INDICE
[INQUISITORI GENERALI DEL SANT'OFFICIO IN GENOVA NEL XVII SECOLO]
1 - RELAZIONI IN GENOVA DAL XVI AL XVII SECOLO TRA STATO E SANTA INQUISIZIONE
2 - L'INQUISITORE DI GENOVA PADRE PIETRO MARTIRE RICCIARDI: TRA ARMI E VIOLENZE I CONTRASTI DI STATO E SANTA INQUISIZIONE
3 - L'INQUISITORE DI GENOVA PADRE DOMENICANO AGOSTINO CERMELLI: LA "QUESTIONE DEGLI EBREI" E "IL PORTOFRANCO"
4 - L'INQUISITORE DI GENOVA PADRE DOMENICANO MICHELE PIO PASSI DAL BOSCO: L'ESPULSIONE DALLA SERENISSIMA REPUBBLICA DI GENOVA DI UN INQUISTORE OPERANTE OLTRE LE PROPRIE LEGITTIME FUNZIONI
5 - L'INQUISITORE DI GENOVA PADRE DOMENICANO SISTO CERCHI DA BOLOGNA: I PROBLEMI DEL NOTAIO LAICO, DELL'ASSISTENZA DEI "PROTETTORI" AI PROCESSI DELL' INQUISIZIONE, DELLA CONCESSIONE DI UN "BARGELLO" PERMANENTE ALL'INQUISITORE ECCLESIASTICO
6 - L'INQUISITORE DI GENOVA PADRE DOMENICANO TOMMASO MAZZA: CONTRASTI STATO E CHIESA SU SACRILEGI, ALCHIMIA, MAGIA E MAGISMO, POTERI DELLA CALAMITA, TEORIE DI SIMPATIA ED ANTIPATIA NEL MACRO E NEL MICROCOSMO ECC.
7 - L'INQUISITORE DI GENOVA PADRE DOMENICANO TOMMASO MAZZA:LA RATIFICA DEL CONCORDATO DEL 1678 TRA REPUBBLICA DI GENOVA E PAPA INNOCENZO XI
8 - RICOSTRUZIONE DELLA PRASSI DEL TRIBUNALE DELL'INQUISIZIONE DI GENOVA NEL XVII SECOLO
"Perchè sentiamo pullular qualche germoglio di eresia in la città nostra, che ha avuto origine da qualche indiscreto o mal cauto predicatore, esendo l'inquisitore ordinario persona ancora da bene, fredda e alquanto timida, e per avventura anche più, per essere forestiere. Desiderosi provvedere al nascente male, et estinguerlo, et resecarlo prima chel pigli vigore e per mantenere incorrotta questa fede, che da che l'habbiam presa mai si è violata in la nostra città, vogliam pregare la vostra Reverenda paternità si contenti darci per inquisitore il venerabile fra Stefano Usodimare dell'ordine d'osservanza il quale, per la bontà di vita, costumi, dottrina et autorità et per pratica che come cittadino ha delli humori delle terra giudichemo molto atto et idoneo in questo ufficio.
Il rescritto, di duce e governatori, di Genova risale al 14 aprile 1539 e costituisce un documento importante: fu spedito al vicario generale dei predicatori di Genova il 14 aprile 1539 e, come afferma Romano Canosa, cui molto debbono queste pagine, rappresenta la prima attestazione dell'individuazione di qualche fermento ereticale in una città come la capitale della Repubblica Ligure mediamente rimasta ai margini del fiammeggiante contrasto fra Riforma e Controriforma.
Ai giorni nostri, forse per gli atti pubblici di pentimento di un pontefice grande come Giovanni Paolo II, intorno al tema dell'Inquisizione solitamente interpretato in modo orrorifico (anche per una certa illuministica enfatizzazione) si è prodotta una scuola, una linea forse di dimensionamento talora cauto (A. Prosperi) talora esasperato (R. Cammilleri): anche un personaggio come U. Eco, a riguardo della fiugura di Bernardo Guy nel suo romanzo, "Il nome della rosa" è stato tirato in ballo, quale un esacerbatore polemico di responsabilità inquisoriali ecclesiastiche.
In poche parole si è disquisito tanto ma manipolando i dati a proprio uso e consumo: qualcuno, ma non tanti, ha avuto almeno l'acutezza di distinguere tra le varie forme di Inquisizione che si sono succedute nei secoli.
Certamente l' Inquisizione spagnola ha conosciuto, anche per i suoi peculiari collegamenti con il potere regio iberico, livelli di superiore efferatezza ma il fenomeno ha conosciuto, in modi seppur variati, espressioni significative in tutto l'ecumene della cattolicità: senza nulla togliere alla pesantezza spesso obliata delle persecuzioni attuate da riformati e protestanti non si può sottacere nè dimensionare senza esser tacciabili di parzialità la portata reale di un fenomeno di cui un moderno pontefice romano si è "scusato" agli occhi del mondo, sfruttando tutta la potenza dei supporti mediatici.
E' inutile comunque dissentire, spesso sembrerebbe un parlare a sordi: in questo nonstro momento storico si può solo cercare di vagliare per quanto possibile, a fronte della dispersione di tanti documenti, la portata del fenomeno, ma non trasformarlo da "leggenda nera" in "leggenda rosea": sarebbe culturalmente e scientificamente disonesto.
Angelico Aprosio, che fu Vicario della Santa Inquisizione, e che pur tuttavia non ebbe affatto l'animo del carnefice, visse con timore e tremore questa esperienza ma la visse e vi si adeguò in un contesto in cui la sostanza basilare era il conseguimento della pubblica catarsi in un contesto di contrapposizioni e parallelamente di interazioni fra Stato e Chiesa il cui scopo finale era il controllo della coscienza delle masse esercitato attraverso l'ostentazione delle pubbliche pene dei reprobi e quindi l'ammonimento a non replicarne i reati per non patirne i castighi.
Qualche studioso (soprattutto R. Cammilleri) ha pervicacemente cercato di dimostrare che l'intervento inquisitoriale ecclesiastico era quasi sempre una forma estrema per calmierare la reale portata delle responsabilità del potere istituzionale laico: non è cosa del tutto falsa (in Liguria nel caso del "processo alle presunte streghe di Triora" Stato genovese ed Inquisizione hanno gareggiato nel perpetrare nefandezze, ed è difficile arguire chi abbia raggiunto i vertici estremi) ma neppure è argomento assolutamente vero.
I governanti di Genova ambivano alla presenza di Ebrei nel loro porto, specie quando la crisi diventava via via più corposa per la piazza commerciale di Genova: ma il Padre Inquisitore di Genova ancora nel XVII secolo si appellò ad ogni risorsa pur di perseguire e condannare Ebrei che andavano fuggendo dai paesi iberici in cui eran diventati vittime quasi sacrificali.
Come prima detto è però arduo gestire un dibattito in cui l'ideologia di parte sempra prevalere sul buon senso della ragione: meglio conviene attenersi ai fatti e notare come l'Inquisizione (di per sè discutibile, come ogni forma di controllo sulle coscienze e sulle credenze, religiose e non) si sia spesso inasprita per lo scontro temporale contro l'istituzione statale.
Mediamente si raccoglie per queste riflessioni il caso di Paolo Sarpi e del contesto veneto, eppure, analizzando la storia della Repubblica di Genova, tra XVI e XVII secolo si riscontra una serie di contenziosi che contrapposero Stato e Sant'Ufficio (e quindi Santa Sede) sul percorso di temi principalmente temporali, laddove l'autorità censoria ecclesiastica mirava costantemente di sfuggire al controllo di uno stato che, occorre dirlo, negli interventi punitivi era generalmente meno rigoroso e severo.
Dopo l'accoglimento della petizione citata a guisa di proemio, in Genova, si cominciarono ad individuare i primi atti di notai pubblici concernenti processi per eresia e subito si individuano i presupposti di un attrito, basato sulla volontà dell'Inquisizione d'operare con larga autonomia e soprattutto nel contesto di un asssoluto garantismo.
Da qui derivò la prima fonte di contenziosi: la presenza di notai laici collegiati in questi procedimenti inquisitoriali ecclesiastici (la loro presenza era sancita come inevitabile in occasione dell'applicazione della tortura come già indicato dal capitolo XV degli Statuti Criminali Genovesi del 1556 i quali parimenti già postulavano oltre che una lotta attenta contro azioni sacrileghe ed atti blasfemi in altro capo la collaborazione dello Stato con l'Inquisitore Ecclesiastico, tramite la concessione del Braccio Secolare cioè della forza di polizia statale, ferma però restando la sanzione della salvaguardia dell'autonomia statale in procedimenti avverso gli avvelenatori anche quando questi potevano esser sospettati qual frutti d' azioni diaboliche di streghe e maghi) venne evitata dai padri Inquisitori subdolamente servendosi di ben più gestibili notai frati per nulla obbligati a dar rendiconto all'autorità statale.
Dalla sostanziale acquiescenza di Genova nel primo XVI secolo il Tribunale dell'Inquisizione ottenne un potere che valicava la liceità dei fatti e presupponeva un agire giuridicio estraneo alle normative giuridiche della nazione: come già si intravvede dai primi eventi di un qualche peso sociale.
Tra i primi si trova citato il conte Giacomo Fieschi soggetto ad inquisizione per aver sostenuto, sulla pericolosa linea degli assiomi luterani, che le indulgenze altro non fossero che Furfanterie inventae ad colligendas pecunias cioè denari mentre le reliquie nulla avrebbero rappresentato di sacro sì che si sarebbero dovute inumare nei cimiteri con le altre osse e la quaresima non sarebbe stata da venerare in alcuna maniera.
