, avevano finito per assurgere ad estrema potenza: come nel caso generico dei Benedettini od in quello specifico di singole loro CASE MADRI come quella di NOVALESA tanto per citare un esempio.
Peraltro dal secolo XI, in sintonia con molteplici aspetti della civiltà feudale e come risposta necessaria al vuoto del potere laico, parecchi VESCOVI avevano assunto i poteri locali, su un territorio feudale privo di guida: spesso anzi la loro opzione era stata legittimata dalla stessa autorità imperiale (il caso dei VESCOVI-CONTI).
Nella nomina dei VESCOVI-CONTI, data la convergenza in una sola persona di autorità spirituale e temporale, l'intervento dell'IMPERATORE con lo scorrere del tempo parve assolutamente necessario: e del resto, per verso della CASA IMPERIALE, era molto più utile avvalersi dei servigi di FEUDATARI ECCLESIASTICI (alla cui morte il territorio ricevuto per omaggio ed investitura in feudo sarebbe tornato automaticamente all'autorità civile non potendo ritenerlo -dati i voti ecclesiastici alla povertà- possesso personale e trasmissibile per via ereditaria) a differenza di quanto accadeva coi FEUDATARI LAICI (spesso propensi a ribellarsi e in grado di passare lecitamente agli eredi il controllo del feudo ricevuto tramite investitura imperiale).
Dalla metà dell'XI secolo si manifestò tuttavia l'opera di importanti riformatori religiosi: Ildebrando di Soana (il futuro Papa Gregorio VII), Umberto di Silvacandida e Pier Damiani, opera che risultò destinata a produrre una svolta decisa della visione religiosa e che comunque influì decisamente sull'assetto istituzionale della Chiesa.
In particolare la CURIA ROMANA si impegnò con decisione nel sottarre all'autorità temporale dei singoli regni il controllo dei rispettivi EPISCOPATI in modo da vincolarli sempre più strettamente alla sua autorità.
Questo processo assunse caratteri decisi sotto GREGORIO VII che nel 1075 vietò (DICTATUS PAPAE) il conferimento delle INVESTITURE da parte dell'IMPERATORE.
Ne derivò un dissidio che raggiunse presto l'acme della tensione provocando uno scisma nel corpo della Chiesa e contestualmente la guerra civile in Germania.
In particolare lo scontro epocale contrappone GREGORIO VII al re di Germania ENRICO IV che determinò appunto lo SCISMA DELLA CHIESA TEDESCA grazie all'appoggio dei VESCOVI suoi connazionali che dichiararono deposto il PAPA.
GREGORIO VII reagì prontamente (1076) con la scomunica avverso l'Imperatore.
Quest'ultimo, in evidente difficoltà istituzionale, scese in Italia per umiliarsi a Canossa (25 - 28 gennaio 1077) direttamente davanti a GREGORIO VII che ritirò la SCOMUNICA e reintegrò il sovrano nei suoi diritti.
Ciò non potè vanificare la GUERRA CIVILE in Germania visto che, approfittando della debolezza del re, i ribelli feudatari tedeschi elessero al posto di ENRICO IV il nuovo sovrano RODOLFO DI SVEVIA.
ENRICO IV tuttavia ebbe la capacità di sconfiggere RODOLFO (1080) e, riprendendo la sua politica antipapale nonostante il giuramento di Anagni, fece eleggere l'antipapa Clemente II: per tutta risposta il PAPA ROMANO lo scomunicò per la seconda volta.
Tra il 1083 ed il 1084 ENRICO IV iniziò una campagna militare in Italia contro il PAPATO: conquistò ROMA e si fece eleggere IMPERATORE mentre GREGORIO VII fu costretto a trovare rifugio nella fortezza di Castel Sant'Angelo fino al momento in cui lo liberarono i Normanni di Roberto il Guiscardo.
La morte di GREGORIO VII non pose affatto fine alla contesa per le INVESTITURE ed il nuovo PAPA URBANO II per fronteggiare l'IMPERATORE ne appoggiò i ribelli figli CORRADO ed ENRICO: nell'arco di oltre un decennio 1088 - 1099 ENRICO IV vide scemare la sua potenza e la sua stessa politica sì da vedersi costretto all'abdicazione.
Tuttavia ENRICO V succeduto al padre ne riprese sorprendentemente la politica antipapale, con la conseguenza che il conflitto per le INVESTITURE si riaccese su vari livelli, da quello teologico a quello diplomatico a quello spiccatamente militare.
Anche per la stanchezza dei contendenti e forse per il superamento, col passar del tempo, delle antiche posizioni si giunse alla conclusione della LOTTA PER LE INVESTITURE il 23 novembre 1122 quando il PAPA CALLISTO II e lo stesso IMPERATORE ENRICO V stipularono il CONCORDATO DI WORMS che fissò la rinuncia imperiale a investire i vescovi anche se, seppur limitatamente alla Germania, rimase all'IMPERATORE il diritto di investire, ma dei soli POTERI CIVILI, il prelato che fosse in procinto di essere elevato dal PAPA al privilegio di VESCOVO.





Il noto islamista Aldobrandino Malvezzi (A. MALVEZZI, L'Islamismo e la cultura europea, Sansoni, Firenze, 1956, pp. 86 - 90), discepolo dell'ancora più illustre orientalista Leone Caetani, in merito a questo complesso argomento ha lasciato scritto alcune pagine fondamentali che vale la pena di riportare integralmente:
'L'uomo che comprese l'opportunità di dare una solida base alla lotta spirituale del CRISTIANESIMO contro l'ISLAM fu il Venerabile Abate Pietro di Cluny [colui cioè che tra i primi comprese che per combattere i progressi dell'Islam era necessario comprenderne il supporto ideologico e spirituale] il quale perciò fece la semplicissima cosa, fino allora trascurata da tutti, sebbene fosse indispensabile al raggiungimento del suo scopo, di procurarsi una traduzione del libro sacro della religione che si trattava di confutare.
L' incarico di tradurre il Corano fu dato da Pietro di Cluny a due persone intorno alla identità delle quali vi è discordanza di opinioni; l'uno inglese, da alcuni detto Roberto Retenense, da altri Robert Kennet, da altri ancora Robert de Retz, ma il cui nome era ROBERTO DI CHESTER, matematico, studioso di astronomia, e Arcidiacono della chiesa di Pamplona; l'altro un Herman, di Dalmazia, non altrimenti specificato.
Costoro, pur conoscendo la lingua, araba perché vivevano in Spagna, si fecero aiutare nel difficile lavoro, terminato nel 1143, da un Ebreo musulmano.
Pietro di Cluny si affrettò ad inviare la traduzione, che era stata eseguita a caro prezzo (multo precio) all' amico San Bernardo di Chiaravalle, accompagnandola con una lettera nella quale gli spiega lo scopo del lavoro dandone il suo giudizio.
La prima parte della lettera, che esprime così chiaramente la fermissima opinione che si aveva in Europa intorno all'Islam, ancor prima d' aver letto e studiato il Corano e senza avere di esso altrimenti alcuna precisa ed attendibile notizia, è la seguente:
'Il mio scopo nel fare eseguire questa traduzione è stato quello di seguire l'esempio dei Padri i quali non lasciavano passare sotto silenzio, per così dire, nemmeno le piu insignificanti eresie dei loro tempi, bensì le combattevano con tutta la forza della fede, dimostrando con gli scritti e le discussioni quello che in esse vi fosse di detestabile e condannabile. Lo stesso ho voluto fare io rispetto a questo massimo errore degli errori, a questo escremento di tutte le eresie nel quale sono confluiti i resti di tutte le diaboliche sette che sono apparse dall'avvento del Salvatore in poi. In tal modo, poiché sappiamo che quasi la metà del mondo è infetta da quella mortifera peste, sarà svelato a coloro che lo ignorano quanto essa sia esecranda, stolta e turpe. Tutto ciò lo capirete voi stesso leggendo e, come credo, (con ragione) piangerete vedendo da quale scellerata e abiettissima turpitudine sia stata ingannata tanta parte della umanità'.
Negli stessi precisi anni nei quali Roberto di Chester ed i suoi coadiutori eseguivano la traduzione del Corano e l'Abate di Cluny, dopo averla letta, ne scriveva in violenti termini una sdegnata confutazione, Guglielmo di Tripoli, frate Domenicano, che conosceva la lingua araba e viveva in Siria in un suo Trattato intorno ai Saraceni, così scriveva del Corano:
'Che cosa contiene l'Alcorano ? Il libro dei Saraceni detto Alcoran, ovvero Meshaf, contiene molte lodi del Creatore, cioè lodi della sua potenza, scienza, bontà, misericordia, giustizia ed equità. Loda anche coloro che credono in Dio ed usano giustizia, ma non spiega né insegna quale sia la fede né quali siano i fedeli e gl' infedeli. Inoltre celebra, loda ed esalta al disopra di tutti i figliuoli degli uomini, Gesù figlio di Maria, così come Maria al dissopra di tutte le donne la quale, per volere divino, mercé un soffio di Dio, concepì e partorì da vergine e tale rimase. Infine esalta e loda tutti i Santi Padri dell'Antico Testamento. Dice che dal cielo sono discesi quattro libri, la Legge, il Vangelo, il Salterio, e il libro dei Profeti e che il quinto è l'Alcorano. A Maometto accenna in due luoghi, senza farne- alcun elogio. Del Signore Gesù invece fa mirabili elogi, come pure di Maria sua madre e inoltre dei suoi seguaci che sono chiamati Cristiani e che negli appositi luoghi insegnano per la consolazione dei fedeli e in onore del Salvatore'Dal confronto dei contemporanei giudizi intorno al Corano dell'Abate di Cluny e di Guglielmo di Tripoli si può vedere in quale differente modo sia possibile giudicare uno stesso libro.
Questo confronto rivela quanta parte abbiano i preconcetti, i secondi fini, e le particolari tendenze psicologiche degli uomini nella espressione dei loro giudizi, anche intorno a circostanze di fatto, sulle quali le opinioni personali non dovrebbero esercitare alcuna influenza.
La valutazione della importanza che ha nel Corano la parte dedicata alla cristologia e al Cristianesimo non può infatti essere l'espressione di una opinione, bensì una semplice, materiale constatazione risultante dalla lettura del Corano stesso.
Ora tale lettura dimostra che dei 6236 versetti che compongono il Corano, solo 32 riguardano Cristo direttamente e 42 in modo incidentale.
Ma se, in un componimento di 6236 versetti solo 32 riguardano un dato argomento, mentre 6204 ne riguardano moltissimi altri, sembrerebbe doverne risultare evidente che l'argomento dei 32 versetti non è quello esclusivo del componimento e nemmeno uno dei principali di esso.
Perciò l'affermare che il Corano è un libro contrapposto al Cristianesimo e che ha per scopo di contraddirne le dottrine, equivale a pretendere che la Divina Commedia è un poema che ha per argomento gli amori di Francesca da Rimini.
Il fatto che nemmeno una prova palmare di questo genere abbia potuto far correggere le opinioni intorno all'argomento del Corano e alla natura dell' Islam dimostra psicologicamente 1' invincibile forza delle idee preconcette e storicamente l' incapacità dei teologi medioevali di concepire la possibilità di esistenza di un sistema religioso sostanzialmente diverso dal Cristianesimo e da esso indipendente.
La differenza nell'apprezzamento dell' Islam fra l'Abate Pietro di Cluny e Fra Guglielmo di Tripoli appare ancora più evidente se si confronta il commento del Corano composto dal primo con l'analisi fattane dal secondo, confronto che sorprende per la sua contraddizione quando si pensi che ambedue quegli scrittori ragionavano dello stesso libro, debitamente letto da entrambi.
'Ai Saraceni si addice il nome di eretici' - scrive Pietro di Cluny - 'poiché hanno alcune credenze in comune con noi, mentre in molte altre dissentono; anzi forse sarebbe più esatto chiamarli pagani, oppure etnici, che è peggio, poiché sebbene essi affermano qualche cosa veritiera circa Dio, ne dicono altresì molte false e non hanno, né il battesimo, né la confessione, né alcuno altro sacramento cristiano '.
Altro passo caratteristico della Summola contro il diabolico inganno dei Saraceni è questo: ' Maometto, per non apparire completamente disonesto, raccomandò la pratica delle elemosine e qualche opera di misericordia, infine elogiò la preghiera. In tal modo egli si rivela sotto tutti gli aspetti mostruoso, cioè, come dice quegli (Orazio nell'Arte poetica) riunente la testa d'uomo, il collo del cavallo e le penne d'uccello. Persuaso dal monaco (Sergio) e dagli Ebrei, abbandonò completamente l' idolatria e indusse coloro che potè ad abbandonarla predicando che bisognava adorare un Dio unico abbandonando la moltiplicità degli Dei ".
Pietro di Cluny tace poi completamente ciò che è detto nel Corano intorno a Maria Vergine, tace i precetti etici, nonché la legislazione civile.
Guglielmo di Tripoli elenca invece nel modo seguente ciò che si legge nel Corano relativamente al Cristianesimo: ' Lodi di Cristo e della Beata Maria Vergine e loro seguaci. Come fu concepita Maria e come nacque. L'Annunciazione. Lodi di Maria, suo parto. Castità di Maria. Della autorità data da Dio al figlio di Maria. In qual modo Cristo soverchi tutti gli altri Inviati di Dio. Lodi di Dio e del suo Vangelo '.
Pietro di Cluny e Guglielmo di Tripoli si trovano d'accordo solo nel modo nel quale trattano la questione della poligamia che nei secoli successivi doveva destare fra i controversisti antislamici maggior scandalo e violenza di rampogne.
Pietro di Cluny non ne parla affatto e Fra Guglielmo ne indica la legislazione, senza aggiungervi alcun commento.
Così pure, l'uno e l'altro di questi scrittori, indicano che nel Paradiso dei Musulmani si trovano fanciulle a disposizione degli eletti, senza fare a tal proposito alcun commento.
Come questo abbia potuto avvenire è difficile congetturare.
Di quanto il desiderio di combattere 1' infezione islamica aveva fatto fare a Pietro di Cluny rimase la traduzione in latino del Corano, spesso ricordata, ma che non risulta essere mai stata partitamente esaminata dagli studiosi e che fu valutata da ben pochi e solo sotto l'aspetto letterario, nonostante la sua capitale importanza per la storia della conoscenza dell' Islamismo in Occidente.
Appunto intorno al valore letterario della traduzione di Roberto di Chester i pareri sono discordi e le critiche superano le lodi, perché le si rimprovera di non aderire esattamente all'originale, dandone perciò una idea errata.
Di fatto quella traduzione, più che infedele è incompleta onde, anziché traduzione, dovrebbe denominarsi compendio, o ristretto, come si diceva un tempo.
Con tutto ciò l' opera non manca di pregi e, fra gli altri, ha quello incomparabile, data la materia ed i tempi, della obiettività, nonché quello di porgere al lettore, mercé una intelligente selezione, il contenuto essenziale del Corano.
Ma i filologi non furono di questo parere.
La prima critica in ordine di tempo fu fatta da Guglielmo Postello in questi termini: 'Quella versione (o per meglio dire) quella inversione latina dell'Alcorano '.
Analogo giudizio espresse il dotto Pietro Daniele Huet, Vescovo d'Avranches (1630-1721) aggiunto al Bossuet quale maestro del Delfino di Francia e curatore delle edizioni ad usum Delphini, che nella sua opera De interpretatione, serisse: 'A dire poco quella traduzione del Corano è cosa assai inetta nella quale il testo è sconvolto e ridotto a piccolissima mole, onde non dovrà consultarla chi voglia conoscere il Corano'.
Lo stesso parere fu dato dall' Erpenio nella prefazione della sua traduzione della Sura di Giuseppe.
Che i coscienziosi traduttori di testi giudicassero in questo modo l'opera di Roberto di Chester non può sorprendere, ma d'altra parte è certo che il traduttore se si può criticare come tale, non può esserlo, lo ripeto, come abile compilatore di un geniale compendio del Corano.
Poiché, tralasciando ciò ehe vi è nel libro sacro di accessorio e di superfluo, le infinite ripetizioni e le ricorrenti e monotone esortazioni, senza alterarne affatto il carattere né tralasciarne alcuna parte essenziale, Roberto di Chester ce ne ha dato un testo assai più snello ed efficace di quello originale e assai più facilmente e gradevolmente leggibile a noi altri Europei, che non possiamo in una traduzione integrale apprezzarne la bellezza letteraria.
Il metodo usato dai traduttori del Corano per raggiungere l'effetto accennato è indubbiamente singolarissimo, poiché essi tradussero letteralmente qualche versetto, scelto qua e là, raggruppandoli poi assieme in modo da formare delle Sure alle quali hanno conseguentemente dato una numerazione che non corrisponde affatto a quella dell'originale.
I rimaneggiamenti portano, ad esempio, conseguenze come queste: la Sura VI, che è di versetti 165, assume nella traduzione il numero XIV e comprende soli 35, versetti dell' anzidetta Sura, mentre parte dei rimanenti sono collocati in una nuova Sura numerata XV.
L'Azoara (come è denominata la Sura) XXXIV della traduzione contro la quale, come vedremo, si è violentemente scagliato il Cardinale Nicolò da Cusa, incomincia con il versetto 4 della Sura XXIV e termina col versetto 53 della Sura XXXIII.
Malgrado la sua forma abbreviata il Corano di Roberto di Chester contiene, in extenso e molto fedelmente tradotti, tutti i racconti dell'Antico Testamento, i pochi accenni al Cristianesimo che sono nell'originale, tutti i precetti etici, come pure gran parte delle norme giuridiche e sociali.
Notevole rilievo è dato dai traduttori alla severa condanna coranica dell'adulterio, della fornicazione, dell' impudicizia, alle esortazioni alla morigeratezza e alle lodi della castità femminile.
Fra gli altri molti analoghi, si leggono nella traduzione del Corano precetti ed esortazioni come questi: ' Pregate Dio prima del levare del sole e al tramonto e la notte e nelle ore diurne, affinché possiate acquistare il premio, e non vi è permesso di posare gli occhi sulle donne altrui, belle di questo mondo e preziosissime. Poicheé presso a Dio sono riservate a coloro che lo temono e che sperano in Lui cose assai più stupende e migliori'.
Dacché dunque Pietro di Cluny aveva fatto tradurre il Corano, che tutti coloro che se ne occupavano avrebbero potuto leggere, le reiterate affermazioni ch'esso contiene oscenità e turpitudini ed incita alla scostumatezza ed al vizio, non possono più attribuirsi ad ignoranza, bensì appaiono palesemente come un mezzo polemico propagandistico, intorno alla lealtà del quale è superfluo fare commenti.
La sorte della traduzione fu poi singolare; innanzi tutto pare che non abbia avato grande diffusione, forse perché era un documento inopportuno e sgradito, poiché non la si trova mai citata dagli antichi controversisti e sembrerebbe che sia stata ignorata da Dante, al quale avrebbe probabilmente fatto cambiare opinione intorno a Maometto.
D'altra parte sappiamo che il Cardinale Nicolò da Cusa ne trovò e studiò un manoscritto a Basilea nel 1432 ed un altro nel convento dei Domenicani a Costantinopoli nel 1437.


A proposito di questa IGNORANZA OCCIDENTALE sull'ISLAM ancora il Malvezzi ha lasciato scritto nel suo iportante lavoro critico ((A. MALVEZZI, L'Islamismo e la cultura europea, Sansoni, Firenze, 1956, pp. 212 - 213): "Alla controffensiva provocata dall'avanzata dei Turchi verso Occidente non mancò di partecipare, in vario modo, anche la Spagna. Nel 1540 fu pubblicata in Siviglia un'operetta che nella versione italiana porta il titolo di Opera chiamata-Confusione della setta Machumetana e ne è dato come autore Giovanni Andrea "già Moro e Alfacqui (cioè giureconsulto) Hora per la Divina bontà Christiano e Sacerdote". Che razza di giureconsulto musulmano, prima di entrare negli Ordini sacri cristiani, fosse stato quel Giovanni Andrea, non si comprende leggendo tutte le falsità intorno a Maometto ed all' Islam che si trovano nel suo libro, e che lo fanno supporre scritto sotto dettatura di un controversista cristiano ligio alla tradizione.
Lo scopo dell' Opera chiamata Confusione è così indicato nella Introdazione: "raccogliere le fabulose fittioni, truffarie, inganni bestialitadi, pazzie, inconvenientie, impossibilità, bugie e contraditioni quali il perverso e malvagio Machomet per ingannare i semplici populi ha lasciate seminate ne i libri di sua setta e principalmente ne l'Alcoran". La Confusione e perciò talmente simile alle molte analoghe opere che siamo andati ricordando e svolge così puntualmente i soliti concetti, a noi ben noti, che risparmierò al lettore il tedio della sua analisi.
Assai più originale fu un altro contributo spagnolo alla difesa della libertà e civiltà europea, minacciata dal fanatismo e dall'oscurantismo orientale.
Nel primo decennio del XVI secolo, il celebre Cardinale Francesco Ximenes de Cisneros (1436-1517) Arcivescovo di Toledo, Grande Inquisitore di Spagna, fatti ricercare dappertutto codici in lingua araba, "di qualunque argomento e di qualsiasi autore", li fece bruciare sulla piazza di Toledo.
Furono in tal modo distrutti circa cinquemila volumi rilegati in vario modo e adorni di bei lavori in oro ed argento, che non solo piacevano all'occhio, ma destavano ammirazione nell'animo degli spettatori.
Molti chiesero allo Ximenes che ne facesse loro dono ma egli a nessuno volle concederlo, onde fino all'ultimo furono consumati dalle fiamme sul pubblico rogo [come peraltro annota anche GOMEZ DE CASTRO, Vita del Cardinale XIMENES, Madridi, 1659].
L'ultima ingiuria del secolo fu diretta a Maometto dal dotto Arcivescovo di Aix Gilbert Génébrard (1537- 1597) Professore di lingua ebraica al Collège Royal (1563) che, in una orazione funebre, uscì in questa apostrofe: "Perchè mai, o Maometto, non hai tu scritto la tua Legge ed il tuo Alcorano in latino o greco, oppure in ebraico, dato che esse erano le lingue conosciute in tutto 1' Impero Romano, nonché note alle persone colte ?
A ciò Maometto cinicamente risponde, come fanno gli Ugonotti, che il suo Alcorano non è destinato né ai Romani, né ai dotti, dato che essi non si convertirebbero. Ma il vero motivo, anziché questo, è che Maometto era una bestia che non sapeva, né il latino, né il greco, né l'ebraico !
" [come ancora scrive Du MERIL, Poesies populaires latines du Moyen Age, Paris, 1847, P. 374].



Da profondo conoscitore dell'Islam, nel suo celebre volume (A. MALVEZZI, L'Islamismo e la cultura europea, Sansoni, Firenze, 1956) Aldobrandino Malvezzi ( L'Islamismo e la cultura europea, Sansoni, Firenze, 1956) si sofferma con illuministica ironia sulla infinite storpiature che la timorosa civiltà cristiana alimentò sugli Arabi.
Nel contesto delle sue osservazioni, per quanto sempre critiche verso la pigrizia occidentale di qualsiasi apertura verso le diversità culturali e soprattutto ideologiche e religiose, l'autore analizza (dopo una spietata condanna delle opere ecclesiastiche mediamente propagandistiche dell'età intermedia) sui primi seri, per quanto discutibili e da lui discussi, interventi sull'ecumene arabo. Al riguardo di uno fra i primissimi veri indagatori dell'Islam egli scrisse nel suo volume (pp. 202 - 209): " Dall'esame di quelle antologie di assurdità che furono ritenute in Europa autorevoli espressioni del pensiero teologico islamico, torniamo a seguire lo sviluppo della conoscenza dell' Islam nel secolo XVI. Altra prova del rinnovato interesse europeo all' Islam, determinato dagli avvenimenti politici conseguenti alla presa di Costantinopoli dai Turchi, fu la pubblicazione quasi simultanea di due importanti opere. L'una un ampio Trattato di Guglielmo Postello intitolato De Orbis Terrae Concordia, pubblicato nel 1544, l'altra una traduzione del Corano in lingua italiana pubblicata da Andrea Arrivabene nel 1547.
Guglielmo Postello occupa un posto speciale fra i controversisti antislamici per la sua vasta dottrina, per il brillante ingegno, la profonda conoscenza che aveva della lingua araba e del mondo musulmano e per il suo carattere ambiguo, indefinibile e pieno di contradizioni.
Nato nel 1510 nei dintorni di Avranches nel Dipartimento francese della Manica, il Postello in gioventù fu successivamente maestro di scuola e domestico nel Collegio di Sainte Barbe a Parigi, ove imparò da sé il Greco e 1' Ebraico. Successivamente il Postello compì un primo viaggio in Oriente in qualità di addetto all' Ambasciatore di Re Francesco I a Costantinopoli De la Forest, ed in seguito vi ritornò, riportando da ambedue i viaggi molti preziosi manoscritti onde arricchì la Biblioteca reale fra i quali, oltre molti arabi, era quello allora ancora ignoto, del cosiddetto Protovangelo di San Giacomo Minore.
Rientrato stabilmente a Parigi, il Postello ottenne una cattedra di matematiche e lingue orientali al College de France; nel 1543 venne in Italia ove si fece Gesuita, ma tosto fu espulso dalla Compagnia a cagione delle sue stravaganze. A Venezia fu processato dalla Sacra Inquisizione, ma poi rilasciato come pazzoide. Morì in un convento in Francia nel 1581.
Come molti stravaganti, il Postello, che denominava se stesso ' cosmopolita' era uomo geniale, dotato di forte personalità e indipendenza di pensiero, qualità non comune fra i suoi contemporanei, molti dei quali erano assuefatti a pensare tutti allo stesso modo col cervello altrui, specie intorno a taluni argomenti.
Il Postello fu uno studioso di cultura enciclopedica, particolarmente dotto nelle discipline filologiche; oltre al latino ed al greco, conosceva le lingue ebraica, araba, siriaca, caldaica, pubblicò una grammatica araba ed il primo Trattato di Linguistica comparata.
A queste opere lo scrittore ne aggiunse parecchie altre, nelle quali dà prova di una estesa e profonda conoscenza dell' Islam e che, per tale motivo, particolarmente ci interessano.
L'opera capitale del Postello, che probabilmente ben pochi si sono affaticati di leggere da gran tempo, intitolata De Orbis Terrae Concordia, è una di quelle vaste sintesi di tutto lo scibile nelle quali sono collegati fatti disparati, indipendenti gli uni dagli altri, affinché concorrano tutti assieme a dimostrare una tesi preconcetta.
Nella Concordia si vuole dimostrare che le diverse religioni e civiltà hanno molte cose in comune, sicché basterebbe appianare le differenze fra di esse per realizzare la tanto desiderata unità spirituale e politica della specie umana.
A dimostrazione di tale assunto il Postello mette a contributo le sue enciclopediche conoscenze di preistoria, storia antica e moderna di tutti i popoli della terra, di sociologia, di storia delle religioni e del Diritto e di quanto altro mai. Tuttavia i concetti generali che il Postello deduce dalla massa dei fatti, in gran parte esatti, che espone alla rinfusa, si rivelano ancora tutti informati dal primitivo semplicismo dell'Antico Testamento e inoltre dimostrano la totale ignoranza delle molte leggi alle quali soggiace l'umanità e che sono del tutto indipendenti dalla volontà umana e ad essa superiori. In alcune parti della Concordia si trovano parecchi concetti che hanno grande analogia con quelli svolti dal Rousseau nel suo Contrat Social.
La parte più notevole della Concordia, scevra di divagazioni storico-giuridiche e di ragionamenti utopistici, è quella che riguarda l'Islam che il Postello sottopone a vagliatura, come aveva fatto Nicolò da Cusa, ma non come questi all'unico scopo di rilevarne le " turpitudini", bensì per ricercarvi il bene ed il male. Il fare ciò collimava con lo scopo generale dell' opera, che dunque era quello di segnalare le concordanze fra il Cristianesimo e 1' Islam, non che le loro differenze eventualmente sanabili. Tuttavia , in altra parte del suo libro, il Postel1o nota che "di gran lunga più facilmente passano alla vera fede i popoli di Cuba e dell' America che i Giudei ed i Maomettani, tant' è vero che oramai pressoché tutta la Nuova Spagna ha riconosciuto la verità".
Il metodo usato dal Postello nell'esame dell' Islam e lo scopo al quale tendeva tale studio dimostrano da parte sua un proposito d' imparzialità scientifica, che infatti egli afferma esplicitamente nella Introduzione della Concordia scrivendo: "Quale scopo avrebbe i1 discutere ed il sostenere tenacemente le proprie opinioni poggiandosi solo sulla autorità, anziché cercando di sceverare il vero dal falso, ponendosi quale arbitro fra i litiganti ? ". Oggidì non possiamo che applaudire queste parole, ma quando furono scritte sapevano d'eresia o per lo meno erano giudicate riprovevoli. A quei tempi e fra i molti fanatici, 1' imparzialità era considerata una concessione all'avversario, il quale, per definizione, aveva sempre e totalmente torto. Onde il Postello fu chiamato " monstre execrable" dal suo compatriota e contemporaneo il dotto umanista Henri Estienne (1528 - 1598), non solo per aver pubblicato il Protovangelo di San Giacomo Minore ch'egli riteneva sacrilega falsificazione, mentre fu poi riconosciuto come uno dei più notevoli Apocrifi, ma perché aveva osato fare uno studio comparativo fra il Cristianesimo e 1' Islam 'il quale' - scrisse 1' Estienne -'è, non solo pieno di blasfemi, ma altresì ripugnante alla onestà naturale, persino dei pagani".
Nella Concordia, contrariamente ai suoi predecessori, il Postello traduce molto fedelmente ed elegantemente parecchie Sure e molti versetti staccati del Corano, senza alterarne il testo, come .abbiamo visto che talvolta usava fare Nicolò da Cusa per renderne più efficace la confutazione; poi si sbizzarrisce nei commenti. Le conseguenze di tale metodo sono davvero curiose, poiché, se si leggono solamente le esatte traduzioni del testo del Corano se ne ricava un'esatta conoscenza della dottrina dell' Islam, laddove, leggendone solamente i commenti, se ne ricava una notizia ed un' impressione diametralmente opposta. Insomma, nella Concordia, si nota un continuo scappare fuori della verità, subito repressa e corretta mercé qualche commento bizzarro o fallace. Leggendo quel libro pare di assistere ad una lotta spirituale fra lo studioso erudito ed imparziale e l'uomo di parte, costretto dall'ossequio alla tradizione e dall'obbligo morale di non venire meno al conformismo, a farsi propagandista dei preconcetti altrui e di notizie volutamente tendenziose.
Oltre a quello che si apprende dalla lettura del testo autentico di molta parte del Corano che si trova nella Concordia, si ricavano da quell' opera parecchie, importanti ed esatte notizie intorno all' Islam, date dall'autore. Ad esempio, vi è indicato, per la prima volta, per quanto risulta, il vero carattere e la vera funzione del Cadi, vi si dice che il matrimonio ed il divorzio dei Musulmani si compiono mercé un atto giudiziario e non mercé un rito religioso; vi sono indicati con i loro nomi esatti i quattro Riti giuridici, vi è esplicitamente detto che 1' Islam non ha sacerdozio.
Infine ne risulta chiarissimo il concetto di Maometto legislatore, totalmente estraneo a tutti quanti gli altri scrittori europei. Perciò l'opera del Postello è importantissima in quanto ci consente di renderci conto di quello che ai suoi tempi si sapeva di vero in Europa intorno all' Islam o era possibile imparare, mostrandoci in tal modo quello che col silenzio si fingeva d' ignorare, oppure si alterava deliberatamente, credendo di giovare così alla esaltazione del Cristianesimo, che non ha certo bisogno d'esserlo mercé la divulgazione di menzogne intorno alle altre fedi.
Il metodo del Postello del dire e non dire aveva peraltro certi inevitabili inconvenienti, fra i quali quello di farlo cadere in una infinità di contraddizioni, che sono fra le cose più curiose che si notano nell'opera sua.
Eccone alcuni esempi. Nella biografia di Maometto il Postello inserisce la notizia, che non è data da alcun altro scrittore, che egli era il dodicesimo figlio di Abd el Muttalib e che, data l'esiguità della eredità paterna, egli pensò bene di provvedere ai casi suoi uccidendo i suoi fratelli 'ad eccezione di due che dal culto degli idoli si erano convertiti alle sue stolte ciance. Tant'era il suo amore per il prossimo, nonché per la famiglia'.
In questa balorda notizia è da rilevarsi una cosa sola, cioè che essa porge nuovo esempio della frequentissima attitudine dei controversisti rispetto all' idolatria. Nessuno di costoro ascrive mai a merito a Maometto l' aver fatto abbandonare 1' idolatria agli Arabi, e a tanti altri popoli, sostituendola col monoteismo. A1 contrario, i controversisti si esprimono sempre in proposito in modo da lasciare implicitamente intendere d'essere assai più indulgenti rispetto all' idolatria che verso il monoteismo. Di ciò, del resto, s'intende la ragione, la quale è che il monoteismo islamico esclude la divinità di Cristo.
Gl' intransigenti mostravano maggiore indulgenza per 1' idolatria che per qualsiasi altra forma di religione, fosse pur spirituale, ma che non era trinitaria.
Dopo aver accusato Maometto di nove fratricidi per motivo d' interesse, lo stesso Postello, nella medesima sua opera, fa di Maometto il seguente iperbolico elogio: ' Non voglio qui ricordare Licurgo, Solone, Caronda, Zamolsi e gli altri autori o riformatori di leggi nell' interesse del popolo e per la comune gloria. Tutti quanti costoro si assicurano la stabilità e l'autorità affermando che autori delle leggi erano i numi o gli oracoli. Pertanto, in primo luogo, costoro furono costretti ad appoggiarsi religiosamente agli Dei ed ai Genii, dei quali si affermavano familiari. In verità solo l'Arabo Maometto superò facilmente gli artifici di costoro e tutti quanti sopravanzò con 1' ingegno'.
Altro caratteristico esempio delle contraddizioni del Postello si trova nell' ingegnoso modo nel quale egli tratta la questione dei miracoli di Maometto, dandone al tempo stesso due opposte versioni.
Il Postello, non potendo negare che Maometto aveva dichiarato di non essere stato favorito della facoltà di operare miracoli e d'altra parte non volendo privare i controversisti dell'efficace argomento dei suoi pretesi ridicolissimi miracoli, che si prestavano così bene alla satira, se la cavò a questo modo.
Cominciò col dire che Maometto aveva affermato di non possedere la facoltà di operare miracoli, e inoltre che non voleva farne per timore che essi lo facessero adorare, mentreché ciò spetta a Dio solo. Ma poi, vedendo che né le promesse di 'tutte le voluttà corporali', né le esortazioni erano sufficienti a procurargli seguaci, Maometto si decise di attribuire a se stesso miracoli, che il Postello lascia al lettore di giudicare quanto fossero ridicoli.
In tal modo anche il Postello, nonostante la sua grande erudizione, cade nelle solite puerilità.
La descrizione del singolare modo del Postello di scrivere intorno all' Islam non sarebbe certo completa se non si mostrasse come egli ha trattato i due argomenti intorno ai quali tutti quanti i controversisti si sono maggiormente esercitati: la poligamia ed il divieto del vino.
Anche a proposito di tali questioni il Postello dà prova della sua grande originalità.
Tutti quanti i precedenti scrittori avevano sempre considerato e deplorato la poligamia islamica sotto il suo aspetto morale ed avevano aspramente criticato il divieto del vino, senza mai spiegarne chiaramente il motivo; il Postello invece critica la poligamia per le sue conseguenze sociali ed il divieto del vino per quelle economiche.
'Siccome il vino non non confaceva a Maometto' -scrive il Postello - 'affinché gli altri non si comportassero in modo diverso da lui, vietò l'uso di quell'eccellentissimo dono della natura, che, sebbene consumi gl' ingordi ed i ghiottoni, nondimeno è la miglior cosa che sia mai stata creata per risollevare gli animi afflitti ed i corpi stanchi.... A quale scopo Dio ha voluto che esistesse nella natura la grandissima bontà del vino? Non forse perché ne possiamo moderatamente usare lodando il suo nome? Infatti, se mancasse il vino, verrebbe meno, tanto per il pubblico che per i singoli privati, una eccellentissima parte della natura. La proibizione del vino è inoltre dannosissima allo Stato, tanto rispetto agli interessi dei privati quanto per ciò che concerne il Fisco'.
A proposito poi dei fiumi di vino che, secondo il Corano, scorrono in Paradiso, il Postello argutamente aggiunge: 'Sono stupito che Dio non tema maggiormente l'ubriachezza in Paradiso che in questo mondo '.
I commenti del Postello alla autorizzazione islamica della poligamia sono ancora più curiosi di quelli relativi al divieto del vino; in proposito egli, contrariamente all'uso comune, non manifesta orrore, non inveisce, non profonde volgari ingiurie, bensì si limita ad enumerare e descrivere gli inconvenienti da essa arrecati, tanto ai singoli che al pubblico, aggiungendo infine una osservazione tale da destare più che meraviglia vero stupore.
Secondo il suo metodo, il Postello traduce esattamente i versetti del Corano che autorizzano di prendere una, due, tre, oppure quattro mogli, poi li commenta a questo modo: ' Quanto questa disposizione legislativa sia iniqua e nociva alla pace pubblica lo lascio giudicare al Greci ed al Romani che, pur con somma libertà e senza alcun timore di Dio, concedevano a se stessi ogni voluttà. Qual pace può mai esistere in quella casa ove vivono quattro o cinque donne con relativi bambini, simili ad un gregge ? Quando è così difficile per un uomo l'accontentare una sola donna, come potrebbe egli soddisfare tante? Né questo è un male solamente privato in quanto esso obbliga dappertutto la magistratura a non occuparsi d'altro che delle liti delle donne, dei quotidiani divorzi e delle quotidiane nozze, del ricupero delle doti, delle aggiunte ad esse, delle ingiurie maritali, di tutte le miserie dei bambini, insomma, per dirla in breve, non sarebbe stato possibile escogitare maggior causa di turbolenza e d' infelicità. Quanto mai era migliore l'antica consuetudine degli Arabi che ad una sorella concedeva quali mariti dodici fratelli (era lecito a costoro che non avevano leggi, non tenere conto della parentela) quanta era ovunque maggiore la quiete e la felicità della gente, sia in casa che fuori".
Credo che solo il cieco odio dell' Islam avrebbe potuto suggerire ad un Cristiano l'elogio della poliandria incestuosa !
A conclusione dell'argomento femminile, rileverò una amena svista del Postello che, nella descrizione del Paradiso islamico, dice che, secondo il Corano, gli eletti vi troveranno fanciulle 'dai grandi occhi azzurri' (Foeminae pulcherrimae oculis grandibus et caeruleis) mentreché il Corano dice espressamente (LV, 72) che quelle fanciulle hanno 'grandissimi occhi molto neri'.
Infatti, occhi azzurri Maometto probabilmente non ne ha mai veduti.
Il Postello termina la parte della Concordia che riguarda 1' Islam trattando dell'opera missionaria e con concetti analoghi a quelli che erano stati esposti, due secoli prima, da Raimondo Lullo, affermando cioè come lui la necessità che i missionari imparassero la lingua di coloro con i quali dovevano ragionare. 'Una sola lingua è necessaria per poter parlare con i nemici di Cristo' -scrive il Postello - 'la quale apre la strada a chi voglia percorrere pressoché tutto il mondo, poiché, da quando esiste memoria di storia letteraria, nessuna altra fu mai diffusa in tanta parte del mondo. Quelle perniciose dottrine sono infatti diffuse nelle due Mauritanie, in Numidia, in Africa, Egitto, Etiopia, Arabia, Siria, Asia minore, Armenia, Mesopotamia, Assiria, Persia, Partia, Aria, Grodosia e nella maggior parte dell' India. La Bolla di Papa Clemente aveva ordinato che nelle principali Università vi fossero due insegnanti di Arabo, affinché ogni secolo avesse uomini idonei a fare cambiare opinione ai Maomettani, ma tale ordine non è ancora stato eseguito".




