CERMELLI AGOSTINO: pressoché contemporaneo dell'Aprosio fu ascritto all'Ordine Domenicano e raggiunse la carica di INQUISITORE GENERALE dapprima a Ferrara, quindi a Genova dal dicembre 1652 al febbraio del 1661 come Aprosio stesso ha lasciato scritto ne la Biblioteca aprosiana ma non nella sezione da lui dedicata ai rendiconti della propria vita e della propria attività sia erudita che religiosa (nemmeno quando gli incarichi religiosi divengo vieppiù importanti) ma, a repertorio bibliografico inoltrato, sotto il nome specifico del personaggio cioè AGOSTINO CERMELLI (p. 266, III) (che in effetti Aprosio cita tra i "Fautori dell'Aprosiana ma di cui nulla più dice anche se nel suo "Epistolario" [in cui erroneamente si lesse "Carmelli" per "Cermelli"] si trovano 4 lettere dell'inquisitore all'Aprosio.
AUSONIO: Decimo Magno Ausonio nacque intorno al 310 d. C. a Burdigala, l’odierna Bordeaux; inizialmente maestro di retorica e poi precettore dell’imperatore Graziano, fu anche prefetto in Gallia, Illiria, Italia ed Africa. Ausonio, tipico rappresentante della cultura gallo-romana, scrisse moltissime opere in poesia, prendendo spunto da ogni occasione (abbastanza famoso il viaggio poetico tra le principali città dell'Impero: Ordo urbium Nobilium).
E' arduo credere che solo 4 lettere siano intercorse tra Aprosio, Vicario inquistoriale di Ventimiglia ed Agostino Cermelli cioè il Vicario generale di Genova: molte possono esser le cause, comprese (in questo come per altri casi) le peripezie patite dal materiale manoscritto aprosiano in gran parte finito a Genova e come in questo caso per discutibile scelta napoleonica, nell'ipotesi di un'istituenda biblioteca centrale ligure, ingressato attualmente tra i Fondi speciali - MS. E. VI. 19 della B.U.G. o Biblioteca Universitaria di Genova (quando non finito in raccolte private).
La I LETTERA del Cermelli datata Genova 13 Luglio 1655 fa cenno ad una vera e propria operazione di polizia, in quanto all'Aprosio viene dato l'incarico di condurre al Palazzo del S. Ufficio di Genova un Prigione, cioè un arrestato ritenuto huomo ardito, et avveduto.
La II LETTERA del Cermelli datata Genova 1 maggio 1658 comporta un'ordine di pubblicazione di lettere da affiggersi pubblicamente attinenti al divieto di introdurre in area cattolica i libri del discusso teologo, sempre ai limiti dell'eresia per giudizio dell'Inquisizione ed ella Chiesa di Roma, Giansenio: ad Aprosio spetterà il compito di vigilare ed attivare le autorità locali competenti.
La III LETTERA del Cermelli datata Genova 23 marzo 1659 comporta una risposta dell'Inquisiotre generale ad un'evidente petizione aprosiana se lo stato di Monaco dipenda o meno dall'Inquisizione genovese (risposta per inciso affermativa).
La IV LETTERA del Cermelli datata Faenza 22 novembre 1673 è l'unica che risulta estranea ad un rapporto tra superiore ed inferiore; Agostino Cermelli, con grafia senile, ringrazia Aprosio d'averlo tra tanti cigni...povero, e miserabile pipistrello collocato nel repertorio bibliografico aprosiano quale uno tra i Fautori della Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia.
Aprosio come personalmente sempre ne la Biblioteca Aprosiana scrive fu VICARIO INQUISITORIALE PER LA DIOCESI INTEMELIA proprio ai tempi in cui a Genova era INQUISITORE FRA AGOSTINO CERMELLI.
Il Decreto per la carica di Aprosio quale VICARIO DELL'INQUISIZIONE era stato emesso il 4/II/1654 dalla Sacra Congregazione dell'Indice
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AGOSTINO CERMELLI non aveva il carisma di ELISEO MASINI, che parimenti fu INQUISITORE A GENOVA, ma anche lui era uomo di rilevante cultura come attestano le opere rinvenute, molto spesso di argomento giuridico-inquisitoriale qui sotto elencate, ma evidentemente siffatti testi non rientravano nell'universo di quell'erudizione sostanzialmente innocua che Aprosio prediligeva:
1-Cermelli, Agostino, Duodecim sacri dominicanae familiae caesares. Per F. Augustinum Carmellum sacr. theologiae magistrum, & inquisitorem Ferrariensem ... Cum alijs sacris encomijs alibi ia iam impressis , Venetiis: Cestari, Giovanni Battista, 1652
2-Cermelli, Agostino, Vita sancti patris Augustini omnium doctorum coronamenti, et episcoporum antesignani, ex eius operibus, et sententiis per F. Augustinum Cermellum, ordinis praed. nouissime concinnata ... card. De Alteriis dicata , Ferrariae: Gironi, Giuseppe, 1648
3-Cermelli, Agostino, Vita primi, et maximi doctoris ecclesiae sanctissimi Hieronymi per f. Augustinum Cermellum concinnata , Ferrariae: Gironi, Giuseppe, 1648
4-Cermelli, Agostino, Sacra encomia fratris Augustini Cermelli ordinis Praedicatorum , Ferrariae: Gironi, Giuseppe, 1648
5-Cermelli, Agostino, *R.P.F. Augustini Cermelli Ordinis Praedicatorum Catena in Iob : ex selectis antiquorum, et recentium Patrum sententiis, philosophorum testimoniis, Graecis & Latinis historiis, singulari cum artificio grauiter, pieque concinnata in que vetus sapientium doctrina restauratur ... , Genova, 1636
6-Cermelli, Agostino, Regularis FR. Augustini Cermelli ordinis praedicatorum. Series ab humanitate ad Dei praecepta: inde ad consilia progreditur: quorum causa de religionis ingressu, progressu, & egressu disseritur , Romae: Moneta, Francesco, 1659
7-Cermelli, Agostino, Monita praelatorum fratris Augustini Cermelli Ordinis praedicatorum. S. theol. magistri, & inquisitoris Ferrariensis , Romae: Cavalli, Francesco, 1652
8-Cermelli, Agostino, Fr. Augustini Cermelli ordinis praedicatorum Catena in Iob. ex selectis antiquorum, et recentium patrum sententijs ... In qua vetus sapientum doctrina restauratur ..., Genuae: Calenzani, Pietro Giovanni & Farroni, Giovanni Maria, 1636
Compose però soprattutto epigrammi, epitaffi, lettere, idilli, poemetti. Morì dopo il 393 d. C., dopo essersi ritirato a vita privata ed essere ritornato in patria.
MENOCHIO, GIOVANNI STEFANO: Figlio del giureconsulto Giacomo, autore di molte importanti opere giuridiche, GIOVANNI STEFANO seguì la carriera ecclesiastica entrando a soli 18 anni nella Compagnia di Gesù in cui rivestì cariche di rilievo, tra cui quella di rettore del Collegio Romano.
Dotto interprete di testi sacri editò una Brevis explicatio sensus litteralis Sacrae Scripturae (1630).
Tra le altre sue opere che conobbero ripetute edizioni si rammentano qui lo Hieropoliticon sive Institutionis politicae e Sacris Scripturis depromptae libri tres (1625) e le Institutiones oeconomicae e Sacris Litteris depromptae (1627).
Tra il 1646 e il 1648 pubblicò in 6 volumi l'opera Le stuore, tessute di varia erudizione sacra, morale e profana.
Compose pure un profilo biografico del padre che appare come una riscrittura del libro di famiglia già steso da quest'ultimo.
FULCANELLI è lo pseudonimo di un autore di libri di alchimia del XX secolo (forse Jean Julien Champagne 1877-1932 o René Adolphe Schwaller de Lubicz o Camille Flammarion nato il 16 febbraio del 1842 o Pierre Dujol o Jules Violle medico francese). È sempre stata mantenuta segreta la sua identità. Eugène Canseliet, nato nel 1899 , si è sempre dichiarato discepolo di Fulcanelli. Fulcanelli parlò sempre attraverso Canseliet che curò le prefazioni dei suoi libri.
Fulcanelli scrisse Il Mistero delle Cattedrali nel 1926 e Le dimore Filosofali nel 1931. Canseliet afferma che Fulcanelli scrisse anche un terzo libro, Finis Gloriae Mundi, che fu consegnato al Canseliet per la pubblicazione ma poi ritirato in un secondo tempo.Il titolo di di quest'ultimo libro fa riferimento ad un dipinto di Juan Valdés Leal conservato presso la chiesa della Santa Caritad a Siviglia e denominato proprio Finis Gloriae Mundi.Due sono le versioni di questo misterioso trattato, comunque affatto incompatibili e di dubbia provenienza. Una apparve già nel 1988 sulla " Tourbe des Philsophes " e l'altra affidata a Jacqes d'Ares" via internet".
Filosofo perché amante della saggezza e quindi,istruito delle segrete operazioni della Natura, ne imitò i procedimenti. Va detto che il nome di filosofo in passato veniva dato a coloro che erano veramente istruiti dei procedimenti della Grande Opera ( si veda Antoine-Joseph Pernety, Dictionnaire Mytho-Ermetique, Parigi 1758). " La vostra preoccupazione sia quella di capire la Pietra dei Filosofi, e nel contempo otterrete il fondamento della vostra salute, il deposito delle ricchezze, la nozione della vera sapienza naturale e la conoscenza certa della natura" traduzione di Paolo Lucarelli da Lux Obnubilata Suaptè Natura Refulgens, cera de Lapide OPhiklosophico Theorica, metro italico descripta, et ab auctore Innominato Commenti gratia ampliata, Venetiis MDCLXVI, apud Alexandrum Zatta, Superiorum Permissu & Privil. Proemium.
Le opere di Fulcanelli furono considerate straordinarie perché: "quale alchimista operativo nel senso più antico del termine ricostruiva, partendo dal simbolismo ermetico, i punti principali della Grande Opera illustrandone i principi teorici e la prassi sperimentale con un dettaglio e una precisione mai visti prima": Paolo Lucarelli in La tradizione alchemica del XX secolo - Zenit Studi.
La fama di Fulcanelli ha raggiunto ogni continente e i suoi libri sono stati venduti in milioni di copie.
EUDEMIA: per quanto Aprosio sia stato un religioso di Giano Nicio Eritreo (alias Gian Vittorio Rossi, Roma 1577 - 1647) più che gli scritti teologici che questi produsse come teologo gesuita al servizio del cardinale Andrea Peretti (per esempio i Dialoghi, le Homeliae, le Epistolae ad diversos ecc.) fu attratto dalla Eudemia in otto libri (stampa Elzeviriana, Leida, 1637) una specie di "romanzo" allegorico e satirico in cui il Rossi (o Giano Eritreo) fustigò aspramente i facili costumi romani del suo tempo.
Gli interessi eruditi aprosiani furono contestualmente ispirati dalla Pinacotheca imaginum illustrium... in cui Giano Eritreo stese un vasto repertorio di 300 biografie di contemporanei.
Scarna ne fu la produzione in volgare con poche rime e qualche dramma sacro di non rilevante valore: tutte le sue opere videro la luce all'estero, in Amsterdam tra gli anni 1645 e 1649.
BENAMATI GUIDUBALDO: (Gubbio sec. XVI ex. - ivi 1663). Di ingegno precoce fu poeta cortigiano a Parma sotto Ranuccio I e Odoardo Farnese. Qui scrisse un Canzoniere (Dei, Venezia, 1616) e poemi in ottava rima.
Ritiratosi a Gubbio nel 1630 vi fondò e diresse l'Accademia degli Addormentati.
nella sua ricca produzione, verso gli ultimi anni, spicca il romanzo Il principe Nigello (Dozza, Venezia, 1640) che venne messo all'Indice dei libri proibiti.
Son poi da ricordare La Pastorella d'Etna (Muschio, Venezia, 1627), Il Trivisano (Beyer, Francoforte, 1630), la vittoria navale (Monti, Bologna, 1646).
Per un approfondimento del personaggio e del suo carteggio erudito con A. Aprosio è comunque fondamentale l'attuale saggio di M. Slawinsky, comparso su "Aprosiana - Rivista di Studi Barocchi", X, 2002, dal titolo Gli affanni della letteratura nella corrispondenza di Benamati ad Aprosio (1629 - 1652).
Lo Slawinsky pubblica (n.XXX) una "strana" lettera del BENAMATI ad Aprosio (in S. Stefano di Venezia) e scrive:
"Nell'Altomiro romanzo stampato quest'anno in Padova, trovo à carta 157 queste parole.
Fui del ragguaglio d'ambidui cortesemente favorito, frà molti altri degni di eterna memoria, dall'Ambasciator Lauretano, il quale appresso il Rè nostro risiede per la Repubblica Veneta. E ben con verità Lauretano può nominarsi quell'Ambasciatore, la cui Penna coronata di Lauro, vola così sublime, che ha tolta la speranza ad ogni altro di tenerle vicino il volo.
Hor qui per mio credere, si parla dell'illustrissimo Signor Giovan Francesco Loredano. Digrazia Vostra Paternità mi avisi subito se è vero che sia Ambasciatore appresso il Rè di Portogallo come qui si suppone. Il che essendo torno in gelosia pù che mai della mia penna Lirica, la quale si può solo andar temperando, dal favore, e dalla diligenza di Vostra Paternità con procurare che si spedisca una volta quella stampa. Le piaccia in un tempo stesso dirmi se riceveva il catalogo degli scrittori d'Ugubbio, che le mandai un pezzo fà. E qui di cuore bacio à Vostra Paternità le mani. D'Ugubbio adì 15 Ottobre 1644".
Per quanto si deduce dal resto dell'epistolario, Aprosio non rispose al quesito, eppure aveva una perfetta conoscenza di LELIO MANCINI variamente legato alla produzione di quel romanzo su cui il Benamati indugiava tanto.
BAGLIONI PAOLO: discendente da antica e nobile famiglia perugina, già da tempo stabilita a Venezia, Paolo Baglioni fu tipografo ed editore molto apprezzato del XVII secolo. Iniziò la sua attività pubblicando libri devozionali molto curati dal punto vista tecnico ed arricchiti da belle incisioni. In generale, dopo le eccellenti edizioni veneziane del Cinquecento, nel corso del Seicento, si assistette ad un aumento della quantità di libri stampati nella città lagunare, che andò a scapito della qualità del prodotto. Paolo Baglioni, invece, pur avendo pubblicato molti libri, volle che le sue edizioni fossero sempre curate dal punto di vista grafico, con pagine equilibrate ed eleganti, con illustrazioni di buon livello artistico e che fossero stampate su carta forte e priva di impurità.
La famosa Tipografia Balleoniana, la cui inconfondibile marca tipografica era costituita da un'aquila bicipite, continuò con gli eredi di Paolo anche se non mantenne sempre l'alta qualità del fondatore: ancora una volta la grande quantità di libri prodotti rischiava di danneggiare la qualità grafica del libro. Nel 1736 il Negozio Baglioni pagava una tansa (tassa) di ben 300 Lire, la più alta di tutti i librai veneti, mentre Lorenzo Pezzana, suo diretto concorrente, non ne pagava che 169. Una particolarità delle edizioni dei Baglioni furono i piccoli formati: in 24° (da 10 a 15 cm) e in 32° (da 7 a 10 cm) che prevedevano l'uso di caratteri molto piccoli e comportavano notevoli abilità tecniche nella composizione.
BABA FRANCESCO: tipografo e libraio di Venezia (+1656)
FOSCHI GABIRELLO (al secolo Leandro): nativo di Ancona fu Reggente dei novizi nei conventi Agostiniani di varie città italiane "dispensando altresì al medesimo tempo da' Pulpiti a' Popoli il cibo della Parola divina".
Finalmente divenne priore del convento di S. Agostino in Ancona.
Nonostante gli impegni religiosi meritò pure riconoscimenti letterari in funzione delle sue opere (vengono nominati quattro libri di Disputationes ed uno di Panegirici) che per quanto mai edite circolarono fra i dotti in forma manoscritta aprendo all'auore le porte di prestigiose Accademie degli Oziosi di Napoli e degli Incogniti di Venezia (Aprosio che lo citò come bibliotecario dell'Angelica di Roma gli dedicò un capitolo dello Scudo di Rinaldo I: vedi G.F. Loredano, Glorie degli Incogniti, Venezia, Valvasense, 1646, p. 169 e poi Davide Aurelio Perini, Bibliografia augustiniana, Firenze, Libreria fiorentina, 1929-1937, vol. II, p. 82.
CARAVONICA fu in origine un feudo della potente casata dei CONTI di VENTIMIGLIA
Tra la fine dell’XI e l’inizio del XII sec. si verificano a Genova due eventi di grande rilievo: nasce il Comune e i Genovesi partecipano trionfalmente alla prima Crociata.
Genovesi, Baresi e Veneziani da tempo erano alla ricerca delle reliquie di San Nicola a Myra, in Asia minore; al ritorno dalla prima crociata, sotto la guida di Guglielmo Embriaco, i Genovesi sbarcarono in quei luoghi scoprendo di essere stati preceduti dai Baresi.
Temendo un raggiro dei monaci scavarono comunque sotto l’Altare Maggiore e rinvenirono così le ceneri di San Giovanni Battista.
L’arrivo delle Ceneri a Genova su tre vascelli nel 1098 fu un avvenimento memorabile per la città e viene rievocato dalla suggestiva Sfilata del Corteo Storico in occasione della Regata delle Repubbliche Marinare che si svolge ogni anno, a rotazione nelle quattro città.
La devozione al Santo cominciò a farsi sempre più fervente e a riflettersi in molti campi: iniziarono a sorgere numerose cappelle pubbliche e private oltre che edicole sacre dedicate al Battista.
Alla fine del Duecento si istituì la Confraternita intitolata a San Giovanni, con il compito di accompagnare le reliquie al Molo in caso di tempesta in mare; nel 1327 la Repubblica proclamò il Santo Patrono di Genova, affiancandolo a San Giorgio e San Lorenzo, decretando una processione da tenersi ogni anno.
Già da prima dell’XI secolo si ha notizia di come sulle piazze principali di Genova e nei paesi di tutta la Liguria si accendessero enormi falò attorno ai quali schiamazzavano i popolani; erano, queste, tradizioni sopravvissute al paganesimo, che il 24 Giugno celebrava la festa di Fors Fortuna e con i fuochi della notte del 23 voleva allontanare gli spiriti maligni e le streghe che uscivano dai loro antri per danneggiare i raccolti e uccidere bestiame e uomini.
La Chiesa continuò a condannare più volte tali rituali, ma vista l’impossibilità di cancellarli, decise la via “accomodante” di trasformare i falò in fuochi sacri e rievocativi dell’elogio di Cristo per il Battista: “Egli era lume ardente e illuminante” (Giov, V, 35).
Una grida del 1570 arrivò di conseguenza ad invitare i cittadini a festeggiare “con quella letizia che lo celebrarono i nostri antichi da tempo immemorabile”.
I fuochi diventarono poi motivo di festa e di convivio; ovunque vi fosse uno spazio, piazza Sarzano, Santa Maria di Castello, Principe, San Teodoro, e in tutte le alture, si innalzavano fiamme bruciando legna da ardere e roba vecchia, si ballava la “moresca” e si cuocevano cipolle e lumache.
Dove non si potevano accendere falò, si appendevano lanternine di carta colorata con dentro lumini e si scoppiavano mortaretti, girandole, razzetti in un tripudio di luci e colori.
Ancora oggi l’antica tradizione prosegue e la notte della vigilia della festa di San Giovanni la città si anima con giochi di strada, falò nelle piazze e fuochi d’artificio sul mare.
Il 24 Giugno, alla presenza delle massime Autorità civili e religiose, di numerose Confraternite che sfilano con preziose vesti portando i pesanti crocifissi in mezzo alla folla, esce dalla Cattedrale l’arca quattrocentesca in oro e argento, con le ceneri di San Giovanni e viene portata fino al Porto Antico.
Qui il Cardinale benedice il mare con le reliquie al suono delle sirene delle navi.
CARREGA DOMENICO (genovese, XVII secolo) autore di una Corona per li serenissimi Collegi della Serenissima Repubblica di Genova, l’anno 1621, in Genova, per Giuseppe Pavoni, 1623.
GIUSTINIANI MICHELE: <1612-1679> tra molte altre opere scrisse la silloge Gli scrittori liguri descritti dall'abbate Michele Giustiniani ... Parte prima, In Roma : appresso di Nicol'Angelo Tinassi, 1667 [Descrizione fisica: [20], 496, [12] p. ; 4o. Note Generali: Fregio xil. sul front espizio, Iniziali xil., La c. 3S2v è bianca, Testo a colonne, Unico volume pubblicato: cfr. British Library, Catalogue of seventeenth century Italian books, I, p. 404 Numeri: Impronta - i-l- onde toe, moti (3) 1667 (R)].
ZANI VALERIO: conte bolognese, scomparso verso il 1696, erudito e poligrafo ma soprattutto agitatore culturale nel consesso dell'Accademia dei Gelati di Bologna di cui ricoperse anche la massima carica direttiva di "Principe".