Come scrive il Canosa "Il 6 giugno il Fieschi fece l'abiura davanti all'Usodimare e al vicario del vescovo, come sospetto veementemente di eresia, e dichiarò di aver espresso le opinini imputategli senza alcun animo di allontanarsi dalla santa madre chiesa e dalla comunità dei fedeli. Venne condannato ad un mese di carcere e per carcere gli venne data la città di Genova dalla quale gli venne vietato di uscire "sine licentia inquisitoris, nisi forte pro substentatione suae familiae. Nel contempo gli vennero imposte le solite penitenze salutari" (tra cui l'esame di coscienza).
Il Fieschi non era però stato l'unico inquisito, con lui quali rei erano coinvolti altri personaggi che però, essendo fuggiti dalla città il 14 aprile, erano stati giudicati in separata sede: si trattava di Giorgio Vivaldi Costa e di Bartolomeo Alesso, di professione farmacista (speziale): fu quest'ultimo ad essere colpito dalle accuse più gravi, atteso che gli erano state mosse quelle di aver ospitato nella sua bottega gruppi di uomini sospettati di eresia ed in particolare d'aver funto da cassiere per una delle primissime società di luterani attivate a Genova.
A quanto scrive il Canosa i due tornarono nella capitale e si sottomisero all'autorità della Chiesa: ma non sopravviverebbero documenti attestanti la prosecuzione della loro storia.
Un'altra persona coinvolta in accuse di apostasia fu poi il notaio G.B.Ponte che, stante l'accusa, oltre che di concetti ereticali si sarebbe macchiato di blasfemia avverso i santi: la sua posizione si sarebbe rivelata assai presto difficile atteso che non si sarebbe astenuto dal proclamare che il culto sarebbe stato da conferirsi solo verso il Cristo, onde intercedesse presso il Padre, e contestualmente si sarebbe lasciato andare a considerazioni benevele sia a pro di Melantone che Lutero.
Il notaio sostenne abbastanza bene la sua difesa affermando che, era stato frainteso dai testimoni, e che cioè mentre indiscutibilmente giammai s'era messo a patrocinare gli eresiarchi luterani, veramente aveva anteposto il culto a Cristo rispetto a quello per i santi, ma basando la sua affermazione sul principio inconfutabile che mentre Cristo costituiva la perfezione, nella vita della gran parte dei santi si potevano pur ravvisare attimi di cedimento tali che le loro azioni potevano essere da non imitare in modo assoluto: dovette esser ascoltato dagli inquirenti visto che non gli furono comminate altro che le penitenze canoniche e in dettaglio di pregare quotidianamente nella cappella dei Santi Giovanni e Sebastiano rispettando i digiuni istituzionali.
Sempre il Canosa (p.133)rammenta un caso più complesso ma di cui non è nota la conclusione per quanto si sappia che la sentenza nei suoi riguardi venne pronunciata il 24 gennaio 1541: questo caso coinvolse un certo Nicolò Casero cui furono mosse diverse e pericolose accuse. In primis di aver negato che nel sacramento dell'eucarestia vi fosse il reale corpo di Cristo, quindi che il celibato ecclesiastico rappresentava un errore ed ancora che la salvezza poteva avvenire solo per effetto della fede e non delle buone opere. A fronte di una postazione ideologica tanto vicina a quella degli scismatici l'arresto fu inevitabile e con questo la carcerazione. Il Casero si difese, giocando come molti altri sulla propria buona fede traviata e da una sostanziale semplicità intellettuale facile preda degli inganni altrui: in definitiva demandò ogni responsabilità a non meglio identificati predicatori.
Concludendo la sua selezione il Canosa registra ancora il caso di un maestro d'abaco, certo Battista da Musasco che (come risulta dai rogiti del notaio Usodimare-Granello in Archivio di Stato di Genova) si sarebbe spresso contro le indulgenze e le confessioni giudicate inutili per la salvezza a pro della quale sarebbe bastata la sola fede: nonostante la gravità delle imputazioni anche questo personaggio non subì punizioni che travalicassero la purgazione canonica, dovendo porsi in ginocchio a giurare di non aver sempre prestato ascolto alla chiesa romana e di non aver giammai considerate valide le idee imputategli.
Sempre sulla base del Canosa si può constatare l'incremento della documentazione su procedimenti dell'inquisizione ecclesiastica a partire dagli anni cinquanta del XVI secolo.
In data 4 settembre 1556 il pontefice romano inviò tre brevi di cui uno al doge di Genova, un secondo ad Aurelio da Crema, vicario degli eremitani di S. Agostino per la Lombardia ed il terzo ad Egidio Crapulano vicario dell'arcivescovo genovese.
Il contenuto dei brevi pontifici era pressoché identico e concerneva il comportamento degli eremitani di S. Agostino operanti nel loro convento di Genova.
La prima lettera del papa, dopo i ringraziamenti quasi rituali a doge e governatori di Genova, nell'operare con zelo e rispetto della fede cattolica comportava la richiesta alla Signoria di allontanare dalla loro sede in città gli eremitani di S. Agostino giudicati responsabili di aver condotto "impura e flagitiosa vita" oltre c'essersi reiteratamente macchiati di "detestabile haereticae pravitatis scelus": al loro posto sarebbero succeduti gli eremitani della Osservanza della provincia di Lombardia all'opposto ritenuti "fidei integritate simul et morum honestate probati".
Contestualmente ad Aurelio da Crema venivano date opportune istruzioni su come comportarsi in questa surroga atteso che che gli espulsi erano reputati impuri "propter tantam morum ac vitae turpitudinem haereticae etiam pravitatis labe et ispsi polluti esse et alios in ea civitate corrumpere et contaminare dicuntur.
Il rescritto al vicario dell'arcivescovo di Genova semplicemente era arricchito dalla sfiduciata considerazione papale che, essendo stati sordi ad ogni ammonimento e richiamo, gli Agostiniani genovesi da espellere erano verisimilmente irrecuperabili alla fede più pura.
I religiosi cacciati da Genova non si rassegnarono però e avendo importanti protezioni in città si adoperarono per riprendere possesso del loro cenobio: così il governo genovese, cui non erano state estranee pressioni sul pontefice per quella punizione, si appellarono a mons. Benedetto Lomellino, che curava in Roma gli interessi di Genova, spedendogli una memoria contenente le "malefatte" dei frati espulsi. Stando al rescritto della Signoria quei frati si erano pubblicamente macchiati "così di heresia come di altri difetti importanti" da portare scandalo per tutta la città ligure, con detrimento della fede e delle frequentazioni della chiesa da parte dei fedeli.
La situazione non si risolse affatto: di fronte alle insistenze degli espulsi il governo genovese tentò una mediazione chiedendo al priore del convento se non bastasse allontanare i religiosi più "discoli ma quest'ultimo rispose che non si potevano fare dei distinguo tra religiosi che avevano perduta la retta via.
L'opposizione era però forte e quello stesso priore dovette relazionare il governo che lui stesso, attesa la posizione presa, era stato accusato di eresia innanzi il vicario episcopale e l'inquisitore sì che era stato obbligato a far abiura nella chiesa di Nostra Signora delle Vigne.
La vendetta degli espulsi non fu però senza ritorsioni: essi stessi vennero processati ed in particolare un frate venne condannato alle "galere.
Sulla base di queste conclusioni processuali il governo genovese pensò d'aver via libera alla definitiva cacciata degli agostiniani genovesi, valutando che era stato accerto che da un certo arco di tempo anche "vi erano stati otto o dieci priori convinti di eresia".
Tuttavia le rimostranze genovesi nulla poterono col tempo alla volontà pontificia di riconciliare lo stato delle cose sì da reintegrare nel loro convento i vecchi occupanti: vedi G. Bertora S.J., Il tribunale inquisitorio di Genova e l'Inquisizione romana nel '500 (alla luce di documenti inediti), in "La civiltà cattolica", 18 aprile 1953, n. 2468, p. 173 e seguenti.
I fermenti non erano però destinati a cessare e vennero ad emergere altri problemi, causa di contrasti crescenti tra Chiesa e Stato.
L'abate della chiesa di San Matteo di Genova, nel frattempo, fu denunciato quale eretico alla Congregazione del S. Uffizio di Roma e come d'uso gli venne ingiunto di recarsi nella città capitolina entro il periodo canonico di 30 giorni.
La Signoria genovese, intendendo difendere la propria autonomia ed il diritto a non far giudicare in terra starniera suoi sudditi estradati, si adoprò per far revocare quell'ingiunzione.
In particolare tramite i servizi dell'ambasciatore di Genova a Roma, Ansaldo Giustiniano, si cercò di segnalare alle competenti gerachie romane non solo lo zelo e l'ortodossia dell'abate ma soprattutto il fatto che siffatta accusa era più probabilmente dovuta ai maneggi del potente cardinale Cicala desideroso di trar vendetta dell'abate che era riuscito a far valere contro di lui, amministratore apostolico di Albenga, alcune giuste ragioni di Genova (vedi anora Bertora, cit, p. 181).
Genova come extrema ratio tentò di evitare l'estradizione arrogandosi il diritto di giudicare nel suo territorio il presunto reo ma i risultati non le diedero ragione: i desideri di Roma prevalsero anche se sulla vicenda sarebbe scesa un'ombra di indecifrabilità non dissipata dal Bertora e neppure da Canosa.