Il celebre islamologo Aldobrandino Malvezzi ( L'Islamismo e la cultura europea, Sansoni, Firenze, 1956, pp.136 - 138) affronta, con il sostegno di una vasta bibliografia, il problema del rapporto conflittuale e di sostanziale incomprensione tra Islam e Cristianità anche in merito a eventi che come l'IGIENE vengono artatamente ricondotti ad una matrice religiosa anzichè socio-tecnologica: "Come non può sorprendere, una delle cose che in Levante ha più attratto l'attenzione e destata la curiosità dei viaggiatori antichi furono i bagni pubblici. Quei bagni, non solo interessavano gli Europei per la loro novità, ma li imbarazzavano grandemente onde si scervellavano per comprenderne lo scopo. Perché mai i Musulmani fanno il bagno? A tale quesito che ponevano a se stessi, i viaggiatori venuti dall' Occidente non sapevano rispon­dere, perché non supponevano menomamente che i Musulmani potessero fare il bagno per lavarsi. Data la mentalità dei viaggia­tori, era da supporsi che essi avessero inveito con particolare violenza contro l'uso dei bagni, che i Musulmani avevano imi­tato dai Bizantini, ma ciò non avvenne. Da una parte gli scrittori che censuravano i Musulmani senza averli mai veduti probabil­mente nulla seppero dei loro bagni, o non abbastanza per poter­sene fare un' idea, dall'altra i viaggiatori furono costretti a con­statare che quei bagni, sebbene frequentati tanto da uomini che da donne, non davano occasione ad alcuno scandalo. Questo fatto contraddiceva quanto quegli stessi viaggiatori andavano ripetendo circa alla scostumatezza dei Musulmani, ma, né questa né alcun'altra prova poteva in alcun modo modificare le idee così fermamente radicate nei loro cervelli.
Tutti i viaggiatori notano concordemente che nei bagni pub­blici dei Musulmani gli uomini e le donne non accedono promi­scuamente, bensì in giorni ed ore diverse. In quanto poi alle donne un viaggiatore osserva che ‘tutte quante amano i bagni e li usano frequentemente. Le mogli e le concubine dei ricchi hanno bagni privati, le altre si recano a quelli pubblici due volte, o per lo meno una volta la settimana; per tale ragione hanno il corpo mondissimo e sono di gran lunga piu pulite delle donne occidentali e non sono fetide, né puzzolenti (nec putent aut foetent)’.
La spiegazione dello scopo dei bagni pubblici e della folla che li frequentava è data, con molta verosimiglianza, dal viaggiatore Giovanni Cotovicus Ultraiectinus il quale specifica che le quoti­diane abluzioni, ovvero i lavaggi delle mani, delle braccia, del volto, servono ai Musulmani per ottenere la remissione dei soli peccati veniali, mentreché, per ottenere il perdono dei peccati mortali, quali ‘ l'omicidio, il furto, lo stupro, l'adulterio e simili, essi credono stoltamente che occorra lavare tutto quanto il corpo. Per tale motivo, in tutte le città ed in ogni borgo, vi sono bagni pubblici, aperti giorno e notte agli uomini e alle donne’.
Lo scrittore non aggiunge che i bagni pubblici nei paesi musulmani sono gestiti dalla Polizia, per facilitare la cattura dei delinquenti, ma è sottinteso.
La sorprendente rivelazione del Cotovico ci porta a considerare un'altra questione relativa all' Islam della quale si sono occupati con grande interesse i controversisti di tutti i secoli, di tutti i paesi e di tutte le levature intellettuali, come se si trattasse di un arduo problema da risolvere.
Passiamo cioè dai bagni alle quotidiane ablazioni rituali dei Musulmani, le quali, se avevano uno scopo di pulizia, erano criticate dai controversisti come manifestazione della ‘mollezza’ e ‘ sensualità’ propria all' Islam, se invece avevano carattere religioso costituivano, secondo loro, nuova prova della madornale ignoranza di Maometto dei Sacramenti e riti del Cristianesimo.
I critici dell' Islam più rigorosi affermavano che il lavarsi non è cosa commendevole ed ascrivevano a merito, vogliamo credere considerandolo una forma di penitenza, il non lavarsi mai.
Siccome di moltissime opinioni dei religiosi dei primi secoli del Cristianesimo, come di quelli del Medio Evo, bisogna andare a ricercare l'origine nell'Antico Testamento che in tutto e per tutto era la loro guida, assai più che il Vangelo, è facile trovare l'origine della autoinibizione delle più ovvie e civili abitudini di pulizia personale e d' igiene nell'esempio di Giobbe sul letamaio.
Questa particolare forma di penitenza era praticata da tempi molto antichi e sorge il dubbio che essa abbia anche potuto essere una reazione del proletariato cristiano contro la raffinatezza della classe superiore pagana.
La cura della persona, propria alla classe sociale elevata, può aver finito per identificarsi con la sua religione e per essere considerata sua caratteristica, onde la tendenza a censurarla e a non praticarla, da parte dei seguaci di un'altra religione e degli appartenenti alla classe popolare antagonista.
In un regolamento disciplinare redatto dall'Abate Besa nella seconda metà del V secolo per i monaci del convento di Atripe in Egitto, si legge: ‘Vi sono alcuni monaci che si lavano con esagerata cura le proprie vesti e che pure si lavano troppo spesso il volto ed i piedi; costoro sono maledetti dinnanzi a Dio e agli uomini’.
Il Vescovo Palladio narra che Isidoro, Vescovo di Hermopolis Parva (Damanhur), morì a 85 anni senza avere mai indossato una camicia di tela, senza aver mai mangiato carne e senza csscrsi mai lavato.
Lo stesso autore racconta che, mentre viaggiava da Gerusalemme in Egitto, in compagnia della santa donna Melania maggiore, Patrizia romana, il nobil uomo Rufino di Aquileia, sua sorella Silvana ed il giovane Diacono Giovino, questi, un giorno, trovata una pozza d'acqua lungo 1' infuocato cammino, vi lavò i propri piedi e si rinfrescò per trovare sollievo dalla grande arsura. Ma di ciò fu rimproverato da Melania che, fra l'altro, gli disse: ‘Non comprendi il danno che può venirti da queste tue lavande ? Credimi, figliuolo, poiché io sono oramai una donna di sessant'anni; dacché ho indossato l'abito monacale l'acqua non ha mai toccato del mio corpo altro che la punta delle dita e non mi sono mai lavata, né i piedi, né la faccia, né alcuna altra parte del corpo. E sebbene abbia fatto parecchie malattie, e che mi fosse stato ordinato dai medici, pure non ho mai voluto contrarre l' abitudine di bagnare con l' acqua alcuna parte di me stessa’.
Non dobbiamo tuttavia credere che questi estremi fossero generali, poiché, ispirandosi a sensi, non solo più civili, ma anche religiosamente più elevati, certe comunità di Cristiani d' Oriente praticavano le medesime ablazioni ordinate al Musulmani e intese allo stesso scopo, che i critici europei dell' Islam erano incapaci di capire, quello cioè di dimostrare rispetto a Dio, nell'atto di rivolgergli la preghiera.
Già nel Vangelo di San Matteo si trova un precetto evidentemente inteso a tal fine: VI, I7: ‘ Ma tu quando digiuni profumati la testa e lavati la faccia. 18. Affinché il tuo digiuno sia noto, non agli uomini, ma al Padre tuo celeste’.
San Gregorio, alla sua volta, in palese applicazione del precetto evangelico, scrive: ‘ Destati dal sonno, bisogna anzitutto purificarsi e dopo di ciò si potrà intrattenersi con colui che è purissimo?.
Anche taluni Padri della Chiesa raccomandano al fedele di lavarsi per reverenza, prima di mettersi al cospetto di Dio.
Per tali motivi gli antichi Cristiani d' Oriente si lavavano ad una fontana posta dinanzi alla porta della loro chiesa, prima d'entrarvi per assistere alle funzioni sacre .
Tutte queste cose, come tante altre, erano apparentemente ignote ai controversisti antislamici che perciò rimproverarono ai Musulmani le loro abluzioni rituali con l'usata violenza ed acrimonia.
Escluso che il precetto islamico potesse avere uno scopo igienico e di civile decenza, oppure quello medesimo delle abluzioni dei Cristiani di dimostrare rispetto a Dio, i controversisti non seppero spiegarselo che come una grottesca e persino sacrilega parodia del Battesimo.
La questione della ridicola contraffazione del Battesimo da parte dei Musulmani è trattata in special modo nell'ampia serie di scritti antislamici informati da spirito bonario e intitolati Degli errori della setta maomettana, o in modo analogo.
In questo genere di opere, più che confutazioni dell' Islam, si trovano caritatevoli ammonimenti ai Musulmani circa gli errori che commettono nella pratica della religione cristiana, così formulati: ‘Voialtri Musulmani avete creduto che i precetti del Cristianesimo fossero questi e quelli, ma vi siete ingannati, perché invece sono questi altri. Se Maometto non era ben sicuro di quello che insegnava, avrebbe dovuto informarsene meglio. L' ignoranza è sempre presuntuosa, perciò non può essere invocata come scusa. Maometto, ad esempio, ha istituito quale giorno festivo il venerdì, ma badate che si è sbagliato, poiché il giorno festivo stabilito dai Santi Padri ed osservato dalla Chiesa é la domenica, non il venerdì'.
In modo analogo i controversisti erano tutti d'accordo nell'affermare che i Musulmani compivano cosa stoltissima autobattezzandosi tutti i giorni, anzi più volte al giorno, dato che il Cristiano vien battezzato una sola volta in vita. Aggiungasi che il Sacramento non era conferito dai Musulmani secondo le norme rituali. In proposito abbiamo la seguente spiegazione di Padre Angelo Pientini:’E’ ben vano veramente cotal culto in quel modo che l'usate voi altri Maomettani nelle vostre abluzioni, sì perché voi non osservate quei debiti riti che secondo le apostoliche tradizioni si converrebbe, ma neppure quella debita forma che secondo 1' istituzione di Cristo si debbe osservare battezzando con l' invocazione della Santissima Trinità, Padre, Figlinolo, Spirito Santo; sì ancora perché, non senza impietà grandissima, lo iterate tante volte. Et può ragionevolmente parere che voi ve ne serviate più per una certa lavanda del corpo, che per vera e pia mondatione dell'anima. Appresso vi dico che sebbene io non biasimo lavarsi le mani e il viso, massimamente dopo il sonno, avanti che si faccino le orationi a fine che, essendo più desti gli spiriti, siano anco più vive, più ferventi e più spiritose le orationi, non di meno Iddio fa poca stima della mondezza esteriore. Et un segno ne sia che amava più Giobbe quando era pieno di marcia e di fetore, che Naaman Siro dopo che si fu lavato sette volte nel Giordano e che divenne la carne sua pura e monda come la carne d'un fanciùllo. Amava più Jacopo Apostolo che non si lavava mai il capo, né entrava mai in bagno, che non amava Nicodemo, di cui si può credere che osservasse tutte le giudaiche lavande ’.
Esattamente cent'anni dopo, Padre Tyrso Gonzales di Santalla, Professore Emerito di Sacra Teologia, ripetè, a proposito delle abluzioni dei Musulmani, i medesimi argomenti del Pientini, aggiungendovi solo che i Musulmani avevano certo imitato quell'uso ‘inutile e superstizioso’ dagli Ebrei i quali, immergendosi tutti quanti nell'acqua, affinche non restasse alcuna immondezza sul loro corpo, perdevano il tempo che avrebbero potuto impiegare più utilmente.
Più che altro in tutto questo colpisce e sorprende l'antitesi che pare esistesse nella mente dei controversisti antislamici fra la pulizia corporale e la santità.
Costoro sembrano pensare che chi si lava il corpo deve avere l'anima sporca e che, per aver l'anima pulita, occorre trascurare la pulizia del corpo. Era dunque inconcepibile che l'uomo potesse lavarsi tanto per di dentro che per di fuori ?
Tale era invece, per l'appunto, il pensiero di Maometto il quale, quasi in risposta alle ipotesi, supposizioni, ed elocubrazioni dei controversisti intorno alla supposta efficacia spirituale della pulizia da lui ingiunta ai suoi seguaci, ha esplicitamente affermato che i peccati si lavano con la preghiera e non già con l'acqua, come i panni sporchi.
Lo attesta la seguente tradizione, ritenuta autentica dagli islamologi: Maometto ha detto: ‘ Colui al quale un fiume scorresse dinnanzi alla porta di casa ci si butterebbe dentro cinque volte al giorno, gli rimarrebbe allora forse alcuna sporcizia sul corpo ? No. Lo stesso avviene delle cinque preghiere quotidiane, mercé le quali Allah lava i peccati ’.

Altrettanto quanto dallo smoderato uso dell' acqua da parte dei Musulmani, i controversisti si dimostrarono conturbati dalla loro astinenza dal vino.
Il motivo del divieto islamico di bere vino è dichiarato nel modo più esplicito nel Corano, nei seguenti termini (V, 92, 93): ‘ Oh credenti ! In verità il vino, il maisa (giuoco d'azzardo), le statue e le divinazioni (con le frecce) sono abominevoli opere di Satana, astenetevene e vivrete felici. Satana non cerca altro che suscitare discordia ed odio fra voi a mezzo del vino distogliendovi dal pensiero di Dio e dalla preghiera.
Come si vede, il divieto del vino, oltreché dalla esplicita sua motivazione, è spiegato dalla sua associazione a quello del giuoco d'azzardo, onde appare opportuno e giustificato [ questa esatta affermazione del Malvezzi ( L'Islamismo e la cultura europea, Sansoni, Firenze, 1956) è una costante islamica trasmessa dalla cultura araba a quella turca, fatto di cui ci ragguaglia, tra l'altro, un testimone oculare genovese, il cinquecentesco Giannantonio Menavino in un capitolo del suo libro sui costumi turcheschi ]
In una società come quella musulmana nella quale i cittadini sono tenuti ad interrompere cinque volte al giorno le loro attività per recitare, ovunque si trovino, le preghiere, è evidente che il turbamento mentale provocato dall'ubriachezza ed anche solo la distrazione causata dal bere e giuocare all'osteria, non fosse tollerabile.
Dato dunque che al bere vino o al non berlo 1' Islam non attribuiva alcuno scopo propriamente religioso ma solo disciplinare, parrebbe che i controversisti avessero potuto prendere atto dell' obbligo fatto al Musulmani di astenersene, non occupandosene altrimenti.
Ma tale attitudine sarebbe stata troppo ovvia e logica da potere essere adottata, come vi faceva altresì ostacolo, tanto il partito preso di biasimare tutti i precetti dell' Islam, qualsiasi fossero quanto un'altra importante circostanza.
Il vino è assai spesso ricordato, tanto nell'Antico che nel Nuovo Testamento onde, per se stesso, il divieto di berlo si prestava ad essere interpretato dai critici come un'altra maliziosa discordanza fra il Cristianesimo e 1' Islam.
In proposito si può poi anche osservare che la violenta e così futile riprovazione del divieto islamico del vino da parte dei controversisti è nuova prova della preponderante influenza esercitata su di essi dalla cultura e mentalità ebraica.
Tale influenza determinata dal continuo studio dell' Antico Testamento, si manifesta, oltre che in tanti altri modi, nell'attribuire grande importanza alle norme dietetiche, come appunto è proprio al Giudaismo e ad altre religioni orientali.
Il Cristianesimo invece, come tante altre cose, supera anche le antiche inibizioni dietetiche, onde quei controversisti che, pur per criticare 1' Islam seguitano ad ascrivere loro cospicuo valore religioso, dimostrano di non essere compenetrati dalla larga, alta e veramente spirituale mentalità Cristiana che non vi annette importanza alcuna.
Meglio ispirato a quella mentalità si dimostra essere stato San Pacomio che nell'articolo I° della sua Regola monastica prescrive: ‘permettete ad ognuno di mangiare e bere ciò che gli aggrada ed assegnate il lavoro a seconda della forza di coloro che mangiano e bevono, ma non dovrà essere impedito loro, né di mangiare, né di digiunare’.
L'antitesi fra il Giudaismo ed il Cristianesimo per quanto riguarda il valore religioso del regime dietetico è assai bene indicato in una lettera indirizzata nell'anno 420 dal Vescovo Palladio al Prefetto Lausus: ‘ E’ meglio bere vino moderatamente - scrive il Palladio - che acqua smoderatamente; e a me sembra che coloro che bevono vino moderatamente siano persone sante, mentre coloro che con vanagloria bevono acqua in modo eccessivo siano persone depravate e amanti dei piaceri. Perciò non lodare o hiasimare il mangiare o il non mangiare, né il bere o non bere vino, bensì loda o biasima coloro che usano bene o male del cibo e della bevanda. Giuseppe negli ultimi tempi, bevette vino assieme agli Egiziani ed il suo intelletto non ne soffrì in alcun modo, perché egli ascolto gli avvertimenti del proprio giudizio, laddove Pitagora, Diogene e Platone e, come loro anche i Manichei, ed altre sette di filosofi, così non fecero onde giunsero ad un tal segno di vanagloria e di licenza da dimenticare persino il Dio dell' Universo adorando in sua vece statue inanimate’. D'altra parte l'Apostolo Pietro e coloro che stavano con lui si accostarono al vino e ne bevettero, al qual proposito gli Ebrei mossero rimprovero a Nostro Signore Salvatore dell'umanità e loro Maestro, e si lamentarono di lui dicendo: Perché i tuoi discepoli non digiunano come Giovanni ?’ né si lamentarono solamente a proposito del pane e dell'acqua, ma anche del vino e dei cibi prelibati, poiché é evidente che non volevano fare altro che criticare i discepoli per ogni cosa. Percio il Salvatore rispose dicendo: ‘ Giovanni non si mise sulla via retta col cibo e la bevanda ! ’. Infatti, in verità vera, né il mangiare, né l'astenersene ha importanza alcuna, bensì quello che conta è la fede e l'amore perfezionato dalle opere, perché quando un uomo conforma i suoi atti alla fede, il suo mangiare e bere non può dare motivo a censura religiosa ’.
Un curioso esempio della frequente associazione del vino con circostanze, se non propriamente religiose, per lo meno attinenti alla storia di personaggi sacri, è dato dalla seguente storiella, ispirata al più schietto antropomorfismo, che si trova nel Trattato zoroastriano intitolato Sikand Gumanik Vigar (XIV, 40): ‘Dio vedendo il suo vecchio amico Abramo afflitto, venne in persona a chiederne notizie e, sedutosi sul suo solito cuscino, gli rivolse il saluto. Allora Abramo chiamò in disparte Isacco, che era il suo figlinolo prediletto, e gli disse sottovoce: Va' in Paradiso a prendere quel vino leggero e puro. Isacco andò e riportò il vino. Allora Abramo rivolse a Dio questa preghiera: Gusta un po' di vino in casa mia. Ma Dio rispose: Non voglio assaggiarlo, perché non viene dal Paradiso e non è puro ! . Abramo allora assicurò Dio che invece quel vino veniva proprio dal Paradiso che era stato Isacco ad andare a prenderlo. In seguito a ciò, Dio, per la fiducia che aveva in Isacco ed in seguito alla assicurazione di Abramo, gustò il vino una volta ’.
L'argomento principale adoperato dai controversisti per biasimare il divieto islamico del vino era quello che esso riguardava una bevanda, non solo religiosamente lecita, come dimostra l'Antico Testamento, ma altresì lodata nei Salmi (CIII, 15) e favorevolmente ricordata nei Vangeli; essi poi, secondo il loro consueto metodo, ricercarono la origine storica del divieto stesso, supponendo in modo pregiudiziale che Maometto l'avesse copiato da uno dei numerosi ispiratori che gli erano attribuiti.
I1 Cardinale Bellarmino assicura che Maometto copiò il divieto dai Manichei.
Martino Vivaldo nel commento al Zelus Christi di Don Pedro Cevelleria, dice che lo copiò dai Taciani.
Il gia ricordato Baudier dice che lo copiò dai Severiani.
Johan Schwartz nel suo De Muhammedis furto sententiarum Scripturae asserisce che il divieto fu copiato dagli Gnostici, senza tuttavia specificare da quali di essi.
Infine Padre Lodovico Maracci scrive che fortemente sospetta che Maometto proibendo l'uso del vino abbia derivato tale errore (sic) sia dagli eretici acquatici che, come riferisce Sant'Agostino aborrivano dal vino, sia dai Cataristi che, sempre secondo Sant'Agostino, mangiavano l'uva come i Musulmani, ma detestavano il vino dicendo che esso era opera del Diavolo, oppure dagli Eucratisti che, ancora secondo Sant’Agostino, dicevano che, per nessuna ragione si dovesse bere vino .
E’ difficile poter trovare altro esempio d'ugual spreco d'erudizione.
Gli autori delle opere controversiali, per così dire didascaliche, cercando caritatevolmente di emendare i Musulmani, dicevano loro che privandosi del vino si sottoponevano ad una penitenza inutile. I1 pensiero comune a tutti costoro e espresso in modo molto caratteristico, nei seguenti termini, dal Pientini che, essendo Toscano, s' intendeva di vino: ‘Bere vino con quella modestia che si conviene non è cosa punto biasimevole havendolo Dio dato all'uomo acciò ne bevesse. Onde nelle sacre e divine Scritture è lodato molte volte. Vinum in incunditate creatum est. Vinum laetificat cor hominis. Date vinum his qui amaro sunt animo. Sapete che furono amici di Dio Noè, Abramo, Isac, Iacob, Giuseppe, David e altri innumerabili Santi e nondimeno beveano il vino. Sapete che Cristo fu tanto sopra tutti gli altri Santi e pure ne bevea e beveanne gli Apostoli, anzi trovandosi nelle nozze, a fine che i convitati ne potessero bere quanto volevano, fece d'acqua vino prezioso. A che fine lo proibisce dunque il vostro Macometto ? Forse perche nuoce ? Per la ragion medesima dovea proibire l'acqua che guasta lo stomaco. Onde San Paolo, quel grande Apostolo, scusse a Timoteo suo discepolo: Modico vino utere propter stomachum.’.
Questi argomenti del Pientini furono esattamente ripetuti da moltissimi altri, fra i quali il celebre Grozio che nel solenne Trattato De veritate religionis christianae censura anch'egli il divieto del vino, come se fosse cosa molto importante.
Il divieto islamico del vino, che dunque conturbava tanto gli Europei, fu poi a lungo argomento di svariate storielle intese a spiegarne la misteriosa causa, ma fra queste ebbe maggior successo la seguente, probabilmente perché torna tutta a scapito di Maometto, rendendone ancor più spregevole la figura morale.
Si racconta dunque che i seguaci di Maometto, insofferenti dell' ascendente che aveva preso su di lui il monaco cristiano Bahira, ovvero Sergio, suo maestro e suggeritore, decisero di sopprimerlo e, a tal fine, immaginarono un perfido stratagemma. Una sera ubriacarono Maometto, poi, quando egli fu fuori di sé, uccisero Bahira con la sua spada. Quando al mattino Maometto, andò a dare il buon giorno (sic) a Bahira, lo trovò morto, onde, inorridito, si mise a ricercare gli assassini. Questi allora dissero a Maometto ch'egli stesso, in stato di ubriachezza, aveva ucciso Bahira e gliene dettero la prova mostrandogli la sua spada ancora insanguinata. Maometto allora, atterrito e dolente, proibì ai suoi seguaci l'uso del vino, capace di fare commettere agli uomini così nefandi delitti".



"Fra la fine del XIII secolo" scrive ancora l'islamista Aldobrandino Malvezzi ( L'Islamismo e la cultura europea, Sansoni, Firenze, 1956, pp. 108 sgg.) "ed il principio del XIV fu fatto dopo duecento anni, un nuovo tentativo per facilitare, mercé 1' impiego di mezzi adeguati, i rapporti fra Cristiani e Musulmani soprattutto allo scopo della attività missionaria.
Ma, come il tentatis di Pietro di Cluny, così fallì anche questo secondo.
La vera conoscenza dell' Islam doveva realizzarsi solo dopo alcuni altri secoli, per opera di veri ed imparziali studiosi, mentre era vano sperarla da chi affrontava il problema in modo passionale, a scopo polemico e con ostilità preconcetta.
Il merito di avere cercato di facilitare i rapporti, e conseguentemente la comprensione, fra la cristianità ed il mondo musulmano, spetta ad uno dei personaggi più singolari ed affascinanti del Medio Evo, Raimondo Lullo detto dai suoi contemporanei Ramondo il Pazzo, nato a Palma di Maiorca (1235-1315).
Quest'uomo ardente ed irrequieto impersona la tragedia della conversione dei Musulmani, la quale fu 1' idea fissa e lo scopo unico della sua vita, terminata con un tragico olocausto.
Il Lullo, che aveva moglie e figli, circa il 1266 rivolse a Dio l'ardente amore che, nella prima gioventù aveva sentito per il mondo e, come sempre avviene in simili crisi spirituali, anche il Lullo sentì il bisogno di un periodo di raccoglimento, allo scopo di rientrare in se stesso e rinnovarsi.
Quel periodo di metamorfosi durò nove anni, durante i quali il Lullo, oltre che studiare teologia e filosofia, imparò la lingua araba, poiche aveva concepito il pro proposito di dedicarsi tutto alla conversione dei Musulmani.
Singolare carattere obbediente ad impulsi quanto mai fra loro cotraddittori, il Lullo si rivela, ora un tipico mistico trascendentale, analogo ad altri dei suoi tempi, ora invece uno spirito pratico quale, ai suoi tempi, è raro trovare l'uguale.
Il Lullo deve avere iniziato il suo apostolato fra i Musulmani fin dai suoi primi viaggi in Tunisia ed Algeria ed evidentemente in seguito alla sua personale esperienza, negli ultimi decenni del XIII secolo egli espose le proprie idee, mai prima da altri nemmeno accennate, circa ai mezzi pratici che riteneva necessari per il successo dell'opera missionaria.
Tali mezzi sono così semplici, così evidenti, così ovvii, che il non averli altri escogitati ci fornisce un nuovo elemento di giudizio della mentalità medioevale.
Ne bellissimo e così originale racconto allegorico del Lullo intitolato Blanquerna, composto fra il 1283 e il 1285, ricorre ripetutamente l'osservazione che i Saraceni desiderano e richiedono spiegazioni e dimostrazioni degli articoli di fede loro proposti, prima di accettarli, il che rivela, in modo evidente quale fosse il metodo usato nel Medio Evo per cercare di attrarli al Cristianesimo.
Vi era infatti un metodo che un tempo fu molto in uso, consistente nel ricoprire il Saraceno che si voleva convertire d'ogni specie d' ingiurie: lo si chiamava stupido, imbecille, idiota, perchè provava una certa dfficoltà a capire un dogma così evidente come, ad esempio, quello della Trinità.
Ma, senza arrivare a questi sistemi violenti, c'era quello consistente nella enunciazione categorica dei dogmi, corroborati da citazione dell'Antico Testamento in proposito.
Debole metodo rispetto ad individui che non riconoscevano autorità ai testi che avrebbero dovuto avvalorare i dogmi, e che perciò negava a priori qualsiasi valore probativo alla loro testimonianza.
Bisognava perciò cercare di spiegare i dogmi, nel limite del possibile, facendo appello più alla ragione che alla fede cieca.
I1 passo del Blanquerna che accenna allegoricamente a queste cose è artisticamente così bello e mostra così bene il carattere di quell'opera singolare, che merita di essere letto per intero.
'Quando Blanquerna ebbe fatto pochi passi nella foresta, vide venire verso di lui, da sole, due dame nobilmente vestite e di piacevole aspetto, ma una di esse piangeva lamentandosi disperatamente. Blanquerna s'affrettò incontro alle dame e chiese a quella che piangeva la cagione delle sue lacrime e del suo dolore. Gli rispose la dama piangente: - Io sono la Fede e ho compiuto in compagnia di questa dama, che è la Verità, un viaggio nel paese dei Saraceni allo scopo di ricondurli sulla via della Salvazione. Ma quella gente non ha voluto ricevere né me né la Verità, né vollero credermi, bensì fecero opposizione, tanto a me che alla Verità. Mesta è l'anima mia, perché Iddio non é amato in quei paesi, né onorato né riconosciuto ed io provo dolore e compassione per la dannazione di quegli innocenti'.
Proseguendo il loro cammino, Fede e Verità si recarono presso il loro fratello Intelletto, e lo trovarono che stava leggendo filosofia e teologia a parecchi suoi discepoli.
Questi chiese alle sopraggiunte che cosa desiderassero; rispose la Fede narrando come avesse compiuto un viaggio fra i Saraceni, ove aveva trovato uomini dotti in filosofia che non prestavano fede alla Legge dei Saraceni, ma che non volevano neppure credere ai Santi né riconoscere la loro autorità: ' Perciò, -soggiunse-, sono venuta da te assieme a mia sorella Verità per pregarti di andare dai Saraceni per dimostrare loro il vero, esponendo gli opportuni argomenti, affinché essi abbandonino l'errore nel quale vivono ed imparino a conoscere ed amare Dio, consolando in tal modo anche il mio dolore'.
Udito ciò, 1' Intelletto, rivolto ai suoi discepoli, parlò loro in questo modo: ' E' giunto il momento nel quale la nostra scienza è esaltata, poiché gl' infedeli richiedono le necessarie dimostrazioni e ragioni, rifiutandosi di accettare la Fede in qualsiasi altra maniera.
Le condizioni particolarmente difficili nelle quali si svolgeva l'opera missionaria fra i Saraceni, indicate nel passo del Blanquerna, rendevano necessario un cambiamento di metodo.
A tal fine il Lullo compose moltissimi piccoli trattati ad uso dei missionari, cioé quattromila, secondo un suo antico biografo, dei quali ce ne sono pervenuti. Dai loro titoli tali operette risultano essere in gran parte manuali e prontuari di dialettica, guide di discussioni teologiche, elenchi di sillogismi; parecchie, con poche varianti, sono intitoLate Breve metodo per scoprire la verità.
Il Lullo non si limitò né s'accontentò certo di comporre, ora in lingua araba, ora nella latina, i suoi manualetti per la conversione dei Musulmani, bensì iniziò a tale fine e condusse con ammirevole tenacia, un'opera veramente pratica che, se avesse portato i frutti ch'egli ne sperava, avrebbe giovato, non solo all'opera missionaria, ma immensamente alla conoscenza dell' Islam in Occidente.
Il Lullo cercò in ogni modo di ottenere da Pontefici, Sovrani ed Istituti di cultura, che fossero aperte regolari scuole di lingue orientali, ma specialmente di quella araba, per 1' istruzione dei missionari.
L'opportunità delle insistenti proposte del Lullo è dimostrata nel modo più evidente da parecchie circostanze che a noi sembrano incredibili, laddove, a quanto pare, dovevano apparire normali nel Medio Evo.
Non solo i religiosi che andavano in Siria e Terra Santa per lo specifico scopo di convertire i Musulmani non sapevano una parola della lingua del paese, ma si dava il caso che si trovassero nelle stesse condizioni i Vescovi europei di quelle regioni che ignoravano la lingua dei loro diocesani.
Così ad esempio, Jacques de Vitry quando era Vescovo di Akka, nel 1216, non sapeva l'arabo, onde predicava e persino somministrava la Confessione a mezzo d' interprete.
Così pure la Curia romana non disponeva a quei tempi di persone capaci di tradurre e redigere Atti in lingue orientali.
Avevano invece interpreti stipendiati il Gran Maestro dei Templari ed i Sovrani di Spagna e Portogallo.
Le conseguenze di questo paradossale stato di cose si veggono nelle opere controversiali antislamiche, nelle quali i passi del Corano che vi sono citati vengono sempre storpiati in modo da mutarne completamente il significato.
Parecchi controversisti che pretendevano di confutare il Corano, non erano nemmeno capaci di tradurre esattamente le sette parole della professione di fede musulmana.
Tale professione è così espressa: 'Non vi è Dio al 1' infuori di Allah e Maometto è il Profeta di Allah .
In uno scritto anonimo contro 1' Islam, per il quale Lutero ha dettato una prefazione, la professione è tradotta così: 'Dio è veritiero e Maometto è il suo più grande Profeta.
I1 viaggiatore Giovanni Cotovico la traduce: 'Dio è vivo ed unico .
Ancora più sorprendenti sono le traduzioni della prima Sura del Corano, che i Musulmani recitano come una preghiera: 'In nome di Dio clemente e misericordioso. Lode a Dio, Signore dei mondi, clemente e misericordioso, Re del giorno del giudizio. Te adoriamo e a te chiediamo aiuto. Dirigici sulla retta via, su quella di coloro ai quali tu accordi grazie, non in quella di coloro coi quali sei adirato, né di quelli che sono in errore'.
Questa preghiera, col titolo di Pater noster dei Macomettani, è tradotta come segue da Fra Francesco Suriano (1450-1529), Superiore Generale di Terra Santa dal 1493: 'Dio è pietoso et ha pietà della gente; gratie sia a Dio che è Signor di tutti li mondi. Nel dì del iuditio se cognoscerà esser Re e Signor de tutti, in te Dio se confidiamo; illumina lo intellecto mio che possi cognoscere la via dreta per la quale debo caminare, questo camino che te adimando me mostri e quello per lo qual caminarono ii Profeti. Donami gratia o Dio che questo che te adimando non sia quello per lo qual caminano quelli che sono for del buon camino. Io confesso e rendo testimonio che Dio è uno e non ha secundo; Dio è cussì excellente che intellecto humano non lo può comprehendere; non ha padre né madre, né cossa che appartenga alla carne, ma solo è cossa spirituale; non lo potemo comparare ad veruna cossa temporale o corporale che toglie sua unita'.
Il Lullo penò trent'anni per cercare che fosse accolta e realizzata dai Potenti la sua proposta d' insegnare ai missionari la lingua di coloro che si proponevano di convertire e di questa sua lunga fatica egli parla nei seguenti accorati termini: ' Quando mi posi a considerare le condizioni del mondo, quanti pochi Cristiani vi si trovano e quanti mai increduli, allora mi venne in mente il pensiero di andare dai Prelati, dai Sovrani e dai Religiosi per fare sì che la nostra fede potesse essere grandemente esaltata e si convertissero gl' infedeli. Ciò ho fatto durante trent'anni, ma, a dire il vero, nulla ho potuto ottenere (El Desconort, III).
Nel 1275 dette retta al Lullo Re Giacomo I di Maiorca, fondando ivi, nel convento francescano di Miramar la tanto desiderata scuola d'arabo per tredici frati, ma tale scuola, nel 1295 era già chiusa.
Il Lullo intanto si era rivolto a Papa Celestino V nel 1294, poi, circa il 1300 a Filippo il Bello di Francia e all' Università di Parigi, spiegando a lungo nelle sue petizioni 1' importanza della sua proposta.
'Io so -scrisse all' Università di Parigi- avendone personale conoscenza, che vi sono molti filosofi arabi che cercano di convertire i Cristiani alla perfidia di Maometto e che accusano noi di essere degli infedeli dicendo: - Dove è il Dio di costoro ? - (Ubi est Deus eorum ?) '.
Per questo motivo egli supplica che venga fondato uno studio delle lingue orientali, 'per potere andare a predicare a quella gente vincendo le falsità con la spada del vero, allo scopo di rendere quei popoli accetti a Dio e mutare i nemici in amici '.
Nel 1311, finalmente, il Lullo potè credere di aver vinta la partita, poiché il Concilio di Vienne prese in considerazione le sue proposte ed emise un voto, affinché fossero realizzate.
In seguito a ciò Papa Clemente V, nell'anno stesso, emise una Bolla nella quale ordinò che fossero aperte scuole delle lingue ebraica, araba, e caldaica nel luogo ove si trovasse la Sede pontificia, nonché presso le Università di Parigi, Bologna, Oxford e Salamanca, non solo per preparare adeguatamente coloro che si recavano presso al popoli miscredenti a propagarvi la fede, ma altresì per eseguire fedeli traduzioni di libri scritti nelle anzidette lingue.
S' intende quanto quest'ultima disposizione avrebbe potuto giovare alla conoscenza dell' Islam.
Senonché Guglielmo Postello, scrivendo nel 1544, nota che gli ordini dati da Papa Clemente V non erano ancora stati eseguiti, né lo furono poi mai, tuttavia servirono di pretesto, nella seconda metà del secolo XVIII, a Padre Lodovico Maracci che li invoco a giustificazione della sua traduzione del Corano, del quale altra Bolla Pontificia aveva vietato la lettura".