LETTERA CIECA - LETTERE CIECHE: termine antiquato per indicare LETTERA ANONIMA - LETTERA NON FIRMATA.
ABATI ANTONIO: nato a Gubbio (Perugia) verso il 1600 morì a Senigallia (Ancona) nel 1667.
Gregorio XVI
Fu variamente in rapporto culturale con A. Aprosio ed il suo successore Domenico Antonio Gandolfo.
Si elencano qui di seguito le opere individuate di Valerio Zani:
1-Zani, Valerio
2-Zani, Valerio
3-Zani, Valerio
4-Zani, Valerio
5-Zani, Valerio
6-Zani, Valerio
7-Zani, Valerio
8-Zani, Valerio
9-Accademia dei Gelati
Vedi BATTAGLIA, sotto voce "Cieco", n. 19
Negli anni compresi fra il 1631 ed il 1638 visse ed operò a Roma, Viterbo e Milano, poi dal 1640 al 1645 fu al servizio di Leopoldo d'Austria che lo gratificò non poco dei suoi augusti favori.
Viaggiò a lungo tra la Francia e le Fiandre, quindi, ritornato in Italia, ricoprì vari incarichi negli Stati Pontifici.
Fu anche membro dell'Accademia dei caliginosi di Ancona e di quella degli Insensati di Perugia.
Al primo posto, per rinomanza, fra le sue opere sono mediamente collocate Le Frascherie (Leni, Venezia, 1651), tre Fasci di prose e satire (specialmente in terza rima) ove si rifece qual modello all'amico e poi rivale Salvator Rosa.
Abati compose opere di contenuto polemico verso la letteratura del XVII secolo e tra queste son da menzionare i Ragguagli di Parnaso contra i poetastri e partigiani delle nationi (Ghisolfi, Milano, 1638) redatti in versi secondo una stilematica che riprende le modulazioni del Boccalini.
Autore di buona rinomanza non mancò di successi, ottenuti anche dall'edizione delle sue Poesie postume (Recaldini, Bologna, 1671) destinate, per la buona accoglienza del pubblico, a varie ristampe.
Scarna è la biografia sul personaggio; vedi comunque = L. Mancini, Antonio Abati e le satire nelle "Frascherie", Senigallia 1904 - Roberto Zapperi, "ABATI, Antonio", in Dizionario biografico degli italiani, Vol. I, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1960: utile e recente il lavoro
Antonio Abati. Un poeta satirico nella Senigallia del Seicento di Elena Turchi, Senigallia, Ventura edizioni, 2017 = A 350 anni dalla morte govedì 14 dicembre 2017, nella sala conferenze della biblioteca Antonelliana di Senigallia, a partire dalle 15:30, si è tenuto un convegno di studi su Antonio Abati, poeta secentesco nativo di Gubbio e senigalliese d’adozione, il quale, dopo una vita lunga ed errabonda, si ritirò a vita privata nel podere della “Stelletta” a Scapezzano, e ivi morì nel 1667.
Sette studiosi, tre locali [Elena Turchi, Antonio Maddamma e Chiara Pietrucci (che ha scritto queste note) e quattro provenienti da università e centri di ricerca italiani ed europei (Massimiliano Malavasi, John Butcher, Federico Contini e Massimo Colella) hanno variamente trattata la vita (come anche le opere) di questo singolare poeta barocco ancora poco conosciuto al grande pubblico.
L’iniziativa, patrocinata dal comune di Senigallia, è stata realizzata grazie al contributo del Credito Cooperativo di Corinaldo e dell’associazione culturale Sena Nova.
BENI PAOLO nato a Candia (Grecia) nel 1552/53 morì a Padova nel 1625.
Di origine umbra fece i suoi primi studi A Gubbio donde la denominazione di Eugubino.
Verso il 1574 si portò a padova per studiare nella locale Università aderendo quindi all'Accademia degli Animosi.
Si laureò in teologia e filosofia entrando poi nella Compagnia di Gesù da cui si ritirò nel 1596 per dissapori teologici.
Dal 1594 fu lettore di filosofia alla Sapienza di Roma e nel 1600 venne chiamato allo Studio di Padova, dove la cattedra di umanità si era resa vacante per la scomparsa dell'umanista A. Riccobono (-i).
Oltre che all'insegnamento a Padova si dedicò alla critica eltteraria entrando in pieno agone in merito alla stesura del pastor Fido del Guarini e scrivendo varie opere in cui sostenne la liceità della tragicommedia e la distinzione tra poetica e filosofia morale.
Entrò anche in merito alla grandezza del Tasso confrontato con Omero e Virgilio e sostenne la superiorità del Tasso a fronte di tutti gli altri autori epici.
Verso la conclusione del 1612, poco prima della stampa del Vocabolario degli Accademici della Crusca, pubblicò uno scritto destinato a suscitare feroci polemiche atteso che schieandosi fra i sostenitori dell'italianità della lingua si pose contro i sostenitori del gusto arcaizzante, tra cui specificatamente stavano i cruscanti.
Si difese dall'aggressione polemica con altra opera scritta sotto pseudonimo.
Ma intanto vedeva la luce la sua pubblicazione più impegnativa che rappresnetò l'apice degli scritti rinascimentali sulla Poetica di Aristotele, nella drastica distinzione fra poesia e storia e nell'identificazione della prima nella fictio fabulosa et dilectosa.
Questi sono stati i suoi lavori principali o comunque più famosi ma, per offrire un quadro esaustivo della sua vasta produzione, si è qui pensato di elencare la sequenza delle opere sue individuate nelle varie biblioteche italiane:
Beni, Paolo, Pauli Benii Eugubini ... In M.T. Ciceronis orationem pro lege Manilia Commentarij. Vt autem cum theoria et praeceptis coniugatur praxis & vsus, ... Subiicitur Oratio pro Archia poeta, pro M. Marcello, & in L. Pisonem, ac singularum artificium explanantur. .., Venetiis: Guerigli, Giovanni, 1625
Beni, Paolo, Rime varie del signor Paolo Beni. Raccolte e date in luce dal Cavalcanti in Padova, Stampato in Padoua: Martini, Giovanni Battista
Beni, Paolo, Pauli Beni Eugubini ... De historia libri quatuor. In quorum 1. vt de Historiae vi ac natura planius constet, eius definitio, partes, proprietates, declarantur ..., Venetiis: Guerigli, Giovanni, 1622-1625
Beni, Paolo, Pauli Benii Eugubini ... De historia libri quatuor. In quorum 1. vt de historiae vi ac natura planius constet, eius definitio, partes, proprietates, declarantur..., Venetiis: Vincenzi, Giacomo, 1611
Beni, Paolo, Paulii Benii Eugubini Orationes quinque et septuaginta. Quae cum vsum habent plurimum ad quodlibet doctrinarum genus laudandum; tum maxime ad merito de eisdem praefandum, omnibus, & Tyronibus praecipue literarum professoribus erunt vtilissimae. His accesserunt authoris eiusdem epistolae, et praefationes pro varij occasionibus conscriptae, & dicatae: necnon ad extremum elogia, epitaphia, et carmina quaedam. ... Cum orationum, et argumentorum indice, Venetiis: Guerigli, Giovanni, 1625
Beni, Paolo, Pauli Benij Eugubini ... In Aristotelis libros Rhetoricorum commentarij. In quibus Aristotelea de arte dicendi praecepta non solum copiose declarantur, verum etiam centum oratorijs controuersijs interpositis illustrantur..., Venetiis: Guerigli, Giovanni, 1524 [i.e. 1624]
Beni, Paolo, Pauli Benii Eugubini sacrae theologiae doctoris Oratio, habita in sacro Clementis 8. pont. max. et amplissimorum s.r.e. cardinalium consessu feria 4. cinerum, in B. Sabinae templo...,Romae: Tipografia Gabiana, 1594
Beni, Paolo, Pauli Benii Eugubini In Aristotelis poeticam commentarii. In quibus ad obscura quaequae decreta planius adhuc dilucidanda, centum poeticae controuersiae interponuntur & copiosissime explicantur. Quibus omnibus de poesis Aristoteleaeque Poeticae vtilitate atque praestantia praeponitur oratio. Cum duplici indice, controuersiarum vno, rerum memorabilium altero..., Patauij: Bolzetta, FrancescoMartini, Giovanni Battista Beni , Paolo, 1613
Beni, Paolo, Pauli Benii Eugubini ... In aristotelis libros rhetoricorum secundum & tertium commentarij..., Venetiis: Guerigli, Giovanni, 1525 [i.e. 1625]
Beni, Paolo, Il Cavalcanti overo La difesa dell'Anticrusca / di Michelangelo Fonte [cioè Paolo Beni] ..., Padova, 1614
Beni, Paolo, L' Anticrusca ouero Il paragone dell'italiana lingua: nel qual si mostra chiaramente che l'antica sia inculta e rozza: e la moderna regolata e gentile. Di Paolo Beni..., In Padova: Martini, Giovanni BattistaBeni , Paolo, 1613
Beni, Paolo, Il Caualcanti ouero la difesa dell'anticrusca: di Michelangelo Fonte. ... Opera piaceuolissima, & a studiosi di purgato e vago italiano stile vtilissima, Stampato in Padoua: Bolzetta, FrancescoMartini, Giovanni Battista, 1614
Beni, Paolo, Platonis et Aristotelis theologia. Ad illustrissimum Dominicum Molinum senatorem amplissimum. Paulo Benio Eugubino authore, Patauii: Martini, Giovanni Battista & Pasquati, Livio, 1624
Beni, Paolo, Qua tandem ratione dirimi possit controuersia quae in praesens de efficaci Dei auxilio & libero arbitrio inter nonnullos catholicos agitatur. Ad sanctiss. et beatiss. Clemente 8. pontif. max. Authore Paulo Benio Eugubino ... Cum triplici indice..., Patauii: Pasquato, Lorenzo, 1603
Beni, Paolo, 2: Pauli Benij Eugubini ... In P. Virgilij Maronis Aeneidem commentarij. Quibus authoris sententia explanatur & illustratur passim, heroici poematis artificium agnoscitur..., Venetijs, 1622
Beni, Paolo, Paulii Benii Eugubini ... In Platonis Timaeum siue In naturalem omnem atque diuinam Platonis et Aristotelis philosophiam decades tres..., Romae: Ferrari, Giorgio, 1594
Pescetti, Orlando <1556ca.-1624ca.>, Difesa del Pastor fido tragicommedia pastorale del molto illustre sig. caualier Battista Guarini da quanto gli e stato scritto contro da gli eccellentiss. SS. Faustin Summo, e Gio. Pietro Malacreta, con vna breue risoluzione de' dubbi del molto reu. sig. D. Pagolo Beni, d'Orlando Pescetti..., In Verona: Tamo, Angelo, 1601
Beni, Paolo, Trattato dell'origine, et fatti illustri della famiglia Trissina. Di Paolo Beni, In Padoa, 1624
Beni, Paolo, L' anticrusca: ouero Il paragone dell'italiana lingua: nel qual si mostra chiaramente che l'antica sia inculta e rozza: e la moderna regolata e gentile. Di Paolo Beni. Al clarissimo signor Vincentio Grimani. Con sommario copioso nel fine, In Padoua: Martini, Giovanni Battista Beni , Paolo, 1612
Beni, Paolo, Discorsi sopra l'inondation del Teuere alla santita di nostro sig. Clemente 8. doue oltr'il disputarsi e risoluersi in questa materia varij e diuersi dubbij non men' vtili che curiosi, si va mostrando con particolar diligenza, quali siano state le vere cagioni di tal 'inondatione, e quai siano i sicuri & efficaci rimedij. Del s. Paolo Beni da Vgubbio. Posti in luce da Gaspare Ruspa, In Roma: Muzi, NiccoloFacciotti, Guglielmo, 1599
Beni, Paolo, Pauli Benii ... De historia libri quatuor, Venetiis, 1622
Beni, Paolo, Pauli Benii ... In Sallustii Catilinariam commentarii, Venetiis, 1622
Beni, Paolo, Pauli Benii Eugubini ... Orationes quinquaginta. Quae cum alios habent usus, tum maxime vt in publicis gymnasijs aut collegijs apposite valeas in quodlibet doctrinae genere praefari..., Patauii: Bolzetta, Francesco Martini, Giovanni Battista, 1613
Beni, Paolo, [2]: Discorso nel qual si dichiarano e stabiliscono molte cose pertinenti alla Risposta data a' dubbi e considerationi dell'eccellentissimo sig. dottor Malacreta sopra il Pastor fido. Et alle dubitazioni mosse inoltre tanto contro le dette considerationi, quanto contro l'istesso Pastorfido. Di Paolo Beni, In Venetia appresso Paolo Vgolino: Beni , PaoloUgolino Paolo, 1600
Beni, Paolo, Pauli Benij Eugubini ... In Platonis Timaeum siue In naturalem omnem atque diuinam Platonis et Aristotelis philosophiam decades tres..., Romae: Facciotti, Guglielmo Tipografia Gabiana, 1594
Beni, Paolo, Risposta alle considerationi o dubbi dell'ecc.mo sig. dottor Malacreta Academico Ordito sopra il Pastor fido, con altre varie dubitationi tanto contra detti dubbi e considerationi, quanto contra l 'istesso Pastor fido. Con vn discorso nel fine per compimento di tutta l'opera. Di Paolo Beni, In Padoua: Pasquato, LorenzoBolzetta, Francesco, 1600
Beni, Paolo, Pauli Benii, Eugubini ... De ecclesiasticis Baronii cardinalis annalibus disputatio: ..., Romae: Stamperia Camerale
Beni, Paolo, Il Goffredo ouero la Gierusalemme liberata del Tasso col commento del Beni : dove non solamente si dichiara questo nobil poema, e si risolvono vari dubbi e molte oppositioni, con spiegarsi le sue vaghe imitationi, et insomma l'artificio tutto di parte in parte; ma ancora si paragona con Homero e Virgilio, mostrando che giunga al sommo e percio possa e debba riceversi per essempio & idea dell'heroico poema, In Padova, 1625
Beni, Paolo, Il Goffredo ouero la Gierusalemme liberata del Tasso col commento del Beni : dove non solamente si dichiara questo nobil poema, si risolveno vari dubbi e molte oppositioni, con spiegarsi le sue varie imitationi et insomma l'artificio tutto di parte in parte ; ma ancora si paragona con Homero e Virgilio ..., In Padova, 1626
Beni, Paolo, Pauli Benii Eugubini ... Disputatio. In qua quaeritur, an siue actori, siue reo, & in vniuersum oratori ingenuo; liceat in iudicijs & concionibus affectus concitare: ac iudicum animos flectere & permiscere..., Romae: Tipografia Gabiana, 1594
Beni, Paolo, De humanitatis studiis oratio, Patauiiex typographia Laurentij Pasquati: Pasquato, Lorenzo Bolzetta, Francesco, 1600
Beni, Paolo, Pauli Benii Eugubini Disputatio in qua ostenditur praestare comoediam atque tragoediam metrorum vinculis soluere: nec posse satis, nisi soluta oratione, aut illarum decorum ac dignitatem retineri; aut honestam inde voluptatem solidamque vtilitatem percipi. Quam sane disputationem Alexander Campilia Vicentinus poeticae studiosus perillustri comiti ..., Patauj: Pasquato, Lorenzo Bolzetta, Francesco, 1600
Beni, Paolo, Trattato dell'origine, et fatti illustri della famiglia Trissina. Scritto da Paolo Beni & in due libri diuiso, In Milano: Malatesta, Melchiorre, 1626
Beni, Paolo, Comparatione di Torquato Tasso con Homero e Virgilio : insieme con la difesa dell'Ariosto paragonato ad Homero ... / di Paolo Beni, In Padoua, 1612
Beni, Paolo, Pauli Benii Eugubini ... In aristotelis libros rhetoricorum commentarij..., Venetiis: Guerigli, Giovanni, 1524-1525 [i.e.]
Beni, Paolo, Pauli Benij Eugubini ... In Platonis Timaeum siue In naturalem omnem atque diuinam Platonis et Aristotelis philosophiam decades tres. Ex quibus tres priores libri ... seorsim quoque editi, Romae: Tipografia Gabiana, 1594
Beni, Paolo, Pauli Benii Eugubini ... In Aristotelis poeticam commentarii. Ad sereniss. Federicum Vbaldum ... In his vero commentariis ab obscura quaeque decreta planius adhuc dilucidanda, centum poeticae controuersiae interponuntur & copiosissime explicantur. ... His omnibus accessit Platonis poetica ex eius dialogis summo studio, fideliterque, Venetiis: Guerigli, Giovanni, 1622
Tasso, Torquato, Il Goffredo, ouero La Gierusalemme liberata, del Tasso, col commento del Beni. Doue non solamente si dichiara questo nobil poema, e si risoluono vari dubbi e molte oppositioni, con spiegarsi le sue vaghe imitationi, & insomma l'artificio tutto di parte in parte; ma ancora si paragona con Homero e Virgilio, ... Al serenissimo e generosissimo don Ferdinando Gonzaga ..., In Padoua : per Francesco Bolzetta, 1616 (In Padoua : appresso Gasparo Criuellari, stampatore dell''vniuersita de' signori artisti, 1616)
Beni, Paolo, Comparatione di Torquato Tasso con Homero e Virgilio. Insieme con la difesa dell'Ariosto paragonato ad Homero. Opera sommamente necessaria a chi brama poetar e con lode. Di Paolo Beni ... Con indice copiosissimo nel fine, In Padova, In Casa & a spese dell'Autore [Beni, Paolo] In Padova: Martini, Giovanni BattistaBeni , Paolo, 1612
Beni, Paolo, Benianae lucubrationes; siue Pauli Benii Eugubini Ad historiam, ad poesim, ad eloquentiam, perspicua & omnibus absoluta numeris institutio ..., Patauii: Martini, Giovanni Battista, 1622
DONI ANTON FRANCESCO (Firenze 1513 - Monselice [Padova] 1574) :
Figlio del forbiciaio Bernardo di Antonio, intraprende assai giovane la carriera ecclesiastica, entrando nell’ordine dei Serviti con il nome di Valerio.
Nel 1534 è al seguito di Luigi Guicciardini e poi, abbandonato l’ordine, in giro per varie città dell’Italia settentrionale. Nel 1542 è a Piacenza, dove entra a far parte dell’Accademia Ortolana con il nome di Semenza, e conosce Lena Gabbia, da cui avrà successivamente due figli.
Si trasferisce nel 1544 a Venezia, dove conosce Pietro Aretino
. Torna ancora a Piacenza e si reca poi a Roma nel 1545; di lì a poco torna anche a Firenze, dove diventa segretario dell’Accademia Fiorentina e apre una tipografia a cui lavorerà anche Lodovico Domenichi .
Avuti però dei contrasti con quest’ultimo, Doni lascia Firenze per Pesaro, Ferrara e Venezia, in cui può proseguire la sua attività di tipografo e editore, nonché di redattore editoriale (con Giolito e Marcolini ). Partecipa alle riunioni dell’Accademia dei Pellegrini , di cui è fondatore, e intrattiene vivaci polemiche con intellettuali del tempo, tra cui Aretino . Tra le sue opere più importanti: i Marmi , i Mondi e la Libraria . Trascorre gli ultimi anni della vita a Monselice, dove tra l’altro scrive la commedia Lo stufaiolo.
Muore nel 1574.
Pubblicata per la prima volta nel 1551 (poco prima della conclusione del Concilio di Trento), e in séguito piú volte fino al principio del XVII secolo, la Zucca, non è facilmente inquadrabile nel genere novellistico: Essa è comunque esemplare della produzione doniana; si avvale infatti dell’apporto di diversi “tipi” letterari: l’intreccio narrativo si svolge attraverso lettere, proverbi, facezie, motti arguti, invettive, florilegi, sogni e allegorie.
L’aspetto piú originale dell’opera è però forse dato dal legame fra testo scritto e immagini (xilografie), che si riverberano reciprocamente arricchendo la narrazione di significati e inedite prospettive di lettura. Le sessantaquattro illustrazioni del volume giocano un ruolo fondamentale nella decifrazione dei piani semantici dell’opera. Ciò spiega la stretta collaborazione tra Doni e uno dei piú straordinari disegnatori del libro cinquecentesco, l’editore Francesco Marcolini.
FIAMMA GABRIELE: i dati sono scarni, secondo alcuni sarebbe nato nel 1531 e secondo altri nel 1533.
Fatto conte dall'Imperatore Carlo V entrò nell'Ordine dei canonici Lateranensi divenendo predicatore e quindi vescovo di Chioggia.