E problemi si ebbero anche nelle colonie, per esempio nell'isola di Chio laddove sorti contenziosi fra l'inquisitore ed i rappresentanti genovesi in prima istanza si intimò all'inquisitore ma anche al commissario vescovile e a due frati domenicani di lasciare l'isola: fu una scelta che Roma rigettò ottenendo la revoca dell'espulsione.
Del resto la stessa Signoria di genova non fece tanta opposizione: ci si premurò anzi di invitare le autorità di Chio di garantire non solo pacifica convivenza con l'Inquisizione ma di soccorrerla in certe necessità atteso che costituiva un antemurale della cristianità in un contesto geopolitico su cui gravitava la formidabile marea dell'espansionismo turco.
Poiché era evidente a tutti che, data la lontananza dal Dominio di terraferma, Chio come altre basi levantine di Genova poteva trovare difficoltà a risolvere eventuali dissapori tra locale autorità civile ed ecclesiastica si cercò per ogni parte di mediare e l'Inquisitore di Genova, il padre domenicano Gerolamo De Franchi, ritenne opportuno inviare agli amministratori dell'isola una sua "memoria" che riportava indicazioni per il podestà colà residente su come comportarsi in maniera di conformarsi alla procedura seguita in territorio metropolitano nel caso di procedimenti in materia di fede.
Ancora il Canosa (traendo spunto dai dati del Bertora) cura di evidenziare la valenza documentaria di siffatta "memoria", che finì per costituire uno dei non frequenti punti saldi cui ci si ancorò giuridicamente nell'evenienza di controversie tra giustizia laica e inquisitoriale.
Oltre a ciò la citata "memoria" permette di cogliere i punti cardine di tutti i procedimenti che coinvolgevano il funzionamento del Tribunale dell'Inquisizione in Genova.
Se ne ricava che, formulata la denucia, si adiva ad una inchiesta segreta; poi nel caso che a giudizio dell'Inquisitore era reputata doverosa la cattura del reo si doveva farne istanza alla magistratura dei Protettori del Santo Ufficio costituita da due rappresentanti del Governo di Genova (generalmente scelti fra cittadini di alto lignaggio), ragguagliandoli delle eventuali accuse mosse al reo.
Questi concedevano l'arresto in nome della Signoria e di seguito presenziavano agli interrogatori, specie se, come accadeva quasi sempre, comportavano l'applicazione dei tormenti, cioè della tortura.
Una volta che era conclusa l'istruttoria aveva luogo una "consulta" cui partecipavano vescovo ed inquisitore, i consultori e pure i due "protettori" i quali, ritenendolo opportuno i giudici (vescovo ed inquistore), potevano esprimere il loro parere, non come giudici ma quali rappresentanti del governo, parere da tenere nel debito conto ma non vincolante: "Li racordi et discretissimi consigli di lor Signorie zelantissimi dalla fede catholica, et nel consigliare providi, sono dalli predetti giudici ecclesiastici meritatamente considerati et accettati tanto quanto mirano l'honor di Dio la salute delle anime con l'edificatione del prossimo.
Inoltre i "Protettori" potevano prendere parte all'esecuzione della sentenza ed all'abiura.
Onde integrare la documentazione, poco corposa, sul funzionamento dell'Inquisizione in Genova il Canosa (p.137, nota11) risale nel tempo e recupera un rescritto custodito all'"Archivio di Stato di Genova" (Archivio Segreto, busta 1405) recante il titolo e forma che si è pratticata per il passato e che di presente si prattica circa l'amministrazione e cause del S. Uffizio dell'Inquisitione in questa Serenissima Repubblica: la redazione del documento è di metà del XVII secolo ma possiede il pregio di fare una microstoria delle vicissitudini in merito a tutela delle prerogative statali in materia inquisitoriale. In esso sono citati dei rescritti più antichi ma significativi.
Due sono, rispettivamente, un decreto del Senato del 14 aprile 1539 ed una lettera della Signoria indirizzata a Paolo III il 10 aprile 1540: in merito ai "Protettori" vi si parla di "quattro cittadini" preposti alla supervisione dei procedimenti dell'Inquisizione.
Nel testo seicentesco viene quindi menzionata una lettera redatta il 9 giugno del 1548 da Cristoforo Grimaldi e Giambattista Doria, poi inviata ai cardinali componenti della Sacra Congregazione dell'Inquisizione in cui si segnalava come allo scopo di meglio tutelare l'autorità dell'Inquisizione si era ritenuto di ridurre il numero dei "protettori" a due cittadini scelti entro il Collegio dei Proconsoli della Repubblica che "havevano di continuo da essere con il reverendo Padre Inquisitore a intendere nelle cause che occorresso". Dopo queste tre citazioni, finalmente, il documento del XVII secolo menziona la "memoria" inviata al podestà di Chio.
A fronte di queste considerazione e dei casi che turbarono la vita religiosa fdi Genova nel XVI secolo un rilievo assai superiore spetta tuttavia alla drammatica vicenda dell'eretico umbro di Città di Castello Bartolomeo Bartoccio che, assieme ad altri compagni "grandemente indiziati di heresia", nel 1567 (16 ottobre) il cardinale di Pisa, per conto della Congregazione Romana del Santo Uffizio chiese alla Signoria genovese, nel cui territorio al momento si trovava.
La Repubblica fu solerte ed il 20 dello stesso mese d'ottobre accondiscese alle richieste ecclesiastiche: fu proprio in tal giorno che il Bartoccio venne arrestato dalla milizia cittadina di pubblica sicurezza.
La notizia dell'arresto fu celermente inviata a Roma, cosa che fu apertamente lodata: contestualmente, stando a quanto ha recuperato dalle fonti storiche superstiti il Canosa nella grande città ligure si procedette parimenti all'arresto di un probabile connivente del Bartoccio definito genericamente Cavaliere di Malta.
Ben presto da Roma giunse l'invito ad inviare nella città dei papi il Bartoccio assieme al suo correo avvalendosi delle galee di Giannetta Doria Atteso che il potere centrale genovese nulla oppose alla richiesta il 25 novembre i supposti eretici vennero imbarcati: però sorse un disguido imprevisto, la Doria, allegando la scusante di non avere un "passaggio pronto per Roma" ottenne che i due fossero rinviati alle carceri repubblicane: vi fu chi, probabilmente a ragione, vide in tutto ciò uno stratagemma della Signoria per dilazionare gli eventi nel tempo e preparare le difese delle sue prerogative istituzionali.
Stavano infatti accadendo eventi che non potevano passare inosservati in uno Stato che basava la sua potenza ed anche la sua stessa credibilità dulla mercatura e sulla salvaguardia dei tanti commercianti stranieri e non necessariamente cattolici che ad essa facevano capo.
Prima del fantomatico tentativo di imbarcazione coatta del Bartoccio avevano già preso ad attivarsi i cantoni elvetici di Berna e di Ginevra: peraltro proprio in questa importante città mercantile il Bartoccio da tempo aveva preso dimora congiungendosi in matrimonio con una donna che gli aveva dato dei figli e dedicandosi ad un fruttuoso commercio di sete.
Il Senato ginevrino intervenne presso la Signoria genovese con una missiva ufficiale di proteste nella quale, dopo aver preannunciato l'ipotesi che tale incidente avrebbe potuto danneggiare le importanti relazioni mercantili intercorrenti tra i due stati, sottolineava la distinzione che intercorreva tra i reciproci sudditi (sì che mentre i genovesi erano ben accolti in Svizzera prescindendo dalla loro fede mentre nel caso del Bartoccio si era agito in modo davvero sconsiderevole ed ingiusto) e chiedeva l'immediata restituzione dell'arrestato al suo ambiente ed alla sua famiglia.
Atteso che anche Berna agì poco dopo nello stesso modo, la Repubblica di Genova si trovò esposta tra due forze opposte contro le quali non voleva prendere posizione nè rischiare oltremodo: si potevano perdere fondamentali contatti commerciali ma si poteva, al punto in cui si era giunti, entrare in un pericoloso conflitto con la sempre temuta santa Sede.
La diplomazia genovese tentò la via di una mediazione basata su molteplici ragioni, attraverso una serie di distinguo davvero ben costruito.
Scelse come referente dei suoi interessi il cardinale di S. Clemente cui si esposero [al modo che riporta il documentato Canosa (p. 138)] elencandogli la sequela di ragioni che per lei comportavano prudenza in qualsiasi scontro diplomatico con gli Svizzeri.
In primo luogo venne esposto come per quel paese dovessero transitare "...forzatamente tutte le merci e gran parte del contante che si traffica verso Fiandra, Lione e l'Alemagna...".
Nella costruzione del sistema difensiva, dopo aver posto le basi dell'importanza logistica del territorio svizzero, si mirò di segnalare la difficoltà di chiarificazioni attesa la presunta inferirità culturale e la sostanziale insensibilità alle perorazioni diplomatiche di "...quella natione assai incolta di costumi civili e poco usata a regolarsi con la ragione e non meno avida che debole di facoltà...".
In definitiva la perorazione genovese, facendo leva sulla tutela dei propri interessi, interessi di uno stato sempre zelante verso la fede romana, e contestualmente basandosi sulla presunta barbarie degli interlocutori elvetici, si concludeva in una sorta di teorema sillogistico al cui terminale stava l'esigenza, per ragion di stato e vantaggio di uno stato storicamente fedele a Roma, di lasciar andar libero il Bartoccio.