"Contemporaneo e concittadino di Dante è" - scrive il Malvezzi ( L'Islamismo e la cultura europea, Sansoni, Firenze, 1956, pp. 115 sgg.) - "un singolarissimo personaggio, del quale dovremo occuparci con una certa ampiezza, per la grande influenza esercitata dall' opera sua sulla conoscenza dell'Islam in Europa.
Questo personaggio è il fiorentino Ricoldo Pennini, detto Ricoldo da Montecroce (1243-1320) che entrò nell' Ordine Domenicano a Santa Maria Novella nel 1272, passò ad insegnare a Pisa l'anno stesso e nel 1288 partì per la Terra Santa.
Fra Ricoldo viaggiò poscia in Siria, Persia e Mesopotamia, soggiornò a lungo a Bagdad frequentandovi le scuole arabe di alta cultura, ove imparò così bene la lingua araba da poter leggere il Corano e sostenere discussioni con i Musulmani.
Secondo l'autorevole opinione del Monneret de Villard, che ha tratto dall'oblio le opere di Fra Ricoldo e le ha esaurientemente illustrate, egli appare indubbiamente il miglior conoscitore del1' Islam e il più sagace osservatore degli usi e costumi dei Musulmani dei suoi tempi.
Ci troviamo dunque di fronte ad un uomo che dimostra di avere il temperamento scientifico moderno cioè che osserva, indaga e studia, anziché contentarsi, come la massima parte dei suoi contemporanei, di ripetere senza riflessione quello che era stato detto da altri.
Quale studioso e conoscitore diretto dell' Islam, Fra Ricoldo potè scrivere una sentenza davvero tipica della mentalità dei suoi tempi e che, pur essendo una contraddizione in termini, appare un compromesso fra la verità constatata dei fatti e la loro versione convenzionale.
'Si rimane stupefatti - scrive Fra Ricoldo - quando si vede quale perfezione essi (Saraceni) abbiano ricavato da una Legge così perfida.
Poi prosegue: 'Chi mai non stupirà se avrà osservato attentamente quanto sia grande nei Saraceni l'amore dello studio, la devozione nelle preghiere, la misericordia per i poveri, il rispetto per il nome di Dio, dei Profeti, dei luoghi Santi, la severità dei costumi, l'affabilità verso i forestieri, l'amore e la concordia che li unisce fra loro'.
Fra Ricoldo fa poi grandi e calorose lodi dell' accoglienza ricevuta ovunque dai Musulmani scrivendo che, quando egli ed i suoi compagni entravano nelle moschee, vi erano accolti 'come angeli di Dio ', che, 'quando volevano entrare nelle case dei nobili e dei sapienti vi erano pure ricevuti con grandi dimostrazioni di compiacimento' e che 'coloro che accolgono volentieri i religiosi nelle loro case chiedono ad essi cortesemente ed affabilmente di volere dire loro qualche cosa intorno a Dio ed in lode di Cristo'.
Dopo aver letto cose simili ci si aspetta d'apprendere che Fra Ricoldo sia finalmente stato colui che riportò in Europa notizie veritiere intorno al mondo musulmano e che sia stato capace di suggerire metodi nuovi, più adeguati ed efficaci, per assicurare il successo dell'opera missionaria, sbugiardando gl' inveterati pregiudizi.
Vedremo invece che, all'opposto, proprio Fra Ricoldo fu colui che, mercé la sua grande e riconosciuta competenza, riconfermò gli errori europei intorno all' Islam e perpetuò gli odi contro di esso per altri quattro secoli.
Ciò che aveva scritto in un libro Fra Ricoldo, con sorprendente disinvoltura lo contraddisse deliberatamente in un altro.
In uno pare che abbia voluto istruire i suoi lettori, nell'altro pare che si sia proposto d' ingannarli.
Il Monneret, che debitamente mette in luce e ammira la cultura islamica di Fra Ricoldo, tanto superiore a quella di qualsiasi altro suo contemporaneo, rilevando anch'egli questa sua stranissima contraddizione o, per chiamarla col vero nome, questo suo doppio giuoco, osserva che, con gli scritti così violenti contro l'Islam 'siamo completamente al di fuori dello studio dell' Islamismo e del tentativo della sua comprensione, ma invece entriamo in pieno nella polemica anti islamica. Il missionario ha preso il posto dell'osservatore e dello scienziato '.
A Bagdad Fra Ricoldo incominciò una traduzione del Corano e così ne scrive: 'Dopo aver attraversato molti mari e molti deserti, giunsi a Babilonia inclita città dei Saraceni nella quale essi fanno i loro studi letterari superiori e generali; ivi studiai la lingua e la letteratura araba e, discutendo continuamente e con grande perseveranza, mi resi sempre meglio conto della perversità del Corano, nondimeno incorninciai a tradurlo in latino, ma non vi trovai altro che favole, assieme a menzogne e blasfemie, tanto che ne fui rattristato. Decisi pertanto di scrivere qualche epistola alla Chiesa trionfante intorno a tutte quelle blasfemie'.
Tornato in Italia, Fra Ricoldo compose una confutazione dell' Islam che, sotto diversi titoli, ma sopratutto con quello di Improbatio Alcorani, fu tradotta dal latino in varie lingue e godette di così grande reputazione, che, fra il 1500 ed il 1607, ebbe oltre diciassette edizioni in Spagna, in Francia ed in Italia.
L' Improbatio non è, come indicherebbe questo titolo, una vera e propria sistematica critica, ovvero confutazione del Corano, ma piuttosto un manuale pratico ad uso dei missionari per le loro discussioni con i Musulmani, ma di gran lunga inferiore a quelli del Lullo.
L' opera non ha alcun pregio particolare, né di novita, né di metodo, né di originalità di idee e certamente deve a ciò il suo straordinario successo.
Piace sempre un libro che contenga in forma rimodernata vecchie idee ben note, perché costa poca fatica a comprendersi.
Assai men bene sono accolti dal gran pubblico quei libri che contraddicono ciò che ognuno crede di sapere e che presentano idee nuove, perché costringono il lettore alla sgradita e faticosa revisione del proprio patrimonio intellettuale.
Il carattere dell' Improbatio ed anche il suo stile si rilevano senz'altro dal modo nel quale Fra Ricoldo vi parla di Maometto, così reso in una traduzione in volgare del XVI secolo: 'Dapoi in questo tempo, videlicet nelli tempi del Beato Gregorio e di Eraclio, se levò contro la sacrosanta ecclesia di Dio e contra la verità quel certo dissoluto e alli atti de ogni venerea abominabil volupta dato tutto, lubrico dracone et homo cruento, diavolo incarnato, per nome fetido Machomet'.
Del resto Fra Ricoldo nel suo libro, conformandosi al metodo dialettico, che potrebb definirsi meccanico, anziché esporre e sviluppare argomenti, cita autorità.
Leonardo da Vinci, cent'anni dopo, osserverà che 'chi disputa allegando l'autorità, non adopera 1' ingegno, ma più tosto la memoria'.
Nell' Improbatio si trova un confronto fra il Vangelo ed il Corano, nel quale sono indicate le differenze fra loro, per concludere che tutto quello che nel Corano collima col Vangelo è vero e tutto quello che differisce è falso.
Ma non se ne indica 1' intrinseca ragione. Tuttavia Fra Ricoldo mostra di ritenere che il semplice confronto debba essere sufficiente per convertire i Saraceni, sebbene poi anch' egli, come Raimondo Lullo, osservi che essi rifiutano di credere 'quello che eccede la ragione umana ed è superiore all'umano intelletto '.
Il che conferma quanto e detto nel Blanquerna, che i Saraceni richiedevano l' esposizione di argomenti razionali, anziché 1' imposizione di articoli di fede.
L' Improbatio si apre con la premessa che 'tutto il fango degli antichi, sparso dal Demonio qua e là, è stato condensato da Maometto', come aveva già affermato, negli stessi termini, Pietro di Cluny.
A conferma di quell'asserto, Fra Ricoldo, secondo l'adusato metodo di tutti quanti i suoi predecessori, scrive un lungo elenco degli antichi eresiarchi africani, siriani, greci, caldei, dai quali Maometto, dando prova di una cultura sorprendente, avrebbe derivato tutte quante le sue dottrine.
Poi, verso la fine dell' Improbatio, Fra Ricoldo, dimentico di tutto ciò che aveva affermato in principio, scrive che 'Maometto era un dottore ignorante ed un idiota che non conosceva altra lingua che quella propria ed era persino incapace di spiegare la propria Legge'.
Seguono i soliti argomenti, tante volte ripetuti, senza alcuna variazione, per dimostrare che Maometto non era un vero Profeta e che il Corano non è la parola di Dio: perché Maometto non è stato preannunziato dai Profeti d' Israele; perché non ha compinto miracoli.
Il Corano non può essere opera di Dio, perche differisce in molti punti dall'Antico e dal Nuovo Testamento; perché è scritto in prosa ritmica, il che non è il modo di parlare di Dio.
Passando poi a dare maggiori particolari intorno alla dottrina dell' Islam, Fra Ricoldo afferma, fra l'altro, che il Corano autorizza la sodomia, il peccato della gola, l' intemperanza e la rapina, mentre 'nulla dice che abbia valore alcuno delle virtù quali l'umiltà, la pazienza, la pace, la continenza, l' amore del prossimo, e del fine ultimo dell' uomo '.
Ora siccome Fra Ricoldo, forse unico fra i controversisti antichi, non ha solamente letto il Corano nel testo, ma lo ha anche tradotto, deve per necessità avere constatato che esso raccomanda l'umiltà in 17 versetti sparsi in IO diverse Sure, la pazienza in 28 versetti sparsi in 10 diverse Sure, l'amore del prossimo nei versetti 218 e 2I9 della Sura seconda, la continenza in 8 versetti sparsi in 4 Sure, fra i quali questi: ' LXX, 5. - Beati coloro che sanno frenare i loro desideri sensuali - . 6. - Che limitano i loro piaceri alle loro mogli e alle schiave che ha procurato loro la mano destra - . 7. - Ma colui che desidera più di questo è un peccatore -'.
La pace infine è celebrata nel Corano in II versetti sparsi in 10 Sure, fra i quali i seguenti: ' XXXIII, 43. - Il saluto che accoglierà i credenti quando compariranno al cospetto di Dio, sarà: pace ! - . LVI, 25. - Nel Paradiso non si sentirà echeggiare altra parola che pace ! pace ! - '.
In quanto alla affermazione che il Corano autorizzi la sodomia, Fra Ricoldo non può a meno di aver notato che essa vi è definita 'peccato orribile' e che è vietata in ben 80 versetti, distribuiti in diverse Sure, seguiti sempre dalla storia di Loth, narrata come esempio del castigo divino di tanto orrendo crimine.
Si legge inoltre nell' Improbatio che, secondo il Corano, il fine ultimo dell'uomo consiste nel massimo piacere della lussuria e del ventre, poiché, afferma Fra Ricoldo, ' Circa alla vera beatitudine come nemmeno della contemplazione di Dio, e della perfezione dell' anima, Maometto non fa assolutamente alcun cenno, poiché, né desidera tali cose, né le comprende '.
Contrariamente a questa affermazione, il Corano contiene 782 versetti riguardanti gli attributi di Dio, il timore di Dio, l'amore di Dio, la dimostrazione che Dio e il fine ultimo dell' uomo e del creato, i comandamenti di Dio, la fiducia in Dio.
Aggiungasi, per terminare, che San Tommaso afferma di aver tolto il concetto della visione beatifica, rivelazione della luce divina cd essenza della vita gloriosa, dagli autori arabi Alfarabi, Avicenna, Avenpace e Averroè, i quali, alla loro volta, come pure A1 Gazzali, l 'avevano derivata dal testo sacro della loro religione, il Corano.
Quanto precede dimostra, con la massima evidenza, che nella sua opera Improbatio Fra Ricoldo ha deliberatamente voluto fare una sistematica falsificazione dell' Islam onde, per il buon nome cristiano, dobbiamo augurare che quel libro non sia mai capitato sott'occhio a quei Musulmani di Bagdad che, come egli narra, lo avevano accolto così cordialmente ed affabilmente nelle loro moschee, nelle loro scuole e nelle loro case.
Nell' Improbatio poi, oltre a quanto è stato notato, sono da rilevarsi altre cose estremamente curiose, fra le quali una versione nuova circa alla composizione del Corano che non solo è incongruente con 1' intelligenza della quale, in molti casi Fra Ricoldo dà prova, ma che è anche incompatibile col suo carattere di missionario.

Secondo l'Improbatio [di Fra Ricoldo] il Corano 'non fu opera umana, bensì del Demonio che, per soddisfare il suo odio, ottenne da Dio il permesso di anticipare i castighi dell' Anticristo a cagione dei peccati dei popoli'.
Il Demonio avrebbe voluto servirsi per la composizione del Corano, destinato a fuorviare l'umanità, rendendola perciò passibile di eterna pena, di un uomo che godesse di buona reputazione ma questo non gli fu permesso da Dio, che volle fosse invece incaricato dell'opera un furfante, affinché il mondo, venuto a conoscerlo, avesse potuto più facilmente scoprire l'inganno. Fu perciò scelto Maometto, ma siccome egli risultò essere 'idiota ed analfabeta il Demonio gli dette come 'soci capaci, certi Ebrei eretici e certi Cristiani, pure eretici', i quali stettero alle costole di Maometto, finché visse, siccheé egli non fece piu nulla.
Che cosa significa questo racconto, qui abbreviato ?
I) che il Corano fu un inganno teso dal Demonio all'umanità, ma col permesso di Dio; II) che materialmente esso fu confezionato da abili furfanti, perché Maometto, essendo idiota ed analfabeta, ne era incapace; 3) che, per questi motivi, Maometto nulla fece e fu il semplice prestanome di questa losca faccenda [ destinata comunque ad aprire la via all'apocalittico Anticristo].
Non è il caso di aggiungere commenti, ma si può notare che Fra Ricoldo includendo l'anzidetta favola, assurda e puerile, nella sua Improbatio, non sembra essersi reso conto della sconvenienza di supporre un patteggiamento fra Dio ed il Demonio per trarre in inganno l'umanità, come nemmeno che, se Maometto nulla fece, non vi è ragione di seguitare ad inveire contro di lui.
Ma, soprattutto, il patto, poco edificante, fra Dio ed il Demonio riferito in un libro grave da un ecclesiastico colto, fa risorgere l'eterno, insolubile problema del Medio Evo consistente nel cercare di comprendere quale fosse precisamente il concetto che anche gl' intellettuali, o per lo meno parecchi di essi, si facevano in quell'epoca di Dio e del Demonio.
Si tratta di una curiosa sovrapposizione dell'antropomorfismo ebraico ad una sopravvivenza di quello popolare greco-romano ?
Anche l'osservazione di Fra Ricoldo che la prosa ritmica del Corano è una delle prove ch'esso non può essere stato dettato da Dio, poiché Egli non usa parlare a quella maniera, dà motivo ad un ultimo rilievo: 'Vediamo -scrive Ricoldo- nella Sacra Scrittura Iddio che parla con Mosè e gli altri Profeti, ma giammai ritmicamente e in versi '.
Con queste parole Fra Ricoldo dimostra che, se conosceva la lingua araba, non conosceva quella ebraica, poiché altrimenti avrebbe saputo che parecchi libri deli' Antico Testamento a principiare da quello della Genesi, nel quale sono riferite le testuali parole di Gehova, sono scritti in versi. Anche San Gerolamo aveva rilevato degli esametri nel libro di Giobbe.
[Per quanto le riflessioni di A. Malvezzi ( L'Islamismo e la cultura europea, Sansoni, Firenze, 1956) siano assolutamente pertinenti e logiche è indubbio che l'Improbatio e (viste anche le numerose ristampe) questo sorprendente messaggio contraddittorio di Fra Ricoldo fecero molto effetto nella cristianità occidentale: al segno che presto si sarebbe giunti alla nota identificazione MAOMETTO - FALSO PROFETA destinata a trovare credito e soprattutto "dimostrazioni erudite" in tante OPERE TEOLOGICHE E NON].
Il primo in ordine di tempo dei molti illustri personaggi ingannati da Fra Ricoldo da Montecroce intorno all' Islam fu Fra Gerolamo Savonarola il quale, evidentemente in fede sua, sentenziò che la setta maomettana manca di senso comune e lo dimostra in un breve compendioso commento, che incomincia con la solita ripetizione del giudizio di Pietro di Cluny.
Secondo il Savonarola, la setta maomettana è un riassunto di tutte le eresie il che ne rende molto facile la confutazione.
'Qualsiasi persona, anche solo mediocremente esperta del raziocinio o della filosofia, vuoi speculativa che pratica, sarebbe capace di distruggere quella religione il cui autore si dimostra privo di qualsiasi cognizione letteraria. Invero il suo libro, denominato Alcorano, cioè raccolta di precetti, ne espone di così insulsi e confusi che nessuno potrebbe trovarvi alcun ordine, il che è la maggiore prova della sua ignoranza, e trascuratezza. Inoltre in esso non vi sono che favole, nonché cose contro al buon costume, sia comandate, sia concesse, che sarebbero dai filosofi giudicate fraudolenti ed empie, onde, anziché confutarle, è sufficente riderne '. La cosa più notevole e sorprendente in questo preambolo ai suoi commenti è la sicurezza con la quale il Savonarola nega i pregi letterari di un' opera ch'egli non ha evidentemente mai letta, -scritta in una lingua ch'egli non conosce.
Per l'appunto si può esprimere qualsiasi giudizio intorno alla sostanza del Corano, ma non già intorno alla sua forma, poiché, come tutti sanno, esso è un indiscusso capolavoro letterario.
A meno che l'anzidetta critica si riferisca alla composizione del Corano, anziché alla sua forma



"Nemmeno sotto l'aspetto dogmatico [scrive ancora Aldobrandino Malvezzi ( L'Islamismo e la cultura europea, Sansoni, Firenze, 1956, pp. 229 sgg.)] il giudizio dei RIFORMATORI intorno all' Islam differì in alcun modo da quello tradizionale dei controversisti Cattolici e fu da essi espresso nella medesima forma, con gli stessi epiteti, con le solite argomentazioni ispirate da un'uguale ignoranza dell'argomento e dagli identici preconcetti.
Per dare di ciò un solo, ma cospicuo esempio, ricorderò che persino i più illustri e colti personaggi della Riforma ravvisarono MAOMETTO nel corno piccolo della bestia descritta dal Profeta Daniele e lo dichiararono, ora figlio primogenito di Satana, ora l' ANTICRISTO o per lo meno il suo antecessore [finendo così per riprendere, continuare e addirittura amplificare le osservazioni di un noto CONTROVERSISTA CATTOLICO].
Nemmeno la SCOPERTA DELL'AMERICA ed il ritrovamento ivi d'altre religioni non cristiane praticate dagli indigeni, aveva potuto allargare le idee degli Europei facendo nascere in loro concetti più adeguati del mondo, dell'umanità e di quanto la riguarda.
Nessuno apparentemente si chiedeva perché, se il fondatore della religione islamica era l'Anticristo, quelli delle religioni degli Americani non erano anch'essi altrettanti Anticristi.
Di ciò si può trovare la ragione nel fatto che quanto riguardava l'America non fu mai preso in considerazione dai teologi europei, forse perché non fu possibile ricollegarlo in alcun modo con l'Antico Testamento, dal quale erano esclusivamente derivati tutti i concetti, tutte le norme, tutti gli esempi.
Per ragionare dell'America sarebbe stato necessario uscire dal cerchio chiuso della immutabile tradizione, applicare ad essa idee nuove che, o non si avevano o non si osavano esprimere.
Intorno al preannunzio di Maometto, Carione, Melantone, Lutero e molti altri ragionavano a questo modo.
Scrisse Carione: ' Dice Daniele che in quella bestia terribile, che è del Romano Imperio figura, nasce un corno.... questo corno è Maometto e gli occhi e le bestemmie contro Dio sono l'Alcorano e la sua dottrina .
Melantone nel commento alla Cronaca di Carione sviluppa il pensiero del suo maestro aggiangendovi alcune considerazioni molto interessanti: 'Della falsità della dottrina di Maometto ci ha avvertiti per primo Daniele col descriverci il corno che, dopo aver rovesciato 1' Impero si dimostrera molto potente. Tutto ciò si applica molto bene al regno dei Saraceni. Gli occhi invero significano la legge astutamente elaborata, poiché nel considerare la dottrina di Maometto bisogna distinguere la legge dall'evangelo e le ordinanze che sono proprie alla Chiesa da quelle proprie alla politica'.
Melantone prosegue dicendo che la parte politica della legge di Maometto merita approvazione, come infatti avverte Daniele stesso dicendo che il corno ha degli occhi.
Finalmente dunque si era trovato un critico cristiano del1' Islam che si era accorto della esistenza della parte legislativa del Corano, giudicandola spassionatamente.
Ma l'esempio dato da Melantone non fu seguito da nessuno, onde 1' indagine intorno alle 'ordinanze politiche' di Maometto, che avrebbe potuto giovare tanto alla conoscenza-dell' Islam, non fu neppure iniziata da coloro che non vedevano neé volevano vedere in esso altro che una dogmatica, spesso immaginaria.
Intorno ai corni Lutero, alla sua volta, esprime la seguente opinione: 'L'indicazione dell' Impero Romano con dieci corna significa i dieci regni che vi sono compresi, cioè Siria, Egitto, Asia, Grecia, Africa, Spagna, Gallia, Italia, Germania, Anglia. I1 piccolo corno poi che svelle tre di quelle dieci corna significa Maometto ed i Turchi che ora posseggono 1' Egitto, l'Asia e la Grecia. Dice inoltre che quel corno piccolo attaccherà le cose sacre e che pronuncerà blasfemi contro Cristo. Il che ora constatiamo e vediamo coi nostri occhi. Poiché il Turco ha conseguito grandi vittorie sui Cristiani e blasfema Cristo, innalzando il suo Maometto sopra ogni cosa '.
E' molto curioso che Lutero dica che il corno piccolo pronuncia blasfemi contro Cristo, poiché Daniele ciò non afferma affatto, limitandosi a dire che la bocca di quel corno proferiva 'cose grandi (os loquens ingentia) senza specificarle.
Nella Praemonitio alla traduzione del Corano, Lutero, ritornando sull'argomento scrive: 'Non metto in dubbio che Daniele intendesse ragionare del regno di Maometto quando vaticinò circa il corno piccolo, ch'egli dice debba muovere guerra alle cose sacre prevalendo su di esse e che pronuncerà discorsi contro 1' Eccelso '.
L' identificazione di Maometto con il corno piccolo descritto dal Profeta, fatta da Melantone e da Lutero, fu pienamente confermata, alla fine del secolo XVII, dal Padre Ettore Pinto, Professore di Sacra Teologia all' Università di Coimbra, con le seguenti parole: 'Tutto ciò che dice Daniele delle corna si applica perfettamente all'Anticristo, onde è vera ed evidente la interpretazione data dagli scrittori ecclesiastici. Nondimeno io ritengo che tutto ciò possa anche applicarsi assai bene a - Machumet -, che altri chiamano - Mafamet - '.
Il Professore non era ben certo del nome dell'eresiarca arabo, ma ciò poco importa.
Contenta poi molto imparzialmente tutti quanti Jacopo Maronessa che nella sua opera Il modello di Martino Lutero, dimostra che una delle teste con dieci corni della bestia apocalittica di San Giovanni è Lutero e l'altra Maometto: 'Il quinto capo sarà Lutero con i suoi settatori...; il sesto ed ultimo capo è Maometto con tutta la sua setta '.
Parecchi altri personaggi importanti della Riforma ravvisarono invece in Maometto l'Anticristo, quali Martin Butzuer (1491-1551), Wolfang Mausslin detto Musculus (1497-1563), Gerolamo Zanchi (1516-1590).
L' importanza attribuita anche dagli uomini della Riforma a questioni come quella della identificazione di Maometto con 1' Anticristo che a noi sembrano alquanto oziose, è attestata nel modo seguente dal Biblander nella sua Apologia. A meno che si tratti di accorgimento di editore per assicurare lo smercio di una sua pubblicazione, il Bibliander scrive che l'importantissima questione circa l'essere o non essere Maometto l'Anticristo, non può risolversi senza aver letto la sua edizione del libro proibito: 'La così importante questione dibattuta fra i teologi che interesse tutte le persone colte e pie, relativa all'Anticristo, non si può risolvere senza aver letto il Corano. Circa quanto hanno affermato alcuni dotti contemporanei e che altri scrissero già da duecento anni, che cioè Maometto e la sua setta costituivano tutto l'Anticristo del quale vaticinarono Daniele, Ezechiele e Giovanni nell Apocalissi, nulla si può affermare con certezza se non si conosca tutta quanta la dottrina di Maometto, mercé lo studio del suo libro'. [Per una svista in parecchi dizionari biografici moderni, redatti in diverse lingue, il Biblander è indicato come il traduttore del Corano: in effetti egli non fece altro che curare l'edizione della traduzione eseguita nel 1143, che anche per tale ragione risulta assai poco conosciuta]".
La drammatica trivalenza MAOMETTO = FALSO PROFETA = ANTICRISTO continua per tutto il XVII secolo prima di arrestarsi, parzialmente, contro il muro razionalistico eretto dai pensatori illuministi.
Nel SEICENTO siffatta trivalenza, sostenuta da una moltitudine di CONTROVERSISTI CRISTIANI, CATTOLICI E RIFORMATI, DEL XVI SECOLO risulta addirittura una costante ideologica propria dei testi di religione, sia cattolici che riformati, quanto di note ed integrazioni, perlomeno fantasiose, espresse anche in testi a carattere storico.
Un esempio tipico del fervore di questo giudizio diabolico a riguardo del fondatore dell'Islam lo si ricava addirittura in modo emblematico nel titolo stesso di un'opera, oggi misconosciuta ma all'epoca non priva di diffusione, pubblicata da CORNELIUS UYTHAGIUS ad Amsterdam nel 1666, che lunghissimo suona in questo modo: L'Anticristo Maometto, nel quale non solo mercé la testimonianza della Sacra Scrittura, nonché quella dei Riformatori, ma altresì mercé tutti gli altri generi e modi di prova viene dimostrato pienamente, estesamente, indiscutibilmente, solidamente che Maometto è il solo vero, grande Anticristo, del quale parla la Sacra Scrittura.






Una via plausibile, seppur da verificare in maniera criticamente più estesa, per intendere certe incomprensioni, alimentate dai controversisti cristiani soprattutto, in merito al mondo arabo (ma anche in relazione allo sviluppo medievale di un radicato e acceso antifemminismo (o misoginia che dir si voglia) sviluppatasi fortemente dall'epoca medievale sin almeno al XVII secolo ci viene suggerita, ancora una volta, dall'islamista Aldobrandino Malvezzi quando, in uno dei suoi più celebri volumi ( L'Islamismo e la cultura europea, Sansoni, Firenze, 1956, pp.100 - 106), con la solita documentatissima semplicità scrive: "Nel 1274 al Concilio di Lione, Papa Gregorio X incaricò Fra Fidenzio di studiare e redigere un piano per la ripresa delle ostilità in Terra Santa e la riconquista dei luoghi perduti.
Dal 1275 al 1290 Fra Fidenzio visse in Oriente soggiornando in Egitto, in Siria, in Mesopotamia, in Armenia, finalmente nel 1290, tornato definitivamente in Italia, presentò al Papa Nicolò IV la sua opera Liber Recuperationis Terrae Sanctae.
In questo lavoro, in esecuzione dell' incarico avuto, Fra Fidenzio espone un suo piano politico-militare, concepito con criteri veramente pratici, per la riconquista, illustrato da molte osservazioni e citazioni di fatti che gettano gran luce su certi aspetti delle Crociate. Soprattutto è descritta con senso realistico quella folla d'uomini, senza coesione né politica, né militare, che, senza alcuna preparazione né disciplina vi partecipò.
L' opera contiene inoltre alcune pagine intorno a Maometto, all' Islam ed al Saraceni che non solo dimostrano che lo scrittore conosceva perfettamente la lingua araba e aveva davvero molto frequentato i Musulmani, ma altresì che era perfettamente possibile ottenere informazioni esatte intorno all' Islam, solo se lo si fosse voluto.
Ma, siccome appunto, ciò non era desiderato, il libro di Fra Fidenzio passò inosservato e non esercitò alcuna influenza sulla cultura europea.

Per lo studio della mentalità dei tempi, che è tanto importante conoscere per poterne adeguatamente valutare le manifestazioni, è da notarsi a proposito della attitudine di Fra Fidenzio verso l'ISLAM, una particolarità caratteristica.
Mentre cioè egli espone e discute molto pacatamente le questioni teologiche nelle quali l' Islam differisce dal Cristianesimo, perde la misura, esce in escandescenze e prorompe in ingiurie quando tocca l'argomento della POLIGAMIA stranamente destinato a diventare, attraverso i secoli, un motivo addirittura ossessionante della polemica antimusulmana sin a concentrarsi in POSTULAZIONI DI CONDANNA ESTREMA, CON LA POLIGAMIA, DELLA DONNA, ELEMENTO DESTABILIZZANTE DI OGNI UMANA CONDIZIONE SOCIO-MORALE(per approfondire vedi qui il seicentesco Examen Ecclesiasticum di F. Potestà = specificatamente nella I parte relativamente al VI, IX e X fra i Dieci Comadamenti; nella II parte -relativa alle varie proposizioni ereticali da denunciare alla Santa Inquisizione- vengono elencate le Proposizioni della Setta di Maometto e -tra le varie ragioni per una denunzia- appunto la celebrazione di matrimonio secondo la costumanza della poligamia).
A questo punto la critica fino allora pressoché scientificamente obiettiva, assume il tono violentemente passionale.
Il capitolo del libro di Fra Fidenzio intorno alla poligamia islamica è intitolato: ‘Che i Saraceni sono fetidi per lussuria', ed e del seguente tenore: ‘ Il fetore della lussuria è nei Saraceni così grande che appena si può descrivere con le parole. Poiché, dalla pianta dei piedi alla sommità del capo essi sono immersi nel fango e non vi è in loro salute. Poiché il loro Profeta fu fetido, egli permise ai Saraceni ogni nefandezza'.
Come prova di queste affermazioni Fra Fidenzio cita esattamente gli stessi versetti del Corano relativi al matrimonio ed al divorzio che Fra Guglielmo di Tripoli aveva, alla sua volta, citato senza fare alcun commento, poi aggiunge: ‘ Oltre alle sopra indicate immondezze, i Saraceni ne hanno molte altre ancor maggiori, delle quali non parlerò, poiché essi fanno tali e tante cose che sarebbe turpe persino parlarne. Dirò solo che essi commettono tali scelleratezze carnali da renderli meritevoli di morte, come lo furono gli abitanti di Sodoma e di Gomorra. Perciò, anche se non ve ne fosse altro motivo, basterebbe questo perché incombesse al Cristiani l'obbligo di combatterli e di ripulire di essi la terra ’.
In questo sfogo è indicata e compendiata la maggiore e più insanabile incompatibilità fra la mentalità religiosa medievale e l' Islam.
Nulla avrebbe potuto essere più repellente, né apparire più disgustoso al clero medioevale che appunto la tolleranza sensuale dell' Islam.
Nessuno infatti degli antichi Padri, confutando le dottrine degli eresiarchi dei loro tempi, ha mai adoperato una violenza e spesso una volgarità di linguaggio comparabile a quella che usarono i frati europei quando trattavano della poligamia musulmana.
Tutto ciò, non solo perché la poligamia era in contrasto con la monogamia cristiana, perché era in opposizione alla castità imposta al clero, ma altresì perché coloro che inveivano contro la poligamia islamica fingevano d'aver dimenticato che anche i Patriarchi d' Israele erano stati poligami ed erano lontani le mille miglia dal supporre i motivi sociali e fisiologici che rendevano necessaria la poligamia a tanti popoli d' Oriente.
Lungi dal risguardare la poligamia come fenomeno sociale proprio ad un particolare stadio della civiltà dei popoli, i religiosi me dioevali non videro in essa altro che il bestiale so ddisfacimento dei sensi, inorridendo che fosse autorizzato dalla religione.
Comunque la questione sensuale assunse per i controversisti il carattere d' idea fissa ed ossessionante, accendendone a tal segno la fantasia che non parlarono d'altro e finirono per farvi consistere tutto quanto 1'Islam.