Qui sotto si propongono i titoli delle opere della sua vasta produzione:
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, Discorso del r. p. d. Gabriel Fiamma canonico regolare lateranense, abbate della carita di Venetia. Sopra la peste di detta citta dell'anno 1576, In Milano : Bidelli, Giovanni Battista, 1630
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, Seconda parte delle vite de'santi, descritte dal r.p.d. Gabriel Fiamma, canonico regolare Lateranen. diuise in 12. libri; fra' quali sono sparsi piu discorsi intorno alla vita di Christo: con le annotationi ... Et contien questo secondo volume le vite de' santi, assegnati ne' mesi di Marzo, et Aprile, In Venetia, appresso Francesco de' Franceschi, Senese appresso Paolo Zanfretti: Zanfretti, Paolo De Franceschi, Francesco
Fiamma, Gabriele<1533-1585ca.>, Prediche del reuerendo don Gabriel Fiamma. Canonico regolare lateranense ... Tomo primo ... Nuouamente ristampato con le postille ..., Vinegia: De Franceschi, Francesco
Fiamma, Gabriele<1533-1585 ca.>, Sei prediche del R.D. Gabriel Fiamma, canonico regolare lateranense. In lode della beata Vergine, sopra l'euangelo di S. Luca, Missus est Angelus Gabriel. Predicate in Napoli, nella chiesa dell 'Annunciata, ... l'anno 1573 ...- Venetia: De Franceschi, Francesco
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, TOMO I: *Prediche : *fatte in vari tempi, in vari luoghi & intorno a vari soggetti : nelle quali si contengono molti ricordi, utili & necessari per far profitto nella vita spirituale & per fuggir gli errori di questi tempi / del R.D. Gabriel Fiamma Canonico Regolare Lateranense. Tomo primo, Venezia, 1590
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, Prediche del reuerendo don Gabriel Fiamma, Canonico Regolare Lateranense; fatte in vari tempi, in vari luoghi, & intorno a vari soggetti. Tomo primo. ... , In Vinegia: De Franceschi, Francesco
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, Prediche del reuerendo don Gabriel Fiamma Canonico Regolare Lateranense. Fatte in vari tempi, in vari luoghi, & intorno a vari soggetti: .., In Napoli: Cacchi, Giuseppe, 1568
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, Rime spirituali del R.D. Gabriel Fiamma, canonico regolare lateranense; con l'espositione di lui medesimo:, In Vinegia [Venezia]: De Franceschi, Francesco
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, Rime spirituali del R.D. Gabriel Fiamma, canonico regolare lateranense esposte da lui medesimo ..., In Vinegia - In Venetia: De Franceschi, Francesco
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, Rime spirituali / del R.D. Gabriel Fiamma canonico regolare Lateranense, esposte da lui medesimo, Venezia, 1570
Fiamma, Gabriele<1533-1585 ca.>, Prediche del reueren.mo don Gabriel Fiamma, vescouo di Chioggia, fatte in vari tempi, in vari luoghi, & intorno a vari soggetti. Tomo primo. Nelle quali si contengono molti ricordi vtili, & necessari, per far profitto nella vita spirituale, & per fuggir gli errori di questi tempi, In Vinegia: De Franceschi, Francesco
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, [2]: Rime spirituali di mons. reuer.mo Gabriel Fiamma, vescouo di Chioggia. Nuouamente impresse con gli argomenti di Pietro Petracci, In Venetia: Ciotti, Giovanni Battista, 1606
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, Prediche del reuerendo don Gabriel Fiamma, canonico regolare lateranense; fatte in vari tempi, in vari luoghi, & intorno a vari soggetti ..., In Vinegia: De Franceschi, Francesco
Fiamma, Gabriele<1533-1585ca.>, v. 1: Le *Vite de' santi : Divise in quattro libri fra' qvali si trovano sparsi molti discorsi intorno a diuersi soggetti / descritte dal R.P.D. Gabriel Fiamma ... ; Con le annotazioni sopra ciascuna d'esse, che espugnano, et convincono l'heresie, e spiantano i rei costumi de' moderni tempi ; Con vna tauola copiosa di che si tratta nelle vite, e in tutte l'annotazioni per beneficio di predicatori, curati, & altri virtuosi. volvme primo, In Venetia: Farri, Domenico, 1602
Fiamma, Gabriele<1533-1585 ca.>, v. 2: Le *Vite de' santi : Divise in quattro libri fra' qvali si trovano sparsi molti discorsi intorno a diuersi soggetti / descritte dal R.P.D. Gabriel Fiamma ... ; Con le annotazioni sopra ciascuna d'esse, che espugnano, et convincono l'heresie, e spiantano i rei costumi de' moderni tempi ; Con vna tauola copiosa di che si tratta nelle vite, e in tutte l''annotazioni per beneficio di predicatori, curati, & altri virtuosi. volvme secondo, In Venetia: Farri, Domenico, 1602
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, *Sei Prediche : predicate in Napoli, nella Chiesa dell'Annunciata, i Sabbati di Quaresima, l'anno 1573 / del R.D. Gabriel Fiamma Canonico Regolare Lateranensein Lode della Beata Vergine sopra l' Euangelio di S. Luca, Missus est Angelus Gabriel, Venezia, 1579
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, Le vite de'santi, descritte dal R. P. D. Gabriel Fiamma, canonico regolare lateranen. ... Diuise in tre volumi; fra quali sono sparsi piu discorsi intorno alla vita di Christo: con le annotationi sopra ciascuna d'esse, che espugnano, et conuincono..., In Venetia: De Franceschi, Giovanni Antonio & De_Franceschi, Giacomo, 1602
Fiamma, Gabriele<1533-1585 ca.>, R.D. Gabrielis. Flammae Veneti can. reg. Later. De optimi pastoris munere oratio ad eiusdem Ordinis gen. Synhodum: quo die ab ipsa rector generalis renunciatus est, Venetiis: Manuzio, Aldo <2.>, 1578
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, Le rime di monsignor Gabriel Fiamma canonico lateranense e poi vescovo di Chioggia illustrate cogli argomenti di Pietro Petracci e con la vita di esso Fiamma scritta da da monsignore d. Gian. Agostino Gradenigo ..., In Treviso: Trento, Giulio, 1772
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, Le vite de' santi, descritte dal R.P.D. Gabriel Fiamma, ... Con le annotazioni sopra ciascuna d'esse, che espugnano, & conuincono le heresie, e' rei costumi de' moderni tempi ... Al santissimo Gregorio 13. pont. massimo, In VenetiaIn Venetia: Deuchino, Pietro eredi, 1581
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, Rime spirituali del r. d. Gabriel Fiamma, canonico regolare Lateranense; esposte da lui medesimo. Di nuouo ristampate, et datte in luce, In Vinegia
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, Prediche del reuerendo don Gabriele Fiamma, canonico regolare lateranense; fatte in veri tempi, in vari luoghi, & intorno a vari soggetti ..., In Vinegia: De Franceschi, Francesco
Fiamma, Gabriele<1533-1585 ca.>, Sei prediche del R.D. Gabriel Fiamma, canonico regolare lateranense, in lode della beata Vergine, sopra l'euangelo di san Luca ... Predicate in Napoli, nella Chiesa dell'Annunciata, i sabbati di Quaresima, l'anno 1573...,
Fiamma, Gabriele<1533-1585 ca.>, Sei prediche del R.D. Gabriel Fiamma, canonico regolare lateranense, in lode della beata Vergine, sopra l'Euangelio di S. Luca, Missus est Angelus Gabriel. Predicate in Napoli, nella Chiesa dell' Annunciata, i Sabbati di Quaresima, l'anno 1573...,
In Venetia: De Franceschi, Francesco
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, Prediche del reuerendo don Gabriel Fiamma, canonico regolare lateranense; fatte in vari tempi, in vari luoghi, & intorno a vari soggetti ..., In Vinegia: De Franceschi, Francesco
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, *Prediche : fatte in vari tempi, in vari luoghi & intorno a vari soggetti / del R.D. Gabriel Fiamma Canonico Regolare Lateranense, Venezia, 1590
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, Sei prediche del r. d. Gabriel Fiamma, canonico regolare lateranense, in lode della beata Vergine, sopra l'euangelio di s. Luca, ... Predicate in Napoli, ... l'anno 1573..., In Venetia: De Franceschi, Francesco
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, De' discorsi del reueren. don Gabriel Fiamma, vescouo di Chioggia, sopra l'Epistole, e' Vangeli di tutto l'anno; parte prima ..., In Venetia : presso a Francesco de' Franceschi senese, 1584
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, Parafrasi poetica sopra alcuni salmi di Dauid profeta, molto accommodate per rendere gratie della vittoria donata al Christianesimo contra turchi ... / [Gabriele Fiamma], In Venetia: Angelieri, Giorgio, [1571]
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, *De' Discorsi : sopra l'Epistole, e' Vangeli di tutto l'anno / del R.D. Gabriel Fiamma Canonico Regolare Lateranense. Parte prima, Venezia, 1580
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, De' discorsi del R. D. Gabriel Fiamma, canonico regolare lateranense, sopra l'epistole, e vangeli di tutto l'anno. Parte prima (- ), In Venetia: De Franceschi, Francesco
<1533-1585ca.>, 1: Parte prima. Doue breuemente si tocca quel, che si appartiene all'intelligenza de'libri sacri, et all'emendation de'costumi, In Venetia, 1574
Fiamma, Gabriele <1533-1585ca.>, Sei prediche del reuerendissimo don Gabriel Fiamma ... in lode della B. Vergine, sopra l'Euangelio di S. Luca ... predicate in Napoli, nella chiesa dell'Annunciata l 'anno 1573...- In Vinegia: De_Franceschi, Francesco
Fiamma, Gabriele <1533-1585ca.>, Prediche del reuerendo don Gabriel Fiamma, canonico regolare lateranense; fatte in vari tempi, in vari luoghi, & intorno a vari soggetti: tomo primo (-secondo]. Nelle quali si contengono molti ricordi vtili, & necessari, per far profitto nella vita spirituale, & per fuggir gli errori di questi tempi, In Torino: Cavalleri, Giovanni Michele & Cavalleri, Giovanni Francesco, 1590
Fiamma, Gabriele<1533-1585 ca.>, Le vite de' santi, descritte dal R.P.D. Gabriel Fiamma canonico regolare ... diuise in quattro libri fra' quali si trovano sparsi molti discorsi intorno a diuersi soggetti. Con le annotationi sopra ciascuna d'esse, che espugnano, & conuincono l'heresie, e spiantano i rei costumi de' moderni tempi. Con vna tauola copiosa di che si tratta nelle vite, e in tutte l'annotazioni per beneficio di predicatori, curati, & altri virtuosi. Volume primo secondo , 2 v. fol: Farri, Domenico
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, De' discorsi del r.d. Gabriel Fiamma, canonico regolare lateranense, sopra l'epistole, e' vangeli di tutto l'anno; Parte prima. ..., In Venetia: De Franceschi, Francesco
Tribesco, Giacomo
Fiamma, Gabriele <1533-1585 ca.>, Rime spirituali del R.D. Gabriel Fiamma, canonico regolare lateranense; esposte da lui medesimo , In Vinegia [Venezia]: De Franceschi, Francesco
BURCHIELLO:
Burchiello era il pseudonimo usato da Domenico di Giovanni, nato a Firenze nel 1404.
Era figlio di un legnaiolo, esercitò la professione di barbiere.
Nella sua bottega convenivano pittori, poeti, ma anche molti cittadini anti-medicei: per questo Burchiello fu costretto ad andare esule a Siena nel 1434.
Imprigionato più volte per reati comuni, nel 1455 andò a Roma per cercare di aprirvi una bottega.
Morì a Roma nel 1449 nella più squallida miseria.
Con Burchiello siamo davanti a un tipo di composizione particolare.
Poetare "alla burchia" significò presto comporre sonetti, per lo più caudati, di bizzarra fattura, in cui le parole e le immagini si susseguono e si incalzano senza un nesso apparente.
I contemporanei forse avvertivano, dietro l'accumulo e le strane combinazioni, riferimenti ormai perduti.
I sonetti di Burchiello e dei suoi seguaci sono raccolti in un'edizione purtroppo inattendibile dal punto di vista testuale e attributivo, i "Sonetti del Burchiello, del Bellincioni e d'altri poeti fiorentini alla burchiellesca" (1757).
Con Burchiello, al di là del gioco, dell'assurdo, del gratuito, siamo davanti al tentativo e alla ricerca di vie poetiche nuove e diverse, nel primo XV secolo.
Una ricerca di forme nuove e di più ampia libertà psicologica e contenutistica, ma con attenzione verso la tradizione.
Una poesia popolare, ricca di significato storico.
Testimonianza della complessità del mondo culturale toscano e fiorentino in particolare.
Tanto più che questa poesia popolare fu ascoltata e imitata anche da uomini di cultura, architetti, pittori, come ad esempio Alberti.
La strampalata ricchezza dei sonetti di Burchiello non fu un episodio breve, ma ebbe vasta fortuna e diede vigore a una tradizione anti-petrarchesca di grande importanza per la ricerca espressiva in volgare.
GAMURRINI EUGENIO: abate di nobili natali, nativo di Arezzo, stimato ed apprezzato per i suoi servigi politici e diplomatici oltre che spiccatamente religiosi da importanti personaggi politici, fu membro di spicco dell'Accademia degli Apatisti.
Eruditissimo, in particolare, si segnalò come estensore di opere storico-biografiche tra cui spicca l' Istoria Genealogica delle Famiglie Nobili Toscane et Umbre, vol.II, pp.111-138, in Fiorenza, 1671: un'opera documentatissima cui l'Aprosio attinse molteplici dati per le sue ricerche.
Elenco completo delle opere sue individuate:
Gamurrini, Eugenio
Gamurrini, Eugenio
Gamurrini, Eugenio
Gamurrini, Eugenio
Gamurrini, Eugenio
Gamurrini, Eugenio
Gamurrini, Eugenio
PINDARO (522/18-438 a.C.) figlio del nobile tebano Daifanto, nacque a Cinoscefale, in Beozia, tra il 522 e il 518, durante i giochi Pitici.
Secondo la tradizione, fu discepolo del flautista Scopelino e di due poetesse locali, Mirtide (di cui non resta nulla) e Corinna di Tanagra: quest'ultima, autrice di heroia, canti legati a saghe di miti beotici, rappresenta l'humus culturale di tipo rapsodico-esiodeo, tipico della Beozia, cui fa riferimento la narrazione dei miti pindarici.
La vicinanza con Atene influì sulla formazione musicale di Pindaro, come testimoniato dai suoi rapporti con il ditirambografo Laso, promotore di riforme tecniche nel ditirambo, che fu ammesso agli agoni poetici sotto i figli di Pisistrato.
Il suo esordio nella lirica corale, preceduto dalla composizione di inni e peani, si data al 498, quando Pindaro compone la Pitica X per Ippocle di Tessaglia.
Il successo di Pindaro è documentato, oltre che dalle committenze tessale, dai frequenti soggiorni, specie negli anni '80, nell'isola di Egina, dove compose numerosi epinici, e a Ceo, dove entrò in contatto con Simonide e Bacchilide.
Questa sua committenza aristocratica, unita alle origini nobili, lo tenne assai distante dalla presa di posizione anti-persiana del resto della Grecia, facendolo schierare dalla parte della sua Tebe, unica città greca a non unirsi alle altre poleis nel movimento di liberazione nazionale.
Tuttavia, fin dalla battaglia di Salamina (480), il poeta celebrò il valore di Atene, anche se di certo non con lo spirito sentito di Simonide
Nel 476, chiamato dal tiranno siracusano Ierone, gli dedicò l'Olimpica I, in aperto contrasto con l'Epinicio V di Bacchilide, col quale fu in aperto contrasto per la poetica e la conduzione dell'ode a livello stilistico: tuttavia, nel 468, Bacchilide gli fu preferito da Ierone per la sua vittoria olimpica.
I contatti con Ierone, fondatore di Enna (anticamente Etna) nel 475, lo misero in rapporto anche con Eschilo, chiamato in Sicilia a celebrare la fondazione della città con le sue Etnee.
Pindaro mantenne altresì stretti contatti con i dinasti di Agrigento, Imera e Camarina, e con i signori di Rodi e Cirene, per poi tornare prima ad Egina, intorno al 464, poi a Tebe, dove compose vari parteni per Apollo in feste a cui partecipò anche il figlio Daifanto come ministro del culto apollineo.
Secondo la tradizione, Pindaro sarebbe morto ad Argo nel 438 ca., piegando la testa sulla spalla di Teosseno di Tenedo, un ragazzo amato negli ultimi anni, a cui aveva dedicato un appassionato encomio (fr. 123 Sn., v. 1-5; 9-15):
O cuore, a tempo mietere dovevi
gli amori, nella tua verde età.
La luce di Teosseno
che brilla dai suoi occhi…
chi poi lo guarda e l'onda del desio
non gli dà una tempesta,
ha il cuore adamantino
nero o ferrigno
forgiato da una gelida vampata
…
Io per la dea mi sciolgo,
come a vampa
si disfa cera d'api,
solo ch'io miro giovinezza
fresca d'efebici corpi.
Opere
Le opere di Pindaro furono divise dagli Alessandrini in 17 libri, divisi per generi. A parte gli epinici, abbiamo circa 300 frammenti:
1. Inni: ne restano 25 frammenti, tra cui spiccano quelli del famosissimo Inno a Zeus, composto per i tebani e probabile esordio di Pindaro nell'attività poetica.
Pindaro, dopo un esordio in cui alludeva a molti miti tebani, doveva narrare delle nozze del mitico fondatore della sua città, Cadmo, durante le quali Apollo e le Muse cantavano della nascita del cosmo e degli dei fino alla vittoria finale di Zeus e degli Olimpi sui Titani.
In ciò Pindaro gareggiava, quindi, con l'antico compatriota Esiodo, componendo uno dei suoi più celebri poemi, citatissimo dagli antichi.
2. Peani: Ne rimangono 12 conservati in modo più o meno frammentario nei papiri, tra cui sono notevoli:
- Per i Tebani: composto per una festa annuale tebana in onore di Apollo.
- Per gli Abderiti: Invocato Abdero, fondatore eponimo di questa città tracia, celebrato nella festa per Apollo Derenos, Pindaro fa parlare la città stessa della sua storia mitica e delle lotte contro i nemici.
Infine il poeta conclude evocando la festa ed augurando successo ad Abdera nella guerra persiana.
- Per i Cei, a Delo: celebrando l'isola tramite il coro, Pindaro rievoca le sue glorie e fa l'esempio dell'eroe Eussanzio, esempio di umiltà.
- A Delo: ne resta il finale, i cui si celebra la mitica nascita dell'isola in occasione del parto di Latona.
- Per i Delfii, a Pito: durante le Teossenie, il poeta celebra Apollo ed il suo ruolo nella guerra di Troia, per poi evocare Egina, amante di Zeus.
3. Ditirambi: erano canti in onore di Dioniso, di cui restano frammenti e titoli da Orione, Eracle o Cerbero, Perseo, Semele, Per i Corinzi e due ditirambi Per gli Ateniesi.
4. Prosodi: dei 2 libri che contenevano questi canti processionali restano due componimenti nei papiri.
5. Parteni: raccolti in 3 libri, nei papiri restano due componimenti lacunosi.
6. Iporchemi: questi canti per danza erano riuniti in 2 libri, di cui restano solo 10 frammenti.
7. Encomi: ne restano 6 in papiri:
- Per Terone di Agrigento
- Per Ierone
- Per Alessandro I di Macedonia
- Per Senofonte corinzio (dedicatario di prostitute sacre ad Afrodite corinzia)
- Per Teosseno di Tenedo (il ragazzo amato dal poeta in età senile)
- Per Trasibulo di Agrigento.
8. Threnoi: erano canti funebri, di cui abbiamo 9 frammenti.
9. Epinici: ci sono pervenuti tutti i componimenti dei canti di vittoria per i giochi sportivi, i più noti e celebrati dagli antichi, divisi secondo i luoghi delle gare:
a) Olimpiche
Queste odi erano in onore dei vincitori delle celeberrime Olimpiadi, giochi panellenici con scadenza quadriennale, sacri a Zeus e che premiavano il vincitore con una corona d'alloro e la gloria in tutta la Grecia.
I. A Ierone di Siracusa: per la vittoria del 476 (cantata anche da Bacchilide nell'epinicio V) del tiranno di Siracusa.
II. A Terone di Agrigento: per la vittoria ippica, nello stesso 476, del tiranno di Agrigento.
III. A Terone di Agrigento: per la stessa vittoria, l'epinicio fa riferimento alle feste Teossenie.
IV. A Psaumide di Camarina: l'epinicio celebra la vittoria nella corsa con le mule, nel 456 o nel 452, del signore di Camarina.
V. A Psaumide di Camarina: probabilmente composto per la stessa vittoria del precedente epinicio.
VI. Ad Agesia di Siracusa: per la vittoria del 468 di questo luogotenente di Ierone, investito di dignità sacerdotale perché di nobile famiglia.
VII. A Diagora di Rodi: celebra la vittoria pugilistica, nel 464, del signore di Ialiso, una delle tre città dell'isola di Rodi.
VIII. Ad Alcimedonte: Alcimedonte, vincitore della gara di lotta giovanile nel 460, viene qui celebrato probabilmente come nativo di Egina.
IX. Ad Efarmosto di Opunte: per un nobile locrese vincitore nel 468.
La vittoria fu celebrata con questo epinicio, però, due anni dopo, per iniziativa del committente tebano Lampromaco, parente del vincitore.