La petizione non era mal costruita ma il Papato era in aperta campagna avverso le devianze ereticali: tutto risultò inutile e la risposta fu raggelante.
Il 5/XII/1567 il cardinale S. Clemente, che aveva evidenziato il caso al Santo padre, spedì alle autorità della repubblica una lettera dai contenuti inquivocabilmente chiari:
In uno stralcio della lettera cardinalizia emblematicamente si legge:
"...nondimeno è tanto il zelo di questo Santissimo Pontefice et lo stimulo perpetuo intorno alle cose della eligione, et l'hodio verso li heretici, che si mostra durissimo et severissimo senza apena volermi lasciar finir di parlare, non volendo a modo alcuno lasciarsi persuadere di liberare e rilasciare un heretico di prigione, nè parendogli poterlo fare con buona coscienza con dire ancora, che Vostre Signorie potevano molto bene scusarsi appresso quelle brigate che costui era vassallo del Papa, et che ultimamente era stato in Roma, et cercato di sedurre alcune persone nella sua malstrada, et che Sua Santità lo aveva domandato a Vostre Signorie Illustrissime, qual glie l'havevano concesso et messolo su le galee del re cattolico per condurlo a Roma, et perciò non potevano mancare alla concessione et parola loro; et che quando elle fossero libere, volentieri l'hariano rilasciato".
Il cardinale S. Clemente, cercando di tranquillizzare i genovesi in merito ad eventuali contrasti mercantili con gli svizzeri, aggiunse di seguito un'affermzaione personale del Papa e che cioè non "ci era pericolo che per questo coloro dovessero violar le strade et impedire il comertio e quelle litere [di protesta] erano proforma e che si davano ad ogn'uno" [così scscrive ancora il Canosa (p. 139) aggiungendo alla nota 14 della stessa pagina: "In una successiva lettera del 12 dicembre il S. Clemente esortava la Repubblica a prendere iin buona parte la decisione del papa].
Gli auspici del Sacro Palazzo di Roma non risposero però a verità: in particolare la comunità di Berna aveva assunto contro Genova una psizione di irrigidimento e le sue autorità "havevano ritenuto ventiquattro mila scudi spettanti a cittadini genovesi, sotto pretesto che non havessero pagato a certo dacio: nella condivisibile ipotesi del Canosa la ragione concreta di tutto ciò risiedeva in una ritorsione economica antigenovese basata sugli eventi che avevano travolto il Bartoccio.
Per quanto sospesa tra due "rischi" la Repubblica, in base ad un comportamento suo usuale per tutto il XVI secolo, cedette alle ingiunzioni della Santa Sede e così al cardinale di Pisa venne spedita una lettera ufficiale con il seguente tenore:
"Può tanto in noi il zelo et l'osservanza che portiamo a Sua Beatitudine che ha vinto agevolmente ogni rispetto umano, essendo non ben rissoluti di correre ogni fortuna per servire Dio et ubedire a Sua Santità, et tutto che temiamo assai a casi nostri, sì per la natura di quei barbari poco capaci di ragione, come per esser noi nati al traffico et al commercio, che ci costringe a cadere nelle mani di quella gente, non di meno presupponiamo sì grande utile in somigliare a noi stessi nel zelo della religione che possa et debba risarcire ogni danno che sia per risultarcene...Si consegnerà dunque il Bartochio et il cavagliere insieme alla signora Ginetta d'Oria, con la prima occasione che si presenti di passaggio; sicuri che S. Beatitudine gradirà piamente il zelo della religione nostra".
La consegna del Bartoccio si ebbe il giorno 29 gennaio 1568: concluso il processo, si pronunciò la sentenza secondo cui, sulla base di una lettera documentaria (datata 15 ottobre 1568) del cardinale di S. Clemente, era definito quale "heresiarca c'he stato quasi per tutt'Italia dogmatizzando et procurando d'infettar hor questo hor quello".
Su tali basi, scrisse ancora il prelato in corrispondenza con il governo di Genova, essendosi dimostrato "talmente ostinato e pertinace nell'error suo...pensano di farlo abbrusciare et che la sua festa (sic!) verrà inanzi quelle di Natale.
Il Canosa, elaborando questi documenti [in dettaglio una lettera del medesimo cardinale del 27 maggio 1569] da fonti libresche dell'ottocento, annota: "Il S. Clemente sbagliò soltanto nella indicazione della data. Il Bartoccio fu infatti bruciato vivo nel maggio del 1569".
Lo stesso moderno studioso continua la sua storia delle vicende inquisitoriali ecclesiastiche nel genovesato ricordando che ancora nel 1568 si era proceduti nella capitale ligure al fermo di un gruppo di individui, circa dieci, giudicati rei d'aver partecipato ad una commemorazione religiosa secondo la costumanza ereticale.
La Signoria si premunì di contattare il solito cardinale di S. Clemente che curava gli interessi genovesi presso la Santa Sede e mirò a dar poco rilievo alla vicenda scrivendogli che la questione non aveva di fatto grande rilevanza e che in definitiva l'insieme era dimensionabile atteso il livello dei supposti correi: una cosa in definitiva "...assai leggiera, sì perchè si tiene l'autore di questa peste e non più di otto in dieci, contro i quali si procede con quel rigore che conviene alla religione nostra per purgar ben ben e spianare compitamente ogni cosa" [lettera dal governo genovese a Roma del 6 febbraio 1568].
Il pontefice venne confortato in questa interpretazione da una lettera del cardinale di Genova Lomellino del 20 febbraio 1568.
Atteso però che il pontefice romano si era eretto ad intransigente guardiano della fede contro ogni distrazione ereticale, la Repubblica di Genova cercava di procedere con ogni oculatezza mirando a dimensionare le voci di possibili movimenti di apostasia nel suo territorio e contestualmente cercando di non indurre il papa a credere che tutto ciò dipendesse da una scelta diplomatica e prudenziale volta a raffrenare la sua zelante attenzione sulla città di Genova e sul suo Dominio.
E' per questa ragione che periodicamente venivano inviate note informative piene di rassicurazioni come questa riportata ancora dal Canosa (p.140, nota 21): "Le novità seguite seguite qui in materia di heresia han dato sempre a noi poca alteratione, essendo sparsa in poco numero fra persone di bassa consideratione, seguita a caso e senza dondamento alcuno e, come ben dice S. santità, l'infermo che vuole essere curato, è quasi guarito, giontovi poi li rimedi facilmente si risana; nè noi per questo intendiamo essersi per punto maculata quella castità che habbiamo sempre mantenuta nell'intiera e inviolabile osservanza della religione, riputando quest'accidente una primavera in mezzo al verno che nel fiorir s'estingue. Questi signori dell'Inquisitione hanno atteso et attendono alla cura con somma intelligenza e noi habbiam questo negotio per principale e porgiamo tutta l'autorità et aiuto possibile per estirpare a fatto alla radice di questo male, per renderne ben purgata la città nostra, onde ne risulti il vero servitio di Dio, in molta sodisfattione di Sua Beatitudine a salute e gloria nostra.
Nonostante la sua ricerca di benevolenza la Repubblica incappò inesorabilmente nello scontento di Paolo V, uomo peraltro caratterialmente mutevole e facile ad accessi d'ira nella sua personale crociata avverso le religioni scismatiche. Così dopo essersi mostrato addirittura riconoscente verso il governo genovese nel febbraio del 1658, a marzo mutò radicalmente atteggiamento per quanto si può con chiarezza evincere da una missiva indirizzata alle autorità genovesi, il 19 marzo dello stesso anno, sempre dallo zelante cardinale di S. Clemente.
Nella lettera di quest'ultimo si può infatti leggere: "Le novità seguite costì di eresia, sì bene sono spiaciute a Sua Santità, [che] pur si era quietata con la buona speranza di rigorosa dimostratione datali anche in nome di Vostre Signorie Illustrissime.
Però, essendosi inteso la dolcezza grande con la quale si è proceduto e si procede contra i calvinisti che hanno fatto cena all'heretica [messa secondo il rito calvinista], che non si può dir peggio, ha causato alteration grande a tutto questo S. Officio, di modo che, per quanto ho inteso, hanno legato le mani a quell'inquisitore che sia tenuto consultar ogni cosa et non possa risolvere senza l'ordine di qua, finché si proveda di miglior istrumento et che con la venuta dell'arcivescovo si possa prender maggior fede di quel governo. Et per dir a loro il tutto, la liberatione di quel Marsilio che meritava la galera o una carcere perpetua, ha causato tutto questo romore, et è mancato poco che non se sia fatto venir qua per rivangar la sentenza. Scriveno poi di costì che quelle cause non si tengono nella debita riputazione et segretezza, come cause pecuniarie, et sono raccolte da huomini et donne senz'alcun freno, diversamente da quello si deve far di ragione et si osserva in questa corte, dove niuno ardisce parlarne. Io attribuisco il tutto all'esser il tribunal di costì ancora nuovo et rozzo, che Dio voglia sia così nogmanete".