Pertanto [onde comprendere contestualmente il rifiuto dell'Islam e della donna, intesa nella sua totale ed espressa femminilità, da parte del cristianesimo medievale] è particolarmente interessante il ricercare [magari anche sulla scia di Palladio] l'origine di questo speciale stato d'animo, che ebbe così grande influenza sulla formazione del concetto che si fecero gli Europei dell' Islam.
Per rintracciare l'origine delle forme violente della polemica cristiana medievale contro la tolleranza sensuale musulmana [che conserva parecchi punti di contatto con l’analoga tolleranza romano imperiale], bisogna risalire alle prime manifestazioni dell'ascetismo cristiano nei deserti d' Egitto.
Solo lo studio della vita e delle idee degli anacoreti della Tebaide, può farci comprendere la enorme e preponderante importanza che aveva per quei religiosi la difficile e dolorosa inibizione degli istinti naturali.
Proprio solo per fuggire la tentazione sensuale, migliaia d'uomini, in preda ad esaltazione collettiva, si erano appartati dal mondo andando a vivere nelle grotte dei monti che dominano la necropoli egizia di Tebe ove, per inibire i propri istinti , si sottoponevano a regimi di cibo tali da procurare loro gravi malattie di stomaco e di fegato, nonché continue allucinazioni per effetto della debolezza .
Si trattava, per la maggior parte, di gente che si rivela semplice, ma, al tempo stesso, impulsiva e violenta, forse anche in ragione della loro origine sociale, e che trovava molto difficile domare ipropri sensi.
Per questa gente che viveva in condizioni anormali la DONNA ERA LA MASSIMA NEMICA, perché, con le idee che risvegliava nel cervello e le fallaci visioni che suscitava nel sonno e alle quali accenna Cassiano nel suo Trattato intorno ai monaci, ostacolava la via, già così ardua, della perfezione spirituale [integrando le riflessioni di Aldobrandino Malvezzi ( L'Islamismo e la cultura europea, Sansoni, Firenze, 1956) non si può far a meno di segnalare come la massima parte delle postulazioni esistenziali dell’eremitismo orientale si basassero su una negazione completa della società pagana e conseguentemente di quella liberalità comportamentale che era stata concessa alle donne, con la conseguenza di quelle manifestazioni orgiastiche che erano state alla base di alcune religioni pagane e nel cui contesto la prostituzione sacra della donna aveva assunto una funzione di rilievo liturgico]
Onde il timore della donna ed i furori contro di essa e la conseguente esecrazione dell' Islam che, in nome di Dio, osava autorizzare il maggiore degli obbrobri, il peccato dal quale tutti gli altri derivano.
Alcuni fra i numerosissimi episodi della lotta degli anacoreti d' Egitto contro le tentazioni, narrati dal Vescovo Palladio nell'opera già ricordata, meritano d'essere citati.
Un monaco, per nome Marco, ricevette, col permesso del proprio Superiore, la visita della madre, ma se ne stette tutto il tempo con gli occhi chiusi, per non vederla.
Un altro religioso, dovendo riaccompagnare la propria madre che, anch'essa era venuta a fargli visita, posto nella necessità di prenderla in collo per farle passare un canale, si fasciò prima le mani con le strisce di tela del turbante, per evitare il contatto della propria pelle col corpo di quella donna.
Ma, per rendersi conto di quali forme esasperate assumeva talvolta per gli anacoreti il timore della tentazione, nonché per poter comprendere che cosa fosse sufficiente per tentarli, bisogna leggere anche il seguente episodio, che sembra una scena di teatro tragico.
Si racconta questa storia di certi parenti di Abba Poemen.
Quando costoro vivevano in Egitto avvenne che la loro madre sentì il desiderio di vederli, ma non le riuscì, onde aspettò che essi andassero in chiesa e allora mosse loro incontro, ma costoro, appena la scorsero, ritornarono nella loro cella chiudendone la porta.
Allora la madre si pose vicino alla porta chiamandoli con grandipianti e sospiri.
Quando Abba Giobbe la udì andò nella cella di Abba Poemen e gli chiese: - Come dobbiamo contenerci rispetto a quella vecchia donna che piange sulla porta ? -. Abba Poemen si levò e avvicinatosi alla porta vi si strinse contro e udendo che la donna parlava con voce lacrimevole, le disse: - Come mai, voi che siete una donna anziana, piangete a quel modo ? -.
Non appena la donna ebbe udita la voce del figlio, cominciò a piangere ancora più disperatamente e si mise a gridare: - Voglio vedere i mici figli ! Che cosa avete mai ? Non vi ho forse allevati ? Non sono forse vostra madre ? Non avete forse succhiato i mici seni ? Non siete forse frutti del mio ventre ? Io sono impedita
dall'età, eppure il suono della vostra voce mI ha commosso Le viscere ! ’.
iL vecchio Poemen disse allora: ‘ Desiderate vederci qui oppure al mondo di là ? ’.
La donna rispose: ‘ Figli miEi, se non posso vedervi qui, vi vedrò dunque di lù’.
Le rispose il vecchio: ‘ In verità se rinunciate a vederci qui, ci vedrete colà’.
Allora la donna se ne andò dicendo: ‘ Sì, figlio mio, se ti vedrò cola non cercherò di vederti qui’.
Oltre a questa incredibile manifestazione d' inumana durezza di cuore e di egoismo, provocata dal terrore della tentazione sensuale, si potrebbero citare molti altri esempi della violenta avversione di parecchi religiosi orientali contro la donna, passata poi nelle tradizioni del monachismo occidentale.
Tipica in proposito è una Omelia di Sant' Efrem, Vescovo di Nisibi (IV secolo) intitolata: Contro le inique donne, nella quale, fra le altre graziosità si legge:
Che cosa è la donna ? Un laccio elegante che trascina gli uomini alla voluttà, che con bellissimo volto invita con gli occhi e col sorriso, canta assai dolcemente e questi inganna con la voce, quello adesca con i discorsi e che, strascinando le vesti, giuocando coi piedi, affascinando con l'aspetto e praticando la fornicazione col corpo, uccide l'uomo con l'opera sua.
Che cosa è la donna ? Un naufragio in terra ferma, la fonte della nequizia, il tesoro dell' immondizia e della malizia, la confabulazione deleteria, la rovina degli occhi, la distruzione delle anime, l'aculeo nel cuore, la perdizione dei giovani, lo scettro del1' inferno, il precipizio della concupiscenza.
Che cosa è la donna ? L'amore infame, la cooperatrice del Demonio, colei che sostituisce il serpente, la consolazione di Satana, il dolore inconsolabile, la fornace accesa, l'ostacolo per coloro che si potrebbero salvare, la malizia incurabile, il rifugio dei libidinosi, l'officina dei demoni.
Che cosa è la donna ? La bestia sfacciata....
’ .
E così a lungo ancora.
Malgrado la ripugnanza destata dall' Islam in coloro che non gli perdonavano di permettere ciò che vietavano a loro stessi e a cui, apparentemente costava tanto il rinunciare, nel Medio Evo, epoca di violenti contrasti e continue contraddizioni, quello stesso Islam era altresì considerato con spirito ben diverso.
Parecchi personaggi di quel corrottissimo mondo musulmano erano tenuti in grandissimo conto e rispettati come insigni maestri da coloro stessi che li dichiaravano idioti, perché seguaci di una religione considerata assurda. Ia logica e la passione non sono mai andate d'accordo.
Non è certo necessario nemmeno accennare qui al vasto argomento, così noto per essere stato studiato sotto tutti i suoi aspetti, della divulgazione in Europa dei testi della filosofia greca, mercé le loro traduzioni arabe, assieme ai loro commenti arabi (Averroè che il gran commento feo) .
Ricordiamo, a questo proposito, che, come notò il Renan , 1 ' introduzione delle opere arabe negli Studi europei contrassegnò la divisione della storia della scienza e della filosofia medioevale in due epoche ben distinte .
Ricordiamo inoltre che uno dei luminari della scienza e del pensiero medievale, Alberto Magno, maestro in Parigi di San Tommaso, aveva tale concetto della scienza degli Arabi che insegnava dalla cattedra vestito alla foggia degli Arabi e che aveva studiato, oltre alle opere greche trasmesse alla cultura europea dagli Arabi, anche quelle propriamente arabe di A1 Gazzali, A1 Farabi e Avicenna nelle versioni latine eseguite a Toledo dalla scuola di traduttori istituita da Domenico Gundisalvi.
Per l'appunto il grande filosofo A1 Gazzali, deluso ed insoddisfatto della filosofia, aveva finito per fare ritorno alla pura e semplice fede, desiderando per sola guida del suo spirito quel Corano, ora descritto come pornografico, ora come massima espressione della stupidità umana, da tanti controversisti europei che non lo avevano mai letto.





-BISANZIO (COSTANTINOPOLI - IMPERO ROMANO D'ORIENTE): LA GRANDE BARRIERA CONTRO L'ISLAM - L'ARMA SACRA DEL FUOCO GRECO
L’AGGRESSIONE DEGLI ARABI ALLE BASI IMPERIALI DI BISANZIO
-IL GIUDIZIO DEGLI EBREI SULL’INVASIONE ARABA
-IL GIUDIZIO DELLE COMUNITA’ CRISTIANE DISSIDENTI SULL’INVASIONE ARABA
-L’ACRE REALTA’ DEI FATTI
-I PRECOGNITORI: I POCHI CHE INTESERO IL MUTAMENTO STORICO EPOCALE
-ATTEGGIAMENTO DEGLI ARABI VERSO I GRUPPI ETNICI DIVERSI E LE COMUNITA’ CRISTIANE
-PERCHE’ GLI ARABI NON INDUSSERO I CRISTIANI A RINNEGARE OD APOSTASIARE LA LORO FEDE
-FENOMENI DI INTRANSIGENZA ANTICRISTIANA SOTTO IL DOMINATO ISLAMICO PERSIANO
-LE PRINCIPALI IMPOSIZIONI DEGLI ARABI AI CRISTIANI LORO SOTTOMESSI TERRITORIALMENTE
-OPPOSIZIONI DEGLI ARABI CRISTIANI DEL SETTENTRIONI
-LA POLITICA RELIGIOSA DELL'IMPERATORE BIZANTINO ERACLIO ALLA BASE DELLE APOSTASIE DI MASSA DEI CRISTIANI SIRIANI
-EGITTO E SIRIA: LA COLPEVOLE FUGA DEGLI ARISTOCRATICI, DEGLI ALTO BORGHESI, DEI LATIFONDISTI ("UN POPOLO ALLO SBANDO")
-LA PRESSIONE TRIBUTARIA ESERCITATA DAGLI ARABI: COME MOLTI CRISTIANI PENSARONO DI ELUDERLA
-LE MOLTEPLICI RAGIONI DELLE CRESCENTI APOSTASIE DI CRISTIANI ORIENTALI NONOSTANTE LA TOLLERANZA RELIGIOSA DEGLI ARABI
-IL RAZIONALISMO DELLA RELIGIONE ISLAMICA E LA SUA CONVERGENZE CON LE FORME RAZIONALISTICHE ETERODOSSE DI CRISTIANESIMO ORIENTALE
-IPOTESI DI ETNOLOGIA E GEOGRAFIA DELLE RELIGIONI: IL RAPPORTO MAOMETTO/ARISTOTELE - CRISTO/PLATONE
-IL FATALISMO ISLAMICO: SUE DIVERGENZE DAL CRISTIANESIMO DEI CETI COLTI, SUE CONVERGENZE COL CRISTIANESIMO DELLE CLASSI UMILI IN SIRIA ED EGITTO (LE POSTULAZIONI DELL'ANACORETISMO EGIZIANO)
-IL FATALISMO ISLAMICO E I SUOI RAPPORTI CON ALCUNE POSTULAZIONI DELL'ANACORETISMO EGIZIANO (TEBEI - ANACORETI DELLA TEBAIDE)
-[L' ISLAM VISTO ATTRAVERSO GLI OCCHI DI PELLEGRINI DI FEDE, VIANDANTI, MERCANTI]
-L'AVVENTO DEI TURCHI: UN NUOVO PERICOLO ISLAMICO TARDIVAMENTE COMPRESO DALL'OCCIDENTE CRISTIANO
-MAOMETTO II CONQUISTA BISANZIO (COSTANTINOPOLI): LA FINE DI UN MITO E LE REAZIONI INTERNAZIONALI
-LA DIFFICOLTA' DEGLI STATI CRISTIANI DI ORGANIZZARE UNA COMUNE LOTTA CONTRO L'AVANZATA DEI TURCHI
-I NUOVI CONTROVERSISTI ANTISLAMICI: BANALITA' E INEFFICACIA DELLA PROPAGANDA ECCLESIASTICA CONTRO I TURCHI
-NICOLA DA CUSA ( CUSANO ): IL PRIMO GRANDE CONTROVERSISTA "MODERNO"
-IL CERTOSINO DIONIGI DI RYKEL E IL SUO TRATTATO CONTRO MAOMETTO E L'ISLAM
-PAPA PIO II E LA PRIMA GRANDE SCOPERTA DELL'ISLAM: LA SUA SPLENDIDA LETTERA A MAOMETTO II




"L'uragano venne dal deserto luogo spaventoso" (SEBEOS )
"Le prime impressioni destate dagli ARABI" [scrive ancora nel suo fondamentale contributo critico ( L'Islamismo e la cultura europea, Sansoni, Firenze, 1956) il grande islamista Aldobrandino Malvezzi] "nelle popolazioni delle province orientali dell' Impero Bizantino, quando, nella primavera dell'anno di Cristo 634, ne incominciarono 1' INVASIONE E LA CONQUISTA, furono assai varie.
Sembra che il popolo, in generale, non abbia attribuito agli avvenimenti grande importanza, ritenendo che gli Arabi non intendessero fare altro che una di quelle incursioni che da tempi immemorabili erano soliti a compiere in quelle stesse regioni.
' Al tramonto delle Pleiadi se ne anderanno ' andava dicendo il popolo.
Gli Ebrei, recentemente perseguitati dall' Imperatore Eraclio (A. D. 629-630), videro di buon occhio 1' invasione araba che faceva le loro vendette e che speravano li garantisse contro il ripetersi dei furori cristiani.
Perciò, evidentemente ignorando la violenta rottura dei rapporti fra Maometto e la comunità ebraica di Medina, spesse volte aiutarono le truppe musulmane facilitandone l'avanzata in varie maniere.
Ciò poi fecero tanto più volentieri in quanto, espertissimi di cose religiose, non tardarono a scoprire nell' Islam molte affinità col Giudaismo, il che ravvivò in loro il lontano ricordo di emigrazioni e colonizzazioni ebraiche in Arabia e la comune discendenza da Abramo, onde si atteggiarono a stretti parenti o perlomeno a cugini dei sopraggiunti.
In quanto alle comunità cristiane dissidenti che vivevano sotto alla continua minaccia delle persecuzioni della Chiesa ufficiale di Bisanzio ad ogni nuova crisi di fervore religioso, cioè i -Nestoriani ed i -Monofisiti che non potevano dimenticare le violenze del Concilio di Calcedonia, assunsero verso gli Arabi un atteggiamento di benevola neutralità, sperando da loro la libertà religiosa.
Ma pochi anni dopo tutto si risolse in un disinganno generale che provocò, da parte di tutti quanti, alti lamenti. Si era ingannato il popolo, sperando in una prossima partenza degli Arabi.
Solo in parte si realizzarono le speranze dei Cristiani dissidenti che ottennero sì dagli Arabi la libertà religiosa, ma a ben duro prezzo.
Infine s'ingannarono gli Ebrei che dai loro supposti cugini, ai quali avevano fatto gli onori di casa, si videro espulsi da -Gerusalemme.
Solo pochi, al tempo della invasione araba, videro chiaro rendendosi conto della gravita della situazione e quei pochi ne rimasero atterriti. Valga ad esempio il grido di dolore del Vescovo Armeno Sebeos, al quale si possono aggiangure gli accorati lamenti di San Sofronio Patriarca di Gerusalemme.
Scrive il Sebeos nella sua Vita di Eraclio: ‘L'uragano venne dal grande e sconfinato deserto ove abitarono Mosè ed i figli d' Israele, come aveva predetto il Profeta dicendo: - Come un uragano verrà dal Sud, cioè dal deserto, luogo spaventoso -. E infatti da colà si scatenò la tempesta di quella gente e investì tutta la terra, la conquistò e la percosse '.
Il Patriarca San Sofronio pronunciando il sermone di Natale dell'anno 635 in Gerusalemme, anziché, come avrebbe voluto la consuetudine, in Betlemme, perché gli Arabi infestavano i dintorni della città impedendo al fedeli di recarsi al Presepe, dopo aver ricordato l'adorazione dei Re Magi a Gesù bambino, soggiunse che i Cristiani di Gerusalemme non potevano fare altrettanto, poiché, a cagione dei loro innumerevoli peccati, se ne erano resi indegni ed erano perciò costretti di starsene a casa, non già trattenuti da vincoli corporei, bensì dal timore dei Saraceni. Poi, - proseguendo il discorso - Sofronio, che aveva speso la vita a combattere i -Monofisiti, e che, come gli uomini di una sola idea tutto riportava a quella, soggiunse: 'Se peraltro noi avessimo mantenuta costantemente la fede ortodossa, ci sarebbe facile cosa d' infrangere la spada degli Ismaeliti, di allontanare da noi il pugnale dei Saraceni, di sfondare le corazze degli Agareni e di potere contemplare fra breve la santa Betlemme' .
E' ormai fuori di discussione che gli Arabi, in generale, non si mostrarono, né duri, né intransigenti e tanto meno religiosamente fanatici, rispetto alle popolazioni cristiane delle regioni da essi facilmente occupate dopo le vittorie conseguite sulle forze bizantine alle quali 1' Imperatore Eraclio aveva affidato il compito di contendere loro il passo.
E’ noto che fra le condizioni della capitolazione di Gerusalemme, come in quella di Alessandria d' Egitto e di molte altre città, gli Arabi garantirono ai Cristiani la libertà di praticare il loro culto, solo con qualche limitazione alle sue manifestazioni fuori dall'ambito degli edifici sacri.

Non vi è prova attendibile che, all'epoca della conquista, gli Arabi abbiano sistematicamente esercitato alcuna pressione diretta o indiretta sui Cristiani, per indurli ad apostasiare ed abbracciare 1' Islam.
Per la qual cosa vi sono buone ragioni.
Innanzi tutto ed in modo pregiudiziale, le conversioni forzate sarebbero state contrarie alle tassative norme del Corano, al sensi del quale i Cristiani debbono essere lasciati liberi di professare la loro religione, qualora si assoggettino a pagare certe imposte.
Tale prescrizione è sempre stata osservata, meno in casi eccezionali che la storia ricorda, appunto perché eccezionali.
Così ad esempio, quando, alcuni secoli dopo questi ora ricordati, il Sultano ottomano Selim I manifestò il proposito di costringere, pena la vita, i Cristiani del suo Impero ad abbandonare la loro religione e di abbracciare 1' Islam, e ciò ad imitazione, come si crede, di quello che stava operando, in senso inverso, la Sacra Inquisizione in Spagna, ne fu impedito dal Mufti Yemali.
Costui, non solo rappresento al Sultano che il suo proposito era illegale, ma ne avvertì il Patriarca Ortodosso di Costantinopoli, affinché avesse un argomento da adoperare a difesa dei Cristiani.
Per comprendere quello che veramente avvenne all'epoca della conquista araba delle province orientali dell' Impero Bizantino, e capirne il motivo, bisogna considerare che i primi Musulmani, venuti proprio dal fondo della penisola arabica e di puro sangue e mentalità araba, erano assai troppo scettici e beffardi e di troppo recente e superficiale conversione essi stessi, da volere e potere comportarsi da missionari dell' Islam.
Al primi tempi della conquista si stabilì ben presto e facilmente un modus vivendi fra vincitori e vinti, reso possibile dal largo spirito di tolleranza dei Califfi Omayadi, onde, per molti Cristiani, già vessati e perseguitati, per motivi religiosi dai Sovrani di Bisanzio, il regime arabo inauguro un'era di pace spirituale.

Certo, nel vasto Impero, che non aveva unità d' indirizzo polltico, col passare degli anni ed il prevalere al Governo della influenza intransigente persiana su quella tollerante araba, al mutare della dinastia con l'avvento degli Abbasidi, non mancarono quà e là episodi di violenza contro i Cristiani.
Si ricordano le malefatta del Califfo Abdallah el Mansur nel 780, l'episodio di guerra d'Armorium nell'838 nel quale trovarono il martirio quarantadue Cristiani ed altri ancora.
Infine la distruzione della Basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme ordinata dal pazzo Califfo Fatimita d' Egitto El Hakim nel 1009, alla quale nel 1027 seguì un accordo concluso dal Califfo Ez Zahir con l' Imperatore hizantino Costantino VIII per la sua ricostruzione.
Per quanto dolorosi e riprovevoli, questi eccessi anticristiani non assunsero tuttavia mai il carattere di persecuzioni sistematiche come ebbero quelle effettuate, sia dai Persiani che dai Romani.
A1 qual proposito è da notarsi che alle frequenti accuse di terribili persecuzioni di Cristiani sul modello di quelle romane, fatte durante il medioevo agli Arabi non corrispondono poi nel martiriologio cristiano gli elenchi ed i nomi delle loro vittime.
Anziché usare verso i Cristiani violenze fisiche gli Arabi, mentre da una parte concedettero loro la libertà di coscienza e di culto, imposero loro in cambio gravose condizioni economiche, nonché una penosa situazione d' inferiorità sociale.
La questione sorge dal fatto che le condizioni economiche e sociali create dal regime arabo al Cristiani furono giudicate sopportabili e vennero infatti sopportate da talune comunità che dettero prova di un'ammirevole attaccamento al Cristianesimo, mentre non lo furono da altre che non dimostrarono alcuna forza di resistenza.
Quali possono esserne i motivi ?
Come ricorda il Caetani (p. 248), tutti gli Arabi cristiani opposero sempre e ovunque una fortissima resistenza al trionfo dell'Islam; i Cristiani del Nagran preferirono essere espulsi dalla loro patria, piuttosto che convertirsi, i Taglib, cristiani anch'essi, conservarono la loro fede fino al II secolo dell' Egira, gli Arabi cristiani di Al Hira rimasero pure fedeli alla loro religione.
Lo stesso dicasi degli Arabi cristiani del settentrione che si batterono con molto valore assieme al Greci, contro gli eserciti di Abu Bakr e di Omar.
Anche gli Hanifa si mantennero tenaci nella loro fede e vollero e seppero morire per essa.
Infine lo storico della conquista araba dell' Egitto, il Butler (p. 357), nota come, dopo il tradimento del Patriarca Governatore Ciro e la resa di Alessandria agli Arabi, sebbene non rimanesse più alcuna speranza per i Cristiani, nondimeno alcuni gruppi isolati di essi resistettero ancora per un anno nel Delta.
'L' indomito coraggio di costoro' -scrive il Butler- 'e l'ostinato attaccamento alla loro fede del quale hanno dato prova ha atteso troppo a lungo d'essere ricordato e celebrato dalla storia, come ben merita.
Ben diversa fu la condotta delle popolazioni siriane e greche che assai presto e facilmente apostasiarono passando ail' Islam; il ricercarne il motivo è interessante.
Come di tutti i fenomeni storici anche di questo le cause sembrano essere molteplici e complesse, cioè, ad un tempo politiche, economiche e spirituali.
L' invasione araba capitò proprio a troncare nelle province nelle quali avvenne una situazione interna dell' Impero Bizantino che non avrebbe assolutamente più potuto prolungarsi, cioè la lotta fra i sostenitori dell'unica o della duplice natura di Cristo, fra la Chiesa cattolica ufficiale, perciò detta melchita ovvero regia, e le diverse confessioni anatemizzate dai Concili.
Fino allora il Governo di Bisanzio aveva sostenuto con la forza delle armi e della legge la Chiesa e la Cristologia riconosciute, perseguitando e sopprimendo i dissidenti, scompaginandone le comunità con le deportazioni, gli esili, le confische, ma, come tutti i regimi di violenza e di eccezione, nemmeno questo poteva durare indefinitivamente.
L'esasperazione degli animi era giunta al colmo, e, in ogni provincia dell' Impero ove più avevano infuriato le persecuzioni religiose, Eraclio dovette subirne le gravi conseguenze politiche, specie al momento della invasione araba.
Ovunque la fanatica politica religiosa di Eraclio aveva scosso dalle fondamenta la compagine dello Stato e aperta nei suoi confini la breccia attraverso alla quale era spianata la via allo straniero, considerato un liberatore.
Tale stato d'animo, largamente e profondamente diffuso, si rivela nelle opere di pressoché tutti gli scrittori nestoriani e monofisiti, ma è espresso esplicitamente dal Barhebraeus [Ann. Eccles., p. 274] in questi termini: 'Quando i nostri si dolevano ad Eraclio egli nemmeno rispondeva loro, onde il Dio vendicatore ci libero dalle mani dei Romani per mezzo degli Arabi'.
D'altra parte le regioni fra i confini dell' Impero Bizantino e la Persia erano diventate un covo di fuorusciti Giacobiti e Nestoriani, di gente scampata fuggendo alle persecuzioni, di esuli avidi di vendetta e pronti ad allearsi a qualsiasi nemico di Bisanzio.
In Egitto la persecuzione spietata dei Monofisiti, organizzata dal Patriarca Ciro, proprio alla vigilia della invasione araba (631-641) aveva reso assolutamente insostenibile la posizione del Governo di Bisanzio, alimentando contro di esso un odio inestinguibile.
Favoriti dunque dalle discordie religiose delle popolazioni cristiane, o, per meglio dire, del loro clero, perché è da supporsi che le masse popolari poco capivano e meno s'interessavano delle sottigliezze teologiche per le quali contrastavano gli ecclesiastici, gli Arabi trovarono nuove facilitazioni ancor prima di avere terminato le loro conquiste.
Sopraffatte le forze militari bizantine, gl'invasori si trovarono di fronte ad una popolazione priva di qualsiasi energia e capacità per organizzare una resistenza, sia pure solamente morale.
Ciò avvenne perché, fin dal primo anno della invasione araba, le classi dirigenti bizantine o locali, i grandi proprietari agricoli, i ricchi commercianti e, in genere, le persone per qualsiasi motivo autorevoli, tanto in Egitto che in Siria, come più tardi in Spagna, abbandonarono il paese, lasciandone le popolazioni senza appoggio e senza guida.
Quelle classi dirigenti agirono come i 145.000 aristocratici e facoltosi francesi che, al tempo della Rivolazione del 1789 lasciarono la Francia, salvando la propria testa, forse, ma abbandonando la propria patria alla malora.
Gli aristocratici francesi chiamarono la loro fuga emigrazione, ma era un eufemismo.
In Egitto la cosiddetta emigrazione dei signori, dei ricchi, degli alti funzionari del Governo Bizantino fu addirittura stipulata e regolata dal Trattato di capitolazione di Alessandria dell' 8 novembre 641, ai sensi del quale il Comando arabo concesse a costoro la facolta d' imbarcarsi portando seco i propri averi, entro il 28 settembre 642, il che lasciava loro undici mesi di tempo per realizzare le loro proprietà immobiliari e liquidare i loro affari.
S' intende che questo provvedimento non aveva carattere d'espulsione da parte dei vincitori Arabi, poiche ciò sarebbe stato contrario al loro interesse, dato che la partenza dei ricchi privava il loro erario dei maggiori contribuenti. Infatti gli Arabi concessero ai vinti l'alternativa, sia di accettare il pagamento del tributo, sia di andarsene, muniti di un salvacondotto e portando seco liberamente quanto danaro ed oggetti preziosi avessero voluto. Profittando di questa concessione che oggi a noi, abituati ad invasioni di popoli civilissimi, sembra incredibile, partì da Alessandria tutta quanta quella classe che da secoli ne aveva creata e mantenuta la grande ricchezza.
Quanto l'abbandono delle terre da parte dei proprietari abbia facilitato lo stabilirsi degli invasori nei paesi conquistati, con tutte le conseguenze morali che ne derivarono, e facile comprendere.
Sono sufficienti pochi accenni che si trovano qua e là negli scritti dei contemporanei dell' invasione per descrivere la situazione che si era venuta creando.
Ad esempio Giovanni di Nikiu nella sua Cronaca narra che quando i Musulmani, accompagnati dagli Egiziani che avevano rinnegato il Cristianesimo per abbracciare la religione di quell'esacrabile individuo, arrivarono nelle citta s' impadronivano delle proprieta di tutti quei Cristiani che erano fuggiti.
Anche in Siria avvenne la fuga dei proprietari terrieri, come sta a dimostrare la grande estensione di terre abbandonate che vi trovarono gli Arabi.
L' importanza capitale che ebbero questi fatti per facilitare il rapidissimo estendersi e consolidarsi del dominio arabo nelle province orientali dell' Impero Bizantino non fu affatto rilevata, né dai contemporanei, né dalla maggior parte degli autori, che, nei successivi secoli, narrarono e commentarono questi avvenimenti.
Per quanto riguarda la Siria fa eccezione, davvero sorprendente, Fra Fidenzio da Padova O. M. che, con eccezionale penetrazione ed obiettività nella ricerca e valutazione delle cause, degli avvenimenti storici, scrive nel suo Liber Recuperationis Terrae Sanctae (A. D. 1290) che una delle cause che più contribuirono alla perdita della Palestina da parte dei Cristiani fu 'quod Xristiani nocuit adjutorii elongatio'; nocque ai Cristiani l'allontanamento dei loro sostenitori, poiché, soli ed abbandonati, come avrebbero potuto resistere 'pochi Cristiani a tante migliaia di infedeli'?
Lo stesso autore nota altresì che molti Cristiani, tanto delle classi elevate che medie, si convertirono all' Islamismo.
Il ricordo dell'abbandono di Alessandria da parte del ceto facoltoso si è poi perpetuato nei secoli, tanto fu giudicato importante per le sue conseguenze e ne troviamo la dimostrazione nel cenno che ne fa un altro religioso italiano, Padre Aquilante Rocchetta, nella prima metà del secolo XVII: ' Alessandria, venuta alle mani de' Maumettani, s'ando scemando e fu abbandonata da mercadanti, tanto di Grecia, come d' Europa, in modo tale che parea quasi disabitata'.

Tuttavia, mentre gli storici indicano le discordie religiose fra Cristiani quale una delle cause che facilitò l' invasione araba e non sembrano attribuire grande importanza all'esodo delle classi dirigenti, sono poi tutti concordi nell'affermare che la pressione tributaria esercitata dagli Arabi sui Cristiani ebbe gravissime conseguenze, ma la sua determinazione e giustificazione è tuttora assai discussa dagli orientalisti.
Taluni ritengono che la pressione tributaria abbia grandemente influito sull'apostasia dei Cristiani, altri lo negano o perlomeno lo mettono in dubbio.
Certo la questione è difficile da risolversi, perché deve studiarsi sotto due diversi aspetti.
Da una parte bisogna considerare l'entità delle imposte e dall'altra la possibilità materiale o la disposizione psicologica dei Cristiani di assoggettarvisi, astraendo dalla loro entità.
Circa alla prima questione vi è una tradizione storica costante e degna di fede secondo la quale l'apostasia dei Cristiani e la loro conseguente liberazione dà per lo meno la metà delle imposte onde erano gravati, procurò assai gravi perdite all'erario arabo.
Questo indicherebbe che l'imposta era di una certa entità.
Scrive in proposito il Caetani, che accetta con tanta prudenza le notizie date dagli storici arabe: 'Vi fu un tempo in cui il numero delle conversioni fu tale da destare fra coloro che governavano l' Impero arabo un vero senso di apprensione, perché il mutamento di fede dei sudditi infliggeva perdite ingenti ed un profondo turbamento nelle rendite dello Stato .
Ormai tuttavia si è manifestata fra studiosi assai autorevoli, primo fra i quali l'americano Dennett, la tendenza a ridurre di molto l'entità delle imposte gravanti sui Cristiani, in seguito a indaginose ricerche di storia finanziaria.
La discussione si è perciò ristretta intorno a calcoli aritmetici e abilissime ricostruzioni di bilanci statali e privati, mercé il difficile studio di papiri amministrativi egiziani e discussione delle monche e contradittorie notizie date in proposito dagli storici arabi.
Il Dennett tende a dimostrare che l'entità delle imposte che gli Arabi facevano gravare sui Cristiani non era tale da giustificare la loro apostasia, ma a ciò si può forse obiettare che si tratta, in questo caso, di una questione di apprezzamento personale.
Per quanto, in se stessa, 1' imposta sui terreni, ad esempio, è risultata dagli studi tutt'altro che insopportabile, o almeno tale da così sembrare a noi, sta di fatto che i contadini abbandonavano le loro campagne per andare a vivere nelle città in uno stato di squallida miseria, pur di non pagarla.
Il che sembra. dimostrare che a quei contadini, l' imposta, anche se in se stessa non era grave, sembrava insopportabile.
E se ne può intuire il motivo.
Finché i proprietari erano rimasti in possesso dei loro beni, avevano pagato essi all'erario bizantino 1' imposta fondiaria, ma fuggiti i proprietari abbandonando le loro proprietà, le imposte da pagarsi all'erario arabo incombevano ai contadini che erano rimasti sul posto, ma costoro che non erano abituati a pagarle, le giudicarono probabilmente insopportabili...
Altra circostanza di natura psicologica della quale bisogna tenere conto è quella che le popolazioni siriane avevano sempre considerato assai umiliante e perciò moralmente insopportabile, l'imposta personale (kapnikon) perché, secondo l'antecedente sistema finanziario bizantino, quella imposta era applicata solo ai servi e non agli uomini liberi.
Aggiungiamo infine che i Cristiani giudicavano insopportabile l'uso arabo di appendere un bollo di piombo al collo dei contribuenti che avevano pagato le imposte, per prevenirsi contro alle evasioni fiscali.
In Egitto, allo stesso scopo, i Cristiani dovevano essere provvisti di una carta d' identità, altrimenti erano multati di dieci dinari.
Non mancano prove dirette ed esplicite delle conseguenze che ebbe questo stato di cose sulle conversioni dei Cristiani all' Islam.
Ne accenna, fra gli altri, il Patriarca nestoriano Isoyahb III (eletto nel 660) scrivendo nei seguenti termini a Simone Vescovo di Revardasir: ' Questi Arabi che, come sai, sono presso di noi, non solo non impugnano la religione Cristiana, ma lodano la nostra fede, onorano i sacerdoti e i Santi di Nostro Signore e largiscono benefizi alle chiese ed ai conventi. Perché dunque i vostri Mazunei abbandonano la propria fede per quella loro ? Tanto più che gli Arabi, come essi stessi riconoscono, non li hanno costretti a rinnegare la loro religione, bensì ordinarono loro di cedere la metà dei loro beni in cambio della facoltà di conservarla. Ma essi abbandonarono la fede, che giova eternamente, pur di conservare la metà dei beni del secolo caduco. Quella fede che tutti i popoli acquistarono ed acquistano al prezzo del proprio sangue effuso, i vostri Mazunei non vollero acquistare nemmeno con la metà dei loro averi '.
Le stesse notizie ci sono date da Sawiras ibn al Muqaffa, che scrive: 'A cagione del pesante harag (imposta fondiaria) e altri gravami, molti, tanto fra i ricchi che fra i poveri, abbandonarono la fede del Messia '.
Nei secoli successivi e specialmente per opera dei Turchi, la pressione finanziaria fu deliberatamente usata come mezzo indiretto per provocare l'apostasia dei Cristiani.
Interessanti particolari in proposito ci sono dati, fra l'altro, in un Trattato Intorno agli usi, alle condizioni e alla nequizia dei Turchi, d'anonimo autore del secolo XVI.
Costui narra di avere veduto in Turchia 'una moltitudine di conversi e non solo di gente del popolo, bensì anche di persone istruite e d'ogni genere, condizione e professione e che i Turchi assicurano ai religiosi e ai sacerdoti cristiani che si convertono all' Islamismo un ottimo trattamento finanziario, affinché siano di esempio per la conversione d'altri. Vidi -seguita lo scrittore- un ex frate dei Minori Osservanti che godeva di una lauta provvigione dalla Camera Regia, perché aveva abiurata la fede e ho inteso parlare anche di un Padre Domenicano che aveva apostasiato'.
Tuttavia , sebbene indubbiamente molto importanti, è da escludersi che gli incentivi alla conversione ora accennati fossero stati da soli sufficienti, onde è probabile che si siano aggiunti ad altri altrettanto forti.
Una minaccia, un gravame, è efficace, non tanto per se stesso quanto in ragione delle reazioni psicologiche che provoca; piega colui che è predisposto a piegarsi, non colui animato da forza di resistenza.
Di fronte agli avvenimenti politici e militari che, nello spazio di così pochi anni, erano venuti svolgendosi nelle province orientali dell' Impero Bizantino non può sorprendere che molti animi siano rimasti profondamente scossi.
Quella costante abitudine, derivata dall'Antico Testamento, di fare entrare direttamente Dio in tutte le faccende umane, onde gli avvenimenti della storia dei popoli venivano rappresentati, a seconda dei particolari interessi, come punizioni o premi decretati da Dio, doveva naturalmente trovare la propria applicazione da parte dell'anima popolare nel caso dello straordinario avvenimento della così rapida invasione araba.
Il Dozy osserva a questo proposito, che dovette fare profonda impressione sul popolo cristiano il fatto che gli eserciti di un eretico falso Profeta, quale Maometto gli era stato descritto dal clero, non fossero stati ostacolati nelle loro rapidissime e sorprendenti conquiste da alcun miracolo celeste.
'La fede nei miracoli, tanto inculcata dalla Chiesa nei fedeli -scrive il Dozy- 'si rivoltava perciò contro la Chiesa stessa'.
Né era un efficace rimedio quello di affermare, come subito fu fatto, che l' invasione araba era una punizione di Dio per i peccati dei Cristiani.
Poiché, dopo qualche tempo, il popolo dovette incominciare a pensare che il castigo durava un po' troppo a lungo e andava assumendo l'aspetto di situazione stabile e definitiva, laddove la natura del castigo è d'essere temporaneo, poiché altrimenti non è piuù castigo, bensì condanna e dannazione.
Comunque le vittime del castigo dovettero pensare che, in fin dei conti, gli strumenti del castigo (come vediamo spesso chiamati gli Arabi negli scritti degli ecclesiastici) si erano assicurati un bel successo per loro stessi, che equivaleva ad un premio.
Ora la più efficace propaganda e la più forte pressione sulla mente degli uomini è indubbiamente quella esercitata dal successo.
Nelle masse popolari vi è sempre una parte ondeggiante, vigile ai propri interessi e senza ferme convinzioni, che rimane in attesa durante i primi tempi delle guerre e delle rivoluzioni, poi si getta decisamente dalla parte dei vincitori, appena essi si palesano tali.
Scrivono infatti gli storici arabi che appena fu conosciuto il Trattato di capitolazione di Alessandria, che comportava l'abbandono dell' Egitto dai Bizantini e lo stabilimento del Governo arabo, molti prigionieri cristiani si convertirono all' Islam.
Molti loro correligionari seguirono l'esempio in tutte le regioni abbandonate dai Bizantini, più o meno rapidamente, ma per il medesimo impulso: abbandonavano la nave che affondava per mettersi in salvo ed assicurarsi l'avvenire.
Tale condotta era abbastanza comune, come attesta l'Arabo cristiano A1 Kindi che nella sua opera contro l'Islam ricorda ai Musulmani che parecchi apostati cristiani erano passati alla loro fede esclusivamente perché 'allettati dal potere e dalla ricchezza '.
Indubbiamente in quegli anni fortunosi, lo smarrimento, il panico, l'eccitamento delle passioni che accompagnano i grandi avvenimenti storici, le guerre e le rivolazioni, dovettero essere assai grandi fra le popolazioni abbandonate dal loro Governo in mano ad ignoti stranieri.
Pochi scrittori contemporanei ci hanno lasciato descrizioni di quanto accadde e ben presto prevalse, quasi per tacita intesa, l'uso di rappresentare le popolazioni cristiane oppresse dagli Arabi e da essi costrette a rinnegare la loro fede, ma ben spesso è da supporsi che tali affermazioni mirassero a nascondere una assai differente realtà.
Le apostasie debbono essere state spontanee, rapide, collettive, tumultuarie.
Giovanni di Nikiu è uno dei pochi che ci abbia tramandato una descrizione realistica degli avvenimenti d' Egitto scrivendo: ' Parecchi Egiziani che erano dei cattivi cristiani (cioè dei Calcedonesi) rinnegarono la santa religione ortodossa ed il Battesimo che conferisce la vita per adottare la religione di quel mostro, cioè di Maometto; costoro condivisero gli errori di quegli idolatri ed adoperarono le armi contro ai Cristiani. Uno di essi, un tal Giovanni, calcedonese, del convento del Sinai, gettò l'abito monastico, si fece musulmano ed armatosi di una spada perseguitava i Cristiani rimasti fedeli a Cristo '.
Fatti analoghi sono così ricordati da A1 Kindi: 'Vi furono dei Cristiani rinnegati che adoperarono la propria posizione professionale per opprimere gl'innocenti compatriotti rimasti fedeli alla loro antica fede: lupi che depredavano gli agnelli, come era stato predetto da Nostro Signore '.
Questi episodi dimostrano che certa gente aveva perduto la testa.
In quanto a coloro che si erano fatti Musulmani per calcolo d' interesse, sappiamo che non ne trassero immediato vantaggio, poiché, nei primi tempi, i convertiti delle classi popolari furono trattati con grande disprezzo dagli Arabi.
I Cristiani intelligenti, educati, istruiti e capaci ebbero invece ben presto impieghi importanti nel nuovo Stato arabo, trovatosi improvvisamente, senza alcuna preparazione, di fronte a problemi amministrativi, finanziari e tecnici che i cammellieri venuti dal fondo del deserto erano assolutamente incapaci di risolvere.
Le nuove condizioni politiche della loro patria assicuravano dunque a molti Siriani ed Egiziani rapide e proficue carriere a costo, tuttavia, della loro coscienza.
Per poter partecipare alla vita nuova bisognava infatti ripudiare la propria antica religione.
Ma anche per ciò quegli apostati trovavano una certa facilitazione spirituale, della quale bisogna tenere conto, pur senza esagerarne l' importanza.