X. Ad Agesidamo di Locri: epinicio per un nobile locrese vincitore nel pugilato nel 476.
XI. Ad Agesidamo di Locri: omaggio estemporaneo per la stessa vittoria, cui tenne dietro l'epinicio precedente, più meditato e composto dopo diverso tempo.
XII. Ad Ergotele di Imera: per la vittoria del 472 del nobile cretese Ergotele, esule per motivi politici e divenuto cittadino di Imera.
XIII. A Senofonte di Corinto: l'epinicio celebra ben due vittorie (corsa e pentathlon nel 464) del nobile Senofonte.
XIV. Ad Asopico di Orcomeno: il dedicatario viene celebrato per una vittoria che gli scoliasti danno per il 476, ma che va forse corretta con il 488.
b) Pitiche
Cadenza quadriennale avevano anche i giochi di Pito (Delfi), in onore di Apollo, che per premio avevano anch'essi l'alloro.
I. A Ierone di Enna: Ierone di Siracusa, detto "di Enna" per esserne stato il fondatore nel 476, affidandone il governo al figlio Dinomene, fu vincitore con la quadriga nel 470, ed è celebrato anche come oppositore di Cartaginesi ed Etruschi.
II. A Ierone di Siracusa: probabilmente l'epinicio celebra una vittoria nei giochi di Sicilia ed è entrato per errore nella raccolta delle Pitiche.
III. A Ierone di Siracusa: si tratta, più che di un canto celebrativo, di un'ode consolatoria per la malattia del tiranno sirausano (tra il 476 e il 473).
IV. Ad Arcesilao di Cirene: è l'ode più lunga di Pindaro (299 versi), e celebra la vittoria del 462 del re di Cirene, della dinastia Battiade, originaria di Tera e discendente dall'argonauta Eufemo, che fa da cerniera con la narrazione del mito degli argonauti, la prima giunta a noi per esteso.
V. Ad Arcesilao di Cirene: fa da pendant alla precedente e celebra la stessa vittoria, con insistenza sull'aiuto dell'auriga Carroto.
VI. A Senocrate di Agrigento: per la vittoria, nel 490, del fratello di Terone, futuro tiranno di Agrigento, nella quadriga.
VII. A Megacle di Atene: per un nobile ateniese appartenente agli Alcmeonidi e vincitore nel 486 nella quadriga.
VIII. Ad Aristoemene di Egina: per la vittoria, nel 446, nella lotta giovanile di un nobile egineta della famiglia Medilide.
Qui Pindaro mostra il suo attaccamento all'isola e le augura di separarsi da Atene, di cui era suddita.
IX. A Telesicrate di Cirene: per una vittoria del 474, celebra anche le origini mitiche della città, con gli amori della ninfa Cirene e di Apollo.
X. Ad Ippocle di Tessaglia: per una vittoria del 498 di un nobile tessalo.
L'ode, commissionata da uno dei potenti Aleuadi di Tessaglia, segna il debutto di Pinaro nella poesia celebrativa.
XI. A Trasideo di Tebe: per una vittoria nel 474, celebrata nel santuario tebano di Apollo Ismenio.
XII. A Mida di Agrigento: celebra non una vittoria sportiva, ma il successo di un flautista, nel 490, durante gli agoni musicali.
c) Istmiche
Celebrate per Poseidon, si tenevano a Corinto ogni due anni, coronate dall'apio.
I. Ad Erodoto di Tebe: per un tebano esule ad Orcomeno, forse scritta nel 458.
II. A Senocrate di Agrigento: encomio del tiranno ormai morto, diretto a suo figlio Trasibulo nel 470 ca.
III. A Melisso di Tebe: celebrazione di una vittoria con il carro, a cui forse è da unire l'ode seguente.
IV. A Melisso di Tebe: forse databile al 479, anno della battaglia di Platea, a cui si dovrebbe alludere nell'ode.
V. A Filacida di Egina: per il fratello del Pitea destinatario della Nemea V.
L'ode va datata dopo la battaglia di Salamina (480), ricordata per il valore in essa mostrato dagli egineti.
VI. A Filacida di Egina: forse del 484, precede l'Istmica V e segue la Nemea V.
VII. A Strepsiade di Tebe: di datazione incerta, il destinatario è ignoto.
VIII. A Cleandro di Egina: del 478, accoglie le preoccupazioni del poeta per la sua Tebe, schieratasi con i Persiani.
d) Nemee
Si svolgevano a Nemea in Argolide ogni due anni ed erano sacre a Zeus, ed avevano come premio l'apio.
I. A Cromio di Enna: dedicata al governatore di Enna, al servizio di Ippocrate di Gela.
II. A Timodemo di Acarne: per un ateniese alla sua prima vittoria.
L'ode probabilmente precede la battaglia di Salamina del 480, poiché la città è ricordata, ma non la celebre battaglia.
III. Ad Aristoclide di Egina: per un egineta che sembra aver vinto intorno al 476, come fanno pensare i contatti stilistici con altre odi di questi anni.
IV. A Timasarco di Egina: per un nobile egineta dei Teandridi, forse vincitore nel 473.
V. A Pitea di Egina: per un nobile egineta degli Psalichidi, fratello di Filacide, destinatario delle Istmiche V e VI.
VI. Ad Alcimida di Egina: per un nobile egineta dei Bassidi, vincitore intorno al 460.
VII. A Sogene di Egina: per un egineta, contiene anche una difesa di un proprio peana (il VI) criticato dagli egineti.
VIII. A Dinide di Egina: per un nobile egineta dei Cariadi, forse vincitore intorno al 460.
IX. A Cromio di Enna: per la vittoria dello stesso personaggio della I Nemea.
L'ode però celebra una vittoria nei giochi di Adrasto a Sicione ed è quindi erroneamente confluita nella raccolta.
X. A Teaio di Argo: per una vittoria nella lotta, celebrata ad Argo ma di datazione ignota.
XI. Ad Aristagora di Tenedo: celebrazione della pritania del fratello di quel Teosseno amato dal poeta in tarda età.
E' quindi inserita per errore nel libro degli epinici.
Considerazioni
Pochi cenni non possono bastare a delineare le immani problematiche ed i temi della produzione pindarica: s'impone, però solo un breve accenno di tipo tecnico e tematico.
La lingua usata da Pindaro è un dorico letterario, tipico della lirica corale, così come tipica è la divisione strofica in triadi (Strofe - Antistrofe - Epodo), da un minimo di 18 ad un massimo di 299 versi.
Ogni strofe alterna i dattilo-epitriti, di ascendenza epica e stesicorea, a metri di derivazione eolica, a docmii ecc.
La struttura contenutistica, senza peraltro dimenticare la frammentarietà e l'asistematicità delle idee che sgorgano dalla mente del poeta, è definibile con la sigla "a M a":
- attualità, con la celebrazione della vittoria nel contesto dei giochi;
- mito, la cui narrazione è generata per analogia con il luogo dei giochi ed i racconti ad esso connessi, o dalla discendenza del vincitore: Pindaro non evoca il mito interamente, ma attraverso scorci luminosi, vibrazioni di sentimento ed arditi passaggi logici, i famosi voli pindarici;
- attualità-gnome conclusiva, ossia accostamento del vincitore alle imprese eroiche o divine ed ai valori di cui il poeta si fa portatore, estrapolandoli dal mito ed indirizzandoli al vincitore come esempio.
In ciò Pindaro diviene poeta-vate, "che s'annuncia come maestro e rivelatore di verità" (Pontani) ed ha coscienza che il dono divino della poesia è pari alla nobiltà di nascita, ponendosi da pari a pari con i suoi committenti.
Motivo ricorrente nella poesia di Pindaro è l'invito a non eccedere nella misura imposta da Zeus e a non insuperbirsi per il proprio valore: l'ideale sommo cui ogni uomo deve tendere è la virtù, ma Pindaro, fedele al suo orgoglio aristocratico, la ritiene comunque connessa alla nobiltà di nascita, che va però confermata con le opere e la religiosità.
Pindaro è uno dei poeti più alti e celebri di tutti i tempi: la sua eloquenza appassionata, ricca di voli improvvisi, è legata al passato, ad una severa ed aristocratica osservanza dell'etica nobiliare della Grecia arcaica, di cui egli è l'ultimo esponente, quasi l'ultimo custode di un mondo ormai scomparso.
[testo di Antonio D'Andria ]
MARINI (DE) GIOVANNI AMBROGIO (Genova 1594 ca. - Venezia 1650 ca.): di famiglia patrizia di Genova scelse presto la vita ecclesiastica laureandosi poi in filosofia nel 1614.
E' l'autore del romanzo eroico-galante forse più famoso di tutto il XVII secolo, vale a dire Il Colloandro fedele di cui in un primo tempo venne editata la I parte sotto lo pseudonimo anagramma di Giovanni Mattia Indris e sotto forma d'una traduzione ad opera d'un innominato lettrato tedesco (Colloandro sconosciuto, Fei, Bracciano, 1640).
La seconda parte vide la luce firmata da tal Dario Grisimani per i tipi dell'editore-tipografo genovese Guasco nel 1641.
Il romanzo venne quindi ristampata sotto titolo de Endimiro creduto Uranio (Turrini, Venezia, 1641) e quindi di Endimiro smascherato (Guasco, Genova, 1641) in entrambi i casi sotto lo pseudonimo di Giramo Bisi.
L'opera con il titolo definitivo di Il Colloandro Fedele uscì finalmente dai torchi a Roma, per il tipografo Corvi nel 1652-1653: e questa volta appariva sul frontespizio il nome reale dell'autore ormai scomparso.
Altri romanzi da lui editi ma di minor fama furono le gare dei disperati (Corvo, Milano, 1644), Gli scherzi di fortuna a pro dell'innocenza (Calenzani, Genova, 1662). Vedi Romanzieri del Seicento, a c. di M. Capucci, Utet, Torino, 1974, pp. 259 - 461.
Molto rara al momento attuale delle investigazioni risulta l'opera, di spiccato contenuto religioso qui citata da Angelico Aprosio, vale a dire: De Marini, Giovanni Ambrogio
, Il cras et numquam moriemur cioè domani bisogna morire e siamo immortali dove si tocca con mano la verità della Fede Cattolica... / composto da Gio. Ambrosio De’ Marini ; In questa terza impressione corretto & accresciuto dall’istesso autore,
In Genova : per Pier Gio. Calenzani, 1650
- 192 p.; 12° (13 cm)
- Testatine e iniziali silografate [questa ediczione è patrimonio della Biblioteca Civica Berio di Genova, riusltando la terza edizione del lavoro = i dati di stampa corrispondono comunque perfettamente con quelli della pubblicazione menzionata da Aprosio]
CALCAGNINI CELIO(Ferrara 1479 - ivi 1541): appartenne ad un nobile casato, frequentò la scuola di B. Guarini, di Nicolò Leoniceno e di Antonio Cittadini entrando presto in confidenza con il cardinale Ippolito d'Este per il quale si fece carico di ambascerie e commissioni varie, anche seguendolo durante una spedizione diplomatica in Ungheria.
Godette di buoni rapporti anche con Ludovico Ariosto ed Erasmo da Rotterdam, insegnando contestualmente latino e greco pressolo Studio ferrarese (anni 1519 - 1541).
Partecipò inoltre all'istituzione dell'Accademia degli Elevati.
Aveva una concezione enciclopedica del sapere documentata dalla vastità del suo epistolario (in ben 16 volumi) e dal fatto che si destreggiò in molteplici discipline dalla teologia, all'antiquaria, alla filologia ed alla scienza.
Gli interessi religiosi, date anche le congiunture storiche, furono rilevanti ed al proposito si rammenta il suo opuscolo antiluterano De libero animi moti (del 1525) ma l'opera sua, non espressamente letteraria, è di natura scientifica: Quod coelum stet, terra moveatur (1517 - 1518).
Più delle traduzioni di Plauto, Apuleio ed Anacreonte si rammentano oggi i suoi carmina, varianti per metro e stile, che G. B. Pigna editò quali appendice ai quattro libri delle sue liriche carminum libri quatuor. His adiunximus C.C. carminum libri III (Vincenzo Valgrisi, Venezia, 1553).
La varietà degli interessi culturali del Calcagnini è attestata inoltre dalla sua adesione ad alcune polemiche letterarie tra cui quella sul concetto di imitazione (ove si attenne ad una posizione più eclettica a fronte di quella dei rigidi sostenitori del ciceronianesimo) per cui redasse una Commentatio alla Super imitatione epistola di G. Giraldi Cinzio che si trova nella raccolta Cynthii Ioannis Baptistae Gyraldi Ferrariensis De obitu divi Alfonsi Estensis [...] epicedion (D. de' Rossi, Ferrara, 1537).
DAVANZATI BOSTICHI BERNARDO (Firenze 1529 - ivi 1606). Da giovane si diede alla mercatura operando sulla piazza di Lione ma non mancò mai di accostare ai suoi interessi per gli studi economici quelli di ordine storico e letterario sì ache alla fine si ascrisse all'Accademia Fiorentina.
Risulta piuttosto interessante il suo Trattato della coltivazione toscana delle viti e d'alcuni arbori (Giunta, Firenze, 1600, ristampato poi nel 1621 con la Coltivazione delle viti di Giorgio Vettori Soderini e la Coltivazione degli ulivi di Pietro Vettori).
A livello storiografico merita quindi di essere segnalato il suo lavoro intitolato Scisma d'Inghilterra (riduzione toscana del De origine ac progressu schismatis anglicani liber di N. Sanders) P. da Ponte e G.B. Piccaglia, Milano, 1602 e, nello stesso tempo, Facciotti, Roma, 1602.
Alla ristampa dello Scisma (Maffeo e Landi, Firenze, 1638) seguirono altri scritti, specie di carattere economico, sui cambi e sulle monete per esempio.
Tuttavia la fama gli venne da una traduzione di Tacito da parecchi ritenuta eccellente per le proprietà di sintesi. Ricordimo:
-Tacitus, Publius Cornelius, L' imperio di Tiberio Cesare scritto da Cornelio Tacito nelli Annali espresso in lingua fiorentina propria da Bernardo Dauanzati Bostichi - In Fiorenza: Giunta, Filippo, 1600
e soprattutto
-Tacitus, Publius Cornelius, Opere di Gaio Cornelio Tacito, con la traduzione in volgar fiorentino del signor Bernardo Dauanzati, posta rincontro al testo latino. Con le postille del medesimo, e la dichiaratione d'alcune voci meno intese. Et vna copiosissima tauola, In Venetia: Storti, Francesco, 1658 (che come altre deriva dalla prima edizione fiorentina del tipografo Pietro Nesti, 1637).
DOMENICHI LODOVICO (LUDOVICO):
dopo l'esordio nella nativa Piacenza, la sua attività professionale è stabilmente in rapporto con il mondo dell'editoria e della produzione del libro, come redattore e traduttore, nelle grandi capitali del libro cinquecentesco: collaborò con Giolito e Marcolini a Venezia e con Torrentino a Firenze. Qui per le sue simpatie verso la Riforma fu imprigionato Raccolse nove libri di Rime diverse di molti eccellentissimi autori (Venezia 1545-1560) e le Facezie e motti arguti di alcuni eccellentissimi ingegni (Firenze 1548), insieme con Ruscelli e Dolce . Fece traduzioni dal latino di autori classici e moderni, curò edizioni non sempre affidabili sul piano scientifico. Realizzò un rifacimento in volgare moderno dell’Orlando innamorato di Boiardo ormai incomprensibile (Venezia 1545) e una raccolta di Dialoghi (Venezia 1562), oltre alla commedia Le due cortigiane (Firenze 1563). Si occupò di tematiche neoplatoniche nel Ragionamento [...] nel quale si parla d’imprese d’armi et d’amore (Milano 1559) e scrisse il trattato La nobiltà delle donne (Venezia 1549), probabilmente un plagio dalla Difesa delle donne di D. Bruni. Fu ritenuto per lungo tempo l’autore del Ragionamento della stampa fatto ai Marmi di Firenze, che in realtà è di Antonfrancesco Doni .
Del Domenichi Aprosio ha occasione di menzionare spesso il trattato La nobilta delle donne di cui, al momento attuale delle investigazioni, nelle biblioteche italiane, stante l'SBN, si sono individuati i seguenti esemplari:
Domenichi, Lodovico,
La nobilta delle donne di m. Lodouico Domenichi,
In Vinetia : appresso Gabriel Giolito di Ferrarii, 1549 (In Vinegia : appresso Gabriel Giolito de Ferrari, 1549)
- 10, 272, 6 c. ; 8o
- Rielaborazione di De nobilitate et preecellentia foemimei sexus, di Heinrich Cornelius Agrippa von Nettesheim, cfr. NUC, v. 146, p. 273
- Marche sul front. e in fine
- Cors. ; rom.
- Segn.: \*!82\*!"A-2L82M42N"
- Iniziali e fregi xil.
- Var. B: errori di imposizione nel fascicolo BB
- Numeri: Impronta - gare moto rimo Diub (3) 1549 (R)
- Marca: Fenice su fiamme che si sprigionano da anfora (iniz. G.G.F.),su base con sottoscriz. Ai lati 2 diavoli. Motti: De la mia morte eterna vita io vivo. Semper eadem
- Localizzazioni: Biblioteca del Seminario vescovile - Asti
- Biblioteca civica Angelo Mai - Bergamo
- Biblioteca del Centro di documentazione ricerca e iniziativa delle donne - Bologna
- Biblioteca statale - Cremona - CR P D O A
- Biblioteca nazionale centrale - Firenze
- Biblioteca statale del Monumento nazionale di Montecassino - Cassino - FR
- Biblioteca Universitaria - Genova - esemplare mutilo
- Biblioteca delle facoltà di Giurisprudenza e Lettere e filosofia dell'Università degli studi di Milano
- Biblioteca APICE - Archivi della parola, dell'immagine e della comunicazione editoriale - dell'Università degli studi di Milano
- Biblioteca del Seminario maggiore - Padova
- Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II - Roma
- Biblioteca Casanatense - Roma
- Biblioteca comunale - Terni
Domenichi, Lodovico, Dialoghi di m. Lodouico Domenichi; cioe, d'amore, della uera nobilta, de' rimedi d'amore, dell'imprese, dell'amor fraterno, della corte, della fortuna, et della stampa. Al molto magnifico et nobilissimo signore, M. Vincentio Arnolfini gentiluomo Lucchese ,
In Vinegia : appresso Gabriel Giolito de' Ferrari, 1562
- [36], 399, [1] p. ; 8o
- Marche sul front. e n.c. in fine
- Cors. ; rom.
- Segn.: [ast]82[ast]\10A-2B8
- Iniziali e fregi xil.
- Impronta - nial 01i7 e-E' nene (3) 1562 (R)
- Marca: Fenice rivolta a destra su un'anfora infuocata con sopra iniziali GGF sorretta da due satiri senza ali rivolti all'esterno con ramoscello in mano ciascuno
- Localizzazioni: Biblioteca civica - Tortona
- Biblioteca civica Giovanni Canna - Casale Monferrato
- Biblioteca civica - Biella
- Biblioteca universitaria di Bologna
- Biblioteca provinciale - Foggia
- Biblioteca comunale - Palazzo Sormani - Milano
- Biblioteca delle facoltà di Giurisprudenza e Lettere e filosofia dell'Università degli studi di Milano
- Biblioteca APICE - Archivi della parola, dell'immagine e della comunicazione editoriale - dell'Università degli studi di Milano
- Biblioteca della Societa' napoletana di storia patria - Napoli - NA - esemplare mutilo
- Biblioteca comunale Federiciana - Fano
- Biblioteca Oliveriana - Pesaro
- Biblioteca di Area umanistica dell'Università degli studi di Urbino
- Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II - Roma
- Biblioteca universitaria Alessandrina - Roma
- Biblioteca Casanatense - Roma
- Biblioteca Reale - Torino
- Biblioteca nazionale Marciana - Venezia
Domenichi, Lodovico, La nobilta delle donne di m. Lodouico Domenichi...
Corretta, & di nuouo ristampata ,
In Venetia : aperesso Gabriel Giolito di Ferrarii e fratelli, 1551 (In Vinegia : appresso Gabriel Giolito de Ferrari e fratelli, 1551)
- 8, 275, 1 c. ; 8
- Marche sul front. e in fine
- Cors. ; rom.
- Segn.: \ast!8A-L82M4
- Iniziali e fregi xil.