A questa epistola del cardinale di S. Clemente la Signoria cercò di formulare una risposta difensiva adeguata da inoltrare al pontefice ed in cui si poteva tra l'altro leggere: "Le novità seguite qui di Heresie sono state esagerate costì più del dovere...Nè qui vi si è proceduto e procede con quella dolcezza che si dice...Nè il Marsilo era tanto gravato di colpe come si dipinge, percioché egli non intervenne alla cena, anzi disputando talvolta con costoro, sosteneva le parti catoliche, sicome li processi mandati potranno render pieno testimonio. Gi altri che hanno peccato più sono ancora priggioni e doverà risolversi il caso loro con qulla rigorosa dimostrattione che parrà convenevole" [così ancora scrive il Canosa (p. 141 e nota 23)].
Tutto risultò inutile in quanto per provvedimento pontificio venne incaricato di risolvere la questione in Genova, qual "commissario straordinario per la lotta contro l'eresia", il vescovo di Teano, monsignor Arcangelo Bianchi che, appena raggiunta Genova, procedette con rigore, istruì il processo e, al governo genovese che nonostante tutto la aveva accolto con tutti gli onori, chiese l'inusitata applicazione dell'abiura secondo quelle costumanze spagnoleggianti che imponevano ai colpevoli d'apostasia di indossare nel corso della pubblica cerimonia specifici abiti d'infamia.
Estranea a siffatte consuetudinie costumanze la Repubblica oppose chiare rimostranze di modo che il 29 maggio 1568 al cardinale di S. Clemente veniva mandata una lettera dal seguente tenore: "Le ragioni che causano le habbiamo succintamente espresse nelle lettere a Sua santità, come che in vero non pienamente nè altro ci cade in consideratione che il mero servitio del Signore Dio, non essendo dubbio che quando seguisse qui una dimostrazione tanto severa, o di galera o di quell'habito che sogliono portare in Spagna, ne seguirebbe scandalo nel volgo, e si darebbe materia alla moltitudine di maravigliarsi; e maravigliandosi, d'entrar in curiosità di sapere le cause e gli articoli ove havessero peccato quei tali. Onde verrebbe facilmente l'imperita moltitudine a malitiarsi et allentare a poco a poco quella schiettezza e sincerità di cuore derivata dai maggiori nostri, tutta fondata in spirito, e tanto accetta a Nostro Signore Dio, quanto Vostra Signoria Illustrissima ben sa".
Anche in questa evenienza gli sforzi della diplomazia genovese non portarono a risultati di rilievo: Pio V in forza di un suo breve del 5 giugno 1568 curò d'ammonire i genovesi a punire quanti si erano macchiati di siffatte colpe avverso la fede cattolica alla stessa maniera seguita con rispetto nel altri Stati italiani: a giudizio del papa non v'era ragione che le autorità di Genova temessero per l'ordine pubblico, anzi a suo parere quanto più rigorose le punizioni comminate ai rei avrebbero avuto in pubblico un effetto giovevole e soprattutto intimidatorio durevole.
E così le direttive del commissario straordinario vennero seguite alla lettera: i condannati, nella foggia prestabilita, dovettero abiurare innanzi ad una folla, curiosa e spaventata, nella chiesa di S. Domenico e, come ha recuperato l'attento Canosa (p. 142) e nota 26, "si eseguì ogni cosa conforme a quanto seppe desiderare monignor il vescovo di Theano, al quale si è data ogni sorte di soddisfattione in tutto ciò che è occorso".
Questa sarcina narrativa proviene ancora da una epistola della Signoria genovese al solito suo interlocutore il cardinale di S. Clemente: come di seguito fa rilevare il canosa sull'evento scese comunque un certo oblio, sì che mai si ebbe contezza del numero preciso dei condannati e del loro stesso nome fatta eccezione per due personaggi il medico Contardo ed il chirurgo Boero che vennero condannati al remo. anche se la durissima pena, su pressione della repubblica, finì per esser commutata in quella dell'abitazione coatta come carecere ma con l'aggravante di mai più poter esercitare le reciproche professioni. Del resto a giudizio del papa, che respinse ogni eccezione in merito, ogni ulteriore grazia, specialmente per il Contardo, avrebbe finti per vanificare qualsiasi discrimen innocentium et dannatorum atteso "quod homo ob haeresis crimen ultimo supplicio digno, primo quidem ad triremem damnatus, deinde ea quoque pena liberatus est".
Il pontefice volle piuttosto, in tale risposta, sottolinare come aveva mitigata la sua consueta asprezza avverso gli eretici proprio per favorire i genovesi insoliti ad affrontare tali situazioni e quindi renderli edotti verso una vigilanza assidua in materia di fede; ancora il Canosa intendendo sottolineare quanto peso politico avesse alla fine assunto quella vicenda scrive (p. 142, nota 28) "Fu necessario tuttavia attendere l'anno 1583 perchè uno dei condannati del 1568 il medico Contardo, fosse dall'inquisitore di genova, fra Timoteo Botonio da Perugia, liberato e purgato dall' infamia et labe che lo avevano colpito quindici anni prima e restituito allo stato, grado e qualità in cui si trovava prima di essere caduto nell'eresia per la quale era stato condannato".
Attraverso lo scorrere del tempo i contrasti non vennero meno e talora videro contrapposte anche le medesime gerarchie ecclesiastiche.
Verso il tramonto del XVI secolo si ebbe in Genova il caso di Giovanni Battista Burgo, inquisitore nella città, che ordinò l'arresto di alcuni supposti eretici entro la città di Savona.
Fra costoro alcuni, stando alle relazioni del Burgo, confessarono senza indugio le loro responsabilità in materia di devianza dalla fede ma altri, prima di far ciò, dovettero esser soggetti all'applicazione della tortura.
Cesare Ferrero vescovo di Savona, ritenendo oltraggioso per sè e comunque eccessivo il comportamento dell'inquisitore, assunse le difese degli arrestati opponendosi al loro trasferimento a Genova.
Esiste in merito una lettera dello stesso inquistore Burgo indirizzata al doge genovese in cui si legge:
"Hoggi ho avuto litere da Saona che portandosi dalla callata alla darsena il vescovo di Saona poichè mi fece quella ingiuria di serrarmi la catena, disse quelle parole che quelli che sono inquisiti da me sono homini da bene, et che io a torto li perseguito, et quello che hanno confessato lo hanno detto per tormenti et che sono homini santi. Stando la verità di questo, che già penso presto sarà posto in chiaro presso alli giuridici, può vedere la Serenità Vostra come sta quella città di pastore.
Li dui già abiurati, Stefano Casino notaro et Girolamo Thossico, li due fratelli Imperiali, e Domenico Ricci nobili di Saona, Gio. Antonio Tivello notaro al maleficio, Francesco Fontana, Nicolò Odone e Christofaro hanno confessato senza tortura tutto quello hanno confessato, et chi ha avuta tortura l'ha avuta con la consulta nostra delli dottori genoesi, et nell'ultimo de processi per la notificatione, et si sono servati li dovuti termini di giustitia non di mio capo, ma per consulta di dottori di questa città di Genova come appare negli atti giuridici. Onde tal parole non possono essere se non a fautoria d'heretici e a sollevar quella cittade allo impedimento della Inquisitione conforme alla protesta che il vescovo mi fece all'hora dicendomi che io venivo da Genova per turbare quella città di Saona; et così tanto quanto io mi affatico a sanare quella cittade da heresia, tanto fa quel vescovo in mantenergliela dentro"
(M. Rosi, Storia delle relazioni fra la Repubblica di Genova e la Chiesa Romana specialmente considerate in rapporto alla Riforma religiosa, in "Atti della Regia Accademia dei Lincei, 1898, classe di scienze morali, storiche e filologiche, vol. VI, parte prima, Memorie", p. 217).
La Signoria, allo scopo di superare il disdicevole contrasto, curò di eleggere una commissione di tre membri (Giovan battista Lomellino, Nicolò Petra e Stefano Lazania) che dovessero esaminare tutti gli atti registrati e indicare quei provvedimenti che l'autorità politica potesse prendere al fine di garantire "l'osservanza delli sacri canoni e delli ordini apostolici".
regolarmente la Congregazione romana del santo Ufficio venne avvertita di tutto ciò in data 10 giugno 1580 mentre il 15 dello stesso mese i tre commissari depositarono il loro parere che risultò a favore dell'inquisitore sì che al vescovo di savona venne poi inoltrata la seguente comunicazione:
"Li detti consiglieri hannosi dato quello breve e quelle litere che il padre inquisitore alligava et pertinenti lo breve et l'informatione che Vostra Signoria Reverendissima ha mandato et hanno sentito il dottore et secretario suo e tutti e tre unitamente sono stati di parere che lo breve dell'inquisitore, la litera dell'Illustrissimo presidente del Santo Officio li concedino potere di poter far condurre da tutto il nostro dominio in questa città li huomini per conto dell'Inquisitione, sicome più largamente le riferirà il detto secretario a cui sarà data copia del detto breve e litera, accioché persona di dignità ecclesiastica intervenga per lei secondo la continenza del breve. Et di più sono state di parere che non puossiam mancar del braccio per far condurre qui quelli dei prigioni et altri sì per la medesima ragione (lettera al vescovo di Savona del 7 giugno 1580 in M. Rosi, Storia delle relazioni fra la Repubblica di Genova e la Chiesa Romana specialmente considerate in rapporto alla Riforma religiosa, in "Atti della Regia Accademia dei Lincei, 1898, classe di scienze morali, storiche e filologiche, vol. VI, parte prima, Memorie", p. 217).