Uno degli argomenti preferiti dei controversisti antislamici fu, come vedremo, che Maometto aveva derivato le sue dottrine da un gran numero di eresie praticate dai Cristiani, soprattutto di Siria e d' Egitto, parecchi secoli prima ch'egli nascesse e delle quali, come facilmente s' intende, egli non ebbe la benché minima nozione.
Tuttavia questa affermazione dei critici dell' Islam è da tenersi presente: acquista valore e verità, purché sia rovesciata.
Non già Maometto prese le proprie dottrine da eresiarchi cristiani, bensì la sopravvivenza ed il ricordo delle dottrine di costoro in certe regioni, favorirono indubbiamente ivi l'accoglimento del1' Islam per la sua affinità con esse.
Un attento esame etnografico-geografico, che meriterebbe, in questo e tanti altri analoghi casi di essere approfondito, sembra dimostrare che 1' Islam fu accolto più rapidamente e facilmente in tutti i centri cristiani nei quali si erano sviluppate precedentemente dottrine di carattere razionalista.
Il razionalismo arabo, ispiratore dell' Islam, non poteva urtare quello che aveva trovato la propria espressione in talune ben definite eresie cristiane.
Ma c'è di più.
L'analoga tendenza con l' Islam di talune eresie cristiane sviluppatesi nelle regioni occupate per prime dagli Arabi è da considerarsi assai più come un fenomeno psicologico che propriamente storico, il che gli conferisce una importanza ed una forza determinante infinitamente maggiore.
Secondo le concezioni odierne, i singoli casi di somiglianza o di identità di tendenze intellettuali fra i popoli si ricollegano al più vasto e così complesso problema della psicologia razziale la cui esistenza è ormai indiscussa, ma che aspetta ancora una soddisfacente definizione tale da stabilire se essa sia determinata dall'ambiente, oppure da motivi biologici.
Ma qui andiamo fuori d'argomento.
La psicologia etnica, secondo il Canella, ha un carattere evolutivo per la moltiplicità dei suoi fattori, quasi tutti variabili nel tempo, tuttavia in questo suo variare da epoca a epoca presenterà tratti talora inconfondibili di continuità, specie nei popoli di formazione antica (come è appunto il caso qui ricordato) e di composizione razziale mantenutasi pressoché uguale attraverso i secoli .
Queste conclusioni di carattere scientifico, spiegano molte cose anche nel campo storico.

Sappiamo che le religioni sono tanto più rapidamente e facilmente accettate, quanto meglio corrispondono alle caratteristiche tendenze intellettuali ed ai particolari bisogni spirituali di un popolo, e li concretano nel momento storico piu opportuno.
D'altra parte troviamo la conferma di quanto siamo venuti osservando in un fenomeno che sembra avere opposto carattere, mentre invece è complementare.
Vediamo che una medesima religione non è praticata assolutamente in modo identico da tutti i popoli che professano di seguirla.
Il Cattolicesimo non è certo praticato allo stesso modo in Spagna e nel Messico che in Olanda ed in Inghilterra; si tratta, s' intende, di differenze esterne, formali e non sostanziali, ma non perciò prive d' importanza sintomatica.
Spesso si spiegano certe deformazioni di un culto attribuendole alla sopravivenza di quello antecedente, mentre invece si tratta nella maggior parte dei casi, di un adattamento della religione delle forme del culto alle particolari tendenze psicologiche di ciascuna razza.
Tutti i fenomeni di questo genere sono da annoverarsi fra quelli che hanno per causa la psicologia razziale, insopprimibile ed anche molto difficilmente modificabile.
Una lunga evoluzione psicologica predispone un popolo ad accettare da un altro una nuova fede che anch'esso, alla sua volta, abbia elaborato dopo aver anteriormente compiuto un'analoga evoluzione psicologica.
Eusebio non sospettava neppure l'esistenza della psicologia razziale quando compose il Trattato intorno alla Preparazione evangelica, nel quale ricercò ed additò ai Gentili i precedenti delle dottrine del Cristianesimo che si possono trovare nelle opere degli scrittori e dei pensatori dell'antichità classica.
In modo analogo, appoggiandosi più alla psicologia razziale che ai precedenti letterari, si potrebbe scrivere anche una Preparazioe islamica, ravvisandola nelle tradizionali ed insite tendenze razionaliste, per l'appunto di talune fra le prime comunità cristiane con le quali l' Islam conquistatore venne a contatto.
Le particolari tendenze che caratterizzavano questa o quella provincia del Vicino Oriente sono state notate da vari scrittori, senza che poi ne abbiano tratto alcuna conclusione.
Ad esempio l'archeologo e geografo inglese Ramsay a proposito dell'Asia Minore osserva: 'Vorremmo poter spiegare perché certe regioni dell'Asia Minore opposero così tenace resistenza al Cattolicesimo, mentre altre lo accolsero invece così facilmente. Perché, ad esempio, la Cappadocia era ortodossa e la Frigia invece eretica ? Indubbiamente ciò fu determinato, almeno in parte, da cause geografiche e razziali e dalla psicologia delle popolazioni, determinata dalle particolari condizioni dell'ambiente fisico e dalla storia antica, rispettivamente di quelle due regioni '.
Più recentemente [ma in relazione a questo stesso assunto] un altro scrittore di storia ecclesiastica, il Padre Lagrange, ha notato che nelle regioni della Siria nelle quali prevalevano popolazioni semitiche, che, per naturale tendenza del loro spirito positivo, erano inclini ad un certo razionalismo, era visto di mal occhio il misticismo d'origine alessandrina, importato in Frigia al tempo di Montano.
L'opposizione degli Ebrei, poscia quella dei Musulmani al dogma dell' incarnazione sono, secondo il Lagrange, 'prove storiche incontestabili delle tendenze razionaliste di quelle popolazioni'.
Lo stesso Arianismo, sebbene sorto ad Alessandria d' Egitto, s' impiantò solidamente in Antiochia ove trovò nel clero siriano il principale appoggio. Sappiamo che Antiochia era il centro dell' Ellenismo del Vicino Oriente ed Ellenismo, al tempi ai quali ci riferiamo, era sinonimo d'Aristotelismo (quindi razionalismo), dato che 1' influenza neoplatonica si fece sentire in quelle regioni più tardi.
Non può certo essere casuale la fioritura di seguaci e divulgatori della filosofia aristotelica che si nota in Siria e nelle regioni finitime, prima e dopo l'avvento del Cristianesimo.
Ricordiamo i nomi di Luciano d'Antiochia, Themistius di Paflagonia, Nemesio Vescovo d' Efeso, Alessandro d'Afrodisia. E' poi da tenersi presente che l'antitesi fra Aristotele e Cristo, che esprimeva quella fra il razionalismo e lo spiritualismo, rimase classica per molti secoli.
Essa è esplicitamente indicata da San Gerolamo ed è argomento di un Trattato del Petrarca:' A me non interessa ciò che dice Aristotele, bensì quello che insegna Paolo', scrive San Gerolamo ed il Petrarca all'unisono con lui, aggiunge: 'In tutte queste cose (nozione di Dio, della creazione, ecc.) è massimamente da fuggirsi Aristotile'.
Nel novero delle idee e delle tendenze dell' Islam di natura tale da avere trovato una corrispondenza con concetti analoghi preesistenti in certi centri della Siria occupati dagli Arabi o siffat te da non aver potuto urtare le popolazioni cristiane , dobbiamo ricordare la tendenza islamica al fatalismo.
Poiché manca una categorica rivelazione divina in proposito, è naturale che tutte le religioni abbiano cercato di chiarire, non già di risolvere, il formidabile problema della coesistenza del libero arbitrio umano e della prescienza divina.
Nemmeno può sorprendere che, non trovandosi una soddisfacente soluzione del problema, si abbia voluto collocarlo nel novero dei misteri che, anziché ricevere una soluzione, richiedono una uguale cieca fede in ambedue i suoi opposti termini.
In proposito si possono fare alcune osservazioni.
I teologi e gl' intellettuali in genere tendono ad attribuire molta importanza al libero arbitrio umano che è il fondamento dei sistemi religiosi, poiché se l'uomo fosse concepito come abulico strumento di forze ad esso estranee, la religione, come tale, con i suoi precetti e le sue pratiche, sarebbe per lui inutile, come lo è per gli animali, che noi riteniamo essere null'altro che schiavi dei loro istinti.
Il popolo invece, seguendo la sua logica naturale, si dimostra più propenso ad attribuire preponderante importanza alla prescienza divina.
Le menti semplici non riescono a concepire un Dio onnipotente, creatore d'ogni cosa visibile ed invisibile, che, appunto come tale, non eserciti influenza sull'avvenire, anche perché esso non può essere cosa a lui estranea, bensì opera della sua volonta, non altrimenti che il passato ed il presente.
Per questi motivi nei testi sacri, tanto canonici che esoterici, a seconda della loro particolare fonte d' ispirazione, si trovano in più o meno larga misura ed in forma più o meno esplicita, tanto affermazioni relative alla indipendenza umana, quanto invece ciò alla umana soggezione alla volontà divina.
Ciò si verifica ugualmente nel Giudaismo, nel Cristianesimo e nell' Islamismo costituendo un loro terreno d' intesa comune, poiché 1' incertezza intorno alla soluzione del problema in questione non è particolare ad una determinata dottrina, bensì è cosa intrinseca all' intendimento umano.
Nel Giudaismo la stessa così caratteristica forma della profezia è, per se stessa, una implicita manifestazione di fatalismo, poiché è evidente che non è possibile profetizzare altro che quanto è già stabilito nell'avvenire.
Non si può avere una visione fisica né un intuito intellettuale, che di qualche cosa che abbia una qualsiasi forma di esistenza. I1 nulla ed il vuoto non si possono descrivere come tali e per loro stessi, ed il preannunciare quello che riempirà quel vuoto è un intuire una predestinazione.
D'altra parte, in più luoghi dei testi sacri, e più esplicitamente nel versetto I9 del capo XXX del Deutoronomio, si trovano chiare affermazioni relative all'umano libero arhitrio, accompagnate poi, in altri testi, da affermazioni ugualmente chiare relative alla prescienza divina come, ad esempio, nel Salmo CXXXIX, 4: 'Percioché non essendo ancora la parola sopra la mia lingua, ecco, Signore, tu già sai il tutto' I6: ' I tuoi occhi videro la massa informe del mio corpo e tutte queste cose erano scritte nel tuo libro, nel tempo che si formavano, quando niuna d'esse era ancora '.
Anche nell' Islam ritroviamo il libro celeste nel quale sono scritte, avanti che siano compiute, le azioni degli uomini, onde il detto caratteristico dei Musulmani per indicare cosa predestinata, mecktub ! (= è scritto ! ).
Questo stesso concetto del destino umano scritto in cielo si ritrova in certe opere esoteriche cristiane che rispecchiano così fedelmente i sentimenti e le radicate credenze del popolo, fra il quale anticamente erano assai più diffuse che i testi canonici.
La più suggestiva descrizione della scrittura celeste si trova nell'Apocalissi di Maria Vergine, componimento artisticamente bellissimo e di alta drammaticità, nel quale Maria narra un viaggio da Lei compiuto attraverso 1' Inferno ed il Paradiso accompagnata dal suo divin Figlio che gliene fa la spiegazione, come Virgilio la fece a Dante. Quest'opera che è attribuita ad un monaco, perché contiene una dettagliata descrizione delle pene infernali inflitte a monaci ed a suore per vari loro peccati, proprio come Dante metteva all' Inferno i suoi nemici, è posteriore all' Islam, perché ne parla, ma indubbiamente esprime idee correnti fra i Cristiani da gran tempo prima ch'esso sorgesse.
Dice dunque Maria descrivendo il suo viaggio attraverso l' Inferno: 'Poscia in questa sala vidi una grande colonna d'oro coperta d' iscrizioni da cima a fondo, onde interrogai mio figlio dicendo: - Che cosa è ciò che veggo scritto su questa colonna in caratteri minutissimi? -. Mi rispose Egli dicendo: - Su questa colonna sono scritti i nomi dei Santi -. Ed io interrogandolo dissi: -Sono scritti su questa colonna prima o dopo la loro nascita ? -. Mi rispose Egli dicendo: - Erano scritti prima che nascessero il padre e la madre loro Adamo ed Eva -. Dopo di questo Maria vede una colonna di fuoco, più alta di quella d'oro e ripete in proposito a Cristo le domande già fattegli, alle quali Egli risponde: - Su questa colonna sono scritti i nomi dei peccatori -. - Prima o dopo la loro nascita ? -, chiede Maria. A1 che Gesù risponde: - Non hai visto ciò che dice la Scrittura ? - Questi si scrivono prima del Giudizio, prima che essi nascano - '.
Si potrebbero aggiungere altre numerose citazioni tolte da un grande numero d'opere d'ecclesiastici, per dimostrare sempre meglio la diffusione di idee relative alla assoluta dipendenza umana dalla volontà divina nelle antiche comunita cristiane d' Oriente, ma, fra le tante, mi limiterò a citare un testo singolarissimo, nel quale vien dato addirittura forma di dottrina a concetti che si risolvono in quello del fatalismo, tanto rinfacciato all' Islam.

Palladio Vescovo di Elenopoli nella sua opera così viva ed interessante intitolata Il Paradiso dei Santi Padri Anacoreti d' Egitto, composta nel 420, nella quale narra un viaggio da lui compiuto nei deserti d' Egitto alla ricerca degli anacoreti ci tramanda assai numerose descrizioni e biografie di costoro assieme ad una copiosa raccolta dei loro detti e pensieri [che fa da sfondo a certi aspetti del loro fatalismo].
Si tratta di una specie d' inchiesta fatta con criteri modernissimi intorno ad un mondo a noi poco noto e fra i più singolari che si possano immaginare.
Scrivendo intorno all'anacoreta Paphnutio, 'uomo dottissimo', Palladio racconta che essendogli stato chiesto 'per quale motivo certi uomini vivono nel deserto una vita siffatta che procura ad alcuni disturbi mentali e che riduce altri schiavi della lascivia', Paphnutio rispose: 'Tutte le varie cose che avvengono nel mondo sono di due specie in quanto talune accadono per diretta volontà di Dio ed altre perché sono da lui permesse.... Gli uomini compiono biasimevoli malvagità perché Dio glie lo ha permesso, affinché servano d'esempio ad altri e affinché, quando si siano resi conto di quello che è loro accaduto in seguito a tale permesso, si ravvedano e tornino alla perfezione spirituale .
Disse inoltre Paphnutio: 'Dio allontana l'angelo della sua divina provvidenza da colui che è enfiato ed indebitamente esaltato e, non appena quell'angelo 1' ha abbandonato, costui è subito soggiogato dall' Avversario onde chi s'era innalzato mercé 1' ingegno e la facilità di parola precipita poi nella lascivia o diventa vittima di qualch'altra laida passione'.
Per corroborare questi concetti il Paphnutio cita alcuni passi dell'Antico e del Nuovo Testamento, nonché delle Epistole di San Paolo, onde il Palladio conclude: 'Perciò è evidente che da queste cose dobbiamo imparare che l'uomo non può errare né essere dominato da desideri impuri, senza il permesso della Divina Prowidenza'.
L' interesse di queste citazioni è dato dal fatto che i passi della Scrittura riportati da Paphnutio non calzano affatto.
Anziché confermare che, in certe circostanze, Dio permette all'uomo di peccare continuando poi a dirigere le sue azioni, i passi della Scrittura citati riguardano le tribolazioni ed i castighi mandati da Dio, sia per saggiare la fermezza della fede, sia per punire i peccatori.
Ma l' aver data una interpretazione inesatta alla Sacra Scrittura al fine di trovarci la conferma di una particolare dottrina, dimostra con ogni evidenza che tale dottrina era tenuta in maggior conto persino della Scrittura.
L'opera del Vescovo Palladio, oltre alle opinioni dell'anacoreta Paphnutio, ne riferisce moltissime altre analoghe, fra le quali scelgo, per terminare, la seguente, espressa con parole così pittoresche, secondo lui, da Sant'Antonio abate in un discorso pronunciato sulla tomba di San Paolo eremita: 'Oh, Signore Iddio, senza il cui ordine nessuna foglia cade in terra, né alcun uccello cade nel laccio, benedici noi tutti ! '.
Ai Cristiani ai quali questi concetti erano familiari, moltissimi passi del Corano non potevano recare sorpresa, ne dare loro-motivo di scandalo.
Nel campo politico la tendenza fatalistica delle popolazioni del Vicino Oriente fu assai utile agli Arabi quando invasero la Siria, facilitando le loro operazioni militari.
Come è gia stato accennato, l'unica cosa nella quale gli inconciliabili nemici dell'alto clero melchita, nestoriano e monofisita andavano perfettamente d'accordo era nel ritenere ed affermare che gl' invasori erano 'mandati da Dio per punire i peccati dei Cristiani'.
In tal modo quegli interpreti del volere di Dio si facevano preziosi collaboratori dei suoi nemici.
In una Cronaca siriana attribuita agli anni 670-680, si legge: 'Allora Dio fece contro di essi (Persiani) una incursione mercé i figli d' Ismaele, innumerevoli come l'arena sulla spiaggia del mare. Era loro capo Maometto; né le mura né le porte poterono resistere al loro assedio, né le armi né gli scudi, onde s' impadronirono di tutto il paese dei Persiani '.
Più oltre il medesimo cronista aggiunge: 'La vittoria è da attribuirsi a Dio, non agli Arabi'.
Alla sua volta il Patriarca nestoriano Isoyahb III nella lettera già citata scrive: 'Questi Arabi ai quali, in questi tempi, Dio ha concesso il governo di questi paesi (largitus est Deus) sono presso di noi, come tu sai'.
Mi sono dilungato intorno alla storia dell' invasione araba della Siria e dell' Egitto, perché la versione erronea e falsata di quegli avvenimenti, alla quale gli Europei credettero fermamente per mille anni, fu uno degli elementi fondamentali della conoscenza e della valutazione dell' Islamismo in Occidente.