- Impronta - gare moto rimo Diub (3) 1551 (R)
- Marca: Fenice sulle fiamme che si sprigionano da una sfera alata dove sono iscritte le iniziali GIF. Motto: Semper eadem
- Fenice su fiamme che si sprigionano da anfora (iniz. G.G.F.),su base con sottoscriz. Ai lati 2 diavoli. Motti: De la mia morte eterna vita io vivo. Semper eadem
- Localizzazioni: Biblioteca Mons. Giacomo Maria Radini Tedeschi - Bergamo
- Biblioteca nazionale centrale - Firenze
- Biblioteca comunale Labronica Francesco Domenico Guerrazzi - Livorno
- Biblioteca comunale - Palazzo Sormani - Milano
- Biblioteca del Seminario maggiore - Padova
- Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II - Roma
- Biblioteca universitaria Alessandrina - Roma
- Biblioteca Casanatense - Roma
- Biblioteca nazionale Marciana - Venezia
- Biblioteca civica Bertoliana - Vicenza
Domenichi, Lodovico, La nobilta delle donne di m. Lodouico Domenichi. Corretta, & di nuouo ristampata
In Vinetia : appresso Gabriel Giolito di Ferrarii e fratelli, 1552 (In Vinegia : appresso Gabriel Giolito de Ferrari e fratelli, 1551)
- 8, 275, [1] c. ; 8o
- Marche sul front. e in fine
- Segn.: [ast]8 A-2L8 2M4
Iniziali e fregi xil
- Numeri: Impronta - gare moto rimo Diub (3) 1552 (A)
- Marca: Fenice sulle fiamme che si sprigionano da una sfera alata dove sono iscritte le iniziali GIF. Motto: Semper eadem
- Fenice su fiamme che si sprigionano da anfora (iniz. G.G.F.),su base con sottoscriz. Ai lati 2 diavoli. Motti: De la mia morte eterna vita io vivo. Semper eadem
- Localizzazioni: Biblioteca nazionale Braidense - Milano
- Biblioteca delle facoltà di Giurisprudenza e Lettere e filosofia dell'Università degli studi di Milano
- Biblioteca APICE - Archivi della parola, dell'immagine e della comunicazione editoriale - dell'Università degli studi di Milano
ANSELMO TANZO: agostiniano, vissuto tra XVI e XVII secolo, originario di Milano fu canonoco regolare di S. Agostino della Congregazione lateranense.
Personaggio di vasta cultura classica si dedicò prioritariamente alla cura editoriale ed allo studio di Boezio e delle sue opere.
Qui si possono vedere le opere del Tanzo riscontrate:
Boethius, Anicius Manlius Torquatus Severinus, Di consolatione philosophica uolgare, nuouamente reuisto & di molti errori porgato opera al tutto dignissima eccellente & bella. Don Anselmo Tanzo al pio lettore. ... / Boetio Seuerino, Stampato in Vinegia: Sessa, Melchiorre <1.>
Boethius, Anicius Manlius Torquatus Severinus, Boetio Seuerino Di consolatione philosophica volgare, nuouamente reuisto et di molti errori porgato opera al tutto dignissima eccelente & bella, Stampato in Vinegia: Nicolini da Sabbio, Giovanni Antonio & fratelli
Boethius, Anicius Manlius Torquatus Severinus, Boetio Di consolatione philosophica volgare opra al tutto dignissima Impresso in Milano: Agostino da Vimercate Tanzi, Bernardino
Boethius, Anicius Manlius Torquatus Severinus , Di consolatione philosophica uolgare, nuouamente reuisto & di molti errori porgato opera al tutto dignissima eccellente & bella. / Boetio Seuerino. ... , Stampato in Vinegia: Sessa, Melchiorre <1.>
ANICIO MANLIO SEVERINO BOEZIO ebbe i natali a Roma verso il 480 dalla illustre famiglia degli Anicii. Rimasto presto orfano, ad educarlo provvide il tutore Aurelio Simmaco, di cui in seguito sposò la figlia. Nel 493 gli ostrogoti - sotto Teodorico - conquistano l'Italia e si stabiliscono a Ravenna, già sede imperiale. Teodorico, vissuto come ostaggio per una decina di anni alla corte di Bisanzio, ama circondarsi di membri dell'aristocrazia senatoria, e di questi fa parte anche Boezio, che nel 510 é eletto console e nel 522 nominato magister officiorum, cioè responsabile dell'amministrazione del regno, ma poco dopo é accusato di tramare con la corte di Bisanzio contro il dominio di Teodorico in Italia. Incarcerato a Pavia, Boezio scrive la sua opera più famosa, "La consolazione della filosofia" (De consolatione philosophiae), e verso il 524 é condannato a morte, con una sorte comune a quella di Socrate e di Seneca (come egli stesso ricorda).
Nel 526 muore anche Teodorico e l'anno seguente Giustiniano diventa imperatore d'Oriente. Punto di riferimento di Boezio é la cultura greca, più che quella latina: diversamente da Agostino, egli non é vescovo e non avverte il problema pastorale di costruire una cultura cristiana per i fedeli, piuttosto egli percepisce le debolezze della cultura di lingua latina nei territori delle matematiche e della logica: l’apice culturale l’hanno raggiunto i greci, ed è per questo che ci si deve riallacciare al loro pensiero illuminato e illuminante. I suoi primi lavori sono un'opera Sull' aritmetica, basato su uno scritto greco di Nicomaco, e una Sulla musica (problema, questo, affrontato dallo stesso Agostino); sono andate perdute, invece, quelle sulla geometria e sull'astronomia: con queste quattro opere Boezio copriva l'intero ambito del quadrivio. Ma il suo intento fu soprattutto quello di tradurre Platone e Aristotele, forse allo scopo di confermare il loro accordo di fondo, secondo un'impostazione propria dei Neoplatonici. Il progetto però rimase incompiuto: a noi sono pervenute le traduzioni delle Categorie, del De interpretatione, dei Topici e delle Confutazioni sofistiche di Aristotele, mentre é andata perduta quella degli Analitici secondi.
Boezio fu dunque il più grande traduttore di Aristotele del mondo medievale in Occidente. Egli tradusse, inoltre, l'Isagoge di Porfirio alle Categorie, su cui compose due commentari, uno più elementare e uno più avanzato; scrisse commenti al De interpretatione e alle Categorie di Aristotele e uno ai Topici di Cicerone, e compose anche propri trattati di logica: Sulla divisione, Sulle differenze topiche , due scritti Sui sillogismi categorici e uno Sui sillogismi ipotetici.
Le traduzioni di Boezio - che seguono parola per parola l'originale - trasmettono le dottrine logiche degli antichi, sulle quali si baserà la cultura medioevale sino all'undicesimo secolo. Nei commenti all'Isagoge di Porfirio, Boezio affronta il problema degli universali, che sarà più ampiamente dibattuto anche nei secoli successivi (sarà il tema portante dell’età medievale). In quest'opera Porfirio riportava varie opinioni sulla natura dei generi e delle specie, ma senza assumere una posizione personale. La questione è se i generi e le specie, per esempio "animale" o "uomo" , sussistano indipendentemente dai singoli animali o dai singoli uomini (come credeva Platone) oppure esistano solo in questi (come credeva Aristotele) oppure siano entità che hanno la loro esistenza soltanto nel pensiero.
Boezio, pur riconoscendo che la questione é assai difficile, propende per una soluzione che egli considera propria di Aristotele e differente invece da quella di Platone.
Egli afferma che universale é ciò che é comune a molte cose, ma poichè una cosa realmente esistente non può essere comune a molte cose perchè non può suddividersi in pezzi tra esse, gli universali non possono esistere come sostanze autonome.
Essi, allora, esistono come pensieri, ma come pensieri che hanno la loro base in oggetti che esistono nella realtà, poichè se così non fosse, gli universali non avrebbero alcun contenuto nè riferimento alla realtà. Come aveva insegnato Aristotele, l'intelletto partendo dagli oggetti sensibili, ne astrae la forma o specie: vedo tanti cavalli in carne ed ossa e, per un’astrazione operata dal mio intelletto, ne ricavo l’universale di cavallo.
Specie (per esempio "uomo") non é altro che la somiglianza tra più cose (in questo caso : uomini) colte dall'intelletto, mentre genere ( per esempio : "animale" ) é la somiglianza tra più specie. Generi e specie sussistono nelle cose in modo percepibile, ma sono anche pensieri che sussistono in sè. Nel commento alle Categorie, Boezio rintraccia invece la base degli universali (generi e specie), più che nelle somiglianze tra le cose, nelle collezioni di individui simili.
Armato di questi strumenti logici, egli interviene, forse a partire dal 520, in controversie teologiche sulla natura di Cristo e sulla Trinità scrivendo 5 Opuscoli Sacri, tra i quali Sulla Trinità - sulla linea di Agostino.
In essi egli sostiene platonicamente che le specie sono le idee eterne esistenti nella mente di Dio e modelli delle cose; egli distingue inoltre tra eternità, che appartiene esclusivamente a Dio, e perpetuità, che é propria del mondo creato nella sua durata ininterrotta.
L'ultimo imponente scritto composto da Boezio é la Consolazione della filosofia, in cinque libri.
I personaggi che egli mette in scena sono Boezio stesso e la personificazione della Filosofia che lo visita in cella: il suo modello é il Critone platonico, dove le leggi - con una celebre prosopopea - appaiono in sogno a Socrate nel carcere e colloquiano con lui, inducendolo a non evadere, perché così facendo commetterebbe ingiustizia non verso i suoi calunniatori, ma verso la polis alla quale deve ogni cosa.
Dopo aver sottolineato la necessità di disprezzare la sorte, la Filosofia dimostra che solo Dio é il Sommo Bene. Secondo Boezio il bene perfetto, se é possibile, deve esistere nella realtà: ma "non si può concepire nulla migliore di Dio", dunque Dio esiste . E' questo un embrione di ragionamento, già presente in Seneca, che sarà ripreso e sviluppato da Anselmo nella sua formulazione della "prova ontologica" dell’esistenza di Dio. Gli ultimi due libri dell'opera affrontano il problema del male, risolto alla maniera agostiniana, e quello del rapporto tra prescienza divina e libero arbitrio umano.
Secondo Boezio, la conoscenza divina é diversa da quella umana, perchè é fuori dal tempo. Infatti la conoscenza che Dio ha del futuro non corrisponde a quella che ne ha l'uomo, essa é piuttosto avvicinabile a quella che l'uomo ha del presente: ciò che per noi è futuro, per Dio è presente. Agli uomini, infatti, il futuro appare incerto, ma ciò non é possibile per Dio; egli dunque conosce pienamente il futuro, ma ciò non significa che la sua conoscenza causi il futuro. Ogni evento é l'effetto di una causa, e Dio, conoscendo le cause, conosce simultaneamente anche i loro effetti, e poichè la volontà umana fa parte delle cause che danno luogo a eventi, Dio conosce anche quale é la volontà dei singoli, benchè il fatto che egli la conosca non significhi che egli annulli la libertà del volere: a tal proposito Tommaso si avvarrà di un esempio particolarmente significativo; come quando vediamo un vascello e sappiamo già quale sarà la sua rotta, ma non per questo possiamo influenzarla, così Dio sa già come ci comporteremo ma non per questo limita la nostra libertà.
Gli interpreti moderni sono stati colpiti dal fatto che nella Consolazione della filosofia manchino riferimenti espliciti al cristianesimo, anche se allusioni al testo biblico non sono assenti, ma va rilevato che in linea di principio non c'é incompatibilità tra il cristianesimo e le dottrine neoplatoniche, che pervadono il suo scritto. Inoltre, con Boezio la filosofia in lingua latina sembra ripercorrere un itinerario di allontanamento dalla scena politica, che già Cicerone e Seneca avevano conosciuto.
Nel mondo latino la filosofia riconferma così la sua vocazione terapeutica e consolatoria (e quindi pratica) nei momenti drammatici della vita, ma l'eredità più rilevante di Boezio consiste nella creazione di un vocabolario latino della logica e della riflessione teologica e nell'uso di una tecnica di risoluzione delle questioni che saranno determinanti per l'età successiva.
DE CONSOLATIONE PHILOSOPHIAE
Quando Boezio venne da Teodorico fatto imprigionare e condannato alla pena capitale nel 524, scrisse un'opera in cinque libri, mista di versi e prosa, che è rimasta pietra miliare della filosofia medievale: De consolatione philophiae.
Quest’opera godette di una fortuna strepitosa, non solo in età medievale (Dante si formò filosoficamente su di essa), ma anche in epoca moderna: quando Shakespeare - in Romeo e Giulietta - proclama "Adversity's sweet milk, philosophy", nelle sue parole sentiamo echeggiare la lezione boeziana, della filosofia come viatico e come cura per far fronte alle avversità che si abbattono imperscrutabilmente su di noi. Riportiamo qui un breve riassunto del De consolatione philosophiae:
-LIBRO I: Non appena Boezio riconosce la donna, apparsagli, come la "nutrice" compagna della sua giovinezza, ella cerca subito di allietarlo ricordandogli le ingiustizie che tanti pensatori hanno dovuto subire; poi lo invita a sfogare il proprio dolore affinché lei possa curarlo e indicargli la giusta via. Boezio, perciò, mette a nudo tutta la sua infelicità come conseguenza della disastrosa condizione umana in contrasto con l’ordinato equilibrio del cielo. Perciò la Filosofia intravede un vuoto attraverso il quale si è insinuato nell’animo di Boezio il male del turbamento, in quanto egli si è dimenticato quale sia il fine delle cose e da quali strumenti il mondo sia retto e, per di più, giudica potenti e fortunati gli uomini malvagi.
-LIBRO II: Ha, quindi, inizio l’opera benefica della Filosofia con l’aiuto della Retorica e della Musica. Ella esorta l’infelice a diffidare dei favori della fortuna, perché, in quanto instabile, non può portare alla realizzazione della felicità: "…in che modo, infatti, con la sua presenza, può rendere felici gli uomini una condizione fortunata la cui assenza non li può rendere felici?" (I, 5°). Boezio è perciò concorde che sia più vantaggiosa una sorte avversa, che rende consapevoli, piuttosto che una sorte prospera, che fornisce solo fallaci illusioni.
-LIBRO III: La Filosofia annuncia a Boezio che è giunto il momento di parlare con estrema chiarezza all’animo di lui, che ormai è ben disposto a ricevere i suoi più importanti precetti: quelli che lo condurranno alla vera felicità, definita come lo stato di perfezione conseguente alla presenza di tutti i beni. La Filosofia si accinge quindi a definire quali siano i caratteri della felicità umana; ogni uomo vede la felicità in quella condizione a cui egli aspira al di sopra di tutte le altre (ricchezze, onori, potere, gloria, piaceri del corpo). Tramite un vasto ragionamento, la Filosofia riesce a far capire a Boezio che da nessuna di queste cose deriva la felicità e che dunque sono soltanto delle immagini illusorie di essa. Ne viene dunque che, se tutto ciò che è un bene terreno non è un bene vero, il sommo bene si identificherà necessariamente con Dio, a cui tutti dovranno aspirare per essere davvero felici.
-LIBRO IV: Boezio si pone quindi una logica domanda, che da sempre pone l’essere umano nell’incertezza: da dove viene, dunque, il male che attanaglia il mondo? Con quale criterio è fatta la ripartizione dei beni, che sembrano andare più verso i malvagi che verso i buoni? La Filosofia lo conduce alla ragione portandolo a riconoscere che i beni dei cattivi non sono veri beni e che le infelicità dei buoni sono utili per la loro salvezza.
-LIBRO V: I due si avviano ad un altro problema; si tratta stavolta della questione sul rapporto tra libero arbitrio e prescienza divina.
Nel De consolatione philophiae Boezio cercava nella filosofia una via di consolazione alle proprie disgrazie: in essa, egli immagina di ricevere, durante la prigionia, la visita di una donna che si rivela essere la Filosofia stessa, venuta a consolarlo del suo triste stato e a fornirgliene una spiegazione teleologica.
La Filosofia inizia col ricordare a Boezio che ciò che egli sta vivendo lo vive proprio in quanto filosofo: è, infatti, tipica dei veri discepoli della filosofia la tendenza a dispiacere ai perversi. Ciò è dimostrato anche dal fatto che situazioni più o meno analoghe sono state vissute da uomini altrettanto illustri e tra questi la Filosofia ricorda Socrate e lo stesso Seneca, due grandi martiri della filosofia.
Proprio in virtù di quanto asserito dalla Filosofia, Boezio si chiede come sia possibile che il mondo premi gli ingiusti mentre la Fortuna si accanisca contro un uomo come lui che ha sempre difeso i diritti dei deboli.
A questa angosciata domanda, che chiude il libro I, la Filosofia risponde dicendo che Boezio non deve temere, perché non alla fortuna è affidato il mondo, ma alla divina ragione.
Del resto (e ciò è l'argomento del II libro), la felicità non è da ricercarsi nei beni materiali: questi ultimi, infatti, sono tali che per procurarseli l'uomo deve inevitabilmente ricorrere a soluzioni aberranti, stravolgendo il valore delle cose e finendo, così, per uccidere proprio ciò in cui crede. Infatti, l'uomo che vuole superare gli altri in onori, dovrà necessariamente disonorarsi umiliandosi servilmente per ottenere gli onori cui aspira; allo stesso modo, chi cerca la ricchezza dovrà sottrarla a chi la possiede; e ancora, se si vuole una vita all'insegna dei piaceri, si finisce col suscitare ripugnanza. Eppure, la presenza di beni imperfetti implica automaticamente l'idea della perfezione cui i beni imperfetti partecipano. Dante stesso - che nel Convito chiama Boezio suo consolatore e dottore - si ricorderà di queste riflessioni boeziane sulla caducità dei beni terreni, quando nel Paradiso (X, 124-129) scriverà - alludendo a Boezio stesso, che l’ha iniziato alla filosofia - :
Per vedere ogni ben dentro vi gode
L'anima santa, che 'l mondo fallace
Fa manifesto a chi di lei ben ode.
Lo corpo, ond'ella fu cacciata, giace
Giuso in Cieldauro; ed essa da martìro
E da esiglio venne a questa pace.
Ora, i beni materiali di per sé non sono un male - come già diceva Plotino -, in quanto creati da Dio, ma tali diventano se ci distolgono dai veri beni, quelli di natura spirituale: finchè restiamo all’infimo livello della materialità, vediamo i beni materiali come i supremi; ma non appena ci innalziamo a quelli spirituali, i beni materiali ci appaiono insignificanti e minuti, proprio come quando - per riprendere l’immagine che userà Petrarca nella sua ascesa al monte Ventoso - saliamo in cima ad un monte vediamo piccolissimo ciò che sta sotto e che, prima di salire, ci pareva enorme. La Filosofia conclude quindi che la felicità è Dio stesso, inteso come sommo bene. Fin qui, i primi tre libri; nel libro IV, però, viene sollevata l'inevitabile obiezione: se il mondo è governato da Dio e se Dio è il sommo bene, come mai esiste il male? Si Deus est, unde malum? Così si interroga lo stesso Agostino, e la tematica verrà lasciata in eredità ai pensatori successivi, fino ai giorni nostri (ma, del resto, si Deus non est, unde bonum?).
A questa legittima domanda, la Filosofia risponde che ciò che governa tutto è la Provvidenza, ossia la volontà divina stessa, la quale però si serve del Fato, cioè la contingenza relativa alle cose mutevoli.
Gli uomini, che non conoscono questo stato di cose, non operano la necessaria distinzione tra fato e provvidenza, sì che il verificarsi del male nel mondo appare ad essi incomprensibile, tanto più quando a farne le spese sono i virtuosi (pensiamo a Socrate e a Seneca).
Ma una provvidenza che governa il mondo non annulla la libertà dell'uomo?
Boezio utilizza il V libro per dare risposta a questo arduo problema: ciò che governa il mondo è provvidenza, non previdenza; le azioni passate, presenti e future sono in Dio tutte presenti: "se tu volessi valutare esattamente la previsione con cui egli riconosce tutte le cose, dovresti giustamente ritenere che si tratti non di prescienza di cose proiettate nel futuro, ma di conoscenza di un presente che non viene mai meno. Onde si chiama, non previdenza, ma provvidenza" (De consolatione philosophiae, V).
Ciò che rappresenta per l'uomo un evento futuro, in Dio è sempre presente "... per cui quelli [gli eventi] che dipendono dal libero arbitrio sono presenti nella loro contingenza" (Giovanni Reale).
Dio vede sì cosa noi faremo in futuro, ma non per questo la nostra libertà viene meno, giacchè ciò che per Lui è presente attuato, per noi è futuro e, pertanto, possibile, non necessario [testo a cura di A cura di Diego Fusaro].
CLAUDIANO CLAUDIO:
poeta latino nato ad Alessandria d’Egitto intorno al 370 d. C. Era a Roma nel 395, poi si recò alla corte di Onorio a Milano, dove si legò soprattutto al generale Stilicone. Nel 400 il Senato di Roma gli decretò una statua nel Foro; morì intorno al 404. Scrisse numerose composizioni poetiche in lingua latina, quasi sempre in esametri o in distici, databili fra il 395 e la morte. Si possono individuare tre gruppi principali: carmi per l’imperatore Onorio (tra cui il De nuptiis Honorii et Mariae), carmi per Stilicone, poemi epici di argomento mitologico: tra le opere giovanili ricordiamo una Gigantomachia in greco, poi tradotta, e il De raptu Proserpinae.
ACCADEMIA DEGLI INCOLTI DI TORINO: non ebbe grande rinomanza e fu attiva soprattutto nel XVIII secolo.
E' da ricordare tra i suoi ascritti Benedetta Clotilde Lunelli Spinola
Nata a Cherasco (CN), il 6 ottobre 1700 che morì a Savona, il 29 marzo 1774.