Ancora il Rosi (p. 221 e seguenti) giustifica la soluzione addotta dai commissari sulla base di considerazioni giuridiche: a sostenere la parte dell'Inquisitore concorreva un Breve di Pio IV all'Inquisitore di Genova risalente al 30 dicembre 1563 e contestualmente una lettera spedita dal cardinale di Pisa, al vertice dela Congregazione Romana del Santo Ufficio, datata 10 ottobre 1574. Il Breve pontificio comportava una premessa di geopolitica e valutava le caratteristiche del Dominio ligure, che per la longitudine, era assai vasto: quindi onde non sottoporre l'Inquisitore ad onerose migrazioni nelle varie città del Dominio di terraferma gli si concedeva di far condurre in genova gli eventuali inquisiti in materia di religione. Al processo avrebbe avuto diritto di presenziare un rappresentante della diocesi di di residenza degli accusati, indicato o nomininato dal relativo vescovo, o, in alternativa, lo stesso arcivescovo di Genova se non un suo vicario.
Inoltre il cardinale pisano contribuì ad irrigidire i contenuti del precedente Breve papale precisando nella sua menzionata lettera come "circa gl'inquisiti d'heresia le cause de quali si cognoscono in Genova, basta che in esse intervenga il vicario dell'arcivescovo di Genova senz'altro per parte dei vescovi della di cui diocesi sono gl'inquisiti".
Il Canosa, dopo aver bravamente analizzato la vicenda, scrive (p.144): "Gli eretici scoperti a Savona furono (come apprendiamo da una lettera scritta dal doge e dai governatori al cardinal Giustiniano, a Roma, l'11 febbraio 1581) in parte condannati alla galera ed in parte ad altre pene.
Ma gli "incidenti in materia di fede" erano destinati ad incrementarsi verso il crepuscolo del XVI secolo in Genova, laddove poco dopo siffatti eventi vennero fermati altri presunti eretici.
Atteso che, al modo che scrisse il cardinale Giustiniano (lettera del 24/III/1581), l'Inquisitore affermò d'aver ricevuto dalle autorità di Genova "ogni agiuto et favore et tutto quello braccio che ha saputo desiderare di maniera ch'egli resta soddisfattissimo, sicome veramente deve essere, il pontefice Gregorio XIII, sempre per mezzo del Giustiniano, fece pervenire a Genova i segni della sua legittima soddisfazione "in lode et esortatione di questa santa opera, tanto necessaria in beneficio di tutti i christiani".
Come è sua abitudine il Canosa, che molto materiale raccolto dal Rosi utilizza con competenza, mira a sottolineare come sotto l'apparente armonia già covassero i semi della discordia tra nquisizione e potere della Signoria. In merito cita il caso esemplare di tal Gerolamo Casareto che venne arrestato qual sospetto d'eresia ma che, anche in funzione delle investigazioni aperte su di lui, che era "ministro del sale", si scoprì esser stato anche uno scorretto funzionario statale al segno che commise per il passato "molte fraudi e ribalderie nella casa del sale dove era ministro".
In relazione a tale scoperta la Repubblica chiese che l'Inquisitore ecclesiastico, una volta che avesse espedita la causa di eresia, rimettesse tal reo nelle mani della giustizia ordinaria, sì da poterlo lecitamente sottoporre a giudizio.
L'inquisitore Burgo oppose però l'eccezione a tale richiesta che sussisteva il pericolo che il delinquente potesse venir codannato al supplizio estremo, cosa che che doveva comportare il consenso pontificio.
La diplomazia repubblicana, attraverso i suoi consueti canali, si mosse a Roma non intendendo veder sminuita la propria autonomia e basò l'assunto di tale richiesta su una sorta di captatio benevolentiae: venne infatti scritto al Sacro Palazzo che la riconsegna dell'inquisito era un atto pressoché dovuto atteso "lo naturale et perpetuo studio nostro di favorire quest'ufficio d'Inquisizione e la molta divotione et ossequio verso Sua Beatitudine e quella santa Sede ( (M. Rosi, Storia delle relazioni fra la Repubblica di Genova e la Chiesa Romana specialmente considerate in rapporto alla Riforma religiosa, in "Atti della Regia Accademia dei Lincei, 1898, classe di scienze morali, storiche e filologiche, vol. VI, parte prima, Memorie", p. 217).
Lo stesso Rosi, dopo aver espresso la sua convinzione che la petizione repubblicana in questo caso ebbe buona sorte con la restituzione del prigioniero, ci ragguaglia poi di altri fatti concomitanti, tra cui un ulteriore intervento genovese sulla Santa Sede allo scopo di veder commutata la pena di morte comminata dall'Inquisitore di Genova all'eretico relapso Pier Battista Botto in quella del carcere a vita: secondo il citato Rosi (p.203 e 228) l'esito della richiesta non è certo ma è ipotizzabile che la commutazione sia avvenuta non essendo mai più comparso il nome del Botto tra gli individui giustiziati.
A questi momenti di sostanziale collaborazione si contrappose però quasi contemporaneamente un incidente imprevisto quanto severo: era la fine del 1581 e Roma avanzò una nuova richiesta di estradizione a Genova ove erano stati arrestati quali sospetti di eresia certi Agostino Bianco ed Agostino Moneglia.
La Signoria, avuta la lettera di richiesta nel dicembre 1581, si rivolse ai "protettori" in Roma Giustiniano, Spinola e sauli, praticamente riprendendo un luogo comune della sua diplomazia: la Repubblica cioè non avrebbe meritato dalla Santa Sede simili ingiunzioni attesa la fedeltà sempre ostentata verso la Chiesa e l'Inquisizione.
Nulla però ottennero sia tal petizione che il ricorso ad una norma giuridica, per cui i cittadini di Genova avevano diritto d'esser giudicati in patria anche se il giudice, come nella circostanza, avesse dovuto essere un, atteso, visitatore ecclesiastico.
Non è comunque che Roma non abbia mancato di comunicare al governo di Genova le ragioni della sua richiesta, in particolare il Rosi (nell'opera qui spesso già citata, a p. 229) riporta stralci di una lettera del cardinale Savelli (6/I/1582) al collega, intermediario per gli interessi genovesi, Giustiniano in cui tra l'altro si legge: "...essendo stati denunciati li detti Agostino Moneglia et Agostino Bianco in questo Sancto Tribunale et per la complicità di molti altri della quale non si può venire in chiare senza la presenza dell'uno e dell'altro Agostino, non si può compiacere quella Signoria in questo particolare senza grandissimo disservitio del Signor Iddio".
La Repubblica non potè opporsi significativamente, anche perché solo una ventina di giorni dopo la lettera del Savelli il cardinale Giustiniano direttamente al doge scrisse una sua missiva in cui precisava con estrema attenzione come alla radice di tale scelta a Roma fosse stato il parere dello stesso papa, che non solo voleva che il procedimento si tenesse in Roma ma neppure concesse ai due inquisiti di esser giudicati liberi dietro cauzione ma in vinculis (Rosi, cit., p. 230).
Sempre nell'anno 1582 si posero però i presupposti di uno scontro più ampio destinato a contrapporre la Repubblica genovese e lo stesso suo Inquisitore generale, padre Burgo, di cui si chiese ed ottenne l'allontanamento: in effetti i suoi atteggiamenti erano andati caricandosi vieppiù di severità ed intransigenza, creando gravi scontenti ad ogni livello sociale.
La Signoria che indirizzò quindi un suo "memoriale" a monsignor Sauli (20/XI/1520) concernente non solo il carattere arrogante del Burgo ed il suo arbitrario procedere, ma, più specificatamente, soffermantesi sulla di lui assenza di riguardo verso i "protettori laici" quasi che volesse alterare i rapporti istituzionali tra controllo governativo ed Inquisizione ecclesiastica genovese.
Se al Burgo era rimprovata la consuetudine di modificare in rapporto ai casi il suo atteggiamento, procedendo arbitrariamente a seconda degli inquisiti, ora ostentando mitezza melliflua ora dando prova di estrema severità e tracotanza, la parte più significante della "memoria" comportava l'ipotetica intenzione di alterare da parte dell'Inquisitore le ormai storiche relazioni tra Governo ed Inquisizione riducendo ai minimi termini la funzionalità della magistratura dei "Protettori del Santo Officio".
Nella "memoria" registrata dal Rosi (p. 211 dell'opera citata), e per stralcio trascritta dal Canosa, si può, tra l'altro, leggere:
"...Et essendosi accorto che le sue attioni meritamente erano aborrite dal Senato, non contento dei torti et ingiurie che faceva a nostri cittadini che havea nelle mani, procurò anche di pregiudicare al publico, tentando di privarlo dell'assistenza de doi Illustrissimi Procuratori che giornalmente si formano contra i rei per conto di eresia, della quale siamo al possesso dell'institutione del detto ufficio, con presupposto che oltre al vendicarsi secondo lui contra di noi, per tal mezzo venisse ad occultare le ingiustizie et ingiurie che faceva di continuo a chi li accomodava...Fra gli altri abusi introdotti, dall'inquisitore passato uno ve ne è di molto rilievo et è tale ch'egli in sua camera solea tener tutti li processi e scritture che si formavano contra gl'inquisiti per conto di heresia; donde è avvenuto che nel dar fuori copia di dette scritture a rei perchè si difendessero, egli dava e riteneva ciò che le tornava a conto, e non intieramente quello che stava in fatto, sì come è anche seguito nelle copie de' processi che mandò in Roma, ne' quali solo si contenevano quelle cose che dovevano servire al proposito et intention sua et il rimanente soppresso...Haveva parimente introdotto esso inquistore il prender possesso dei beni de' rei confiscati et imborsare i denari delle condanne, cosa dannosissima alla camera nostra et insolita, poiché tutte le confiscationi per qualsivoglia delitto ordinariamente spettano al principe et non al giudice che le fa. Torna anco questo a danno delle opere a quali talvolta avviene che siano applicate esse condanne perchè difficilmente si cavano dalle mani di chi una volta le ha imborsate".