Terminata l' era delle Crociate, durante il periodo di assestamento che ad esse seguì nel bacino del Mediterraneo, per effetto dei comrmerci e del consolidarsi delle colonie italiane in Levante, si era, di fatto, venuto stahilendo un modus vivendi fra Cristiani e Musulmani.
Per un certo periodo di tempo cessò conseguentemente in Europa da parte del clero, la composizione di opere controversiali di qualche rilievo contro l' Islam.
Anche le relazioni dei pellegrini di Terra Santa appaiono misurate e parche nei loro accenni e giudizi intorno ai Saraceni.
Tutto cambia invece e si riaccende, più violenta che mai, la lotta religiosa antislamica, non appena dall' inesauribile fabbrica di popoli che è l' Oriente sorsero i NUOVI CONQUISTATORI che, nel volgere di pochi anni, penetrarono, invincibili, fino nei BALCANI.
Tuttavia, siccome certi errori, specie politici, si ripetono in modo invariabile per un tempo indefinito, così, come all'apparire degli Arabi i Bizantini credettero trattarsi di avvenimento passeggero e di predoni facili a respingersi, non altrimenti, settecento anni dopo, si credette in Europa di poter fermare l'avanzata dei TURCHI con una carica di cavalleria e di poterli ricacciare in Asia con le spade alle reni.
Di diverso parere fu Papa Gregorio XI che, fin dal 1372, aveva intuito la gravità della situazione creata dalla invasione della Bulgaria e della Serbia da parte del Sultano ottomano Murad.
Perciò in quell'anno il Pontefice aveva scritto a Re Luigi d' Ungheria esortandolo a collegarsi con altri Principi cristiani per arrestare l'avanzata del Turco; nel I375 rinnovò l'esortazione, che fino allora non aveva avuto effetto.
Alla sua volta 1' Imperatore Giovanni Paleologo supplicò i Principi d'Occidente di muovere contro 1' invasore asiatico, ma essi, in lotta fra di loro, o impreparati, o indifferenti, o trattenuti da altri calcoli, come i Veneziani, rimasero sordi ed inerti al disperato appello di tutto un mondo, quello di Bisanzio, che sentiva prossima la propria fine.
Vent'anni dopo Re Sigismondo d' Ungheria, futuro Imperatore, fu più fortunato del Papa e del Paleologo, poiché, chiesto aiuto e difesa contro il Turco a Filippo III il Buono, di Francia, lo trovò tanto consenziente da farsi banditore di una spedizione militare internazionale della quale affidò il comando al proprio figlio ancora giovinetto, Giovanni di Valois conte di Nevers.
Questa fu l'ultima Crociata, ma a noi interessa più che come tale, perché essa fu l'ultima prova data dall' Europa della consapevolezza dei propri interessi comuni e della volontà di una loro comune difesa contro alla minaccia orientale...
La opportuna e generosa spedizione terminò con la grande sconfitta che il Sultano Baiazet inflisse al Cristiani a Nicopoli e anch'essa fu dovuta alla loro ostinata, incorreggibile ignoranza di tutto ciò che riguardava gli Orientali.
La spedizione, che annoverava rappresentanti della più illustre nobiltà di Francia, Inghilterra, Savoia, Germania, Lombardia, Fiandra, Austria, Boemia, ingrossata da truppe ungheresi, giunse a Nicopoli in Bulgaria forte di centomila uomini, dopo aver massacrato e depredato per strada le popolazioni cristiane di Serbia e Bulgaria, peggio di come avevano fatto i Turchi.
Era il mese di settembre del 1396; la spedizione sostò un paio di settimane a Nicopoli, assolutamente ignara di dove si trovasse il nemico; in quanto al suo Sovrano Baiazet, del quale i cronisti di questi avvenimenti dimostrano di non conoscere nemmeno il nome, lo si credeva in 'Cairo di Babilonia', intento ad arruolare truppe per difendersi dai Cristiani.
In quei giorni Re Sigismondo fece un discorso alle truppe nel quale fra l'altro disse: 'Venga o non venga contro di noi il nemico, noi, a Dio piacendo, nella prossima Primavera passeremo il mare e, attraversando il Regno d' Armenia e la Siria, anderemo a conquistare Gerusalemme'.
Poco dopo comparve invece improvvisamente di fronte al Cristiani un formidabile esercito ottomano.
Sigismondo allora, impensierito, assennatamente propose in un Consiglio di Guerra di mandare alcune truppe esploratrici a osservare la forza del nemico e cercare di scoprirne le intenzioni.
La proposta dispiacque alla animosa nobiltà francese che sospettò Sigismondo di volere, con i propri fanti, assicurarsi il merito della immancabile vittoria.
'Sì, Sì !' - gridò Filippo d'Artois, conte d' Eu, Gran Connestabile di Francia - 'Il Re d' Ungheria cerca di procurarsi la parte più bella della battaglia e l'onore !'.
Poi comandò al suo portabandiera: 'Avanti la bandiera, nel nome di Dio e di San Giorgio !' e così dicendo caricò il nemico, seguito da tutti gli altri nobili cavalieri.
Quei prodi travolsero la prima linea dei nemici e ne fecero un gran macello, ma, secondo la tattica turca, nota a Re Sigismondo, ma non a loro, li attendevano a pié fermo le forti schiere degli arcieri ottomani che sempre entravano in azione quando il nemico s'era esaurito nel primo impeto del combattimento.
Anche questa volta tale tattica ebbe l'usato successo e la terribile strage dei cavalieri che seguì provocò la gran rotta, lo sbandamento e la disperata fuga dell' intero esercito cristiano e di Sigismondo con esso.
Baiazet, il giorno dopo la grande vittoria, percorse a cavallo il campo di battaglia ove aveva ordinato che i cadaveri dei nobili fossero messi da parte, per poterli identificare e intanto, come scrisse lo storico Froissard, egli 'regracioit les dieux et les déesses selon la loy où il creoit et que les paiens croient'.
Il che dimostra che un distinto scrittore del XV secolo credeva ancora che i Musulmani fossero pagani, adoratori di divinità maschili e femminili.
Nei primi giorni del suo regno, poco dopo un'altra vittoria, quella di Kossovo, Baiazet aveva detto a certi Italiani, venuti a chiedergli di confermare i privilegi che erano stati accordati loro da suo padre il Sultano Murad, che dopo aver conquistato l' Ungheria, egli avrebbe proseguito per Roma ove intendeva dare la biada al suo cavallo sull'altare di San Pietro.
Lungi da ciò, Baiazet terminò la vita in una gabbia nella quale l'aveva fatto rinchiudere Tamerlano dopo averlo sconfitto ad Ancara, e che il gran conquistatore si portava sempre appresso.
Non contento di ciò, Tamerlano faceva inoltre assistere Baiazet, chiuso in quella gabbia, ai suoi banchetti nei quali, per schernirlo, egli si faceva mescere il vino dalla sua moglie prediletta, ignuda.
Tuttavia, prima di tanto avvilimento, Baiazet aveva dato a Nicopoli il primo avvertimento all' Europa di quanto fosse grave il pericolo turco.
Il 29 maggio 1453 avvenne il cataclisma; la caduta di Costantinopoli il cui significato morale trovò così efficace espressione nel tracotante ingresso di Maometto II in Santa Sofia a cavallo, e che provocò in Europa tanto lutto e così grave sgomento.
Come giunse ed in qual modo fu accolta a Venezia la fatale notizia lo racconta nei seguenti termini il cronista Zorzi Dolfin: 'Ale 19 hore che gran conseijo era suxo venne grippo (tipo di imbarcazione) da Corfu cum lettere da Lepanto, arrivo in pressa al pontil de le legne, stava ognun sopra la finestra et balconi aspettando tra speranza et timor saper che nuove portavano, sì della citta de Costantinopoli come delle gallie di Romania, et chi del padre, del figlio, chi del fratello. Et come le lettre sono appresentate alla Signoria et sparta la voce per consejo che Costantinopoli era prexo et tutti da sei anni in suxo ha fatto taiar a pezi, fu remesso el balottar, et alhora fu cominciato grandi et extremi pianti, cridori, gemiti, battendose ognun le palme de le mane, et cum li pugni batterse il petto, stracciandose li capelli et la faza chi per la morte del padre chi per il figlio chi per il fratello chi per la roba'.
Non meno che a Venezia lo sgomento per la caduta di Costantinopoli fu indicibile a Genova.
Al giungere dall' Oriente delle tragiche notizie, la desolazione, lo scoraggiamento furono in tutti così profondi che, ad esempio, nella seduta del Consiglio del 30 settembre 1453, a stento si potè deliberare.
L' iniziativa della reazione fu presa dalla Santa Sede e seguì rapidissima gli avvenimenti, poiché già il 30 settembre 1453 Papa Nicolo V proclamò la Crociata contro il Turco, conferendo in tal modo alla difesa dell' Europa minacciata carattere e finalità ad un tempo religiose e politiche.
L'appello papale ai Principi d' Europa fu raccolto dall' Imperatore Federico III, che convocò una Dieta a Ratisbona per deliberare intorno al da farsi.
Anche Papa Callisto III s' interessò alla lotta contro il Turco, che fu poi il pensiero dominante del pontificato di Pio II, che ad essa dedicò tutta la sua energia fino alla morte, sopraggiunta proprio quando egli, sperando di trascinare con l'esempio i tiepidi Principi d' Europa, stava per imbarcarsi in Ancona, per lo meno alla volta di Ragusa, ove erano già giunti i nemici della Cristianità.
Corsi e ricorsi della storia ! Anche nella seconda metà del secolo XV si trattava di costituire un esercito europeo a difesa della civiltà nostra, sulla quale incombeva la minaccia dell' Oriente ed anche allora non fu possibile.
Oltre alle insuperabili discordie e rivalità degli Stati europei, ostacolò la organizzazione della comune difesa l'opinione di molti, come i Venezani e i Genovesi,che fosse più opportuno ceercare di adattarsi alla nuova situazione politica creatasi nel Mediterraneo orientale, anziché cercare d' impedirne con la forza i naturali sviluppi.
L'azione politico-militare che la Santa Sede cercava di organizzare per impedire una ulteriore avanzata del Turco, fu poi assecondata e integrata da una ripresa della controversia religiosa antislamica che ebbe i medesimi caratteri delle campagne propagandistiche di stampa, a noi ben note, che preparano ed accompagnano le guerre ai tempi nostri.
Si trattava di agire sul morale dei combattenti e di eccitare in loro l'odio verso il nemico tracciandone un orribile ritratto, ancora più brutto del vero, e di darne deliberatamente notizie false.
L'unica differenza fra questa antica campagna di stampa e quelle odierne, consisteva in ciò che, essendo svolta da ecclesiastici che vedevano solamente l'aspetto religioso del pericolo turco, essa si limitava a descrivere la nefandezza della religione del nemico, anziché, come si fa oggi, additare, ad esempio, il suo intollerabile egoismo economico che gli faceva negare ad altri popoli lo spazio vitale e accaparrare a proprio esclusivo profitto le materie prime.
La sistematica ripresa della controversia antislamica, alla quale erano assegnati in alto luogo scopi ben definiti, è molto interessante da studiarsi.
In quali condizioni sostanziali e formali avveniva tale ripresa sulla soglia dei tempi nuovi ? Quale nuovo e più adeguato carattere aveva ? Bisogna constatare che la controversia, affidata persino a religiosi di clausura privi di qualsiasi conoscenza del mondo reale, vivo ed operante, e informati del nemico che erano stati incaricati di combattere da quanto ne avevano scritto cinque o seicento anni prima i monaci bizantini, fu identica a quella svolta dal 1100 in poi.
Nulla di nuovo, nulla di efficace, ben poco di vero.
I nuovi controversisti si rivolgevano agli Europei del Cinquecento, credendo di convincerli, con gli stessi argomenti che erano stati adoperati per convincere quelli dell'alto Medio Evo.
Per dimostrare agli Europei quanto fosse necessario che si difendessero dalla minaccia del dominio ottomano, potevano essere adoperati moltissimi argomenti politici e giuridici, che avrebbero reso evidente la insopportabilità del regime islamico.
Ma di politica e di diritto i controversisti nulla, assolutamente nulla sapevano.
Le condizioni giuridiche dei Cristiani in uno Stato musulmano, l'ordinamento giudiziario, il diritto fondiario di quello stesso Stato, così come ogni altra cosa del vivere civile, erano ancora agli scrittori del tutto ignoti.
Per tali motivi costoro andavano dicendo alle truppe destinate a combattere i Turchi che questi erano meritevoli di esemplare castigo, perché si lavavano troppo, non bevevano vino e amavano troppo le donne.
Tutti argomenti questi che potevano fare impressione a dei frati, ma difficilmente a dei militari.
C' è poi di peggio.
Malgrado che fosse assiomatico, anche perché recisamente affermato dalle più alte e venerabili autorità spirituali, che la irresistibile forza di attrazione dell' Islam consisteva nella tolleranza sessuale, i controversisti, con mancanza di logica della quale è difficile capacitarsi, per destare ribrezzo dell' Islam negli Europei non parlavano loro d'altro che delle quattro mogli e delle concubine che Maometto concedeva ai suoi seguaci, nonché della continuazione dei piaceri sensuali, nel suo Paradiso.
La PROPAGANDA ANTITURCA nella seconda metà del secolo XV fu organizzata dal Cardinale Nicolò da Cusa [Cusano] (1401-1464) personaggio altamente qualificato per dirigerla per la grande energia, l' alto ingegno, la dottrina, infine la speciale competenza.
Quell'eminente prelato, alsaziano, Vescovo di Bressanone, unito da grande amicizia con Enea Silvio Piccolomini, aveva soggiornato a Costantinopoli alla vigilia della caduta della città, in qualità di Legato Pontificio per tentare l'unione della Chiesa greca con la latina.
Durante quel soggiorno il Cusano aveva mostrato d' interessarsi all' Islam facendosi tradurre il Corano dai frati Domenicani e Francescani.
Tuttavia questo desiderio del Cardinale di conoscere esattamente il testo del libro sacro dell' Islam sembra che fosse uno scrupolo di coscienzioso studioso, poiché egli, fin dal 1432, durante il Concilio di Basilea, aveva avuto fra le mani un codice della traduzione di Roberto di Chester che postillò, come diremo, e che tuttora si conserva a Cues presso Berncastel sulla Mosella.
Il Cusano organizzò la campagna spirituale antiturca a questo modo.
Incaricò il frate Certosino Dionigi di Rykel (1402-1471) che godeva grande reputazione di santità e di dottrina teologica di scrivere un Trattato Contra Alchoranum et sectam Machometicam, collaborò alla redazione di una lettera indirizzata da Pio II a Maometto II ed infine compose egli stesso e pubblicò un famoso TRATTATO che intitolò Cribratio Alchorani, vale a dire Vagliatura del Corano.
Il Certosino Dionigi di Rykel [incaricato dal Cusano] impiegò tanto tempo a comporre il Trattato commessogli che, quando lo terminò, mutate le circostanze, non serviva più allo scopo, tuttavia fu pubblicato circa ottant'anni dopo (1533) essendosi presentata altra occasione nella quale fu ritenuto opportuno animare le truppe che combattevano contro il Turco in Ungheria.
La lettera dedicatoria del Trattato all'allora Re Ferdinando d' Ungheria e Boemia, scritta da fra Pietro Blomevenna, Priore dei Certosini di Colonia, spiega molto bene lo scopo dell' opera:' I Maomettani - scrive il Priore - hanno una legge a tal segno riboccante d'empietà e di menzogne che non sarebbe possibile farlo credere alla gente se ciò non trasparisse da quella Legge stessa, nonché dalla licenza di peccare che essa concede. Perciò mandiamo questo libro al campo della Reale Maestà tua, affinche i Turchi siano altrettanto combattuti con questo scritto quanto con l'armi, e affinché, al tempo stesso, tu veda con quali nemici siete in guerra, cioè con gente effeminata che presta fede a ridicole favole e storielle fantastiche traduzione dal testo latino della Dedicatoria.
Queste poche frasi sono più che sufficienti per dimostrare a qual segno i buoni frati Certosini fossero poco adatti ad intervenire in qualsiasi modo in grandiosi avvenimenti del mondo e della vita reale, quali guerre e conflitti di razze, interessi ed ideologie.
Il sentire un frate trattare di effeminati i terribili Gianizzeri, terrore dei più agguerriti eserciti europei, fa davvero sorridere' per quanto è da supporsi ch'egli li definisse tali, sempre in conseguenza della ossessionante idea della poligamia.
Fra Dionigi incomincia la sua opera con la dichiarazione ch'egli intende scrupolosamente riferire intorno alla legge di Maometto solo quello che si trova nel Corano, nonché 'negli altri scritti pertinenti a quella legge'.
Aggiunge poi che se invece risultasse aver egli riferito qualche altra cosa, ciò non deve essergli imputato, bensì dovrà attribuirsi a corruzione di testi, oppure ad errore della traduzione, 'che tuttavia egli ritiene sufficientemente fedele' ed è quella fatta eseguire da Pietro di Cluny nel 1143.
Degli altri scritti pertinenti alla legge di Maometto dei quali dichiara di essersi servito per confutarla (e che di fatto non esistono) Fra Dionigi non indica né la natura, né l'origine, cioè se fossero supposte opere di Maometto, oppure di qualche suo seguace, corrispondenti agli Atti degli Apostoli o alle Epistole di San Paolo o alle opere dei Padri della Chiesa; certo, qualunque fossero, tornavano opportune ad un controversista, per confermare quel parallelismo fra l' Islam ed il Cristianesimo che tanto agevolava la confutazione.
Il Contra Alchoranum et sectam Machometicam di Dionigi di Ryckel ha forma di discorso rivolto ad un Musulmano e di dialogo con esso, e incomincia con la narrazione della vita di Maometto fondata sulla triplice presunzione che il clero cristiano d' Europa la conoscesse assai meglio che i Musulmani stessi, che costoro fossero sempre stati (non è detto né da chi né quando) ingannati in proposito, infine che Maometto avesse nell' Islam la medesima posizione che ha Cristo nel Cristianesimo.
Il Certosino narra dunque all' ignaro Musulmano che Maometto, non essendo riuscito a diventare Re della sua patria, si fece astutamente credere profeta di Dio. Come tale quel mistificatore si presentò ai poveri ed ignoranti contadini che vivevano segregati nelle campagne (per agros) e nei villaggi e che, non sapendo quali sono i segni che contraddistinguono i profeti, gli prestarono fede.
In seguito Maometto raccolse attorno a sé 'uomini pestiferi ', rapinatori e briganti da strada, latitanti e delinquenti d'ogni risma ch'egli mandava 'nel folto dei boschi, sulla vetta delle montagne e in prossimità delle fonti' ad assaltare e depredare i viaggiatori.
Dionigi a questo punto non ci dice quali osservazioni abbia fatto il suo ascoltatore musulmano, sentendosi descrivere le selve e le fonti dei dintorni di Mecca.
Fra Dionigi avrebbe evitato questi comici spropositi se invece di ricopiare le favole medioevali avesse attinto informazioni dai geografi suoi contemporanei, nelle opere dei quali si trovano parecchie descrizioni del paese nel quale visse Maometto come, ad esempio, in quella hellissima ed esattissima del suo compaesano Adriaan van Roomen di Lovanio intitolata Theatrum Urbium: ' Nell'Arabia Felice ' - scrive quel geografo - ' vi è un favoloso mare di arena per attraversare il quale i mercanti adoperano la bussola nautica, quasiché si avventurassero in un pericoloso mare. Effettivamente essi corrono molti rischi e sono costretti a portare sui loro cammelli certi recipienti chiusi, dai quali attraverso dei fori bevono l'aria che n'esce, poiché, quando hanno il vento contrario, vengono tutti sommersi nella sabbia '.
La biografia di Maometto del Certosino seguita nello stile del quale è stato dato esempio, riesumando le più assurde leggende e favole, già da tempo sbugiardate, ma vi si rileva la notevole affermazione che Maometto 'libros Novi ac Veteris Testamenti nec legerit nec intellexit', senza tuttavia l'ovvio commento che, se egli non aveva letto quei libri non può averli falsificati, né può essere considerato un eretico cristiano.
Anche di fronte a questo libro del Certosino, considerando l'epoca nella quale fu scritto, quando la cultura e la letteratura laica erano in tutta Europa in pieno, rigoglioso sviluppo, si rimane perplessi.
Quello scritto rivela una mancanza di logica e di capacità dialettica, nonché una concezione così puerile che non è facile spiegarsela.
Di differente struttura è invece il meticoloso esame del Corano nel quale appare l'attento e sistematico studio del Certosino per alterarlo, facendogli dire quello che non dice per farlo sembrare ben diverso di come è in realtà.
Quell'esame del Corano è tutto un sottile ricamo di reticenze, aggiunte, trasposizioni, che rivelano l'arte del provetto manipolatore di testi.
Ispirandosi al metodo del suo predecessore Ricoldo da Montecroce, il Certosino sorvola e tace quello che nel Corano non è criticabile e deliberatamente svisa il significato dei brani mutilati che cita.
Se si collaziona la confutazione del Certosino con la traduzione del Corano di Roberto di Chester, della quale egli dice essersi servito, ci si accorge, ad esempio, che Dionigi ha taciuto tutto quanto il seguente brano della cosiddetta Azoara II: 'Non è per voi cosa meritoria il rivolgere i vostri volti verso Oriente, oppure verso Occidente quando pregate, bensì il merito è di colui che crede in Dio, al giorno del Novissimo, agli Angeli, al Libro e al Profeti e a colui che avrà dato il suo avere, per amor di Dio, ai suoi parenti, agli orfani, ai poveri, al viandante, ai supplicanti e per redimere gli schiavi e fare l'elemosina e di coloro che mantengono la loro promessa, quando hanno promesso, e di quelli che sopportano con pazienza le avversità e le perdite ed il digiuno: costoro sono i giusti, coloro che temono il Signore'.
Così pure nella versione del Corano di Roberto di Chester, sotto la rubrica del versetto 40 della Azoara XXVII, si legge: 'Non forniicemini. Hoc est scelus viaque prava'.
Il Certosino tace questo precetto e attribuisce invece al Corano un precetto diametralmente opposto, di sua invenzione.
A proposito della storia di Giuseppe e della moglie di Putifarre, dogmaticamente irrilevante, narrata nella Sura XII del Corano, fra Dionigi nota irosamente che l'autentica versione del fatto è data dall'Antico Testamento, onde quella del Corano è falsa.
'Questo capitolo' - aggiunge il Certosino - 'contiene tante menzogne che è difficile enumerarle. E queste menzogne, empio Maometto, pretendi tu che ti siano state rivelate da Dio ? Quasi che il Dio vero e di verità possa narrare tutte queste bugie ? Io ti condanno con le tue stesse parole, o prodigioso assertore di falsità ! '.
Le falsità coraniche, varianti della versione biblica, condannate con tanto sdegno, consistono nella narrazione che, all' apparire di Giuseppe, la moglie di Putifarre e le sue ancelle, che stavano pranzando, affascinate e confuse dalla sua bellezza, si ferirono le dita con i coltelli.
Ora, anche se questa circostanza non è storicamente esatta, cioe se non è dimostrato che la moglie di Putifarre adoperasse il coltello mangiando, anzichè le dita, non pare che essa abbia grande importanza teologica e che pertanto meriti di destare tanto scandalo.
Alla confutazione del Corano segue un caratteristico dialogo con un supposto Musulmano nel quale, caso molto singolare, la mentalità di costui è colta abbastanza bene, poichè Dionigi lo fa ragionare semplicemente, a fil di logica, secondo i suggerimenti spontanei della ragione.
Altra particolarità di questo dialogo, nel quale il Cristiano ed il Musulmano finiscono per trovarsi abbastanza d'accordo, fuorché intorno alla topografia deli' Inferno, è che fra Dionigi elude parecchie delle precise domande che egli stesso pone in bocca al suo interlocutore, non rispondendo loro a tono.
Infine sorprende che lo scrittore mostri di conoscere o di avere retta mente supposto quale sia la obiezione dei Musulmani alla credenza nel sacrificio di Cristo sulla croce e che egli riferisce, senza apparentemente rendersi conto che essa esplicitamente ne smentisce l'intenzione ereticale anticristiana che gli era sempre stata da tutti attribuita.
Nel dialogo del Certosino l' interlocutore cristiano chiede al Saraceno chi, secondo lui, sarebbe stato crocifisso invece di Cristo.
Rispose il Saraceno: ' Giuda ! Non suona forse meglio che noi diciamo che quel traditore sia stato crocifisso da quegli empi, anziché il santissimo Profeta ? '.
Cristiano: ' Certamente ciò suonerebbe meglio e sembrerebbe più verosimile il dire che Dio non avrebbe potuto permettere che i giusti e gl' innocenti fossero perseguitati e trucidati in quel modo dagli empi. Ma, siccome secondo gli oracoli dei Profeti e gli insegnamenti degli Apostoli, Cristo fu ucciso per la redenzione di tutta il mondo.... '.
Senonché, dato che il Saraceno non ha la nozione del peccato originale, né della redenzione, l'argomento, senza la conoscenza di questi presupposti, era vuoto di senso e privo di efficacia.
Ma non dimentichiamo che il libro del Certosino era destinato ad essere letto sotto la tenda dai Lanzichenecchi di Carlo V.
Il contributo personale di NICOLO' DA CUSA alla ripresa della campagna antislamica, in seguito alla MINACCIA TURCA all' Occidente, ebbe carattere assai violento e fu da lui svolto persino con trivialità di linguaggio e abbondanza di invettive, contumelie e ingiurie alla persona di Maometto, raggiungendo spesso un tono così aspro che vien fatto di chiedersi a quale preciso scopo mirasse e quale efficacia se ne ripromettesse l'autore.
Ora, con grande sorpresa, anzi maraviglia, provocata dalla considerazione della personalità del Cusano, e del progresso della cultura ai suoi tempi, si finisce per doversi persuadere che lo scopo della vituperazione dell' Islam era quello di provocarne da parte del Papa la solenne condanna, che si credeva avesse potuto portare seco la fine della nefanda setta, con tutte le felici conseguenze, anche politiche, che ne sarebbero derivate.
L' idea non era nuova, poiché già Raimondo Lullo ai suoi tempi, aveva scongiurato la Santa Sede di provvedere alla evangelizzazione dei Tartari di Tamerlano, come mezzo per fermarne l'espansione politica e militare.
Mercé un certo sforzo intellettuale si arriva a comprendere quale fosse il concetto che ispirava tali speranze e che dapprima riesce incomprensibile.
Siccome l'espansione politico-militare, tanto degli Arabi che dei Tartari ed infine dei Turchi, era ritenuta conseguenza della loro religione islamica che incita alla violenza e che non conosce altro mezzo di espansione che quello delle armi, si credeva probabilmente che, abbandonata la loro religione, quei popoli sarebbero diventati pacifici.
Convertiti gli Arabi, i Tartari ed i Turchi alla fede cristiana, la quale, contrariamente a quella islamica, è tutta pace ed amore del prossimo, quei popoli sarebbero divenuti amorevoli e fraterni verso tutti quanti gli altri correligionari, proprio come lo sono sempre stati fra loro, e lo sono tuttora, i popoli cristiani.
Nella dedica a Papa Pio II della sua Cribratio Alcorani Nicolò da Cusa scrive che gli offre il suo lavoro ' affinché, come il suo tre volte santo predecessore Papa Leone condannò con spirito. apostolico, ingegno angelico e divina eloquenza l'eresia nestoriana, così e non altrimenti voglia anch'egli condannare la setta maomettana, derivata da quella, col medesimo spirito, con pari ingegno e simile eloquenza, mostrando come essa sia erronea e da eliminarsi'.
Il maggiore interesse di tutto ciò è quello di porgere la dimostrazione che nella prima metà del secolo XVI un illustre teologo e scrittore, nonché uomo politico, date le missioni che gli furono affidate dalla Santa Sede, quale il Cardinale Nicolò da Cusa, riteneva ancora che 1' Islam fosse una eresia cristiana, come tale disciplinarmente giudicabile dal Pontefice romano.
Questo dimostra una grandissima e davvero sorprendente immobilità di idee ed una straordinaria povertà di notizie esatte, della quale, del resto, il Cusano stesso c' indica la causa.
Infatti lo scrittore, fin dalla prima pagina della sua opera, ne indica la derivazione dalla traduzione del Corano fatta da Roberto di Chester nel 1143, dalla contemporanea confutazione dell' Islam di Pietro di Cluny, nonché da quella famigerata di Ricoldo da Montecroce.
Nei duecento e più anni successivi alla composizione di quelle opere nulla dunque era venuto ad arricchire le conoscenze dei più dotti teologi intorno all' Islam.
Durante i trascorsi tre secoli le autorità ccclesiastiche, sebbene abbiano dimostrato un costante interesse all' Islam, non si erano mai procurata una nuova, completa traduzione del Corano, malgrado che per lo meno alcuni dei molti religiosi residenti in Terra Santa ed a Costantinopoli, sarebbero probabilmente stati in grado di farla.
La conseguenza di questo paradossale stato di cose che, oltre tutto, dimostra un'assenza totale di senso pratico inteso a commisurare i mezzi al fine, fu che le opere controversiali del XVI secolo, ancora ispirate a quelle medioevali, non ne erano altro che parafrasi e ripetizioni, che perciò non arrecarono alcun elemento nuovo alla cultura europea.
Poiché la Vagliatura del Corano non voleva essere altro che una formale, documentata denunzia dell' Islam al Pontefice per attirare su di esso le più severe sanzioni disciplinari, il Cusano non vi considera quasi esclusivamente altro che i pochissimi accenni a Cristo, trascurando tutto il resto, onde, col suo vaglio, si può dire ch'egli non abbia vagliato altro che un pizzico di grano tolto da un grande acervo.
Il metodo usato dal Cusano per compiere la sua Vagliatura è ancora quello tradizionale consistente nello scegliere qua e là alcuni brani del Corano spesso mutilati e senza alcun nesso logico fra loro, nel tacere quello che non conveniva e nell' interpolarvi idee che vi sono totalmente estranee, compiendone in tal modo una deliberata falsificazione.
Quale valore si attribuisse alla confutazione di un testo artefatto dallo stesso confutatore, non è chiaro.
Caratteristico esempio del metodo critico del Cusano è il seguente.
La Sura del Corano che nella traduzione di Roberto di Chester porta il numero XXXIV e, come le altre, un mosaico di versetti tolti da parecchie altre Sure del testo, essa è composta dai versetti 4 e seguenti della Sura XXIV del Corano, al quali ne sono aggiunti altri parecchi d'altra provenienza e, verso la fine, vi si trova intercalato il versetto 54 della Sura XXX.
Il
motivo di tale bizzarro accozzamento potrebbe essere stato quello di riunire in una sola Azoara un certo numero di versetti che riguardano la donna, dato che contengono disposizioni circa alla punizione dell'adulterio, circa alla verecondia ed il vestire femminile ed infine il contegno da tenersi dagli ospiti di Maometto verso le sue mogli.
Fra tutte queste disposizioni il Cusano fa una oculata scelta; sorvola e tace tutte quelle che riguardano il pudore e l'abbigliamento femminile, ricordando invece le disposizioni relative alla punizione degli adulteri, ma attribuendo loro un significato opposto a quello che hanno e dando infine una sua interpretazione arbitraria alle semplici norme di galateo date da Maometto ai rozzi beduini di Medina.
Le postille marginali del Cusano a questa Azoara sono queste: ' Vana. Stulta. Impia. Nota la sua (di Mametto) compassione per le donne adultere .
Il testo della traduzione di Roberto di Chester di questa Azoara è il seguente: ' Ciascun adultero riceva cento bastonate alla presenza di molte persone, affinché, corretto e svergognato, smetta di commettere quel peccato vietato a tutti i buoni. Né abbiano di ciò compassione coloro che temono Dio e la sua Legge. Coloro che accuseranno le proprie mogli di adulterio senza averne testimoni, giurino quattro volte di dire il vero e la quinta volta dicano: - Vogliamo essere maledetti se mentiamo! - I Le mogli poi non siano punite se abbiano giurato quattro volte che essi (i loro mariti) mentirono e se, la quinta volta, abbiano invocato su loro stesse la distruzione, qualora invece essi risultassero veritieri'.
Di tutto questo testo Nicolò da Cusa ritiene esclusivamente le parole 'Le mogli poi non siano punite ' indicandole come prova della scandalosa indulgenza di Maometto per le donne adultere.
Dopo di ciò, sorvolando piu di metà dell'Azoara nella quale, oltre alle già accennate prescrizioni riguardanti la pudicizia femminile, è ripetutamente raccomandata la preghiera e l'elemosina ai po veri, il Cusano rileva soli due versetti che prescrivono a chi visitava Maometto di non entrare nella abitazione delle donne senza esserci invitato.
Tali versetti sono commentati dal Cusano a questo modo: 'Dice che nessuno deve entrare, fuorché nella casa propria, senza prima farsi annunziare. Ciò certamente perché quel pessimo lenone (Maometto) temeva di essere colto in compagnia di mogli altrui, che egli ssiduamente corrompeva (scortabat)'.
Il misogenismo assumeva in Nicolò da Cusa addirittura FORME PARANOICHE.
Nessun altro controversista ha dato mai in tali escandescenze ogni volta che s' imbatteva, anche in un remoto accenno alla donna, nelle storie e nei testi che commentava e confutava [queste considerazioni del Malvezzi ( L'Islamismo e la cultura europea, Sansoni, Firenze, 1956) ci inducono a sviluppare un'idea non peregrina sul contestuale svilupparsi dell'antifemminismo in Europa occidentale e parimenti sulle complesse valutazioni intorno alla condizione della donna nel mondo cristiano: che l'incentivarsi, a ondate storico - epocali, di antifemminismo e misogenia, sia da connettersi, indubbiamente oltre che ad ulteriori distinte motivazioni, anche alle postulazioni pubblicistiche antiislamiche dei controversisti cristiani volti, periodicamente e specie in occasioni di aperte situazioni conflittuali, a deprimere la credibilità socio-culturale ma anche morale (l'accusa reiterata di effeminatezza e di dipendenza fisiologica dalla creatura debilitante per eccellenza, appunto la donna in particolare onde dare credibilità e sostegno all'ipotesi, sempre dimostratasi inverosimile, di facili campagne militari antimusulmane]
In un punto della Cribratio il Cusano, pur di vituperare Maometto, arriva ad ammettere esplicitamente che Re David d' Israele era poligamo, circostanza sempre rigorosamente ed unanimemente tacinta da tutti gli altri controversisti di tutti i secoli: ' Sebbene risulti che Davide eccedesse nel numero delle mogli - scrive egli - come pure altri che poi divennero santi, ciò non scusa Maometto che si prese legalmente tale libertà, quasi che Dio lo consentisse, il che non era mai stato fatto prima da alcun Profeta né legislatore .
Di gran lunga più importante del Trattato controversiale antislamico di Dionigi di Rychel, nonché di quello famoso di Nicolo da Cusa è la Lettera indirizzata da PAPA PIO II a Maometto II nell'anno 1461 che è ricordata da tutti i biografi del grande Pontefice per il suo contenuto politico, ma che non risulta essere stata studiata sotto gli altri suoi aspetti.
Quella Lettera ben merita invece un minuzioso esame come documento di straordinaria importanza per la storia della cultura europea, dato che in essa il Pontefice espone diffusamente la sua opinione intorno all' Islam e la conoscenza che ne aveva.
Perciò, mentre le opinioni relative all' Islam manifestate dai così numerosi controversisti che siamo venuti studiando possono, più o meno, considerarsi loro personali o perlomeno suggerite dal loro rigoroso, ossequioso ed irriflessivo conformismo alla più volte secolare tradizione, la solenne Lettera di PIO II esprime invece il pensiero ufficiale della Chiesa cattolica al riguardo.
Notiamo anzitutto, in via pregiudiziale, che la Lettera riflette ancora tutte le contraddizioni della mentalità medioevale, determinate dai saldissimi pregiudizi che la caratterizzavano.
Nel documento l' Islam non è più espressamente definito eresia cristiana, come lo era stato correntemente fino allora, tuttavia vi è esplicitamente considerato come palese manifestazione d' imbecillità da parte dei suoi seguaci, testualmente definiti 'ebeti'.
Ciò perché, per deficienza intellettuale, i Musulmani 'non capiscono' la verità della religione cristiana e prestano invece irragionevole fede ad assurdi, ridicoli dogmi che sono loro gratuitamente attribuiti.
Senonché riesce difficile comprendere come questo giudizio intorno alle capacita intellettuali dei Turchi, che li pone al disotto -del livello mentale dei popoli primitivi e selvaggi, possa concordare con la verità quotidianamente constatata di gente che si era dimostrata capace di costituire uno Stato, la cui perfetta organizzazione politica e militare era molto ammirata dagli Europei ed incuteva loro una grandissima paura.
D'altra parte, mentre dallo studio della Lettera si ricava 1' impressione ch'essa sia diretta a persona di basso livello intellettuale, tanto che le si dice, fra le altre amenità, che il Paradiso al quale aspira è degno degli asini e dei buoi, al tempo stesso essa sembra invece scritta ad una personalità, per molti rispetti eccezionale.
Infatti quanto scrive Pio II ci fa logicamente supporre ch'egli avesse un concetto assolutamente imaginario della personalità del suo corrispondente, in quanto mostra di ritenerlo, non solo educato all'europea, ma fornito di una vasta e varia cultura, europea e cristiana, quale pochi, anzi certo nessun altro sovrano europeo suo contemporaneo avrebbe potuto vantare.
A dimostrarlo è sufficiente il fatto che, a sostegno della propria argomentazione, il Pontefice cita a Maometto II l'esempio e l'autorità nientemeno di circa 150 personaggi storici europei di vari secoli, di filosofi, teologi illustri ed oscuri, scienziati ecc., che indubbiamente erano tutti quanti ignotissimi al Sultano.
Infine nella Lettera, come diremo, Pio II fa rilevare a Maometto II l'assurdità di alcuni pretesi articoli della sua fede.
Ora, superato lo stupore che non poteva a meno di provocare in lui l'enunciazione di quei ridicoli articoli di fede, fatta così seriamente dal Papa, Maometto II si sarebbe trovato nell' identica situazione di un Pontefice romano al quale fosse pervenuta una Lettera nella quale si rinfacciasse al Vangelo di contenere alcuni episodi di Pinocchio, seguiti dalla cattedratica dimostrazione della loro inverosimiglianza ed incongruenza.
La Lettera, letterariamente bellissimo saggio di lingua latina è lunghissima, diffusa e farraginosa e dovrebbe piuttosto denominarsi un Trattato; in sostanza essa è una esortazione rivolta dal Pontefice al Sultano Maometto II, affinché egli abbandoni la sua religione e si faccia Cristiano.
In compenso della conversione Pio II promette al Sultano di riconoscergli il legittimo possesso, dei paesi che egli già di fatto, ma abusivamente, occupa e di proclamarlo Imperatore d' Oriente, facendo in tal modo di lui uno dei più potenti Sovrani del mondo di allora.
Allo scopo di indurre Maometto II ad accettare la sua proposta, il Papa adopera molti e svariati argomenti, gli uni congrui, altri incongrui, o che per lo meno possono sembrare superflui.
Incomincia con tono e scopo monitorio enumerando le forze militari cristiane che i Turchi si troverebbero di fronte, e che difficilmente potrebbero superare, qualora ardissero proseguire la loro avanzata verso Occidente.
Dimostra poscia al Sultano che qualora egli personalmente abbandonasse l' Islam per il Cristianesimo, tutti i popoli a lui soggetti seguirebbero subito il suo esempio, onde egli si troverebbe ad essere a capo di un immenso Impero cristiano, come tale appoggiato dal Pontefice romano, nonché alleato naturale di tutte le Potenze europee, a principiare dal Ducato di Modena fino al Sacro Romano Impero.
A questa parte politica segue nella Lettera una violenta, aspra e particolareggiata critica dell' Islam, nella quale vengono dichiarati ebeti coloro che ad esso prestano fede, ivi compreso, perciò, lo stesso destinatario della Lettera che poco prima era stato dichiarato degno di cingere la corona d' Oriente.
Segue ancora una lunga e minuta esposizione della dottrina cristiana




Uno dei modi migliori per analizzare la maniera con cui l'ISLAM fu visto, giudicato ed analizzato dal MONDO OCCIDENTALE E CRISTIANO è chiaramente offerto dalla valutazioni dirette, maturate sul campo e magari trascritti da TESTIMONI OCULARI e sotto questa prospettiva nulla è più utile, pur con le dovute cautele critiche e sotto la fondamentale guida del documentatissimo Aldobrandino Malvezzi ( L'Islamismo e la cultura europea, Sansoni, Firenze, 1956, pp. 124 e seguenti)], che rifarsi alle relazioni che del mondo orientale furono fatte dai suoi frequentatori, in particolare dai PELLEGRINI MA ANCHE MERCANTI IN VIAGGIO PER LA TERRASANTA e secondariamente da coloro che, seppur per ragioni originariamente guerresche (le così dette "Guerre Sante della Cristianita'"), dovettero pur sempre entrare a contatto con l'Islam ed apprenderne, anche per ragioni di semplice opportunità, nozioni topografiche ma anche etnologiche, vale a dire i CROCIATI.
Tanto vasta è però la miniera di informazioni che è quasi doveroso, onde non generare qualche difficoltà di lettura, predisporre il seguente INDICE TEMATICO "cliccando, a seconda delle esigenze della ricerca in atto, sulle voci sopra proposte PELLEGRINI (MERCANTI) E/O CROCIATI (od in alternativa facendo scorrere l'INDICE TEMATICO qui subito dopo sviluppato sì da analizzare le varie sue voci):




-IL MONDO ISLAMICO VISTO ATTRAVERSO GLI OCCHI DEGLI ANTICHI PELLEGRINI DI FEDE, DI VIAGGIATORI E MERCANTI
-IL MONDO ISLAMICO: LA TOLLERANZA MUSULMANA NEI RIGUARDI DEI VISITATORI CRISTIANI DI TERRASANTA
-IL MONDO ISLAMICO VISTO NELLA DESCRIZIONE DI FRANCESCO SURIANO
-IL MONDO ISLAMICO E LA CREDULITA' DI TANTI SUOI OSSERVATORI OCCIDENTALI
-IL MONDO ISLAMICO E LE RAGIONI PROFONDE DELLA SUA BENEVOLENZA VERSO I PELLEGRINI CRISTIANI
-IL MONDO ISLAMICO E LA PARTICOLARITA' DEI TEMPI: COME DA PELLEGRINI SI POTEVA DIVENTARE CROCIATI COMBATTENTI
-IL MONDO ISLAMICO E GLI INTROITI FISCALI GARANTITI DAI PELLEGRINI: LA TASSA PER VISITARE IL SANTO SEPOLCRO
-IL MONDO ISLAMICO E LA MODALITA' DEI VIAGGI IN TERRASANTA: L'UTILITA' DELLE GUIDE SCRITTE
-IL MONDO ISLAMICO E LE NUOVE MODALITA' DEI VIAGGI: PERCHE' LA SANTA SEDE ROMANA INTRODUCE UNA SELEZIONE FRA CHI MERITI O NON MERITI DI RECARSI IN TERRASANTA
-IL MONDO ISLAMICO E LA TERRASANTA: RIFUGIO CONTRO LA GIUSTIZIA OCCIDENTALE PER TROPPI MALFATTORI CRISTIANI
-IL MONDO ISLAMICO: CONSIGLI PER I VIANDANTI CRISTIANI DI TERRASANTA SUI RAPPORTI DA TENERE CON LA POPOLAZIONE ARABA
-IL MONDO ISLAMICO: IMPORTANZA E LIMITI DI ACCOMPAGNATORI, GUIDE E SCORTA PER VIANDANTI CRISTIANI DI TERRASANTA
-IL MONDO ISLAMICO: LE "GUIDE" SONO SPESSO DISPENSATRICI DI DISINFORMAZIONE SULLE COSTUMANZE DEGLI ARABI DI TERRASANTA
-IL MONDO ISLAMICO:...MA SPESSO L'OSSERVAZIONE DIRETTA SUPPLISCE LE ERRATE NOTIZIE FORNITE DALLE "GUIDE"
-IL MONDO ISLAMICO: DATI ESATTI E DI PURA FANTASIA SULLE DONNE ARABE NELLE TANTE RELAZIONI EDITE
-IL MONDO ISLAMICO: CONTRADDIZIONI ENTRO CELEBRI RELAZIONI SULLA TERRASANTA SCRITTE IN EPOCHE DIVERSE
-IL MONDO ISLAMICO: LA CONTROVERSA RELAZIONE DEL SEPTEMCASTRIS: LA PUDICIZIA DEI TURCHI STRIDE CON LE NOTIZIE SULLA LORO LUSSURIA QUALI SEGUACI DI MAOMETTO, L'ANTICRISTO
-IL MONDO ISLAMICO: PREDICHE E PREGHIERE NEL MONDO ISLAMICO, DESCRIZIONI SOSPESE TRA REALTA' E FINZIONE
-IL MONDO ISLAMICO: IL GRANDE AMORE DI ARABI E TURCHI PER I BAGNI ED I LAVAGGI, IGIENE O INVITO ALLA LUSSURIA? UN INTERROGATIVO PER I PELLEGRINI CRISTIANI!





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-CROCIATE - CROCIATI: RAPPORTI NON SOLO GUERRESCHI TRA ARABI E CRISTIANI
-CROCIATE - CROCIATI: MOTIVI SUPPOSTI DELL'INCOMPRENSIONE DEI CRISTIANI PER L'ISLAM
-CROCIATE - CROCIATI: GLI ANTICHI STORICI EUROPEI DELLE CROCIATE
-CROCIATE - CROCIATI: IPOTESI DI UN PROGRAMMA MILITARE CRISTIANO DI DISINFORMAZIONE
-CROCIATE - CROCIATI: TERRASANTA E PALESTINA, LUOGO DI EROI CRISTIANI E DI MALFATTORI EUROPEI IN CERCA DI SCAMPO E FORTUNA
-CROCIATE - CROCIATI: LIMITI EPOCALI DELLA STORIOGRAFIA ANTICA DELLE CROCIATE
-CROCIATE - CROCIATI: DISCUTIBILE METODICA E FONTI SOSPETTE DELLA STORIOGRAFIA ANTICA DELLE CROCIATE
-CROCIATE - CROCIATI: GLI ANTICHI CRONISTI DELLE CROCIATE
-CROCIATE - CROCIATI: IL CONTINUATORE DELLA CRONACA DI GUGLIELMO DI TIRO
-CROCIATE - CROCIATI: LA CRONACA DI GUIBERT ABATE DI NOGENT
-CROCIATE - CROCIATI: I RESOCONTI DEL DOMENICANO VINCENZO DI BEAVAIS
-CROCIATE - CROCIATI: LA RELAZIONE DEL VESCOVO DE VITRY
-CROCIATE - CROCIATI: GLI SCRITTI DI OUSAMA IBN MONKID, EMIRO DI SIRIA
-CROCIATE - CROCIATI: L'ANONIMO CRONISTA DI RICCARDO CUOR DI LEONE RE D'INGHILTERRA
-CROCIATE - CROCIATI: TRASCRIZIONE DEGLI ORDINI DEL CALIFFO ABU BAKR SUL TRATTAMENTO DA RISERVARE AI CRISTIANI
-CROCIATE - CROCIATI: LA PRESA DI GERUSALEMME AD OPERA DEI CRISTIANI NELLE DESCRIZIONI DI PAULUS PETAVIUS E PETRUS TUDEBODUS
-CROCIATE - CROCIATI: LA PRESA DI GERUSALEMME RACCONTATA IN UNA LETTERA DALL'ARCIVESCOVO DI PISA
-CROCIATE - CROCIATI: FRATE FIDENZIO DA PADOVA E LA CADUTA DEI CRISTIANI DI ANTIOCHIA
-CROCIATE - CROCIATI: L'ACUTEZZA DI FRA FIDENZIO NELLA COMPRENSIONE DEL MONDO ARABO, A PRESCINDERE DALLA POLIGAMIA