Letterata ed erudita. Fu una delle prime donne a essere insignita del titolo di doctor artium, conseguentemente all'esposizione di ventitré tesi filosofiche di cui pubblicò i capi (Philosophia Peripatetica, 1714), grazie all'appoggio della seconda Madama Reale, Giovanna Battista di Savoia Nemours.
Entrò a far parte dell'Accademia degli Innominati di Bra e a quelle dei Candidati e degli Incolti di Torino, in seno a cui scrisse componimenti poetici celebranti i Savoia.
Tra le altre pubblicazioni scaturite dal consesso degli Incolti di Torino si possono ricordare:
Petrina, Gaspare Antonio, Le delizie della grazia nella conuersione del glorioso santo dottore della Chiesa Agostino protettore celeste dell'Accademia de' Signori Incolti di Torino orazione del reuerendissimo P.D. Gaspar Antonio Petrina, - In Torino: Zappata Pietro Giuseppe, 1716.
Alfacio, Gioseffo, Il Monte mistico nella conuersione del glorioso santo dottore della chiesa Agostino protettore celeste dell'Accademia degl'Incolti di Torino. Panegirico del teologo collegiato d. Gioseffo Alfacio..., In Torino: Zappata Pietro Giuseppe, 1717
BIBLIOTECA MARCIANA: la biblioteca Marciana di Venezia deriva dal mecenatismo del cardinale Bessarione
Lo Stato Veneto si impegnò a collocare i volumi in una sede degna dell'importanza del dono; ma solo nel 1537 fu possibile iniziare la costruzione della Libreria
La Biblioteca, dopo il suo trasferimento nel nuovo edificio, si arricchì soprattutto grazie a donazioni e a lasciti. Si ricordano, fra i più importanti, i seguenti:
1589: Melchiorre Guilandino di Marienburg (2.200 libri a stampa);
1595: Jacopo Contarini da S. Samuele (divenuto operante solo nel 1713, all'estinzione della famiglia; 175 mss. e 1500 opere astampa);
1619: Girolamo Fabrici D'Acquapendente (13 volumi con preziose tavole anatomiche a colori);
1624: Giacomo Gallicio (20 mss. greci);
1734: Gian Battista Recanati (216 mss. fra cui i codici "francoveneti" di casa Gonzaga);
1792: Tommaso Giuseppe Farsetti (350 mss. e libri a stampa);
1794: Amedeo Svajer (oltre 340 mss., fra i quali il testamento di Marco Polo);
1797: Jacopo Nani (oltre 1000 mss., in buona parte greci e orientali);
Dopo la caduta della Repubblica Veneta, la Biblioteca venne arricchita a seguito della concentrazione in essa di parte delle biblioteche degli enti religiosi soppressi in epoca napoleonica; la biblioteca dei Domenicani osservanti alle Zattere (Gesuati) in cui era confluita la ricca raccolta di Apostolo Zeno, pervenne alla Marciana pero' solo successivamente. La Marciana rimase nella sua sede originaria fino al 1811; in quell'anno essa fu, per decreto del Regno ltalico, trasferita nel Palazzo Ducale.
Fra i lasciti ottocenteschi, si ricordano:
1814: Girolamo Ascanio Molin (2.209 opere a stampa di gran pregio, oltre a 3.835 incisioni e 408 disegni, passati in gran parte al Museo Correr);
1843: Girolamo Contarini (906 mss. e 4.000 libri a stampa);
1852: Giovanni Rossi (470 mss., raccolta di drammi in musica veneziani, "leggi e costumi").
Nel 1904 la sede della Biblioteca fu spostata nell'edificio sansoviniano della Zecca. Nel 1924 la Marciana riebbe, in aggiunta alla Zecca, anche il palazzo della Libreria, nonchè parte dell'edificio delle Procuratie Nuove. Ora essa occupa, pertanto, non solo la sua storica sede, la Libreria, ma altresì la severa fabbrica della Zecca, ove si coniavano le monete della Repubblica, edificata dal Sansovino tra il 1537 e il 1547.
La Marciana conta oggi circa un milione di volumi, di cui circa 13.000 manoscritti, molti dei quali ricchi di miniature. Gli incunaboli sono 2.883; le cinquecentine 24.055.
Ricchissima per quanto riguarda la cultura greca, la storia veneta, l'editoria veneta, la Marciana, accresciuta in questo secolo da importanti donazioni (la raccolta Teza: circa 30 mila volumi, in buona parte relativi alle civiltà orientali; la raccolta Tursi, circa l5 mila volumi di viaggiatori stranieri in Italia), svolge una funzione importante nella vita culturale veneta e al servizio degli studiosi di tutto il mondo [liberamente tratto dal sito on line della biblioteca Marciana di Venezia]
GUZZO (GUZZI) ANTONIO: nonostante gli elogi aprosiani, questo letterato, risulta aver pubblicato la sola opera citata dall'erudito intemelio e neppure dal regesto dei corrispondenti pare aver intrattenuto con il Ventimiglia alcuna corrispondenza.
Vedi: Guzzi, Antonio,
Agrophilus, sive rusticatio tusculana Antonii Guzzii ..
, Romae : typis Fabii de Falchis, 1669 [(32), 176 p. : antip. calcogr. ; 8o. Note Generali: Segn.: a-b8A-L8- Antip. calcogr. sottoscritto: A. Clovet fe.]
Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (Roma, ca 476 - Pavia, 525) fu [testo ripreso dalla voce "BOEZIO" in "wIKIPEDIA", ENCICLOPEDIA LIBERA "on line"] un filosofo cristiano del VI secolo le cui opere influenzarono notevolmente la filosofia del Medioevo, tanto che alcuni lo collocano tra i fondatori della Scolastica.
Suo padre fu Flavio Narsete Manlio Boezio, due volte prefetto del pretorio d'Italia, prefetto di Roma e console nel 487 mentre la madre apparteneva alla nobile e antichissima gens Anicia.
Alla morte del padre, avvenuta intorno al 490, fu affidato a Quinto Aurelio Memmio Simmaco, nobile e letterato romano, la figlia del quale, Rusticiana, sposerà intorno al 495 avendone due figli. Nel 493 Teodorico, re degli Ostrogoti, vince in battaglia e uccide Odoacre, re degli Eruli, stabilendo in Italia il proprio regno, confermando Ravenna come capitale, ma risiedendo anche a Pavia e a Verona.
Boezio studiò alla scuola di Atene, retta dallo scolarca Isidoro, dove si insegnavano soprattutto Aristotele e Platone insieme con le quattro scienze fondamentali per la comprensione della filosofia platonica, l'aritmetica, la geometria, l'astronomia e la musica; qui conobbe forse il giovane e futuro grande commentatore di Aristotele, Simplicio, che indicò come nella scuola si cercasse un accordo tra i due maggiori filosofi dell'antichità, studiando ogni singola frase delle loro opere e discutendo le opinioni dei commentatori, partendo da Aristotele, il maggior studioso della natura, per giungere a Platone: «Aristotele procede dalle cose fisiche» - scrive Simplicio - «verso quelle che stanno al di sopra della natura; considera queste in base alla relazione che hanno con quelle, mentre Platone considera le cose naturali in quanto partecipi di quelle che stanno al di sopra della natura».
S'iniziava con lo studio della logica di Aristotele, preceduta dall'introduzione, l' Isagoge, di Porfirio; è il piano che Boezio seguirà nel compito che un giorno vorrà assumersi di tradurre in latino, commentare e accordare i due pensatori greci.
Intorno al 502 si fa risalire la sua attività letteraria e filosofica: scrive i trattati del quadrivio, le quattro scienze fondamentali del tempo, il De institutione arithmetica, il De institutione musicae e i perduti De institutione geometrica e De institutione astronomica.
Qualche anno dopo traduce dal greco in latino e commenta l' Isagoge di Porfirio, un'introduzione alle Categorie di Aristotele, che avrà un'enorme diffusione nei secoli a venire. La fama così ottenuta gli procura nel 510 la nomina di consul sine collega dalla corte imperiale di Costantinopoli, carica biennale che gli dà diritto a un seggio permanente nel Senato romano.
Da questi anni fino al 520 traduce e commenta le Categorie e il De interpretatione di Aristotele, scrive il trattato teologico Contra Eutychen et Nestorium, il perduto commento ai Primi Analitici di Aristotele, un De syllogismis categoricis, un De divisione, gli Analytica posteriora, un De hypotheticis syllogismis, la traduzione, perduta, dei Topica di Aristotele e un commento ai Topica di Cicerone.
Partecipa ai dibattiti teologici del tempo: intorno al 520 compone il De Trinitate, dedicato al suocero Simmaco, l' Utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter praedicentur, il Quomodo substantiae in eo quod sint bonae sint, cum non sint substantialia sint e, secondo alcuni, il De fide catholica.
L'interesse di Boezio e di molta parte del patriziato romano per i problemi teologici che avevano il loro centro soprattutto in Oriente, con i dibattiti sull'arianesimo, mettono in allarme Teodorico, che sospetta un'intelligenza politica della classe senatoria romana con l'Impero, la cui ostilità verso i Goti ariani era sempre stata appena malcelata.
Appena terminati i De sophisticis elenchis, perduti, e i De differentiis topicis, Boezio è chiamato alla corte di Teodorico, per discutere della non facile convivenza fra gli elementi gotici e italici della popolazione. Nel 522 è magister officiorum - i suoi due figli sono nominati consoli - nel 523, alla morte di papa Ormisda, succede al papato Giovanni I. Il magistrato Cipriano, a Pavia, in seguito al sequestro di lettere dirette alla corte di Bisanzio, accusa il nobile romano Albino di complotto ai danni del regno di Teodorico. Boezio difende Albino, esponendo se stesso e tutto il Senato nella difesa del collega.
Portate nuove accuse fondate su lettere, forse falsificate, di Boezio, nelle quali egli avrebbe sostenuto la necessità di "restaurare la libertà di Roma", viene sostituito nella sua carica da Cassiodoro e, nel settembre 524, incarcerato a Pavia con l'accusa di praticare arti magiche; qui inizia la composizione della sua opera più nota, la De consolatione philosophiae. Egli viene giudicato, a Roma, da un collegio di cinque senatori, estratti a sorte, presieduto dal prefetto Eusebio. Questi, nell'estate del 525, notifica la sentenza di condanna a morte di Boezio, che viene ratificata da Teodorico ed eseguita presso Pavia, nell' ager Calventianus, una località che non si è potuta identificare con certezza.
Consapevole della crisi della cultura latina del suo tempo, Boezio avvertì la necessità di tramandare e conservare le conoscenze elaborate nel mondo greco. Data alla filosofia la definizione di amore della sapienza, da lui intesa come causa della realtà e perciò sufficiente a se stessa, la filosofia, come amore di quella, è anche amore e ricerca di Dio, che è la sapienza assoluta.
La filosofia è conoscenza di tre tipi di esseri. Gli intellettibili - termine tratto da Mario Vittorino - sono gli esseri immateriali, concepibili solo dall'intelletto, senza l'ausilio dei sensi, come Dio, gli angeli, le anime; il ramo della filosofia che di questi si occupa è propriamente la teologia. Gli intellegibili sono invece gli esseri presenti nelle realtà materiali, le quali sono percepite dai sensi ma quelli sono concepibili dall'intelletto: gli intellegibili sono dunque gli intellettibili in forma materiale.
La natura è infine oggetto della fisica, suddivisa in sette discipline: quelle del quadrivium - aritmetica, geometria, musica e astronomia - e del trivium - grammatica, logica e retorica.
Le scienze del quadrivio sono per Boezio i quattro gradi che portano alla sapienza: il quadrivio «deve essere percorso da coloro la cui mente superiore può essere sollevata dalla sensazione naturale agli oggetti più sicuri dell'intelligenza».
La prima delle discipline del quadrivio, «il principio e la madre» delle altre è, per Boezio, l'aritmetica; il De institutione arithmetica, scritta intorno al 505 e dedicata al suocero Simmaco, è ripresa dall' Introduzione all'Aritmetica di Nicomaco di Gerasa
Nel suo De institutione musicae, la cui fonte sono gli Elementi armonici di Tolomeo e un'opera perduta di Nicomaco, distingue tre generi di musica: una musica cosmica, mundana, che non è percepibile dall'uomo ma deve derivare dal movimento degli astri, dal momento che l'universo, secondo Platone, è strutturato sul modello degli accordi musicali, la cui armonia è fondata sull'equilibrio dei quattro elementi presenti in natura - acqua, aria, terra e fuoco; una musica humana, espressione della mescolanza, nell'uomo, dell'anima e del corpo e derivante dal rapporto fra l'elemento fisico e l'elemento intellettuale e pertanto percepibile con un'attività di introspezione in noi stessi; la musica ha una profonda influenza sulla vita umana: è l'armonia dell'uomo con se stesso e di sé con il mondo. Infine, esiste naturalmente la musica pratica, strumentale, musica instrumentis constituta, ottenuta dalle vibrazioni degli strumenti e della voce.
Le altre due opere di geometria e di astronomia, tratte dagli Elementi di Euclide e dall' Almagesto di Tolomeo, sono andate perdute.
L'acquisizione delle discipline del trivium - grammatica, retorica e logica - è utile per esprimere al meglio la conoscenza che già si possiede. La logica di Boezio è in sostanza un commento della logica di Aristotele, dal momento che egli segue l' Isagoge, il commento alla logica aristotelica del platonico Porfirio, che Boezio conobbe dapprima nella traduzione latina di Vittorino e poi direttamente dal testo greco di Porfirio, oltre a tradurre le Categorie e il De interpretazione di Aristotele.
Le categorie, secondo Aristotele, sono i diversi significati che i termini (????) usati in una discussione possono assumere; un medesimo vocabolo - per esempio uomo - può significare un uomo reale, l'uomo in generale, un uomo rappresentato in una scultura; per evitare confusioni, al termine "uomo", che è una categoria sostanza, aggiungendo altre nove categorie, ossia colore, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, situazione, stato, azione e passione, un discorso, che ha per soggetto la sostanza "uomo", sarà chiaramente individuato.
Al soggetto sostanza si possono unire dei predicati, distinti da Aristotele in cinque modi diversi: il genere, la specie, la differenza, la proprietà e l'accidente. Il genere è il predicato più generale di un soggetto: al soggetto "Socrate" appartiene allora il genere "animale" e, caratterizzando più in particolare con l'indicare la specie come sottoclasse del genere , si potrà dire che Socrate è un animale di specie "uomo".
Le sostanze "prime", quelle che indicano le cose, gli oggetti sensibili, esistono di per sé, secondo Aristotele, mentre il genere e la specie sono indicate da Aristotele come sostanze "seconde", e non è chiaro se esse esistano di per sé. A questo proposito «non dirò», scrive Porfirio, «riguardo ai generi e alle specie, se siano sostanze esistenti per sé, o se siano semplici pensieri; se siano realtà corporee o incorporee; se siano separate dai sensibili ovvero poste in essi. Poiché questa è impresa molto ardua, che ha bisogno di più vaste indagini».
Allo stesso modo Boezio si pone il problema se i generi e le specie siano realtà esistenti di per sé, come esistono realmente i singoli individui, e se, in questo caso, siano realtà spirituali o materiali e, se materiali, esistano in unione con le realtà sensibili o se siano separate; oppure, non esistendo di per sé, se siano semplici categorie dello spirito umano che le abbia concepite per necessità di linguaggio.
La risposta di Boezio è che «Platone ritiene che i generi, le specie e gli altri universali non siano soltanto conosciuti separatamente dai corpi, ma che esistano e sussistano indipendentemente da quelli; invece Aristotele pensa che gli incorporei e gli universali sono sì oggetto di conoscenza, ma che non sussistono che nelle cose sensibili. Quale di queste opinioni sia la vera, io non ho avuto l'intenzione di decidere, perché è compito di più alta filosofia. Noi abbiamo deciso di seguire l'opinione di Aristotele, non perché l'approviamo totalmente ma perché questo libro l' Isagoge di Porfirio è scritto seguendo le Categorie di Aristotele».
Tuttavia Boezio dà una risposta al problema degli universali, prendendola da Alessandro d'Afrodisia: il pensiero umano è in grado di separare dagli oggetti sensibili nozioni astratte, come quelle di "animale" e di "uomo"; anche se il genere e la specie non potessero esistere separati dal corpo, non per questo ci è impedito di pensarli separatamente da esso.
I cinque predicabili o universali, se non sono delle sostanze, come vuole Aristotele, sono allora dei concetti (intellectus): «uno stesso soggetto è universale quando lo si pensa ed è singolare quando lo si coglie con i sensi nelle cose»; platonicamente, egli riafferma così l'esistenza di oggetti propri della mente che non possono essere conosciuti sensibilmente. Boezio non riprende la teoria aristotelica dell'intelletto agente, che spiegherebbe come sia possibile al pensiero separare ciò che è unito: nel suo commento all' Isagoge questa operazione di astrazione resta inspiegata ma verrà ripresa, in diversa forma, nel De consolatione philosophiae.
Sono quattro gli scritti boeziani che trattano di questioni teologiche: il Contra Eutychen et Nestorium, o De persona et duabus naturis in Christo, dedicato a un diacono Giovanni, che potrebbe essere il futuro Papa Giovanni I, fu composto nel 512 come contributo al controverso dibattito sulla persona e sulla natura, umana e divina, di Cristo.
Eutiche sosteneva l'esistenza in Cristo di una natura divina in una persona divina, mentre Nestorio, sostenendo l'identità di persona e natura, sosteneva che Cristo avesse avuto due nature, una divina e una umana e perciò anche due persone, una divina e una umana. Boezio si preoccupa innanzi tutto di chiarire i significati delle parole, affinché non si creino contrasti dovuti a semplici fraintendimenti. Distingue tre diversi significati del termine «natura», natura come «predicato di tutte le cose esistenti», natura come «predicato di tutte le sostanze corporee e incorporee» e natura come «differenza specifica che dà forma a qualsiasi realtà»; definisce poi con "persona" una «sostanza individua di natura razionale» riferibile agli uomini, agli angeli e a Dio.
Scrive infatti (Contra Eutychen, 2, 3): «la persona non si può mai applicare agli universali, ma soltanto ai particolari e agli individui: non esiste infatti la persona dell'uomo in genere o dell'uomo in quanto animale. Pertanto se la persona appartiene soltanto alle sostanze e soltanto a quelle razionali, se ogni natura è una sostanza, e se la persona sussiste non negli universali ma soltanto negli individui, essa si può così definire: "la sostanza individua di natura razionale"».
Ma Boezio non pretende di aver dato una parola definitiva sulla controversia: occorre che sia «il linguaggio ecclesiastico a scegliere il nome più adatto»; per quello che lo riguarda, egli dichiara di non essere «tanto vanitoso da anteporre la mia opinione a un giudizio più sicuro. Non è in noi la sorgente del bene e nelle nostre opinioni non vi è nulla che dobbiamo preferire a ogni costo; da Colui che solo è buono derivano tutte le cose veramente buone».
Intorno al 518 fu composto il De hebdomadibus, o Ad eundem quomodo substantiae in eo quod sint, bonae sint, cum non sint substantialia sint, ossia In che modo le sostanze siano buone in quel che sono, pur non essendo beni sostanziali, ove Boezio distingue, nell'ente, l'essere e il «ciò che è» l' id quod est, ciòe il soggetto individuale che possiede l'essere: per Boezio «l'essere non è ancora, ma ciò che ha ricevuto la forma dell'essere, quello è e sussiste».
Stabilito che «tutto ciò che è tende al bene», si pone il problema se possano definirsi buoni gli enti finiti, la cui essenza non è la bontà; distingue allora i beni che sono tali in sé dai «beni secondi», ossia quelli che lo sono in quanto partecipano della bontà, per giungere alla conclusione che anche il «bene secondo» è buono, essendo «scaturito da quello il cui essere stesso è buono», ossia dal primo Essere che è anche e necessariamente il primo Bene.
Nel De sancta Trinitate o Quomodo trinitas unus Deus, uno scritto successivo al 520, si pone il problema se a Dio, come a tutte le persone della Trinità, si applichino le categorie della logica, e se dunque siano una sostanza e se sia possibile che abbiano degli attributi; lo stesso tema, in forma sintetica, è espresso nell' Ad Johannem diaconum utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter praedicentur.
De consolatione philosophiae (
La consolazione della filosofia) scritta durante la carcerazione, i cinque libri della De consolatione si presentano come un dialogo nel quale la Filosofia, personificata da «una donna di aspetto oltremodo venerabile nel volto, con gli occhi sfavillanti e acuti più della normale capacità umana; di colorito vivo e d'inesausto vigore, benché tanto avanti con gli anni da non credere che potesse appartenere alla nostra epoca», dimostra che l'afflizione patita da Boezio per la sventura che lo ha colpito non ha in realtà bisogno di alcuna consolazione, rientrando nell'ordine naturale delle cose, governate dalla Provvidenza divina.