La "stravaganza" di padre Burgo era evidente ed illecita; per esempio aveva proibito sotto pena della scomunica, a Domenico Conforto ed al di lui figlio, che erano notai laici del Santo Ufficio, di relazionare i "Protettori" Nicolò Doria e Paolo Sauli su qualsiasi atto relativo all'Inquisizione. Per risolvere l'omertosa situazione il Doria ed il Sauli convocarono i due notai e questi dissero: "...Non vi possiamo rispondere di cosa alcuna concernente il Santo Uffizio dell'Inquisizione, nè in particolare nè in generale, senza incorrere in scomunica, stanti due inhibitioni che ne ha fatto lo reverendo padre inquisitore che vi presentiamo".
Si trattava di uno stato di cose pieno di irregolarità (il verbale di interrogatorio dei due Conforto si trova presso l'Archivio di Stato di Genova [A.S.G.], fondo Archivio segreto, busta 1406 A) ; verismilmente, per quanto hanno dedotto gli studiosi sin qui citati, i due "Protettori" dovettero riuscire ad aggirare l'ostacolo interposto da padre Burgo: essi stavano in particolare sondando alcune pratiche concernenti vecchi procedimenti trattati dall'Inquisitore, visto che furono poi in grado di ragguagliare correttamente i magistrati laici ( e del resto il documento Stile e forma prima menzionato riporta l'esame di Domenico Conforto avvenuto col consenso del padre inquisitore l'8/XII/1583).
La Signoria genovese, stante questi vari difetti personali e comportamentali del Burgo, ne chiese non soltanto l'allontanamento ma avanzo altresì la richiesta che venisse punito.
Sull'allontanamento Roma non fece eccezioni e provvide a soddisfare la richiesta del governo genovese ma non fu parimenti conciliante in merito all'ipotesi di un'eventuale punizione del padre inquisitore; in particolare il cardinale Gambara rispose al Sauli che il pontefice non era favorevole "a mandar commessario per sindicare l'inquisitore passato nè che laici assistessero alle cose del Santo Uffizio et per la cosa in sè et per la conseguenza et effetto.
Il "memoriale" del 20 novembre 1582 studiato, primo fra tutti dal Rosi nella sua ciata opera (p.212 e seguenti), facendo riferimento alle malefatte dell'inquisitore Burgo annotava:
"...Li mali offitii fatti in Roma dal sudetto inquisitore han dato occasione al Santo Officio di quella città d'ordinare espressamente all'inquisitor novo che non admetta l'assistenza delli doi Illustrissimi Procuratori nelle cause d'heresia cosa che meritatamente ci preme più che molto, poichè non solo si tratta di levarne lo possesso di detta assistenza che habbiamo dall'institutione di detto Officio sino ad hora, ma di privarne di quella noticia che è propria del Prencipe di saper tutto quel che si tratta nel suo Stato. Per questo è molto necessario d'ottener provisione e rimedio a questo fatto, la quale, trattandosi causa giusta, non doveva mancare. Poichè essendo la nostra Repubblica statta in tutti i tempi sì come è adesso zelosissima della fede cattolica, prontissima con gli effetti a favorire lo Santo Officio et estirpare gli eretici: non è ragione che senza alcuna causa sia priva di questo privilegio non meno honesto che necessario alla conservazione e sicurezza del suo stato, e non è dubio che andando innanzi tal prohibitione seria causa d'alentare et intiepidire quel zelo e prontezza che si sono havuti fin hora di protegere et favorire in ogni maniera questo santo Ufficio".
Per evitare che l'Inquisizione potesse gestire senza controllo statale i suoi procedimenti, come erano parse volere le mire del Burgo, il "memoriale" del 1582 continiava richiedendo alla Santa Sede che gli atti del tribunale inquisitoriale fossero sì custoditi dall'inquisitore in essere "ma chiuse in una cassa con due chiavi differenti l'una de' quali tenga il pade inquisitore, l'altra il cancelliere dell'Inquisitore, il quale sia nottaro pubblico collegiato di questa città, con obligo quando occorrerà trar copia de' processi, cavarla intieramente, acciò si veda fuori tutto quello che realmente è seguito in effetto".
In definitiva la Signoria non chiedeva nulla di straordinario ma solo la replicazione di norme usuali, sulla collegiale custodia di eventuali chiavi di serrature di sicurezza, altrimenti applicate in altri casi, tra cui in ambito giuridico in merito all'uso della cassa delatoria avverso eretici ed apostati.
Roma tuttavia si rivelò sorda alle richieste, peraltro motivate, come si evince da questa lettera del cardinale Sauli, del 2 marzo 1584, spedita alle autorità genovesi ed ancora registrata dal Rosi a p. 212 dell'opera citata:
"Sono stato a longo ragionamento col signor cardinale di gambara sopra quanto si trattò in Congregatione davanti di Nostro Signore del particolare dell'assistenza de Signori Protettori. Quello che ho ritratto da Sua Signoria Illustrissima è che fu fatta diligentissima relatione a Sua Beatitudine in Congregatione di tutti processi che si sono ritrovati nell'inquisitione di Genova, et che si è ritrovato che dal 1540 sino al 1564 solo in tre di li processi sono intervenuti li Signori Protettori, et che dal 1568 quando fu mandato il vescovo di Thiano che poi fu cardinale sono intervenuti li Signori protettori solo in nove o dieci processi, et non sono intervenuti in tutto il processo ma solo in alcuni constituti, et che dal detto anno 1540 fino al 1572 in trecento settanta processi, mai in alcuna parte d'essi sono stati presenti et che fu disputato, et che Sua santità volse intendere il parere de signori cardinali del Santo Officio se da questa assistenza de Signori protettori nel modo scritto si poteva pretendere solito o consuetudine, et che fu concluso col parere di tutti li signori cardinali che non si poteva pretendere perciò solito o consuetudine alcuna, et in conseguenza che da Sua santità non si faceva in questo particolare novità alcuna, ma che la novità era della repubblica di genova a voler pretendere assistenza, la quale è contra la libertà del Santo Officio et contro li sacri canoni. Mi accennò però detto signor cardinale di gambara essere stato di parere d'alcuno di loro che in processi d'importanza o per rispetto di persone, o per altro fossero dal Padre Inquisitore chiamati li Signori protettori come s'era fatto alcuna volta per il passato, et che credeva che Sua santità dovesse inclinare anco a questa parte, però che altra resolutione non fu fatta in Congregatione, et che Sua santità disse che la resolutione l'haverebbe data quando fosse stato il tempo...Et perchè io m'era anco molto doluto di novità del padre inquistore a far ricevere [registrare] gli esami dei rei o d'altri da un frate, et non da notaro publico ordinario, Sua santità Illustrissima mi rispose che ciò non era nuovo, ma che era in tutti li tempi stato fatto così in alcuni casi per degni rispetti, et che esso lo sa molto bene in diciotto o venti anni d'esperienza a questo Santo Uffitio. Io le risposi che ciò doveva essere vero altrove, ma non in Genova".
Il Sauli, peraltro confortato dal parere dei cardinali Farnese e Spinola, giunse alla corretta convinzione dell'irremovibilità sulla questione dei cardinali della Congregazione del santo Ufficio e per questa ragione curò di avvertire la Signoria genovese di non continuare in quel contenzioso ma d'accontentarsi delle plausibili concessioni ottenibili, che cioè "in processi di qualche importanza, e dove loro premino, saranno sempre chiamati li Signori Protettori dal padre Inquisitore, poichè questa è l'intimazione di Sua Santità e dei Signori cardinali dell'Inquisizione" (Rosi, cit., p 192)
Stando alla lettera del Sauli (31/XII/1583) a Genova era stata fatta un'unica, apparentemente, sostanziale concessione, che le carte inquisitoriali venissero custodite entro una cassa fornita di due serrature di sicurezza, con due chiavi di cui una spettante al notaro dell'inquisitore e l'altra al Padre inquisitore stesso.
La concessione, stando ai giudizi del Canosa (p.149) e del Rosi p. 189, fu in definitiva più formale che sostanziale: soprattutto nel XVII secolo quando Genova temerà meno gli strali inquisitoriali saranno frequenti le lagnanze su come il Padre Inquisitore riuscisse ad eludere siffatta normativa rigettando di frequente l'uso di un notaio collegiato e preferendogli un a lui ben più fido e servile frate notaio.
Comunque le cose procedettero su questa direttrice anche nel crepuscolo del '500 quando il territorio repubblicano fu colto da quello che fu forse il caso più clamoroso che coinvolse tanto la giustizia dello Stato che la santa Inquisizione: la caccia alle streghe.