Come tutte le guerre, anche quelle per la liberazione del Santo Sepolcro [quindi le CROCIATE] comportarono lunghi contatti fra i belligeranti.
Onde facilità e necessità per un grande numero di Europei d' imparare la lingua araba, nonché di annodare personali rapporti con i Musulmani, se non altro per le inevitabili occorrenze della vita quotidiana.
Possiamo perciò chiederci come mai, quando tutto questo avveniva, i Crociati non abbiano né imparato, né capito nulla, né intorno ai Musulmani, al loro carattere, ai loro usi e costumi, né intorno alla loro religione.
Eppure tale è l' impressione che si ricava dalla lettura di quanto hanno scritto circa ai Musulmani ed all' Islam gli storici europei delle Crociate che vi presero parte o che ne furono contemporanei e che perciò ne scrissero in base ad informazioni di chi vi aveva partecipato.
Tale circostanza è così singolare che, non potendosi certo attribuire a stupidità degli Europei, deve spiegarsi supponendo che gli storici delle Crociate abbiano dato false notizie intorno all' Islam per deliberato proposito.
Entrava probabilmente nel piano di guerra il fare dell' Islam il ritratto più ripugnante e terribile per mantenere nei Cristiani l'odio contro di esso, che forse non era realmente sentito che da una assai piccola minoranza.
La propaganda svolta per ricordare ai Crociati, ed anche a coloro che in Europa si proponevano di prendere parte alle spedizioni in Levante, quale ne fosse lo scopo, pare fosse davvero oppor tuna, secondo quanto attesta chi ne fu testimone.
Fra Fidenzio di Padova che fece, nella seconda metà del XIII secolo, uno speciale studio intorno alle Crociate, ne riferisce fatti sconcertanti.
Fra le molte altre cose, questo autore scrive: 'Desta sorpresa vedere come molti che erano partiti per la Terra Santa pieni di fervore, tornino alle loro case con fervore ancora maggiore'. Inoltre scrive ancora Fra Fidenzio: ' Vi sono taluni Latini, maledetti da Dio e dalla Chiesa, che portano ai Saraceni ferro, armi, legname e altre cose proibite e che danno loro strumenti mercé i quali essi scannano ed uccidono i Cristiani. Ma vi è poi un male ancora maggiore ed è che molti Cristiani latini, allettati dalle ricchezze e dai piaceri sensuali, si fanno Saracini abbandonando la religione cristiana, poi combattono con le armi in pugno contro i Cristiani. Insomma, molti dei Cristiani che vanno in Terra Santa, anziché rendersi utili, sono di grave danno (Fra Fidenzio di Padova, Liber Recuperationis Terrae Sanctae, Firenze, 1912).
D'altra parte appare evidente che alcune delle errate notizie intorno all' Islam sono state riferite dagli storici e cronisti in buona fede, ed anche ciò è interessante, poiché rivela un aspetto caratteristico della mentalità medioevale onde venivano accolte idee e notizie col solo criterio della autorità, non della specifica competenza, di chi le aveva precedentemente espresse o date, oppure si accattavano in qualsiasi modo, senza sottoporle ad alcun esame critico, e nemmeno a quello del buon senso.
I risultati di questo sistema si vedono, meglio che in qualsiasi altro caso, proprio negli scritti relativi agli Arabi.
Nei secoli XII e XIII, meno poche eccezioni, gli storici e cronisti delle Crociate scrivevano intorno alle origini dell' Islam copiando quello che ne avevano scritto i monaci bizantini e, in quanto ai Musulmani che avevano sott'occhio, ne scrivevano attingendone errate e tendenziose informazioni da <Ebrei oppure Cristiani apostati.
A tutto ciò aggiungevano le proprie idee preconcette ricavate dallo studio delle opere controversiali dei primi secoli della Chiesa contro Nestorio, Mani, Ario e gli altri molti eresiarchi, che nulla avevano a che fare con Maometto, e che erano oramai ancor vivi solo nei libri noti a pochi eruditi.
I cronisti che andarono con i Crociati nel Vicino Oriente, lontani predecessori dei nostri corrispondenti di guerra, lungi dal volere imparare qualche cosa di nuovo, che li avrebbe confusi e disorientati, non cercarono altro in Oriente che la conferma di quanto credevano di sapere. Soprattutto cercarono nell' Islam e vi trovarono, poiché, con un po' di buona volontà si trova sempre quello che si desidera trovare, quel parallelismo con il Cristianesimo, tale da confermare quello che avevano imparato in Europa, cioè che esso e una eresia cristiana.
Un esempio del parallelismo ricercato per risparmiarsi la fatica di comprendere cose nuove, quale quella inconcepibile di una religione senza clero, è dato dal continuatore della Cronaca di Guglielmo di Tiro il quale afferma che il Califfo concedeva le indulgenze, la remissione dei peccati ed il perdono ai miscredenti Musulmani 'come [a l'Apostolo di Roma verso i Cristiani '.
Altrove lo stesso ripete: 'La sede del capo di tutti i miscredenti maomettani è Baudac, come Roma e la sede dell'Apostolo Capo di tutta la cristianita ': vedi Recueil des Historiens des Crosaides. Hist. Occidentaux, Paris, 1845, t. II, cap. XVIII.
Uguale concetto del Califfato mostrano di aver avuto Giacomo di Vitry, Vincenzo di Beauvais e molti altri, fra i quali anche Marco Polo...
La citazione di quello che scrissero dell' Islam i cronisti delle Crociate sarebbe lunga e monotona, poiché, più o meno, ripetono tutti le medesime cose copiando Teofane ed altri storiografi bizantini e ripetendo le leggende popolari correnti.
Perciò sono da ricordarsi solo alcuni fra gli scrittori più autorevoli di questo periodo, primo dei quali il monaco benedettino Guibert Abate di Nogent sous Coucy (1053-1124) modello di molti altri, autore di una Storia della prima Crociata (Bongars, Gesta Dei per Francos, Hanau, 1611).
L'Abate, al principio della narrazione della vita di Maometto, dichiara di non essersi servito d'alcuna fonte scritta, di non avere mai letto alcuna biografia del pseudoprofeta e di avere raccolto le sue notizie esclusivamente da informazioni orali.
Lungi da ciò, la biografia di Maometto di Fra Guibert non è altro che la ripetizione di quella di Teofane, con la sola aggiunta di un miracolo assurdo e della notizia che Maometto morì divorato dai maiali.
Bisogna perciò supporre che l' informatore di Fra Guibert sia stato, come è assai probabile, un qualche religioso greco che gli abbia semplicemente recitato il racconto di Teofane, anziché dargli notizie più fresche.
Analoga a quella di Fra Guibert è la biografia di Maometto del Domenicano Vincenzo di Beauvais (1200-1264).
Più ampia invece è quella inserita dal Vescovo Jacques de Vitry nella sua Historia Hierosolimitana, ove narra che Maometto, che denomina 'figlio primogenito di Satana', radunati attorno a sè ladri, assassini, barattieri, grassatori, miserabili, pezzenti, gente insomma d'ogni risma ed il rifiuto dell'umana società, si dette ad assalire e depredare le carovane. Ma queste operazioni non riuscivano sempre bene, ed infatti, in una di esse, Maometto ebbe 'rotti i denti dalla parte destra, tagliato il labbro superiore, rotte le ginocchie e deturpato il viso'.
Finalmente, a causa dei loro delitti, Maometto ed i seguaci furono espulsi dalla loro patria e si rifugiarono 'in una certa città deserta' ove si trovavano uomini rozzi, ignoranti ed ingenui, in parte pagani e in parte Ebrei. Comprendendo che costoro sarebbero stati facilmente convinti, Maometto innalzò nella città 'un certo tempio' nel quale, aiutato dal bene noto monaco Cristiano eretico esiliato in quelle parti, cominciò a predicare la sua religione ecc..
Questo è un tipico esempio dei racconti, davvero sorprendenti per la loro puerilità, che personaggi cospicui e responbili quali Vescovi accoglievano nelle loro opere, corroborandoli con la loro autorità.
Rimarrà sempre insoluto il problema consistente nel sapere se chi scriveva certe inverosimili e assurde fole prestasse loro fede, o se faceva sicuro assegnamento sulla illimitata dabbenaggine dei propri lettori.
Alla biografia di Maometto Jacques de Vitry fa seguire l'esposizione della sua dottrina, limitata alla cristologia, nonché la sua confutazione, l'una e l'altra letteralmente copiate dalla Summola che Pietro di Cluny aveva fatto seguire alla traduzione del Corano.
Ciò dimostra che Jacques de Vitry quando era Vescovo di Tolemaide, non solo non raccolse alcuna notizia intorno all' Islam che gli consentisse di scriverne per scienza propria, ma che non lesse neppure la traduzione del Corano per farsene un concetto personale, bensì si limitò a leggerne e copiarne il commento fatto da altri. Anche questo è un caso tipico del rigido ed insuperabile conformismo, inibitore di ogni esprcssione di pensiero individuale, proprio al Me dio Evo e che porge la migliore spiegazione dell ' immobilismo intellettuale di quei tempi, invincibile ostacolo allo sviluppo della cultura.
Una sola osservazione di Jacques de Vitry merita di essere rilevata, perché sembra ispirata da osservazione personale, ed è che i Musulmani più colti ed intelligenti comprendono molto bene le pecche della loro religione, perciò l'abbandonerebbero volentieri, se non ne fossero impediti dalla riluttanza che provano a rinunciare al sommo piacere che essa consente di poter possedere quattro mogli. Jacques de Vitry scrive: 'I Saraceni più savi e naturalmente intelligenti, studiosi delle opere filosofiche dei Gentili che contradicono assolutamente la legge di Maometto, nonché conoscitori dei libri nostri e lettori dei Vangeli di Cristo, avrebbero ricercato da gran tempo la grazia del battesimo, qualora non fossero presi nei lacci degli allettamenti sensuali e delle loro perverse consuetudini di vita '.
Non vi è alcuna ragione per negare fede alla affermazione di Jacques de Vitry che gl' intellettuali Musulmani dei suoi tempi avrebbero abbandonato volontieri 1' Islam per il Cristianesimo, se non ne fossero stati impediti, ma, mentre il Vescovo, ispirandosi all' idea fissa e irremovibile del clero, fa consistere tale impedimento nella riluttanza dei Musulmani ad abbandonare la pollgamia, 1' impedimento vero era, senza alcun dubbio, di tutt'altra natura. L'apostasia per il Musulmano non comporta solo la perdita del diritto di avere quattro mogli, il che, in fin dei conti, si risolve in una notevole economia del bilancio domestico, bensì quella assai più grave di tutti quanti i diritti civili e politici.
Il Musulmano apostata diventa, ipso facto, un fuori legge, ancor oggi esposto ad essere impunemente ucciso da chiunque, ed infine un apolide.
Ora per chi non si converta sul letto di morte, la morte civile complica evidentemente la vita.
Ma tutte queste cose erano assolutamente ignote ai controversisti antislamici, nonché agli antichi missionari, sebbene esse avrebbero dovuto avere per loro somma importanza, onde tutti ragionavano dei Musulmani senza avere la menoma nozione dei loro ordinamenti giuridici i quali, qualsiasi possano essere i dogmi religiosi di una società umana, ne costituiscono il fondamento, oltre che essere il più adeguato mezzo per conoscerla e comprenderla.
Fra il coro delle monotone ingiurie contro i Musulmani e i preconcetti giudizi a loro riguardo degli storici delle Crociate si odono peraltro alcune poche, ma sintomatiche voci discordi.
Innanzi tutto una interessante testimonianza ci mostra un aspetto inconsueto dei rapporti fra Cristiani e Musulmani a quei tempi.
Un Emiro siriano del XII secolo che per tutta la vita aveva combattuto contro i Crociati, ma che, nei periodi di tregua intratteneva amichevoli rapporti con i Franchi stabiliti negli effimeri Regni latini di Siria, descrive nella sua Autobiografia lo strano mondo dei suoi tempi.
Questo Emiro, guerriero e poeta, per nome Usama ibn Monkid, scrive di avere notato una grande differenza fra i signori Franchi stabiliti già da tempo in Siria e le cui relazioni con i Musulmani erano eccellenti e la turba dei pellegrini, mercanti, affaristi, ed awenturieri che affluivano in Siria sperando di potervi fare rapida fortuna. Costoro, contrariamente ai primi, erano arroganti, violenti, prevenuti e mal disposti verso i Musulmani sul conto dei quali avevano mille idee preconcette. Scrive Usama: 'Dei Franchi ne vediamo taluni che sono venuti a stabilirsi fra di noi e che hanno frequentato la società dei Musulmani; questi sono assai migliori di quelli che li hanno raggiunti da poco nelle regioni che hanno occupato '. E' facile intendere, anche da altri accenni e circostanze narrate da Usama, che i primi avevano appreso, vivendo con i Musulmani, a tollerarli e rispettarli, mentre gli altri venivano dall' Europa animati da sentimenti d'odio a loro riguardo instillati dalla propaganda (Hartwig Darenbourg, Ousama ibn Mounkid (1095 - 1188), Paris, 1889, passim ma in particolare p. 473).
Il cronista del Re d' Inghilterra Riccardo Cuor di Leone, esprime intorno ai Musulmani opinioni assai diverse da quelle correnti ai suoi tempi: 'Che cosa si può dire' -scrive- 'di quella gente incredula che difendeva la città? Le loro qualità militari erano ammirevoli, come pure la loro probità sotto ogni rispetto, onde, se avessero posseduto la vera fede credo che, a giudizio umano, non esisterebbe gente migliore di quella '. In altro luogo lo stesso scrittore ripete: 'Quei Turchi ! Ammirevoli per probità, esimi per virtù, uomini fortissimi negli esercizi militari ed insigni per magnificenza' (Itinerarium Regis Ricardi, London, 1864, pp. 228 - 233).
Fra Guglielmo di Tripoli è uno dei pochi scrittori europei, che nell'opera già ricordata, riproduca gli ordini impartiti dal Califfo Abu Bakr, primo successore di Maometto, alle truppe arabe partenti per invadere la Siria, dimostrando in tal modo che essi, dopo seicento anni, erano ancora ricordati. Ecco la narrazione: Il capo degli Arabi ordinò ai suoi di non uccidere i vecchi, né i bambini, né le ragazze, di non tagliare gli alberi da frutto, né le messi e di non- distruggere le. case, mandò poi un suo messaggero agli abitanti (di Gaza) chiedendo loro di aprirgli le porte, perche non cercava né oro, né argento, né donne, né figli, né figlie, né la città, né le singole case, bensì desiderava la loro amicizia, concordia, sicurezza e pace, affinché di due popoli se ne facesse uno solo e tutti proclamassero non esservi che un solo Dio e che Maometto era il suo Profeta. I soldati di Eraclio non vollero ricevere il messaggero e combatterono, ma poi, sconfitti, fuggirono [nella sostanza di quello che scrive l'autore cristiano si individua il senso de il Jihad (= "sforzo") o più propriamente il Jihad fi-sabili-llah
da interpretare come "lo sforzo sulla via di Allah" di cui, tuttora in Occidente, si produe una definizione riduttiva. Il Jihad può esser inteso in molti sensi m sostanzialemente sta a dindicare "...ogni comportamento che vada al di là di quanto è obbligatorio e prescritto nella pratica rituale, nell'attività lavorativa, nello studio, nell'impegno sociale; di maniera che può esser giudicato Jihad ogni "sforzo" che mira al compiacimento di Allah....in definitiva per Jihad si intendeuna forma di avvicinamento a Allah, il segno del servo per il suo Creatore". Nel senso più noto, quello militare è da giudicare il Jihad lo "sforzo militare" cui son chiamati i Credenti per difendere la Comunità: nella Sura II, 216 Allah dice: Vi è stato ordinato di combattere, anche se non lo gradite. Ebbene, è possibile che abbiate avversione per qualcosa che invece è un bene per voi, e può darsi che amiate una cosa che invece vi è nociva. Allah sa e voi non sapete. Nel Corano risulta scritto Coloro che si difendono quando sono vittime dell'ingiustizia (XLII, 39) ma anche compare detto Combattete per la causa di Allah contro coloro che vi combattono, ma senza eccessi, che Allah non ama coloro che eccedono (Sura II, 190) ed a Maometto, nell'interpretazione sopra ripresa da Guglielmo da Tripoli e rispettata dalle truppe arabe, è attribuita la sanzione Non uccidete i vecchi, i bambini e le donne...I credenti sono i più umani anche negli scontri più crudeli (cosa che comportò l'abolizione dell'uso del fuoco come arma contro le genti, il taglio degli alberi e l'inquinamento delle acque.
Per l'appunto i Cristiani contemporanei di Fra Guglielmo di Tripoli, quando conquistarono gli stessi luoghi dei quali egli narra la storia, si comportarono diversarnente di come si erano comportate le truppe del Califfo Abu Bakr. La descrizione di ciò che avvenne quando i Crociati presero Gerusalemme non bisogna cercarla nella Gerusalemme Liberata, bensì nei prosaici cronisti contemporanei, lontani predecessori dei nostri corrispondenti di guerra, ma forse più di questi ossequienti alla cruda verità. Fra costoro, per brevità, citerò solo i due seguenti. Paulus Petavius nel Gesta Francorum et aliorum Hierosolimitanorum scrive che le truppe che entrarono nel paese dei Saraceni presero tutti gli abitanti e uccisero quelli che rifiutarono di farsi cristiani, concedendo invece la vita a quelli che riconobbero Cristo.
L'altro, Petrus Tudebodus, così descrive nella Historia de Hierosolimtano Itinere, la presa di Gerusalemme:'I Crociati entrarono nella città rincorrendo e uccidendo i Saraceni e gli altri pagani fino al tempio di Salomone e a quello del Signore. Poi corsero per tutta la città impadronendosi dell'oro e dell' argento, dei cavalli e dei muli e delle case piene d'ogni ricchezza. Dopo di ciò vennero, tutti contenti e piangenti per la grande gioia, al Santo Sepolcro del Salvatore.
Al mattino Tancredi fece gridare che tutti andassero al tempio ad uccidere i Saraceni e quando vi andarono, ognuno col proprio arco ne uccise molti. Altri invece salirono da un'altra parte sul tetto del tempio ove si erano rifugiati in gran numero pagani d'ambo i sessi e decapitarono, tanto i maschi che le femmine, con le loro spade nude
'.
Infine in una lettera di Daimberto Arcivescovo di Pisa, si legge: 'E se volete che vi dica che cosa fu fatto ai nemici che si trovavano in Gerusalemme sappiate che sotto al portico di Salomone ed entro al suo tempio, i nostri cavalcarono ne1 sangue dei Saraceni che arrivava fino ai ginocchi dei loro cavalli (Daimberti Pisani Archiepiscopi, Godefridi Bullorici et Raimundi comiti S. Egidi litterae enciclicae anno 110 in Martène, Thesaurus novus aned., I, Parisiis, 1717).
[In forme e modi diversi sarà sempre l'incomprensione con la conseguente "assenza di dialogo se non quello delle armi" a segnare, specie ma non solo in ambito religioso, lo scontro tra i popoli e molto sangue sarà versato prima di valicare questa "porta superstiziosa e malefica" = contro cui, attraverso i tempi, combatteranno anche tanti uomini della Chiesa da Guglielmo da Tripoli, frate domenicano e se vogliamo dal Domenicano Fidenzio di Padova uomini di questi tempi ferrei, per giungere -attraverso la catena dei secoli e delle idee e pur su altri spazi ed altri temi ma nello stesso contesto di "lotta all'ignoranza dei diversi"- a personaggi, parimenti impegnati contro la ferrea intolleranza sancita da colpevole incomprensione come Bartolome' De Las Casas sin ad Antonio Vieira e via dicendo].
Per completare il quadro di quest'epoca, così importante per lo studio dei rapporti fra Cristiani e Musulmani, dobbiamo ora ricordare un altro religioso, contemporaneo del Domenicano Guglielmo di Tripoli e che ha con lui molta analogia di vita e d' intelletto, il Francescano Fidenzio di Padova.
Questo Frate, al quale è gia stato accennato e che non è generalmente noto come meriterebbe di essere, soprattutto per alcune qualità rare nei suoi contemporanei, quali la sagacità della osservazione, le opinioni personali e la sincerità e onestà che traspaiono nello scritto che abbiamo di lui, nacque a Padova circa il 1226.
Fra Fidenzio nel 1266 era Superiore Generale della Provincia Francescana di Terra Santa, nel 1268 si recò a portare aiuto ai Cristiani fatti prigionieri dal Sultano Beihars el Bundukdari es Salihi quando prese Antiochia.
Famosa e terribile conquista fu quella, nella quale i Saraceni ricambiarono atrocemente ai Cristiani le stragi che essi avevano compiuto a Gerusalemme.
Il vincitore stesso ne scrisse la descrizione a Boemondo VI, già Principe della città, in questi termini: 'Avreste dovuto vedere i vostri ufficiali caipestati dai cavalli nostri, i vostri palazzi invasi da saccheggiatori in cerca di bottino, i vostri tesori pesati sulla stadera, le vostre donne comperate e rivendute assieme alle vostre vesti - quattro per un dinaro ! - il monaco, il prete, il diacono scannati sull' altare' (Stanley Lane Poole, A History of Egypt in the Middle Ages, London, 1925, p. 268).
Nel 1274 al Concilio di Lione, Papa Gregorio X incaricò Fra Fidenzio di studiare e redigere un piano per la ripresa delle ostilità in Terra Santa e la riconquista dei luoghi perduti. Dal 1275 al 1290 Fra Fidenzio visse in Oriente soggiornando in Egitto, in Siria, in Mesopotamia, in Armenia, finalmente. nel 1290, tornato definitivamente in Italia, presentò al Papa Nicolò IV la sua opera Liber Recuperationis Terrae Sanctae.
In questo lavoro, in esecuzione dell' incarico avuto, Fra Fidenzio espone un suo piano politico-militare, concepito con criteri veramente pratici, per la riconquista, illustrato da molte osservazioni e citazioni di fatti che gettano gran luce su certi aspetti delle Crociate. Soprattutto è descritta con senso realistico quella folla d'uomini, senza coesione né politica, né militare, che, senza alcuna preparazione né disciplina vi partecipò. L' opera contiene inoltre alcune pagine intorno a Maometto, all' Islam ed ai Saraceni che non solo dimostrano che lo scrittore conosceva perfettamente la lingua araba e aveva davvero molto frequentato i Musulmani, ma altresì che era perfettamente possibile ottenere informazioni esatte intorno al1' Islam, solo se lo si fosse voluto. Ma, siccome appunto, ciò non era desiderato, il libro di Fra Fidenzio passò inosservato e non esercitò alcuna influenza sulla cultura europea.
Per lo studio della mentalità dei tempi, che è tanto importante conoscere per poterne adeguatamente valutare le manifestazioni, è da notarsi a proposito della attitudine di Fra Fidenzio verso l' Islam, una particolarità caratteristica.
Mentre cioè egli espone e discute molto pacatamente le questioni teologiche nelle quali l' Islam differisce dal Cristianesimo, perde la misura, esce in escandescenze e prorompe in ingiurie quando tocca l'argomento della poligamia.







"Per completare questo capitolo medioevale dobbiamo considerare quale sia stato l'apporto di una speciale categoria di Europei alla conoscenza dell' Islam. Abbiamo esaminato il contributo arrecato a tale conoscenza dai teologi e studiosi, nonché dai Crociati che vissero lungamente a contatto con i Musulmani, ora ci occuperemo dei pellegrini di Terra Santa e altri viaggiatori, ma, per evitare ripetizioni, esamineremo l' opera di costoro attraverso i secoli e non solamente durante il Medio Evo.
Nessun avvenimento politico interruppe mai il pellegrinaggio degli Europei in Terra Santa che è sempre continuato senza ostacoli, nemmeno da parte degli Arabi, fin dai primi anni della loro occupazione di Gerusalemme.
Dimostrazione, anche questa, di tolleranza, alla quale tuttavia, per non venire meno al loro metodo, i controversisti antislamici non accennano in alcun modo.
I pellegrini che si avventuravano nelle parti orientali partivano dall' Europa con ben fisso in capo il concetto dei Musulmani instillato loro dalla propaganda, e che nulla, nemmeno l'evidenza di ciò che vedevano coi propri occhi e che poi ingenuamente narravano di aver veduto, faceva loro modificare.
In questo sta la singolarità e l' interesse psicologico del caso, poiché reca nuova prova della mancanza di senso critico, di riflessione e d' indipendenza di pensiero che si riscontra in tante manifestazioni della mentalita medioevale.
Mentre nelle loro nude celle, segregate dal mondo, i frati eruditi si affaticavano a compulsare codici per rintracciare in tutte le antiche filosofie le fonti d' ispirazione di Maometto, da loro qualificato idiota ed analfabeta, lontanissimo da loro, sotto il gran sole d'Oriente ed il terso azzurro del cielo, in un'atmosfera d' illimitata libertà, si avventuravano, cauti e sospettosi, viaggiatori e pellegrini europei.
Chi si era spinto così lontano per affari di commercio, chi per visitare il paese di Gesù; gli uni e gli altri, tra la folla garrula e variopinta dei Bazar e su quegli asinelli che li trasportavano attraverso gli sconfinati deserti e le brulicanti città, si sentivano sperduti e confusi. Più d'ogni altra cosa colpiva quei viaggiatori, come è proprio degli incolti e dei semplici, veder gente compiere gli atti usuali della vita quotidiana in modo così diverso da come erano compiuti a casa loro.
Frate Francesco Suriano descrivendo alla sorella monaca i paesi d'Oriente, le racconta che ivi 'le done portano lo peso in spala e li homeni in capo. Tuto lo giorno bevono excepto quando mangiano. De continuo se lavano i piedi e le mane sempre hanno sporche. Nui se cavamo la biretta per onorare, e loro le scarpe. La soprascripta de le littere nui la facemo da pò che 1' é scripta, e loro avanti che comenzano a scriverla. Nui amamo li cani e loro i gatti. Portano a vendere ozeli nel sacho e le fiche in la cabie . L'elenco continua a lungo: vedi F. Suriano, Trattato di Terra Santa (II), 1450.
La caratteristica comune dei pellegrini è la loro sorprendente credulità.
E' naturale da parte dei pellegrini la fede nei miracoli, rispetto ai quali tutti gli atteggiamenti dello spirito sono ammissibili, stupisce invece l'assenza della nozione del tempo che fa loro commettere i più incredibili anacronismi e genera in essi una inestricabile confusione fra i diversi periodi della storia.
Nulla di miracoloso, ad esempio, era attribuito alla esistenza della tomba di Adamo, che veniva mostrata ai pellegrini ora in questa ora in quella parte della Palestina, a secondo del capriccio delle guide, ma nessuno di coloro che riferiscono di averla veduta sembra essersi chiesto se la sua esistenza fosse storicamente verosimile.
Non si crederebbe che cosa le guide erano capaci di mostrare ai pellegrini.
Saewulf (1102-1103) narra di aver veduto a Betlemme la tavola sulla quale fu imbandita la cena offerta da Maria Vergine ai Re Magi per ricambiare la cortesia della loro visita a Gesù bambino; e inoltre le tombe dei pastori del Presepio: vedi Wright, Early travels in Palestine, London, 1848.
Ricoldo da Montecroce narra che 'ritornando verso Gerusalemme ci trovammo nel luogo nel quale fu tagliato quello arbore del quale fu fatto il legno della Santa Croce di Cristo.
Don Aquilante Rocchetta (1599) visita invece nei dintorni di Gerusalemme una chiesa ' assai grande, e molto bella, e sotto l'altare grande ha un quadro concavo adornato di fabbrica, sotto la qual fabbrica è il tronco della palma che fu tagliata per farci il traverso della Santa Croce del Redentore, perché, secondo alcuni Dottori, ella fu fatta di quattro sorti di legni, cioè il piede di cedro, il busto più lungo di cipresso; il traverso e il resto fu di palma, d'una palma della quale nella Cantica dice lo Sposo: - Io salirò sulla palma, e piglierò il suo frutto -, e il titolo fu d'oliva '. Lo stesso Don Aquilante narra: ' Ritornando da Hebron verso Betlemme verso mezzogiorno, è il luogo dove Caim ammazzò il suo fratello Abel, e due volte tanto lontano da quella contrada all' occidente è una spelonca incavata nella rupe, nella quale si dice che Adamo ed Eva piansero esso Abel loro figliuolo per spatio di cento anni, e si mostra ancora il loro letto di pietra dove dormivano e una bella fontana vicina dalla quale bevevano (vedi: Don Aquilante Rocchetta, Peregrinatione di Terra Santa, Palermo, 1630).
Non si poteva supporre che pellegrini capaci di simili racconti potessero riferire intorno ai Musulmani notizie attendibili, tuttavia qualche cosa di utile si ricava anche dalle loro ingenue relazioni di viaggio.
Ad esempio è notevole che in quelle relazioni non si riscontra mai il menomo accenno ad angherie o violenze d'alcun genere usate dai Musulmani verso i viaggiatori, né ad ostacoli da essi opposti al compimento delle loro devozioni, nemmeno nei periodi nei quali si stavano svolgendo le Crociate.
Questa attitudine benevola degli Arabi verso i pellegrini non è tuttavia da attribuirsi solo alla loro tolleranza religiosa, poiché fu anche manifestazione del loro innato senso pratico: compresero il vantaggio che potevano trarre dalla affluenza di Europei in Terra Santa.
I pellegrinaggi costituirono insomma, per gli Arabi, quel movimento di forestieri altrettanto gradito ed utile a loro che lo è (oggi) a noialtri Italiani.
Perciò gli Arabi concedevano facilmente ai pellegrini passaporti, salvacondotti ed analoghi documenti, più o meno numerosi e cari, a seconda dei tempi e della avidità dei Sovrani e Governatori dei paesi che bisognava attraversare per recarsi ai Luoghi Santi.
Non vi è notizia esplicita di una tassa di soggiorno, ma non è da escludersi.
L'entità delle tasse percepite dagli Arabi sui pellegrini aveva, come si può comprendere, così grande importanza che ogniqualvolta nella storia si leggono lodi di Cristiani alle virtù e alla magnanimità di qualche Principe musulmano, si trova, ricercandone il motivo, che il suo vero merito era quello di aver diminuito appunto quelle tasse.
Segni della mentalità e dei tempi, così diversi dai nostri, erano i pellegrinaggi compiuti da Europei in Terra Santa, cioè in paese nemico, in tempo di guerra guerreggiata.
Avveniva, al tempo delle Crociate, che Cristiani e Musulmani si uccidevano a vicenda in un punto della Palestina e contemporaneamente erano in pacifici e buoni rapporti in un altro.
Ma questi pellegrinaggi compiuti in tempo di emergenza non si svolgevano sempre secondo il desiderio dei pellegrini. Prova ne sia quello che capitò ai pellegrini del 1155 i quali, partiti dall' Europa con 1' intenzione di fare il consueto, pacifico e devoto viaggio in Terra Santa, furono invece costretti, possiamo figurarci con quanta loro soddisfazione, a trasformarsi in soldati combattenti al fronte.
Il fatto è così narrato da Giacomo Bosio nella sua Historia della Sacra Religione di San Giovanni Gerosolimitano: ' Dopo che passati furono due mesi da che cominciato fu quell' assedio (di Ascalona) approssimandosi i giorni della Santa Pasqua, cominciarono a capitare nei porti di Giaffa e di Tolemaide, molti vascelli e navi cariche di pellegrini che, conforme all'uso di quei buoni tempi, da diverse parti del Cristianesimo per divotione loro andavano a Geruslemme. Onde il Re facendoli fermare e al suo soldo conducendole, coi soldati e con le genti loro in breve s'accrebbe e rinforzò molto il nostro esercito'.
Nel 1290 Fra Fidenzio da Padova nota anch'egli la grande affluenza di pellegrini in Terra Santa, poiché, dice egli, oltre agli Italiani, Francesi, Inglesi, Spagnoli e Tedeschi, vi si recavano anche Greci, Armeni, Georgiani e molti altri. Da ciò conseguiva, sempre secondo Fra Fidenzio, che col vistoso introito delle tasse sui forestieri e quella assai cospicua che si pagava per poter entrare nella Basilica del Santo Sepolcro, e che ammontava a '36 e 40 Tornesi grossi d'argento, il Soldano era in grado di sostenere le spese della guerra contro i Crociati. Perciò, secondo Fra Fidenzio, che non fa in proposito alcun commento, la devozione al Sepolcro di Cristo contribuiva a procurare ai Musulmani i mezzi per impedire ai Cristiani di liberarlo...in effetti la tassa d'ingresso al Santo Sepolcro era davvero esorbitante, poiché il grosso Tornese pesava, secondo i manuali di numismatica, grammi 4,22 ed era di finezza di 958 millesimi (dunque di lega eccellente). Se occorrovano almeno 36 grossi per entrare al Santo Sepolcro risulta che la somma equivaleva a grammi 150 circa d'argento. E poiché la proporzione tra l'argento e l'oro era nel 1250 circa 1 : 10 risulta che detta quantità d'argento corrispondeva a circa 15 grammi d'oro, il che equivaleva a più di 4 zecchini d'oro di Venezia, somma cospicua.
Nel secolo XIV la Signoria di Venezia allestiva ogni anno una galeazza per i pellegrini, ma cessò di armarla nel secolo successivo 'non vi essendo concorso di pellegrini'.
Nei bei tempi la linea regolare per la Palestina istituita dalla Serenissima, non era sufficiente per soddisfare le richieste di passaggio, onde esistettero sempre agenzie di viaggio private, aventi lo stesso identico carattere di quelle nostre attuali. I pellegrini di tutti i paesi europei, riuniti in gruppi, a seconda della loro nazionalità, affluivano a tali agenzie a Venezia, le quali poi avevano propri rappresentanti ad Alessandria d' Egitto e a Giaffa, che erano i porti di sbarco, rispettivamente per i pellegrini che intendevano fare il pellegrinaggio lungo, oppure quello corto.
Gli antichi pellegrini, insomma, compivano il viaggio di Terra Santa nelle stesse condizioni nelle quali si compiono oggidì i viaggi collettivi e le crociere, organizzate dalle nostre compagnie di turismo. Nulla muta a questo mondo, fuorché i nomi delle cose invariate ed invariabili.
Agli antichi pellegrini non mancavano nemmeno le guide; fra quelle italiane la più nota, composta da Padre Noè Bianchi col titolo di Viaggio da Venetia al Santo Sepolcro et al monte Sinai con una breve regola di quanto si deve osservare nel detto viaggio e quello che si paga da luoco a luoco sì di Datj come d'altre cose, fu ristampata moltissime volte fino al 1734 dal Remondini di Bassano, ancora con numerose xilografie del secolo XVI.
Per renderci conto delle condizioni nelle quali i pellegrini compivano il loro viaggio nella prima metà del secolo XVI, conviene riportare un tratto delle istruzioni di Padre Noè:' La istruzione a ciascuno che desidera fare questo viaggio, è questa. Che prima si disponga 1' huomo di fare il viaggio solamente con intentione di visitare, contemplare e adorare con gran effusione di lacrime quei santissimi misteri, acciocché Giesù benigno gli perdoni i suoi peccati, ma non con intentione di vedere il mondo o per intenzione di dire io sono stato, ho veduto etc. per essere poi sublimato da gl' huomini.... che porti due borse seco, una ben piena di patientia e l'altra con ducento Ducati Veneziani, o per il manco cento e cinquanta; cento per persona nel viaggio e niente manco ad ogn' huomo c'abbia cara la vita sua, che sia costumato di viver delicatamente a casa sua: gli altri cinquanta per una malattia o altro, che gli potesse intervenire.... Poi vada a Venetia, perché là è più comodo passaggio che in città del mondo, e eglino ogn'anno hanno una Galeazza preparata solamente a questo servitio, e se ben trovasse miglior mercato ad intrar su una nave, che per niente abbandoni tal Galeazza; poi che procuri far l'accordo col Patrone, il qual è solito prender da cinquanta in sessanta Ducati e sopra '1 tutto egli è obbligato dar il nolo, far le spese, cibarsi nell'andare e nel tornare, eccetto in terra, pagare le cavalcature in Terra Santa e così pagare tutti i Datj e tributi. Al descendere di Galea al Zaffo, vada humile di sentimenti, e costumi, e qui si fanno inanzi il Comito della Galea, il Scrivano, il Patron giurato, 1' Huomo di consiglio, il Peota, il Trombetti, e Tamburi, Provieri, Balestrieri, Guardiani delle porte e cuochi, con una tazza par ciascun' in mano e a tutti convien donar qualche cosa. In Terra Santa non se discosta mai dalla Carovana de' Pellegrini, e non ardisca disputar della fede con li Saracini, perché gl' è gran pena'.
A compimento della guida per i pellegrini, parecchi autori di Viaggi in Terra Santa premettono alla loro opera minutissime istruzioni pratiche e consigli per i viaggiatori e fra questi si distingue Padre Aquilante Rocchetta, che è forse uno dei più espliciti nel trattare dei rapporti fra pellegrini e Musulmani in Levante.
Innanzi tutto apprendiamo da quello scrittore che nel secolo XVI i pellegrini erano severamente selezionati dalla SANTA SEDE DI ROMA, onde non solo molti di coloro che avrebbero voluto fare il viaggio ne erano impediti, ma i pochi privilegiati non ottenevano certo facilmente il desiderato permesso.
Padre Aquilante stesso ottenne con gran fatica, per mezzo di due Padri Filippini dell' Oratorio, la licenza da Roma di potere recarsi in Palestina: ' Sicché' -scrive- 'per avere questa licenza bisogna far prova e portare testimonianza al Pontefice della nostra vita e costumi '.
La riluttanza della Santa Sede a consentire ai fedeli di recarsi in Palestina, o per lo meno la grande prudenza con la quale essa concedeva il permesso del viaggio, si spiegano in diverso modo.
Come era da supporsi, gli scrittori che commentano il fatto, ossessionati dalla poligamia, lo attribuiscono unanimi alla volontà della Santa Sede d' impedire che, subendo la irresistibile attrazione della sensualità della oscena religione di Maometto, i pellegrini potessero apostasiare.
Contrariamente alla opinione di questi religiosi è invece da credersi che la ragione che muoveva la Santa Sede era assai più pratica e seria e ne abbiamo quasi una prova in una notizia data da un religioso che, al solito, non sa trarne le ovvie conseguenze.
Pare dunque, secondo Padre Luigi Vulcano della Padula, che la Palestina fosse infestata di avventurieri e malfattori europei che, avendo dei conti da-regolare con la giustizia patria, erano scappati in Terra Santa sotto la veste di devoti pellegrini, per sfuggire la prigione.
'Io mi confondo della nostra natione -scrive Fra Luigi- 'perciocché gli è peggiore di vita et costumi di tutte l'altre, et ciò perviene, che quando alcuno sarà stato malfattore, in Alemagna, in Italia, in Francia, Spagna, Datia, Polonia, Ungaria, Anglia, o in altre parti occidentali, quale secondo le leggi meritava la morte o essere tutti i suoi beni confiscati; che fanno ? Si deliberano visitare il Santo Sepolcro per haver la remissione de' lor peccati.... ma ivi giunti si danno all'otio, alla gola, et al giuochi, et havendo consumato i danari che portarono, aggiungono peccato sopra peccato e sceleraggine sopra sceleraggine. Et perché non hanno arte alcuna con la quale il vivere guadagnar si potessero si mettono a rubbare et assassinare il prossimo. Ricevano a loro alloggiamenti i pellegrini della loro natione dimostrando fargli carezze in apparenza, la onde quei poverini credono siano suoi amici et compatrioti si fidano d'essi, ma poi si trovano molto ingannati et rubati: vedi P. Vulcano della Padula, Vera et Nuova descrittione di Terra Santa, Napoli, senza data, post 1556, data del viaggio dell'autore).
Questi fatti spiegano a sufficienza perche la Santa Sede, molto opportunamente cercava di vagliare bene chi volesse recarsi in Terra Santa, non cioè per evitare che i pellegrini cadessero nelle braccia delle voluttuose donne musulmane, alle quali i controversisti pensavano sempre, bensì per salvare la reputazione del nome cristiano.
Alla difficoltà di concedere il permesso d'effettuare il pellegrinaggio la Santa Sede aggiungeva poi l'obbligo ai pellegrini di stare uniti durante il viaggio di terra ferma attraverso la Palestina, sotto alla guida ed il controllo strettissimo dei Padri della Custodia.
S' intende che, sempre accompagnati e sorvegliati, i pellegrini viaggiavano...senza avere alcun contatto con le popolazioni e vedendo solo quello che si mostrava loro.
Si comprende dunque perché i pellegrini di Terra Santa non abbiano mai riportato in Europa alcuna nuova e più veritieria notizia intorno all' Islam.
Un singolare avvertimento dato da Padre Aquilante ai pellegrini, quasi per trattenerli dall'avere qualsiasi rapporto con la popolazione indigena, è il seguente: 'Troverè per ordinario il Peregrino andando per terra con le carovane alcuni di què muccari o vetturini i quali con cenni procureranno tirarlo alla loro Legge, facendogli segno che alzi il dito indice della mano destra verso il cielo, con questo significando che si deve adorar un solo Dio, e così vengono a negare l'adorazione di Cristo Signor nostro, della Santissima Madre e degli altri Santi, perciò sia avvertito il Peregrino di non fare mai quel segno d'alzar quel dito della mano, perché subito alzato, lo piglierebbero col dire c' habbia accettato la loro Legge, e lo costringerebbero a circoncidersi, e quando egli fosse costante, almeno non lo lascerebbero prima di pagar loro buona quantità di moneta, quasi che beffato si havesse della lor Legge'.
Le GUIDE dei pellegrini sembra che fossero assai bene istruite e che eseguissero coscienziosamente quanto si attendeva da loro.
Per mantenere viva nei pellegrini la persuasione dell' insita oscenità dell' Islam, quelle guide raccontavano loro che persino i Moezzin dall' alto dei minareti delle moschee, incitavano con le loro parole, più volte al giorno, i Musulmani alla lussuria.
E i pellegrini ci credevano, nonostante il carattere grottesco della informazione, del quale non sembra si accorgessero.
L'appello del Moezzin, alle ore stabilite per la preghieraj questo: ' Allah è grande ! (due volte). Attesto che non vi è divinità all' infuori di Allah. (due volte). Attesto che Maometto è 1' inviato di Allah. (due volte). Venite alla preghiera. (due volte). Venite alla salvezza. (due volte). Allah è grande. (due volte). Non vi è divinita all' infuori di lui (una volta)'.
Il pellegrino fiorentino Leonardo Frescobaldi (1384) descrivendo i Moezzin racconta 'Stanno sui loro campanili i loro cappellani e chierici il dì e la notte gridando quando è l'ora, come noi suoniamo. E il loro gridare si è di benedire Iddio e Maometto; poi dicono -crescete e moltiplicate- ed altre parole disoneste.... il lunedì di buon' ora egli gridano.... ch'el popolo si vada a lavare a' loro bagni, acciò che le loro orazioni siano esaudite nel cospetto di Dio e di Maometto : vedi Frescobaldi, Viaggio in Terra Santa, Firenze, 1862.
Analoghe cose riferisce un altro toscano, Simone Sigoli nel suo Viaggio al Monte Sinai (1384):' I Moezzin appresso gridano: - Fate la tal cosa, che sarebbe disonesto scrivere com'egli dicono scolpitamente: crescete e moltiplicate, sicché la Legge di Maometto cresca e moltiplichi.... quando viene l'ora del vespro stanno sul campanile a gridare raccontando cose disonestissime di lussuria le quali fece Maometto in questo mondo, e così comandano che ciascuno si sforzi di fare, e per questo bestialmente vivono '.
Queste traduzioni dell' appello alla preghiera dei Moezzin fatte dagli interpreti ai creduli pellegrini e molti altri indizi che si rilevano nelle loro relazioni, attestano la esistenza di una perfetta organizzazione, che aveva il compito di mantenerli nell' inganno circa quanto riguardava i Musulmani, anche a dispetto di quanto vedevano.
Ciò nonostante, per lo meno un po' della verità finiva per trapelare, poiché, tornati alle loro case e messisi a narrare il loro viaggio, parecchi pellegrini hanno scritto di seguito, con molta semplicità ed ingenuità, tanto la versione ufficiale, ad esempio dei costumi dei Musulmani e del contegno delle loro donne, quanto ciò che invece avevano potuto vederne.
Così si conciliava, in un certo modo, il doveroso ossequio all'autorità con un tal qual rispetto del vero. Il risultato di questa mascherata è così caratteristico ed ameno che merita darne qualche esempio.
Il Frescobaldi, già ricordato, descrive a questo modo l'abbigliamento delle dissolute (sic!) donne musulmane: 'Vanno soggolate e turate per modo non si vede nulla altro che gli occhi, e le più nobili portano una stamigna nera dinanzi gli occhi, che non possono essere vedute, ma bene veggono altrui'.
Alla sua volta il Sigoli narra che 'quelli che possono non lasciano mai le donne uscir di casa per gelosia ch'elle non vadano facendo cattività di lor persona, perocché la legge loro non parla se non di mangiare e di darsi ogni diletto di lussuria'.
Ma, se le donne non possono uscir di casa, la Legge di Maometto 'di darsi ogni genere di lussuria' non è dunque in pratica osservata. Ma a ciò il Sigoli non ha riflettuto.
Fra i tanti che monotonamente ripetono le stesse cose, nello stesso modo, dimostrandosi ugualmente incapaci di ragionare, il Frate Minore Osservante irlandese Symon Semeonis (1323) può forse aspirare al primato della illogicità.
In un suo scritto intorno alla Terra Santa egli comincia col rivolgere a Maometto ogni sorte di contumelie, chiamandolo 'falsificatore della verità, primogenito di Satana, distruttore della pudicizia e della castità, porco marcio , porco vilissimo', poi prosegue: 'Le donne dei Musulmani non sono ammesse, né nelle chiese, né negli oratori, né in altri luoghi di preghiera e sono quasi sempre tenute in casa, affinché non vadano senza necessità correndo di qua e di là, e soprattutto alle donne nobili non è permesso uscir di casa altro che per gravi motivi. Tutte hanno poi una foggia di vestiario tutto speciale e molto ammirevole, infatti tutte quante ugualmente portano certi mantelli di tela' (segue una descrizione molto esatta del costume femminile) 'poiché nel Corano è scritto - Le donne virtuose debbono coprirsi il viso, nonché le pudenda, così vuol Dio al quale sono note le azioni di tutti. Stiano attente le donne a non farsi vedere e perciò si coprino il petto e nascondino a tutti ogni loro bellezza, specialmente quando se ne vanno a piedi e fuorché quando siano costrette dalla necessità a scoprirsi e fuorché dinnanzi loro marito, i propri genitori e suoceri, i figli, fratelli, nipoti e le persone sicure ed i servi...
'. Due secoli dopo gli scrittori ora ricordati, ci si trova sempre allo stesso punto.
Infatti il Frate Vulcano, del quale abbiamo già parlato, dando anch'egli esempio della insanabile illogicità che andiamo notando per il suo interesse psicologico, scrive: 'Costoro delle cose carnali sono sporchissimi, tante mogli tolgono, quante nodrir possono. Et quantunque di questi peccati macchiati siano, nondimeno sono molto caritativi l'uno con l'altro, civili, e benefattori, veridici nelle promesse et fedeli a Cristiani che con essi loro conversano, a' quali fanno molti serviggi. Et si farai ad essi un piacere, sono molto solleciti a retribuirtelo. Et quelli che fra di loro sono più nobili et liberali, veri Turchi chiamati sono'.
Quel 'quantunque' dà la chiave di tutti questi sragionamenti; si considerava dunque cosa naturale che l'uomo che avesse una moglie sola fosse caritatevole, veritiero e capace di mantenere le promesse, mentre sorprendeva che lo potesse essere un bigamo.
Uno scrittore del principio del XVI secolo, tal Muhlenbacher, detto Septemcastrensis, che godette qualche reputazione e fu noto a Lutero, in un suo Tractatus de moribus conditionibus et nequitia Turcorum dopo aver premesso una eruditissima disquisizione per dimostrare, con tutta la desiderabile evidenza, che MAOMETTO non era altro che l' ANTICRISTO, nonché una delle bestie descritte nell' APOCALISSI, e dopo aver trattato i Musulmani d'empi, turpi, scellerati e via dicendo, fa, con sorprendente disinvoltura, la seguente descrizione degli usi dei Turchi:' Chi mai, non dico fra la gente comune, ma persino fra i dotti non sarebbe commosso vedendo tanta compostezza di costumi di quegli infedeli ? Qualsiasi frivolezza, sia nel portamento che nei gesti, sia nel vestire che nell'apparato, è da loro detestato come il fuoco e aborrito come la peste. Deridono infatti la leggerezza dimostrata dai Cristiani nella foggia degli abiti, nel modo di cavalcare e altrimenti, chiamandoli perciò capre e scimmie. Essi, tanto maschi che femmine, tanto giovani che vecchi, tanto cittadini che villici, usano una foggia di vestiti onestissima e religiosissima e così semplice ed uniforme che nulla assolutamente vi si può rilevare d' indecente o disonesto, né di superfluo, né di frivolo.... certo poi è per me motivo di grande maraviglia l'osservare l'onestà delle donne turche, raffrontandola con gl' impudicissimi abbigliamenti e gli esecrabili costumi delle donne cristiane '.
La serie di queste curiose citazioni non sarebbe completa se non vi si aggiungesse da ultimo il più bel fiore, colto nel libro di un Francese, Michel Baudier de Languedoc, 1' Histoire Generale de la religion des Turcs (1612), nella quale si legge quanto segue:' ...le prediche dei preti turchi sono mal composte e non dimostrano alcuna conoscenza, né delle cose umane, né di quelle divine, essi vi inseriscono solamente qualche riflessione morale, commisurata alla capacità d' intendere dell'uditorio. Ecco una delle loro prediche che è stata udita in una moschea da persona curiosa e conoscitrice dei loro misteri: - Non siate imprudenti; aprite gli occhi e cercate di comprendere la vostra condizione, in tal modo vi renderete conto di essere mortali e corruttibili. Perciò non vogliate macchiarvi delle iniquità di questo secolo, bensì lavate i vostri peccati con le lacrime della penitenza e ricoprite di cenere le colpe della vostra vita passata. Pensate quante persone muoiono tutti i giorni, uscite dalla città, andate nei cimiteri, scendete nei sepolcri ed ivi adoperate utilmente gli occhi nella contemplazione dello scempio del corpo dei defunti. Li vedrete brulicanti di vermi e serpentelli, i loro volti vi appariranno orribili, coperti di umori viscidi e senz'altra bellezza che il marciume ed il lezzo. Anche i giusti che hanno conformato le loro azioni alle norme della religione e che hanno vissuto nel timore di Dio sono morti fra tormenti e dolori e null'altro rimane di loro al mondo all' infuori del ricordo di quello che furono. Nondimeno gli sciocchi se ne ridono di tutto questo e acquietano l'anima loro con la vana illusione di poter sfuggire gli strali della morte. Non vogliate riporre le vostre speranze nelle cose passeggere e caduche, ma piuttosto impiegate il tempo che vi rimane nel servigio di Dio e fate una alleanza indissolubile con le cose spirituali che, nell'ora del supremo periglio, saranno il vostro rifugio e la vostra tavola di salvezza fra i naufragi umani. Ben sapendo che è destino comune degli uomini il morire, elevo ancor più il mio pensiero. Conosceremo l'ora della morte solamente allorquando saremo composti nella bara ed incominceremo ad essere lavati da coloro che ci assisteranno; ma che cosa sarò io allora e verso chi potrò rivolgermi, quando avrò abbandonato tutto quello che mi era più caro ? Non mi rimarrà altra proprietà che il sudario nel quale sarò stato ravvolto e le asse fra le quali mi avranno collocato. Può darsi che i miei amici ed i miei parenti, addolorati dalla mia morte, mi accompagnino al sepolcro. Ma dopo di ciò, quale altra compagnia avrò io mai, quando il mio corpo sarà stato calato nella fossa ? Allora rimarrà meco solamente il merito delle mie buone azioni - '.
La predica continua su questo tono e, dopo averla riportata per intero, assieme al testo turco, trascritto in caratteri latini, il Baudier, come commento, riprende ad inveire contro la sconcezza della religione islamica che altro non insegna che di usare ed abusare dei piaceri mondani.
Come non può sorprendere, una delle cose che in Levante ha più attratto l'attenzione e destata la curiosità dei viaggiatori antichi furono i bagni pubblici.
Quei bagni, non solo interessavano gli Europei per la loro novità, ma li imbarazzavano grandemente onde si scervellavano per comprenderne lo scopo.