Si può dividere l'opera in due parti, una costituita dai primi due libri e l'altra dagli ultimi tre. È una distinzione che corrisponde a quanto raccomandato dallo stoico Crisippo nella cura delle afflizioni: quando l'intensità della passione è al culmine, prima di ricorrere ai rimedi più efficaci, occorre attendere che essa si attenui. Così infatti si esprime la Filosofia (I, VI, 21): «siccome non è ancora il momento per rimedi più energici, e la natura della mente è tale che, respingendo le vere opinioni, subito si riempe di errori, dai quali nasce la caligine delle perturbazioni che confonde l'intelletto, io cercherò di attenuare a poco a poco questa oscurità in modo che, rimosse le tenebre delle passioni ingannevoli, tu possa conoscere lo splendore della luce vera»
Una medicina leggera, «qualcosa di dolce e di piacevole che, penetrato al tuo interno, apra la strada a rimedi più efficaci», è la comprensione della natura della fortuna, esposta nel II libro utilizzando temi della filosofia stoica ed epicurea. La fortuna (II, I, 10 e segg.) «era sempre la stessa, quando ti lusingava e t'illudeva con le attrattive di una felicità menzognera [...] se l'apprezzi, adeguati ai suoi comportamenti, senza lamentarti. Se aborrisci la sua perfidia, disprezzala [...] ti ha lasciato colei dalla quale nessuno può essere sicuro di non essere abbandonato [...] ti sforzi di trattenere la ruota della fortuna, che gira vorticosamente? Ma, stoltissimo fra tutti i mortali, se si fermasse, non sarebbe più lei».
Del resto, quello che la fortuna ci dà, saremo noi stessi a doverlo abbandonare in quell'ultimo giorno della nostra vita che (II, III, 12) «è pur sempre la morte della fortuna, anche della fortuna che dura. Che importanza credi allora che abbia, se sia tu a lasciarla morendo, o se sia lei a lasciarti, fuggendo?». Se dunque ci rende infelice tanto il suo abbandono durante la nostra vita, quanto il fatto che, morendo, dobbiamo abbandonare i doni che quella ci ha elargito in vita, allora la nostra felicità non può consistere in quei doni effimeri, in cose mortali, e neppure nella gloria, nel potere e nella fama, ma deve essere dentro noi stessi.
Si tratta allora di conoscere «l'aspetto della felicità vera», dal momento che ciascuno (III, II, 1) «per vie diverse, cerca pur sempre di giungere a un unico fine, che è quello della felicità. Tale fine consiste nel bene: ognuno, una volta che l'abbia ottenuto, non può più desiderare altro». Dimostrato che (III, IX, 2) «con le ricchezze non si ottiene l'autosufficienza, non la potenza con i regni, non con le cariche il rispetto, non con la gloria la fama, né la gioa con i piaceri», tutti beni imperfetti, occorre determinare la forma del bene perfetto, «questa perfezione della felicità».
Ora, il bene perfetto, il «Sommo Bene», è Dio, dal momento che, secondo Boezio, sviluppando una concezione neoplatonica (III, X, 8) «la ragione dimostra che Dio è buono in modo da poterci convincere che in lui vi è anche il bene perfetto. Se infatti non fosse tale, non potrebbe essere l'origine di ogni cosa; vi sarebbe altro, migliore di lui, in possesso del bene perfetto, a lui precedente e più prezioso; è chiaro che le cose perfette precedono quelle imperfette. Pertanto, per non procedere all'infinito col ragionamento, dobbiamo ammettere che il sommo Dio sia del tutto pieno del bene sommo e perfetto; ma s'era stabilito che il bene perfetto sia la vera felicità: dunque la vera felicità è posta nel sommo Dio».
Nel IV libro (I, 3) Boezio pone il problema di come «pur esistendo il buon reggitore delle cose, i mali esistano comunque ed siano impuniti [...] e non solo la virtù non venga premiata ma sia persino calpestata dai malvagi e punita al posto degli scellerati». La risposta, secondo lo schema platonico, della Filosofia, è che tutti, buoni e malvagi, tendono al bene; i buoni lo raggiungono, i malvagi non riescono a raggiungerlo per loro propria incapacità, mancanza di volonta, debolezza. Perché infatti i malvagi (IV, II, 31 - 32) «abbandonata la virtù, ricercano i vizi? Per ignoranza di ciò che è bene? Ma cosa c'è di più debole della cecità dell'ignoranza? Oppure sanno cosa cercare ma il piacere li allontana dalle retta via? Anche in questo caso si dimostrano deboli, a causa dell'intemperanza che impedisce loro di opporsi al male? oppure abbandonano il bene consapevolmente e si volgono al vizio? Ma anche così cessano di essere potenti e cessano persino di essere del tutto». Infatti il bene è l'essere e chi non raggiunge il bene è privo necessariamente dell'essere: dell'uomo ha solo la parvenza: «tu potresti chiamare cadavere un uomo morto, ma non semplicemente uomo; così, i viziosi sono malvagi ma nego che essi siano in senso assoluto».
Nel quinto e ultimo libro Boezio tratta il problema della prescienza e provvidenza divina e del libero arbitrio. Definito il caso (I, I, 18) «un evento inaspettato prodotto da cause che convergono in cose fatte per uno scopo determinato», per Boezio il concorrere e confluire di quelle cause è «il prodotto di quell'ordine che, procedendo per inevitabile connessione, discende dalla provvidenza disponendo le cose in luoghi e in tempi determinati». Il caso, dunque, non esiste in se stesso, ma è l'evento di cui gli uomini non riescono a stabilire le cause che lo hanno determinato.
È compatibile allora il libero arbitrio dell'uomo con la presenza della prescienza divina e a cosa dovrebbe servire pregare che qualcosa avvenga o meno, se già tutto è stabilito? La risposta della Filosofia è che la previdenza di Dio non dà necessità agli eventi umani: essi restano la conseguenza della libera volontà dell'uomo anche se sono previsti da Dio.
Ma questo stesso problema, così posto dall'uomo, non è nemmeno corretto. Dio è infatti eterno, nel senso che non è soggetto al tempo; per lui non esiste il passato e il futuro, ma un eterno presente; il mondo, invece, anche se non avesse avuto nascita, sarebbe perpetuo, ossia soggetto al mutamento e dunque soggetto al tempo; nel mondo esiste pertanto un passato e un futuro. La conoscenza che Dio ha delle cose non è a rigore un "vedere prima", una pre-videnza, ma una provvidenza, un vedere nell'eterno presente tanto gli eventi necessari, come sono quelli regolati dalle leggi fisiche, che gli eventi determinati dalla libera volontà dell'uomo.
La fortuna della Consolazione fu notevole per tutto il Medioevo, così da fare del suo autore una delle fonti più autorevoli del pensiero cristiano, per quanto l'opera si fondi sulle tradizioni stoiche e soprattutto neoplatoniche; essa tuttavia si manifesta come ultima autorevole affermazione della libertà del pensiero in complementarietà con la fede espressa in sue altre opere, come dimostra il fatto che Boezio non abbia mai citato Cristo in un'opera di tale natura e composta a un passo dalla morte - tanto che già nel X secolo il monaco sassone Bovo di Corvey dirà, a questo riguardo, che nella Consolazione sembra che la Filosofia abbia scacciato Cristo.
Allievo della scuola neoplatonica di Atene, Boezio trovò negli insegnamenti della classica tradizione neoplatonica esempi di direttiva morale pienamente sufficienti rispetto a quanto poteva trovare nel Cristianesimo, del quale, non a caso, come mostrano i suoi Opuscoli teologici, si occupò soltanto per problemi relativi unicamente alla dogmatica e mai alla morale e al destino dell'uomo.
Tuttavia, a tal proposito, la studiosa Christine Mohrmann ha affermato, in modo più preciso, che quest'opera è un «testamento filosofico», e non un «testamento spirituale», ed è infatti priva anche di neologismi di stile letterario cristiano. Comunque, conclude la Mohrmann, sarebbe sbagliato dedurre da ciò l'assenza di una fede cristiana dall'autore del De Trinitate.
La De Consolatione philosophiae è un esempio di prosimetro, una composizione in cui la poesia si alterna alla prosa, secondo un modello che viene fatto risalire al filosofo cinico Menippo di Gadara nel III secolo a.C. e introdotto a Roma nel I secolo a.C. da Varrone; molto probabilmente Boezio tenne presente il De nuptiis Mercurii et Philologiae di Marziano Capella, opera di struttura analoga, composta circa un secolo prima.
Boezio, nelle opere precedenti, frutti di elaborazioni teologiche, di commenti e di traduzioni, non si era preoccupato di dare dignità letteraria ai suoi scritti; nella Consolazione ha voluto affermare la propria appartenenza alla tradizione latina, con una trasparente imitazione del dialogo platonico attraverso i modelli di Cicerone e di Seneca, così da porsi, nel versante sia letterario che filosofico, come l'ultimo clssico romano.
A Boezio furono attribuite altre opere, come la De fide catholica o Brevis fidei christianae complexio, che sembra appartenere a quel suo allievo Giovanni nel quale si è voluto riconoscere Papa Giovanni I. Anche se ancora oggi vi è discussione sull'attribuzione a Boezio, l'impostazione catechistica dell'opera, che tratta delle verità essenziali del Cristianesimo, quali la Trinità, il peccato originale, l'Incarnazione, la Redenzione e la Creazione, porterebbero a escludere una paternità boeziana.
Attribuita a Mario Vittorino la De definitione e a Domenico Gundisalvo la De unitate et uno, resta tuttora non definito l'autore della De disciplina scholarium, anch'essa attribuita a suo tempo a Boezio.
Edizioni:
Manlii Severini Boethii Opera Omnia, Patrologiae cursus completus, Series latina, vol. 63 e 64, 1882 - 1891
Traduzioni:
De institutione musicae, trad. G. Marzi, Roma, 1990 -
Consolazione della filosofia, a cura di Luca Obertello, Milano, 1996
Bibliografia
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Tra le principali macchinazioni
Tra le principali macchinazioni, con cui in questa nostra età gli acattolici di vario nome si sforzano di insidiare i seguaci della verità cattolica e di allontanarne gli animi dalla santità della Fede, non tengono l'ultimo luogo le Società Bibliche: le quali dapprima in Inghilterra istituite, poi largamente diffuse in ogni parte, vediamo cospirare tutte a un fine, di dar fuori in grandissimo numero di esemplari le Divine Scritture tradotte nelle diverse lingue volgari, e senza alcuna scelta disseminarle fra i cristiani e gli infedeli, allettando ogni sorta di persone a leggerle senza guida nessuna. Talché fanno, come già nel suo tempo deplorava San Gerolamo, comune a tutti l'arte di intendere senza maestro le Scritture, sian pure donnicciole, o vecchi rimbambiti, o verbosi sofisti, purché sappiano leggere; anzi (che è più assurdo e quasi inaudito) pretendono non essere esclusi da si fatta intelligenza neppure i popoli infedeli.
Ma non vi è nascosto, Venerabili Fratelli, quello che essi vogliano e con quali disegni. Infatti ben sapete come nelle Scritture medesime il Principe degli Apostoli, lodando le lettere di San Paolo, ci ammonisce essere in quelle alcune cose difficili a intendere, che i non dotti e gli instabili depravano, siccome fanno delle altre Scritture, in loro propria perdizione; e tosto soggiunge: "Voi dunque, sapendo, guardatevi, o fratelli, affinché l'errore degli insipienti non smuova la vostra fermezza". Quindi vedete che fin dalla prima età del Cristianesimo questa fu l'arte propria degli eretici, ripudiata la divina tradizione e l'autorità della Chiesa Cattolica, interpolare le Sacre Scritture o pervertirne la esposizione, Né finalmente ignorate quanta diligenza e sapienza occorrano per tradurre fedelmente in altra lingua le parole del Signore: sicché niente è più facile ad avvenire che il moltiplicarsi, nelle versioni procurate dalle Società Bibliche, o per frode o per ignoranza, di tanti interpreti, di gravissimi errori; i quali poi lungamente occulta, e condanno di molti, la stessa moltitudine e la varietà di quelle. Ma poco importa alle dette Società quali errori si bevano i lettori di siffatte versioni, purché a poco a poco si avvezzino a giudicare arditamente del senso delle Scritture, a dispregiare le tradizioni divine custodite diligentemente dalla Chiesa secondo la dottrina dei Padri, e a ripudiare il magistero della Chiesa medesima.
Per questo i suddetti Biblici non cessano di calunniare la Chiesa e questa Santa Sede di Pietro, come quella che già da molti secoli si sforzi d'impedire al popolo fedele la cognizione delle Sacre Scritture: quando all'incontro per moltissimi e lucidissimi documenti e comprovato lo studio con cui anche nei tempi più recenti i Sommi Pontefici, e con la loro guida gli altri Pastori Cattolici, intesero a erudire i popoli nella parola di Dio conservata nelle Sacre Scritture e nelle Sacre Tradizioni. II Concilio di Trento principalmente non solo raccomandò ai Vescovi la cura che venissero annunciate frequentemente nelle Diocesi le Sacre Scritture e le leggi di Dio: ma, ampliando la istituzione del Concilio Lateranense, provvide che in ciascuna Chiesa o Cattedrale o Collegiata delle Città e grandi Terre non mancasse una Prebenda Teologale, da conferirsi a persone sicuramente idonee all'esposizione e interpretazione delle Sacre Scritture. E dello stabilire la Prebenda Teologale a norma di quel Decreto Tridentino, e delle lezioni, che il canonico Teologo dovesse fare pubblicamente al Clero ed anche al popolo, si trattò poi in molti Sinodi provinciali, e in quello di Roma del 1725, al quale la felice memoria di Benedetto XIII Predecessore Nostro, oltre i pastori della Provincia Romana, aveva convocato non pochi Arcivescovi, Vescovi, ed altri Ordinari immediatamente soggetti a questa Santa Sede. Inoltre lo stesso Pontefice colle sue Lettere Apostoliche fece al medesimo fine parecchie costituzioni, nominatamente per l'Italia e le isole adiacenti. A voi finalmente, Venerabili Fratelli, le risposte date più volte dalla Nostra Congregazione del Concilio a voi stessi o ai predecessori vostri, sopra le relazioni che solete fare di ciascuna diocesi alla Sede Apostolica, debbono aver chiaramente dimostrato come usi essa di congratularsi coi Vescovi, se presso di loro i Prebendati Teologi bene adempiano l'ufficio di leggere pubblicamente le Sacre Lettere, e come non mai intermette di eccitare e di aiutare le loro cure pastorali, se in questo siano riusciti men fruttiferi.
Ma per tornare alle Bibbie volgari, già da molti secoli era avvenuto che i sacri pastori fossero costretti in vari luoghi a una più severa vigilanza, o perché tali volgarizzamenti si leggevano in occulte adunanze, o perché gli eretici li andavano qua e là diffondendo. E qui giova ricordare le ammonizioni e le cautele adoperate da Innocenzo III, Nostro Predecessore di gloriosa memoria, sulle adunanze di laici e di donne che si facevano col pretesto di pietà e per leggere le Scritture nella diocesi di Metz e le particolari proibizioni di Bibbie volgari, che troviamo essersi fatte poco dopo in Francia, e prima del secolo decimosesto in Spagna. Maggiori provvidenze bisognarono allorché i luterani e i calvinisti, sorti ad impugnare con infinita varietà di errori l'immutabile dottrina della Fede, niente lasciavano intentato per ingannare i fedeli con le perverse spiegazioni dei Sacri Testi e con le versioni elaborate dai loro seguaci, aiutati a divulgarle rapidissimamente dal nuovo trovato dell'arte tipografica. E infatti nelle regole scritte da alcuni Padri a ciò deputati dal Concilio Tridentino, approvate dalla felice memoria di Pio IV Predecessore Nostro e premesse all'Indice dei libri proibiti, si legge con generica sanzione stabilito, che la lettura delle Bibbie volgari a quelli soli si permetta, cui si giudichi poter tornare in aumento di fede e di pietà. Alla qual regola, vieppiù ristretta dappoi per le continue frodi degli eretici, fu in ultimo per autorità di Benedetto XIV aggiunta la dichiarazione, che sia lecita la lettura di quelle traduzioni volgari le quali siano state approvate dalla Sede Apostolica, ovvero illustrate con note desunte dai Padri della Chiesa o da altri dotti e cattolici autori.
Non mancarono intanto nuovi settari della scuola di Giansenio, che ricopiarono le parole dei luterani e dei calvinisti e non temettero criticare questa tradizionale prudenza della Chiesa e della Sede Apostolica, quasi che il leggere le Scritture fosse cosa tanto utile e necessaria ad ogni condizione di fedeli, di luoghi e di tempi, da non poterle a nessuno interdire da qualsivoglia autorità. E questa audacia dei giansenisti fu rintuzzata con grave censura nei giudizi solenni che fra i plausi di tutto l'Orbe Cattolico fecero delle loro dottrine i due Sommi Pontefici di felice memoria Clemente XI nella Costituzione " Unigenitus " dell'anno 1713, e Pio VI in quella che comincia: " Auctorem fidei ", del 1794.
Così molto prima che le Società Bibliche si istituissero, i sopra memorati Decreti della Chiesa avevano premuniti i fedeli contro l'inganno, che gli eretici nascondono sotto quella speciosa apparenza di voler partecipare a tutti la lettura delle Divine Lettere. Poi il Nostro glorioso Predecessore Pio VII che vide nascere e già grandeggiare nel suo tempo quelle pericolose Società, non mancò di contrapporvisi, e con l'opera dei suoi Nunzi Apostolici e con parecchie lettere o Decreti emanati da diverse Congregazioni dei Cardinali di Santa Romana Chiesa, e con due Brevi Epistolari che scrisse agli Arcivescovi di Gnesma e di Mohilow; l'altro Predecessore Nostro Leone XII di felice memoria le riprovò nella Sua Enciclica a tutti i Vescovi del mondo cattolico emanata il 5 maggio 1824; e il medesimo fece di nuovo l'ultimo Nostro Predecessore di parimente felice memoria Pio VIII, nell'Enciclica del 24 maggio 1829. Noi finalmente, che con grande disuguaglianza di meriti succedemmo nel suo luogo, non abbiamo lasciato di rivolgere al medesimo scopole Apostoliche sollecitudini, e fra le altre cose procurammo che le regole un tempo stabilite sopra le versioni delle Sacre Scritture si richiamassero alla memoria dei fedeli.
Gran motivo abbiamo poi di rallegrarCi con voi, Venerabili Fratelli, perché eccitati dalla pietà e prudenza vostra, e confermati dalle Lettere sopracitate dei Nostri Predecessori, non trascuraste di ammonire, dove fu bisogno, il Cattolico Gregge, che si guardasse dalle insidie preparategli dalle Società Bibliche: per la qual diligenza dei Vescovi, e loro unione con le cure di questa Suprema Sede di Pietro, è avvenuto con la benedizione del Signore, che alcuni Cattolici, i quali inavvedutamente avevano favorito le predette Società, conosciutone poi l'inganno, se ne siano ritratti; e il rimanente del popolo fedele siasi conservato quasi immune dal contagio che per opera di quelle gli sovrastava. Speravano intanto a tutta certezza i settari biblici di acquistarsi gran lode inducendo comunque alla professione del nome cristiano gl'infedeli mediante la lettura dei Sacri Libri stampati nelle lor lingue volgari, che facevano in grandissimo numero di esemplari distribuire nei paesi da quelli dei loro missionari od esecutori destinati a tal uopo, e porre in mano anche a chi non ne volesse. Ma fu vano il disegno d'uomini che volevano propagare il Cristianesimo fuor delle regole da Cristo medesimo istituite. Sennonché poterono talvolta creare nuovi impedimenti ai sacerdoti cattolici che per missione di questa Santa Sede recandosi fra quelle genti non risparmiavano fatiche per generare nuovi figli alla Chiesa con la predicazione della parola di Dio e l'amministrazione dei Sacramenti, apparecchiati ancora a versare fra i più ricercati tormenti tutto il sangue in salute di quelli e in testimonianza della fede.