Il CLERICOMODERATISMO fu una linea politica che nell'Italia giolittiana dei primi del XX secolo si prefissò il programma di portare ad una serie di ACCORDI PREELETTORALI tra l'UNIONE ELETTORALE CATTOLICA ed una SERIE DI CANDIDATI che per lo più aderivano alle fila dei LIBERALI MODERATI (pur se non esclusivamente giolittiani).
L'APPOGGIO ELETTORALE garantito dai membri dell'UNIONE ELETTORALE CATTOLICA avrebbe avuto quale CONTROPARTITA ad opera degli ELETTI un NUOVO ATTEGGIAMENTO POLITICO RISPETTOSO DEGLI INTERESSI ECCLESIASTICI e comunque in contraddizione con le espressioni epocali di ANTICLERICALISMO.
Il Pontefice PIO X, che aveva forte preoccupazione per gli appena menzionati atteggiamenti anticlericali propri di tale periodo storico, appoggiò seppur con grande prudenza il CLERICOMODERATISMO ritenendolo in definitiva il male minore a fronte della ventilata discesa in campo di un vero e proprio PARTITO CATTOLICO che si temeva potesse esser causa di ulteriori pericolose divisione nel contesto del mondo cattolico.
Gli esponenti più progressisti del mondo cattolico o CATTOLICI DEMOCRATICI non giudicarono affatto positivamente il CLERICOMODERATISMO che tacciarono di essere la PROSTITUZIONE DI UN VOTO.
Il movimento del CLERICOMODERATISMO si attivò comunque in occasione delle ELEZIONI DEL 1904 e prese a fiorire e ad ottenere sempre maggiori consensi fino a quando nel 1913 raggiunse il suo PUNTO MASSIMO, quando appunto prese corpo il summenzionato ACCORDO ELETTORALE, con il PATTO GENTILONI (promosso da G. OTTORINO GENTILONI presidente dell'UNIONE ELETTORALE CATTOLICA) che coinvolse numerosi collegi elettorali favorendo (tra i 228 deputati che risultarono eletti) anche l'ELEZIONE DI CANDIDATI DEL MONDO CATTOLICO detti ordinariamente poi i "CATTOLICI DEPUTATI".





Con l'espressione MERCOLEDI' DELLE CENERI o più semplicisticamente LE CENERI nella liturgia cattolica si indica il mercoledì precedente la prima domenica di Quaresima quando il sacerdote, per invito alla penitenza, impone sul fedele un pizzico di cenere ottenuta dalla combustione dell' olivo benedetto dell'anno precedente.
Nella LIGURIA OCCIDENTALE si rammenta un TRAGICO MERCOLEDI' DELLE GENERI inteso dai "profeti" apocalittici come una divina punizione contro gli eccessi carnascialeschi (con LE CENERI si chiude infatti il periodo "licenzioso" del Carnevale): si trattò dell'indubbiamente drammatico MERCOLEDI' DELLE CENERI DELL'ANNO 1887.





Gherardo Segarelli fu probabilmente l'eretico che più influenzò la dottrina e le idee di FRA DOLCINO DI NOVARA.
L'unica nostra fonte diretta della vita e della predicazione del Segarelli, ci viene dal suo più grande accusatore fra' Salimbene da Parma; il quale mantiene un atteggiamento ostilissimo nei suoi confronti.
L'eretico di Parma, che aveva un' istruzione assai modesta, cominciò la sua predicazione intorno al 1260 (anno della peregrinazione dei flagellanti) e ancora molto giovane lasciò tutti i propri averi e si vestì alla francescana (saio, sandali e cordone).
Secondo Salimbene i primi a seguirlo furono porcari, mandriani e pulitori di latrine.
Certamente il suo seguito era formato da gente assai modesta, che vide nelle idee del Segarelli la possibilità della salvezza eterna e di una qualche rivalsa verso i poteri precostituiti.
Il suo messaggio evangelico riprendeva il programma di assoluta povertà della prima Regola francescana e sempre, come i "francescani spirituali" (i più determinati nel perseguire gli ideali di S.Francesco), negava ogni autorità civile ed ecclesiastica.
Per Segarelli, infatti, l'unica vera autorità era quella del Vangelo: il suo ideale religioso escludeva l'esistenza di una qualsiasi gerarchia.
I discepoli del Segarelli furono detti Apostolici, a causa del loro stile di vita che si rifaceva a quello della chiesa primitiva e per il loro continuo migrare diffondendo il loro pensiero. Questi uomini fecero presa, in particolare, nelle campagne emiliane, dove il messaggio di riabilitazione morale e riscatto sociale era quanto mai ricercato.
La cosa che più stupisce e che, come leggiamo nei processi contro gli Apostolici, (tenutisi nel 1299 a Modena) non vi sono accuse specifiche, che sulla base del diritto canonico e delle tante decretali pontificie potessero far configurare chiaramente il reato di eresia. Infatti, gli apostolici non proponevano una particolare lettura e interpretazione del Vangelo, rischio che correvano diversi eretici del tempo; c'erano però quelle idee sociali estremamente destabilizzanti per il sistema.
Quindi, l'attacco agli Apostolici venne mosso con riferimento ad alcuni "pettegolezzi" riguardante la vita sessuale dei medesimi.
Alcuni testimoni riportarono di aver visto o sentito "sconcerie" perpetrate all'interno del gruppo del Segarelli. Ecco alcuni stralci degli scarni verbali dei processi:
"Richiesto se un uomo possa toccare una donna che non sia sua moglie, e una donna possa toccare un uomo che non sia suo marito e palparsi vicendevolmente nelle zone impudiche standosene nudi e che ciò possa essere fatto senza ombra di peccato…rispose che un uomo e una donna, sia pur non uniti in matrimonio, e un uomo con un uomo e una donna con una donna possono palparsi e toccarsi vicendevolmente nelle zone impudiche. Disse che ciò può avvenire senza ombra di peccato a condizione che vi sia l'intenzione di pervenire alla perfezione…non si riteneva che tali palpeggiamenti impudichi e carnali fossero peccaminosi, anzi potevano essere fatti senza peccato in un uomo perfetto, stando a quanto diceva".
Si deve ammettere che tra queste "dicerie" qualcosa di vero doveva esserci.
Ciò si deduce dal fatto che, la gran massa di ex contadini presente nel movimento apostolico continuava a vivere la loro sessualità con la disinibita naturalezza e la libertà che da sempre era loro tipica e che da sempre aveva fatto gridare allo scandalo il ceto dominante.
Ad ogni modo dopo circa quarant'anni dall'inizio del movimento, grazie allo zelo e alla sollecitudine degli inquisitori dell'ordine dei Predicatori di Lombardia, la "setta" venne condannata e "Gherardo" messo al rogo.
La sentenza contro di lui fu emanata dall'inquisitore fra Manfredo di Parma nel palazzo vescovile di Parma il 18 luglio 1300.
La persecuzione inquisitoriale non mancò di ottenere celeri risultati avverso l'ORDINE DEGLI APOSTOLI e conseguentemente avverso la sua guida GERARDO SEGARELLI: molti furono catturati e giustiziati, altri si convertirono confessando i loro errori e facendo abiura in giudizio, altri ancora fuggirono.
In mezzo a quei fuggiaschi c'era sicuramente DOLCINO DA NOVARA.
DOLCINO, figlio illegittimo di uno spretato, era nato, non sappiamo quando, nella Val d'Ossola, in un paese nei pressi di Novara.
Aveva una discreta istruzione di base, conosceva il latino e le sacre scritture.
Probabilmente entrò nel movimento del Segarelli intorno al 1290.
Nel luglio del 1300 era a Parma dove assistette al rogo di Gherardo, il mese successivo era a Bologna, quindi a Ferrara.
Fu da Ferrara che, infatti, venne inviata a Bologna (al Palazzo Comunale) una lettera-manifesto, con la quale Dolcino si autonominava capo indiscusso del movimento apostolico, che era stato tutt'altro che stroncato dalla dura repressione del '99.
Il contenuto di quella lettera si trova in parte nell'opera dell'inquisitore domenicano BERNARDO GUI (GUY) (anche BERNARDO DI GUIDO) "Sulla setta di coloro che dicono di appartenere all'ordine degli Apostolici".
La prima impressione è che con Dolcino il movimento apostolico faccia un notevole salto di qualità.
E' vero che Segarelli non lasciò nulla di scritto (anche perché illetterato), ma comunque la dottrina del Segarelli ci appare ricolma di suggestioni mistiche e poverissima di fondamenti ideologici.
Dolcino era in aperta polemica anche con gli ordini mendicanti, sia i francescani che i domenicani, a causa dei loro numerosi possedimenti in cui raccoglievano i frutti delle questue, "mentre noi" continuava Dolcino, " non abbiamo case né dobbiamo portare con noi i frutti delle questue, e per questo la nostra vita è migliore e definitiva medicina per tutti".
Questa presunzione di perfezione e santità gli viene dalla sua vicinanza con una dottrina condannata nel 1215 come eretica, quella di Amalrico di Bene.
Gli amalriciani credevano di vivere agli inizi di una nuova era, l'età dello Spirito Santo dopo le precedenti età del Padre e del Figlio.
Presso gli amalriciani, inoltre, avevano una gran suggestione le leggende sull'Imperatore degli ultimi giorni e sull'avvento e la disfatta dell'Anticristo, i cui servi erano il Papa e i cardinali.
Al termine della sua lettera Dolcino riprende questa profezia e la interpreta a modo suo: "Papa Bonifacio VIII e tutti i cardinali e i chierici saranno sterminati dalla spada divina di un nuovo imperatore e da nuovi re da lui creati, e così essi saranno uccisi ed eliminati da tutta la terra. Il nuovo imperatore e quei nuovi re da lui nominati rimarranno fino alla venuta dell'Anticristo, il quale in quei giorni apparirà e regnerà".
Le antiche profezie contenute nell'Apocalisse, opportunamente interpretate da Dolcino, avevano previsto nel 1304 l'avvento di un papa buono dopo uno malvagio.
Codesto papa buono sarebbe stato lui stesso: egli non sarebbe stato eletto dai cardinali, (in quanto anche i cardinali saranno sterminati dal nuovo imperatore) ma da Dio stesso.
Dolcino, diceva infine, che nell'anno ancora successivo, cioè nel 1305, il nuovo imperatore avrebbe fatto strage completa di tutti i chierici, monaci e monache, frati minori ed eremitani.
Tutto questo, concludeva Dolcino gli era stato rivelato da Dio in persona, il quale gli aveva assicurato con certezza che alla fine di quel triennio sconvolgente tutti gli uomini dediti alle cose spirituali si sarebbero uniti agli "apostolici" e avrebbero ricevuto la grazia dello Spirito Santo.
Così la Chiesa sarebbe stata finalmente purificata e rinnovata dopo tanti secoli di corruzione e vergogna.
Dopo la lettera Dolcino fece perdere le sue tracce; si hanno scarsissime notizie dei suoi movimenti fino al 1303.
La sua presenza venne segnalata a Bologna e quindi a Ferrara; intanto da Firenze e da Bologna gli arrivarono sovvenzioni, in gran parte da famiglie del contado, così come le adesioni all'"ordine" giunsero maggiormente dagli emarginati.
Nel 1303 Dolcino e il suo comitato direttivo si trasferì in Trentino, in quanto molti suoi seguaci erano già stati arrestati nell'area bolognese.
Qui il novarese conobbe Margherita di Trento detta "la bella", che rimarrà accanto all'eresiarca fino al supplizio finale.
In quello stesso anno l'odiato Bonifacio VIII subì la più grande umiliazione mai subita da un pontefice da parte dell'autorità laica.
Il papa entrato in conflitto col re Filippo IV di Francia, il quale non era disposto più a tollerare l'ingerenza della Chiesa negli affari di stato e respingeva il principio di assoluta supremazia del papa sulle cose temporali, principio proclamato nella bolla Unam Sanctam del 1302.
Il re di Francia, con l'aiuto di Sciarra Colonna, fece arrestare il Papa. Bonifacio, sconvolto dall'affronto subìto, moriva appena un mese dopo, l'11 ottobre 1303.
Per molti eretici sembrò quindi giunto il momento della riscossa.
Il comitato direttivo della congregazione apostolica guidata da Dolcino era formato da circa cento membri, ma si contava che gli adepti alla setta fossero più di quattromila.
Inoltre, la disperazione del perseguitato produceva un'esaltazione e un'autodivinazione tipiche della dottrina del "Libero Spirito", i cui fanatici ritenevano di aver acquisito prodigiosi poteri (tra cui la profezia e la conoscenza di tutto ciò che è presente in cielo e in terra).
Nei primi mesi del 1304, Dolcino si trasferì dal Trentino verso il Piemonte, attestandosi in Valsesia con tremila uomini.
Pare, che alcune forze ghibelline gli abbiano fatto pervenire armi e sostegni finanziari: non un fatto strano, soprattutto in quanto al centro dell'ideologia apocalittica dell'eresiarca c'è la figura di Federico di Sicilia, erede degli Svevi, che quale "Imperatore" avrebbe dovuto eliminare il papa e il clero corrotto.
I dolciniani rimasero qualche tempo fra Gattinara e Serravalle e altri villaggi nella diocesi di Vercelli, spostandosi poi per motivi di sicurezza da un villaggio all'altro.
Entrarono quindi nella diocesi di Novara, tra Campertogno, Varallo e Balma.
Si deve notare che durante tutto il loro peregrinare, i dolciniani furono guardati con simpatia, aiutati e protetti dalle popolazioni locali.
Certamente ora, Dolcino era stato localizzato e risultava vano continuare a fuggire, quindi il frate decise di fermarsi su un monte che sovrasta i villaggi del novarese, monte denominato Parete Calva.
Lì il novarese iniziò la sua resistenza con centinaia di uomini e donne.
Sulla parete del monte i dolciniani costruirono rifugi e case e riuscirono a respingere più volte le pattuglie armate inviate dalle autorità locali (facendo addirittura prigioniero il podestà di Varallo).
L'anonimo autore della Storia di fra' Dolcino eresiarca (Historia fratris Dulcini heresiarche), ci racconta che dalla Parete Calva gli uomini scendevano a valle per commettere ogni sorta di crimini, infatti, Dolcino durante la sua predicazione in Valsesia aveva più volte affermato che rubare, catturare uomini per averne il riscatto e commettere altri crimini del genere non era peccato, perché lui e i suoi seguaci erano più perfetti e santi che qualsiasi altro uomo di chiesa, ed era quindi giusto che si difendessero con questi mezzi dalla malvagia persecuzione attuata nei loro confronti e facessero così trionfare la loro santità di vita.
Poco per volta, venne così rivelandosi la "filosofia" della setta, che anche dopo la scomparsa del frate novarese ebbe addirittura una diffusione di carattere europeo, con una particolare affermazione in Germania.
Nell'inverno tra il 1305 e il 1306, Dolcino inviò la sua terza e ultima lettera, in cui si annunciò come imminente la venuta dell'Anticristo e in cui profetizzò che lui e i suoi seguaci sarebbero stati portati in paradiso davanti ai patriarchi Enoch ed Elia per scampare alla persecuzione dell'Anticristo.
Subito dopo questa lettera, Dolcino lasciò il novarese e dopo un'epica marcia verso i monti ricoperti di neve, giunse, il 10 marzo 1306, nel vercellese, presso Trivero, e s'insediò sul monte Zebello che da quel momento fu detto Rubello o Rebello, in quanto se n'erano impadroniti i ribelli.
Da qui i dolciniani si scagliarono sui villaggi sotto di loro per procurarsi da vivere commettendo rapine e delitti di ogni genere.
Quindi costruirono una fortezza sul monte, scavarono un pozzo, raggiungibile dalla fortezza per ottenere acqua in caso di assedio.
Cominciò la loro resistenza senza speranza: gli scontri erano continui e i ribelli più volte si ridussero ad un tale stato di inedia da mangiare carne di topo, di cavallo, di cane, e fieno cotto col sego.
A questo punto il vescovo di Vercelli dispose un esercito di uomini scelti a presidiare i dolciniani.
Nel frattempo Papa Clemente V, successore di Bonifacio VIII, il 7 settembre 1306 inviò lettere al nobiluomo Ludovico di Savoia, agli inquisitori, ai domenicani e all'arcivescovo di Lombardia: "Abbiamo appreso, non senza grande amarezza, in che modo la nequizia di quel figlio di Satana di nome Dolcino si sia diffusa in Lombardia , al punto che costui, ergendosi contro la Santa Chiesa e la fede cattolica, abbandonata la via della salvezza, inabissatosi nell'errore, non solo precipita se stesso nella Gehenna, ma molti trascina con sé con le parole e con l'esempio e gli errori suoi hanno traviato, ahimé, molti uomini. Allo sterminio dei suoi errori, che l'Anticristo nemico del genere umano si sforza di diffondere in quei territori, bisogna far fronte rincuorando i fedele e allontanando dall'ovile le pecore infette, perché non appestino le sane".
Queste lettere non facevano altro che incitare il clero e la nobiltà Lombardo-Piemontese a combattere l'"Anticristo"; una vera e propria crociata contro Dolcino, infatti, il Papa concedette l'indulgenza plenaria da ogni peccato a chiunque avesse preso le armi per annientare i ribelli.
Il Vescovo di Vercelli, capo della spedizione militare, fece costruire cinque bastioni sulle pendici del monte Rebello.
L'esercito ormai controllava ogni via di fuga; agli assediati quindi non poteva più giungere alcun tipo di aiuto o rifornimento.
Dolcino e i suoi caddero in tali ristrettezze da essere costretti a mangiare radici, erbe, foglie e addirittura carne umana, cioè quella degli uomini che morivano per le ferite ricevute nei combattimenti o per gli stenti. Si andò avanti così per tutto l'inverno tra il 1306 e il 1307.
Avvicinandosi la primavera, il 13 marzo (giovedì santo) 1307, il vescovo decise di sferrare un potentissimo attacco con tutti gli uomini a disposizione.
Gli assalitori sfondarono il fortilizio, e i ribelli vennero uccisi a centinaia e gettati in un corso d'acqua che divenne rosso di sangue.
Fra Dolcino, Margherita "la bella" e il luogotenente Longino di Bergamo furono presi vivi mentre cercavano di sfuggire per i monti sopra Trivero.
Il sabato santo vennero tradotti a Biella, ove il Papa inviò per loro una sentenza di morte.
Il 1° giugno 1307, Margherita di Trento fu legata a una colonna, sulla riva del Cervo, nei pressi di Biella, e lì bruciata viva sotto gli occhi di Dolcino.
Subito dopo vennero giustiziati Dolcino e Longino, il primo a Biella il secondo a Vercelli.
Posto su un carro con piedi e mani legate, ben in alto, in modo che tutti potessero vederlo, Dolcino venne fatto sfilare per le vie della città.
Sopra quel carro, alcuni uomini ficcavano delle tenaglie dentro un grande bacile contenente tizzoni ardenti, e con le stesse strappavano pezzi di carne allo sciagurato.
Durante quella lunga e straziante tortura, Dolcino non si fece sfuggire né un grido né un lamento: solo quando gli strapparono il pene, emise come un mugolio con un'evidente smorfia di dolore.
Quando fu messo al rogo era ormai in fin di vita.
In punto di morte i carnefici lo invitarono al pentimento prima di giungere al cospetto di Dio, ma con fermezza l'uomo con un filo di voce mormorò che entro tre giorni sarebbe resuscitato.
Quindi il fuoco lo avvolse e lo ridusse in cenere.
Dolcino divenne poi nei secoli seguenti un personaggio leggendario, tanto che i seguaci di Nietzsche lo esaltavano, quale incarnazione del superuomo che disprezza la mediocrità generale e dimostra questa concezione con un atto di coraggio individuale.
Il 6 aprile del 1907 un giornale biellese, di ispirazione socialista, scriveva: "Il nome di fra Dolcino, di quell'anima eroica che, in tempi di pieno, barbarico dominio della Chiesa, ebbe il coraggio di insorgere contro la superstizione, il dispotismo e le nefandezze cattoliche e che come tutti i precursori del libero pensiero vissuti nei tempi tenebrosi del governo papale scontò con l'estremo supplizio il suo amor di libertà, nella rievocazione delle più sacre memorie, balza fuori a vita novella".



La storia comincia infatti prima di fra Dolcino, a Parma.
Nel 1294 quattro persone salirono al rogo in quanto eretici dell'Ordine degli Apostoli.
Il loro capo, GERARDO SEGARELLI, venne invece condannato al carcere perpetuo.
Egli aveva ricevuto un trattamento diverso, di favore si può dire, perché era allora sulla cattedra vescovile Obizzo Sanvitali il quale aveva conosciuto bene il Segarelli e forse, per questo motivo, non se l'era sentita di mandarlo al rogo.
Condanna che venne poi eseguita, nel 1300, dal frate domenicano Manfredo, quando il Sanvitali fu sostituito ed inviato alla cattedra di Ravenna.
La considerazione per l' esperienza religiosa di Gerardo era mutata col tempo: dalla piena ortodossia degli inizi era cambiata in eresia a causa delle scelte operate dai vertici ecclesiastici.
Egli invitava i suoi discepoli a farsi simili agli Apostoli e volle che i suoi percorressero il mondo come poveri mendicanti vivendo solo di elemosine.
Furono accusati di non riconoscere più l'autorità dei sacerdoti, la celebrazione della messa, la confessione, e di vagabondare nell'ozio.
Gerardo chiese di essere ammesso nell'ordine dei Minori, ma i francescani non lo accettarono.
Vestito con un mantello bianco sopra una tunica bianca e coi capelli lunghi, acquistò presso i semplici fama di santità.
Si macchiò di eresia, eppure molti lo seguirono, non solo contadini, ma anche gente di città, iscritti alle arti, e Gerardo li faceva denudare affinché nudi seguissero Cristo nudo, e li mandava per il mondo a predicare.
Vivevano all'aperto, talora salivano sui pulpiti delle chiese interrompendo l'assemblea del popolo e cacciandone i predicatori.
Si dicevano eredi della dottrina di Gioacchino da Fiore, in realtà la usarono per giustificare le loro follie.
Asserivano che anche le donne potessero predicare, come fecero molti altri eretici.
E non conoscevano più alcuna differenza tra celibi e sposati, ne alcun voto fu più considerato perpetuo.
La svolta decisiva fu determinata dalla decisione del Concilio di Lione del 1274: le disposizioni emanate durante il Concilio miravano ad interrompere il proliferare di ordini religiosi, specialmente Mendicanti, sanzionando allo stesso tempo l'eminente funzione e posizione ecclesiastica di Predicatori e Minori.
L'assemblea di Lione proibiva la costituzione di qualsiasi nuova religione e imponeva che gli ordini sorti dopo il 1215 bloccassero lo sviluppo e la fondazione di nuove sedi.
Il Segarelli e i suoi seguaci non accettarono di conformarsi a tale normativa.
L'atto fu interpretato come segno di tendenza all'eresia e poco dopo venne avviato il processo di ereticazione.
Nel 1286 Onorio IV emanò la bolla Olim felicis recordationis che imponeva alle autorità ecclesiastiche di ricercare i membri dell'Ordine degli Apostoli obbligandoli a deporre l'abito o ad entrare in un ordine riconosciuto, altrimenti sarebbero stati rinchiusi in carcere.
Dopo quattro anni Niccolò IV ribadì il provvedimento, stabilendo che la facoltà di giudizio spettasse agli inquisitori.
Nel 1296 Bonifacio VIII ribadiva più o meno le stesse cose.
Gli interventi pontifici, volti a rendere operante il Canone lionese, trasformarono le ragioni disciplinari in motivi dottrinali: coloro che avevano disobbedito alle norme ecclesiastiche furono proiettati nell'eterodossia.
I motivi di tanto accanimento contro coloro che intendevano seguire la vita apostolica possono essere chiariti dal Magnus tractatus che il francescano Salimbene de Adam dedicò a Gerardo Segarelli.
Questa fonte aiuta anche a conoscere gli inizi e gli sviluppi della storia degli Apostolici, anche se non rappresenta il resoconto della vicenda, ma un'interpretazione a posteriori, volutamente aderente alla decisione del Canone lionese: decisione alla quale gli Apostolici non si erano adeguati, entrando in concorrenza con i Mendicanti.
L'esperienza del Segarelli fu percepita come inconciliabile con l'universo religioso-culturale che il frate cronista aveva scelto.
Era in gioco la questione di chi fossero i veri Mendicanti.
Il frate definisce gli Apostolici come ribaldi, stolti, come potevano pretendere di annunciare il Vangelo e di mettersi allo stesso livello di Minori e Predicatori?
Il Salimbene però non riesce comunque ad occultare taluni aspetti positivi dell'esperienza religiosa degli Apostolici.
Essi infatti, essendo incerti sulla fisionomia istituzionale da assumere, si erano rivolti al magister Alberto di Parma.
C'era stato quindi un tempo in cui essi non erano ribaldi e stolti se un protonotario della sede pontificia si era occupato di loro.
Inoltre, che gli Apostolici conobbero un certo successo è provato dal fatto che i cittadini di Parma li beneficiavano più ampiamente rispetto a Minori e Predicatori.
Il successo impose problemi organizzativi: il Segarelli in coerenza con la convinzione evangelica che ognuno era responsabile delle sue azioni, rifiutò sempre di tradurre la sua posizione di prestigio in una funzione di comando istituzionale.
Subentrarono allora contrasti e tensioni nella nuova formazione religiosa. Si era intorno agli anni del secondo Concilio lionese.
Obizzo Sanvitali decise allora di espellere gli apostolici dalla sua diocesi, gli stessi che egli aveva a lungo favorito a motivo di frate Gerardo.