Or fra i settari medesimi che, delusi quasi del tutto nella loro aspettazione, ricordavano con dolore la grande quantità di denaro impiegata fin qui senza frutto per istampare e spargere le loro Bibbie, ve n'ebbero poc'anzi alcuni che disposero in nuova arte le loro macchine per volgere il primo assalto a sovvertire gli animi degli Italiani, e del popolo stesso di questa Nostra città. Tant'è: da notizie e documenti avuti di recente sappiamo con certezza che nel passato anno si unirono in Nuova York nell'America persone di diverse sètte, e il 12 giugno istituirono una Società col nome di Alleanza Cristiana, la quale poi accrescerebbero di nuovi soci di tutte le nazioni, anzi pure di nuove ausiliarie Società, aventi come quella per iscopo d'infondere nei Romani e negl'Italiani tutti lo spirito di libertà, a dir più vero, d'una folle indifferenza in fatto di Religione. Confessano essi, che da molti secoli tanto peso hanno per tutti gli istituti di Roma e di Italia che quanto di grande s'è diffuso pel mondo, tutto prese da quest'alma città il principio: ciò che vogliono provveduto non già dalla suprema Sede di Pietro qui stabilita per disposizione del Signore, ma da certi avanzi dell'antica denominazione romana che pretendono ravvisare nel potere usurpato, com'essi dicono, dai Nostri Predecessori. Per questo, avendo essi fermo in cuore di far dono a tutti i popoli di quella loro libertà della coscienza, ossia dell'errore, da cui come da sua naturale fonte anche la politica libertà discenda insieme con l'incremento della pubblica prosperità com'essi l'intendono, s'avvisano di nulla potere a quest'effetto, se prima non abbiano fatto qualche profitto fra gli Italiani e i Romani; la cui autorevole opera loro valga poi grandemente presso le altre nazioni. E ciò si lusingano di ottener facilmente mediante quei molti Italiani che si trovano sparsi nei diversi luoghi dell'Orbe, donde spesso parecchi di essi fanno alla patria ritorno: fra i quali sperano trovarne non pochi, che o già imbevuti dello spirito di novità, o corrotti nei costumi, od oppressi dall'indigenza, possano trarsi senza fatica ad ascriversi alla setta, od almeno a venderle l'opera loro. Pertanto rivolsero ogni cura a guadagnarsi quanti potessero di costoro perché con l'opera dei medesimi fossero qui recate Bibbie volgari e corrotte, e messe di soppiatto nelle mani de' fedeli; e insieme distribuiti altri pessimi libri e libelli con l'aiuto loro composti o tradotti, e tutti tendenti ad alienare la mente di chi legge dall'ossequio dovuto alla Chiesa ed a questa Santa Sede: fra i quali principalmente designiamo la " Storia della Riforma ", di Merle da Aubigné, e le "Memorie sulla Riforma in Italia", di Giovanni Cric. Del resto quali possano essere in genere questi libri si può intendere anche solo dalle prescrizioni del loro statuto, il quale, parlando delle peculiari adunanze destinate a scegliere i libri, vieta che in queste abbian mai luogo due persone della stessa denominazione religiosa.
Non appena Ci giunsero tali notizie non potemmo non rattristarCi gravemente alla riflessione del pericolo che vedevamo da quei settari apparecchiarsi per sedurre i cultori di nostra Santissima Religione, non solo nei luoghi lontani da Roma, ma presso questo centro medesimo della Cattolica unità. Poiché sebbene non abbia a temersi che mai venga meno la Sede di Pietro che Cristo, Signor Nostro volle fosse inespugnabile fondamento della sua Chiesa, non perciò è a Noi lecito di restarCi dal difenderne l'autorità; e inoltre l'ufficio stesso del Supremo Apostolato Ci ammonisce del conto severissimo che Ci chiederà il Divin Principe de' Pastori, se per Nostro difetto cresca nel campo del Signore la zizzania seminatavi, dormendo Noi, dall'uomo inimico e se alcune delle pecorelle a Noi affidate vadano quindi per colpa Nostra a perire.
Pertanto, tenutone consiglio con alcuni dei Cardinali di S. R. C. e disaminata la cosa con matura ponderazione, in conformità del loro parere deliberammo d'inviare a tutti voi, Venerabili Fratelli, questa Lettera con la quale condanniamo nuovamente con autorità Apostolica tutte le anzidette Società Bibliche già altre volte riprovate dai Nostri Predecessori, e colla stessa autorità del Nostro Supremo Apostolato riproviamo e condanniamo nominatamente questa nuova Società dell'Alleanza Cristiana istituita lo scorso anno in Nuova York e tutte le altre che siansi a quella unite o siano per unirvisi. Quindi facciamo a tutti noto, che si fan rei di gravissima colpa innanzi a Dio e alla Chiesa tutti coloro che ardiscono dare il nome a qualcuna di queste Società, o prestare ad esse l'opera loro, o il loro favore. Confermiamo di più e rinnoviamo con autorità Apostolica le già antecedenti prescrizioni circa lo stampare, divulgare, leggere e ritenere i libri delle Sacre Scritture tradotti in volgare; sulle altre opere poi di qualsivoglia autore richiamiamo a comune notizia, che si deve stare alle regole generali e ai decreti dei Nostri Predecessori che trovansi premessi all'Indice dei libri proibiti e che perciò non debbono solamente evitarsi quei libri, che trovansi particolarmente notati nell'Indice suddetto, ma altresì quelli, a cui si riferiscono le ricordate prescrizioni generali.
A voi poi, Venerabili Fratelli, come quelli che foste chiamati a parte della Nostra sollecitudine, raccomandiamo caldamente nel Signore di annunziare e spiegare secondo l'opportunità ai popoli alle vostre pastorali cure affidati, questo Apostolico giudizio e questi ordini Nostri e insieme di adoprarvi con tutto lo zelo per tener lungi i fedeli da questa Società dell'Alleanza Cristiana e sue ausiliarie, come pure dalle altre suddette Bibliche Società, e da ogni comunicazione con esse. Quindi starà pure a voi di togliere dalle mani dei fedeli le Bibbie volgari pubblicate contro le sopraddette sanzioni dei Romani Pontefici, e gli altri libri qualunque siano proscritti o dannosi, con provvedere cosi che i fedeli medesimi dai vostri avvertimenti e dalla vostra autorità pastorale apprendano qual pascolo debbano tenere per salubre, quale per nocevole e mortifero. Intanto, o Venerabili Fratelli, siate ogni di più costanti nel predicare la parola di Do, e nel farla predicare dai singoli parroci delle Nostre Diocesi e da altri idonei ecclesiastici; e massimamente vegliate con attenta cura su quelli che sono destinati a tenere al pubblico lezioni di Sacra Scrittura, perché compiano con diligenza l'ufficio loro secondo la capacita degli uditori, ne ardiscano mai con qualunque pretesto interpretare e spiegare le Divine Scritture contro la Tradizione de' Padri, o in senso diverso da quello che tiene la Chiesa Cattolica. Infine, essendo del buon pastore non solamente custodire e pascere le pecorelle aderenti al suo fianco ma anche il cercare e ridurre all'ovile le traviate, sarà parimenti Nostro e vostro dovere il rivolgere con tutto l'impegno le cure pastorali su quelli ancora che si lasciarono sedurre da settari e propagatori di libri nocivi, affinché colla grazia di Dio conoscano la gravezza del proprio peccato e procurino d'espiarlo coi salutari rimedi di penitenza: che anzi neppure dobbiamo escludere da questa sacerdotale sollecitudine i seduttori di quelli e gli stessi principali maestri d'empietà; de' quali sebbene sia più grave l'iniquità, non però dobbiamo cessare dal cercarne la salvezza per ogni via e modo che possiamo.
Del resto, o Venerabili Fratelli, contro le insidie e le macchinazioni dei Soci dell'Alleanza Cristiana, Noi chiediamo più pronta e speciale vigilanza da quelli fra voi che governano Chiese di Italia o d'altri luoghi ove gli Italiani più spesso convengono, massime sui confini d'Italia e ovunque siano mercati o porti, donde sono più frequenti i passaggi in Italia. Perocché essendo intendimento di quei settari di ivi mettere in effetto i propri disegni, fa d'uopo che i Vescovi di quei luoghi principalmente con alacrità e costanza si affatichino insieme con Noi per dissiparne coll'aiuto del Signore le trame.
Non dubitiamo poi che alle Nostre e vostre cure risponderà l'aiuto delle civili potestà e quello specialmente dei potentissimi Principi d'Italia: si per l'impegno onde sono animati a sostenere la cattolica Religione, si perché non isfugge alla loro prudenza, quanto importi al bene ancora ed alla tranquillità dei propri Stati che tornino vani gli sforzi dei sopraddetti settari. Poiché è ormai chiaro e comprovato da una ben lunga esperienza dei tempi passati che a ritrarre i popoli dalla fedeltà e obbedienza verso i lor Principi non v'ha mezzo più agevole della indifferenza di religione che i setta ripropagano sotto il nome di libertà religiosa. E questo neanche dissimulano i novelli soci dell'alleanza Cristiana; i quali sebbene si professino alieni dall'eccitare civili sedizioni, pure confessano che dal rendere comune ad ognun della plebe l'arbitrio di interpretare le Scritture e dal diffondere cosi fra gli Italiani quella che essi chiamano la totale libertà di coscienza, ne verrà spontaneamente anche la libertà politica dell'Italia.
Ma, quel che importa sopra tutto, solleviamo insieme, o Venerabili Fratelli, le mani al Signore, e a Lui raccomandiamo la causa nostra e di tutto il suo gregge e della sua Chiesa con ogni possibile umiltà di fervide preghiere, invocando ancora la mediazione pietosissima di Pietro, Principe degli apostoli, e degli altri Santi, e principalmente della Beatissima Vergine Maria, cui fu dato di abbattere tutte le eresie nel mondo universo.
Finalmente, siccome pegno d'ardentissimo amore, nell'effusione del Nostro cuore, diamo a voi, Venerabili Fratelli, e al clero, e al popolo delle Chiese alle vostre cure affidate, l'Apostolica Benedizione.
Dato in Roma, presso San Pietro, il dì 8 Maggio 1844, l'anno XIV del Nostro Pontificato.
GREGORIO XVI (Bartolomeo Alberto Cappellari) Papa
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Belluno, 18 settembre 1765 – Roma, 1° giugno 1846 -
Papa dal 06/02/1831 al 01/06/1846:
nato a Belluno, governò la Chiesa negli anni in cui si posero le premesse del Risorgimento, con le insurrezioni di diverse città, che proclamarono lo Statuto costituzionale provvisorio delle province italiane. Gli austriaci e i Sanfedisti ristabilirono il potere pontificio.
GREGORIO XVI, è finora l’ultimo papa proveniente da un Ordine religioso; la sua elezione avvenne dopo un lungo conclave, durato cinquanta giorni e cento scrutini, senz’altro il più lungo degli ultimi due secoli, della storia dei Papi della Chiesa Cattolica e quando fu eletto non era nemmeno vescovo.
Bartolomeo Alberto Cappellari, nacque a Belluno il 18 settembre 1765, a 18 anni, nel 1783, entrò nel monastero dei camaldolesi di San Michele a Murano (Venezia), prendendo il nome di fra’ Mauro; fu ordinato sacerdote nel 1797, ricoprendo poi man mano, varie cariche nell’Ordine fondato da san Romualdo nel 1012.
Nel 1799, nell’epoca della Rivoluzione Francese, pubblicò “Il trionfo della Santa Sede”, difesa del potere temporale e dell’infallibilità papale, contro febroniani e giansenisti.
Trasferito a Roma nel 1814, come abate nel monastero di S. Gregorio al Celio, nel 1823 fu eletto Vicario Generale dei Camaldolesi; molto apprezzato da papa Leone XII (1823-1829), fu creato cardinale nel 1826 col titolo di San Callisto, pur rimanendo solo sacerdote e frate, secondo le possibilità permesse allora e subito dopo il papa lo nominò Prefetto di Propaganda Fide, il dicastero importantissimo, a cui fanno capo tutte le attività missionarie nel mondo.
E con questo prestigioso incarico, fu candidato al conclave, seguito alla morte di papa Leone XII (10 febbraio 1829), ma gli fu preferito alla fine, per l’influsso delle Potenze europee, il cardinale Castiglioni, Penitenziere Maggiore e Prefetto dell’Indice dei libri proibiti, che prese il nome di Pio VIII (1761-1830), ma fu solo un rimando, perché papa Pio VIII, seppure non tanto anziano, era afflitto da vari mali, che lo portarono alla tomba il 30 novembre 1830, dopo solo 20 mesi di pontificato.
La brevità del pontificato non diede l’opportunità di un ricambio cardinalizio, per cui i porporati che si presentarono al conclave, aperto il 14 dicembre 1830, erano praticamente gli stessi del conclave precedente, con gli stessi schieramenti dei “zelanti” e dei “moderati o politici”, questi ultimi influenzati dalle Potenze europee, specie l’Austria.
I contrasti fra le due fazioni, furono lunghi e molteplici, per cui venne a mancare sui candidati dei due gruppi di cardinali, la necessaria convergenza per raggiungere il numero di voti utili per l’elezione.
Dopo 50 giorni e cento scrutini, alla fine uscì eletto un nuovo candidato proposto in alternativa; la scelta cadde sul cardinale camaldolese frate Mauro Cappellari, (al secolo Bartolomeo Alberto Cappellari), il quale accettò solo dopo essere stato convinto dal cardinale Vicario Bartolomeo Zurla, anch’egli camaldolese, che a nome del Padre Generale dell’Ordine, gli disse di accettare per la santa obbedienza; e il 2 febbraio 1831, con 32 voti favorevoli su 42 presenti, egli fu eletto 254° successore di Pietro, prendendo il nome di Gregorio XVI, in omaggio a S. Gregorio Magno, a cui era dedicato il monastero romano, del quale era stato abate.
Il 6 febbraio 1831, Gregorio XVI fu prima consacrato vescovo e poi incoronato; contrariamente al suo predecessore, che aveva scelto di abitare al Quirinale, egli stabilì la sua residenza nel Palazzo Apostolico del Vaticano.
Il suo fu un pontificato di discreta durata, quasi 16 anni e i problemi, riflettendo le inquietudini del tempo, non mancarono, anzi cominciarono già con il conclave ancora in corso, volendo escludere le manifestazioni e gli atti inconsulti, fatti dai romani davanti alle lungaggini dell’elezione.
Non era stato ancora insediato nella carica, che il 4 febbraio a Bologna, scoppiò un vasto moto rivoluzionario; erano state abbattute le insegne pontificie al grido di “Viva la libertà”, facendo la comparsa la coccarda tricolore.
Nonostante alcune concessioni, fatte dal prolegato mons. Nicola Paraccini, a nome del cardinale legato, presente a Roma per il conclave, tra il 5 e il 9 febbraio i moti dilagarono in Romagna, Umbria e Marche.
Il pontificato non cominciava bene; sebbene restio ad azioni di forza, quando tutti i Sommi Pontefici, appena eletti erano usi concedere grazie, favori e benefici al popolo dello Stato Pontificio, papa Gregorio XVI, alla fine con l’aiuto delle truppe austriache, represse i moti con l’operato del nuovo Segretario di Stato card. Tommaso Bernetti; ci furono arresti diffusi, con processi e condanne a morte, commutate nella pena dell’esilio.
Anche a Roma, i liberali tentarono il 12 febbraio, di approfittare della confusione determinata dal Carnevale e le sfilate relative, per provocare un’insurrezione, ma il papa si mosse con autorità per reprimerla, con l’aiuto del popolino di Trastevere.
Anche Carlo Luigi Napoleone (il futuro imperatore Napoleone III), già nel periodo di “sede vacante”, che intercorre fra la morte di un papa e l’elezione del successore, aveva progettato un’insurrezione, mirando alla conquista di Castel Sant’Angelo e all’instaurazione a Roma, del centro di un ‘Regno d’Italia’; ma la congiura era fallita e l’11 dicembre 1830, Carlo Luigi Napoleone scoperto, fu espulso da Roma e raggiunse a Firenze la madre e il fratello Luigi entrambi in esilio; i due fratelli, particolarmente Luigi il maggiore, scrissero al nuovo papa, invitandolo a rinunciare al potere temporale, continuando a fomentare i simpatizzanti liberali; dopo un po’ Luigi Napoleone morì a Forlì, mentre il fratello Carlo Luigi Napoleone in fuga, trovò asilo a Spoleto.
Si era nei primi tempi del Risorgimento, che specie a Roma vide fra i protagonisti più assoluti, il suo successore papa Pio IX, che governò più a lungo di tutti i papi della storia (quasi 32 anni); ma toccò a Gregorio XVI affrontare i primi moti risorgimentali nello Stato Pontificio; egli non ascoltò le sollecitazioni dei sovrani d’Austria, Francia, Inghilterra, Prussia e Russia, a fare concessioni e riforme profonde; era persuaso che si trattava di pochi ribelli senza peso.
La Curia Romana era convinta che le nuove idee liberali mettevano in dubbio la Chiesa, la religione e l’autorità, e pertanto erano totalmente da respingere. E in questo senso si espresse il papa, superando i limiti tenuti dai suoi predecessori; con la sua enciclica “Mirari vos” del 15 agosto 1832; Gregorio XVI condannò non solo il razionalismo, il gallicanesimo e l’indifferentismo, ma anche la libertà di coscienza, definita “pestilentissimo errore”; la cui strada era stata aperta dalla crescita della libertà d’opinione, egualmente pericolosa per la Chiesa e per lo Stato.
L’ipotesi che da questo tipo di libertà, potesse derivare una qualche utilità per la religione, venne respinta come “somma impudenza”, senza dare ulteriori spiegazioni; egualmente il papa condannava la separazione tra Stato e Chiesa e la diffusione dei libri critici, respingendo con inusitata durezza, ogni forma di sollevazione contro le autorità legittime.
Con questa enciclica e con altri interventi di magistero, di papa Gregorio XVI e poi di Pio IX, venne messa in atto una severa distinzione tra il cattolicesimo e le istanze spirituali e politiche del mondo moderno, sulla base di una linea di difesa autoritaria, che cercava di sopprimere la discussione. Il ministero petrino venne quindi coinvolto in ambiti, che spesso esulavano dalle sue competenze.
Vi furono per questo, vari provvedimenti atti a controllare l’insegnamento in genere e la formazione sacerdotale in seminari strettamente dipendenti dall’autorità ecclesiastica, vari teologi europei di chiara fama, Bautain, George Hermes, soprattutto La Mennais, ebbero condannate le loro idee e tesi.
Il sistema retrivo di governo, portò nel tempo una crisi totale dell’agricoltura, dell’industria e del commercio in tutto lo Stato Pontificio; il bilancio statale a partire dal 1831, andò man mano aggravandosi e per rimediare si ricorse alla pressione fiscale, contraendo prestiti all’estero e aumentando lo scontento fra la popolazione; i moti rivoluzionari ricominciarono e allora fu chiesto l’intervento dell’esercito austriaco, facente parte della Santa Alleanza, che soffocò nel sangue le rivolte nelle varie regioni dello Stato Pontificio.
A tutto questo si aggiunse l’epidemia di colera di quegli anni, così fra le repressioni dei moti e l’epidemia, i morti furono migliaia; le agitazioni per la libertà di espressione e per uno stato moderno, libero dalle costrizioni del potere della Chiesa, con le relative operazioni di polizia ed esercito, condanne ed esili, durarono per tutto il periodo del suo pontificato, pur conoscendo la novità di un movimento liberale e moderato, ad opera di Massimo D’Azeglio, che cominciava ad affacciarsi alla scena politica piemontese e della penisola.
Papa Gregorio, ebbe anche aspri contrasti con alcuni Paesi europei (rottura delle relazioni diplomatiche con Spagna e Portogallo, per la legislazione anticlericale dei governi di Maria Cristina e Maria da Gloria, 1835/1840, frizioni con la Prussia per la questione dei matrimoni misti; scontro con il governo russo, che mirava a riportare all’ortodossia la Chiesa Rutena (greco-uniate).
In campo religioso, papa Gregorio XVI impresse un vivo impulso all’azione missionaria cattolica, specie nell’America del Nord e in Inghilterra; istituì oltre 500 diocesi con vescovi, in Asia, America, Africa e Oceania.
Abolì l’uso indegno di affiggere fuori dalla chiesa di S. Bartolomeo all’Isola, gli elenchi di coloro che non avessero fatto il precetto pasquale; portò la maggiore età da 25 a 21 anni.
Durante il suo pontificato, proclamò Santi: Alfonso Maria de’ Liguori, Francesco De Geronimo, Giovan Giuseppe della Croce, Pacifico di San Severino, Veronica Giuliani.
Diede impulso e cura alle opere pubbliche, come la rettifica del corso dell’Aniene a Tivoli, che restava spesso allagata, è ricordato in questa città, dalla suggestiva Villa Gregoriana; realizzò i lavori alla foce del Tevere e al porto di Civitavecchia, completò il monumentale cimitero del Verano; incentivò gli sacvi delle Catacombe e del Foro Romano, fondò il Museo Egizio ed Etrusco in Vaticano.
Proveniente da un Ordine religioso, favorì in tutti i modi la loro ricostituzione; soprattutto quella della Compagnia di Gesù, che con il suo Padre Generale, l’olandese Giovanni Roothaan, poté ricostituire le proprie numerose province e riprendere l’attività missionaria.
Ammalato e con dolori strazianti per una forma cancerogena al naso (i ritratti mostrano un naso singolarmente appuntito e leggermente più lungo), il vecchio papa diceva pochi giorni prima di morire: “Voglio morir da frate, non da sovrano”; Gregorio XVI morì il 1° giugno 1846, dopo sedici anni di regno e pontificato, ad 81 anni.
Fu sepolto in San Pietro in un grande mausoleo; non fu certamente ben visto dai sudditi, per la chiusura delle sue idee conservatrici e per la durezza di sovrano temporale di uno Stato, che si avviava lentamente al disfacimento, dopo secoli e secoli di storia; numerose “pasquinate” circolarono dopo la sua morte come epitaffio, la più dura fu “Novo Sardanapal, beato in trono, / più che di Cristo adorator di Bacco, / giacque, e ai nemici non lasciò perdono”.
[Autore: Antonio Borrelli - da "SANTI, BEATI, TESTIMONI ON LINE"]