Nel libro del Canosa come in quello più antico del Rosi si fa cenno esclusivamente al fatto delle presunte streghe di Triora ma poiché il fenomeno ebbe maggiore ampiezza giova qui proporre un breve indice che oltre a menzionare il caso eclatante, appunto di Triora nell'imperiese, citi altri episodi, con opportuni riferimenti ad aree circonvicine come alle empiriche difese messe in atto sia dalle istituzioni, laiche e religiose, quanto dalla cultura popolare:
-"STREGA, STREGHE E STREGONERIA": IL DRAMMATICO PROCESSO DI TRIORA (LE STREGHE DI TRIORA)
-[I - CONTRADDIZIONI DEL DIRITTO INTERMEDIO NEL PROCEDIMENTO AVVERSO LE STREGHE DI TRIORA: IL GOVERNO DI GENOVA ARROGA A SE' OGNI AZIONE DI LEGGE]
-[II - CONTRADDIZIONI DEL DIRITTO INTERMEDIO NEL PROCEDIMENTO AVVERSO LE STREGHE DI TRIORA: L'INQUISITORE ECCLESIASTICO DI GENOVA ARROGA A SE' OGNI AZIONE DI LEGGE]
-[III - CONTRADDIZIONI DEL DIRITTO INTERMEDIO NEL PROCEDIMENTO AVVERSO LE STREGHE DI TRIORA: URTO IDEOLOGICO E CORPORATIVO NEL CONTESTO DELLA VICENDA TRA MEDICINA ALLOPATICA E MEDICINA SPAGIRICA]
-[IV - CONTRADDIZIONI DEL DIRITTO INTERMEDIO NEL PROCEDIMENTO AVVERSO LE STREGHE DI TRIORA: GOVERNO GENOVESE ED INQUISITORE ECCLESIASTICO DI GENOVA RAGGIUNGONO UNA CONCILIAZIONE DI COMPETENZE CON IL CONSCORSO DEL SACRO PALAZZO ROMANO ALLO SCOPO D'EVITARE CONFLITTI GIURISDIZIONALI]
-["STREGA, STREGHE E STREGONERIA": IL CASO DI GIOVANNETTA OZENDA DI BAIARDO]
-["STREGA, STREGHE E STREGONERIA": IL PROCEDIMENTO CONTRO GIOVANNI RODI DI MONTALTO]
-"STREGA, STREGHE E STREGONERIA": STREGHE E STREGONERIA NEL TERRITORIO INTEMELIO [IL CASO DI "PEIRINETTA RAIBAUDO DI CASTELLAR"]
-"STREGA, STREGHE E STREGONERIA": ALTRI PROCEDIMENTI PER STREGHE, MAGHI E STREGONERIA NEL PONENTE LIGURE
-[ "STREGA, STREGHE E STREGONERIA": PROCEDIMENTI PER STREGONERIA FRA XV E XVI SECOLO NEL BASSO PIEMONTE ]
-"STREGA, STREGHE E STREGONERIA": IPOTESI SU TRACCE DI CULTURA SCIAMANICA NEL PONENTE LIGURE
-STREGHE DI LOUDUN
-STREGA "DI PIPERNO": LA BOLLA SUMMIS DESIDERANTES" DI INNOCENZO VIII ( 5/XII/1484)
-STREGHE - STREGONERIA: CONCETTO DI STREGONERIA - ELEMENTI STORICI
-STREGHE - STREGONERIA: "LE COMPAGNE DI DIANA"
-STREGHE (STREGONERIA - MAGIA): ARTIFICI E INCANTESIMI VARI
-STREGHE (STREGONERIA - MAGIA): UNGUENTO DELLE STREGHE ED ALTRI FILTRI
-STREGHE (STREGONERIA - MAGIA): STREGONERIA TEMPESTARIA
-STREGHE (STREGONERIA - MAGIA): RIMEDI LECITI E ILLECITI
-ESORCISMO - ESORCISMI
Il secolo XVII, quello "aprosiano", comportò una serie di trasformazioni nei rapporti tra Stato e Tribunale della Santa Inquisizione e, per seguire un certo ordine cronologico, si può riandare con le considerazione ad una prima serie di contrapposizioni, connesse alla peculiare condizione degli EBREI.
Il collegamento qui appena proposto permette di visualizzare problematiche di vario tipo connesse all'insediamento di ebrei, alla loro rilevanza mercantile, all'istituzione dei ghetti, alle salvaguardie toscane loro concesse in Livrno e Pisa, al graduale mutamento nei loro confronti assunto dagli Stati Italiani e soprattutto da quello della Chiesa nel passaggio tra '500 e '600: fenomeno di irrigidimento istituzionale che sulla base di alcune investigazioni e con quale doveroso distinguo può essere individuato anche nell'estremo Ponente ligure
Per quanto concerne il genovesato non si può counque far a meno di risalire nel tempo, precisamente sin aluglio del 1587, allorquando un decreto del governo impose a tutti gli ebrei, sotto la pena di un'immediata espulsione, l'esigenza di uniformarsi a certe restrizioni di indubbia ascendenza spagnoleggiante atteso che mai s'era veramente spento il ricordo della drammatica vicenda del "Maestro d'Epila", il Grande Inquisitore Pietro Arbues assassinato da membri di quella comunità ebraica che lui stesso andava ferocemente perseguitando.
La comunità ebraica genovese oppose al provvedimento le sue ragioni ottenendo una parziale soddisfazione nel volgere di 7 giorni: venne infatti concesso che il segno dovesse non venir più portato sul capo o sul cappello ma sul vestito e che da ciò venissero esentate le donne (ma non le ragazze) e che piuttosto coll'espulisone si punissero i contravventori all'ordinanza tramite un'ammenda di venti soldi.
Nell'età intermedia la segnalazione di un particolare stato sociale era uno dei mezzi fondamentali per permettere l'immediata distinzione di persone dalle caratteristiche sociali diverse: era comunque, sempre, un provvedimento restrittivo e colpevolizzante, che giammai si poteva accettare se non a malincuore e per estrema ragione, atteso che possedeva in se stesso punti di contatto innegabili con quell'ostentazione di una nota d'infamia con cui erano marchiati vari tipi di criminali, di modo che potessero venire immediatamente ed inequivocabilmente riconosciuti.
In merito agli Ebrei in Genova si ritornò a discutere, secondo questi parametri di differenziazione ostentata, verso la fine del XVI secolo allorquando si pensò di pubblicare un "decreto di espulsione" a carico di tutti gli aderenti alla "nazione ebrea" residenti nel genovesato.
Tale decreto in effetti non ebbe una pratica applicazione (Canosa (p. 157 e nota 1)) ma questa soluzione compromissoria in alcun modo equivalse ad un ridimensionamento dell'atteggiamento antisemita delle autorità governative (vedi anche: G. Musso, Per la storia degli ebrei nella Repubblica di Genova tra il Quattrocento e il Cinquecento, in "Miscellanea storica ligure, 3°, Feltrinelli, Milano, 1963, p. 105 e seguenti oltre a C. Brizzolari, Gli ebrei nella storia di Genova, Sabatelli, Genova - Savona, 1971)
Ad esse peraltro si affiancava l'agire spesso vessatorio delle gerarchie ecclesiastiche che imponevano agli ebrei genovesi l'obbligo di andare ad ascoltare la predica ogni sabato in periodo di quaresima procedendo tra i lazzi di un popolo abbastanza eccitato avverso gli ebrei: a ciò poi si accompagnava, inevitabilmente, la vigilanza asfissiante dell'Inquisizione, pronta a cogliere il minimo segnale di apostasia.
Padre Giovanni Battista Noceto della Compagnia di Gesù in merito a siffatta situazione ebbe a scrivere 1l 22 aprile del 1656:"...i frati inquisitori sogliono pretendere su di essi [gli ebrei] maggiore autorità di qullla che permetta la ragione canonica onde molte volte prendono occasione per travagliarli e smunger denaro ancora a titolo di multa, in casi che non toccano al Santo Ufficio (vedi: M. Staglieno, degli ebrei in Genova in "Giornale ligustico di archeologia, storia e belle arti", 1896, p. 394 e seguenti).
Le cose ebbero una svolta imprevista allorquando Genova per tutelare la propria attività mercantile prese la decisione di istituire un portofranco, iniziativa onerosa che comportò svariati interventi governativi si a decorrere dal 1590 passando per vari decenni del XVII secolo.
Per la regolamentazione della fruizione del portofranco si dovettero attivare delle cautele di ordine giuridico ed istituzionale: così il Canosa (p.158, nota 2) cita (dall'Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, busta 1401) una delibera, poi data alle stampe, con cui nel 1658, al primo suo capitolo, si sarebbero indicati i leciti fruitori del portofranco: in base a siffatto capitolo era disposto "che era consentito ad ogni persona di qualsivoglia nazione, stato, grado o condizione, di venire in genova ad abitare con la famiglia e di potervi negoziare in cambi, merci, vettovaglie ed ogni altra cosa".
Gli ebrei (ma anche gli "infedeli") erano indicati fra coloro che potevano godere di siffatte autorizzazioni a condizione di rispettare degli appositi capitoli ancora da emanare.
Per questa ragione, come ancora scrive nello stesso luogo il Canosa, nel giugno del 1658 si provvide alla stesura e pubblicazione dei "Capitoli relativi alla natione hebrea".
L'essenza di ogni successiva considerazione era demandata al capitolo I in cui però, in nuce, risiedevano le motivazioni di futuri scontri e dissapori: esso peremtteva agli ebrei di entrare in possesso di un peculiare salvacondotto, una patente in grado di consentire loro di trafficare per l'intiero Dominio senza venire in alcun modo molestati "...etiamdio che fossero vissuti sotto nome di christiani o fatto qualsivoglia atto o demostratione da christiano in qualsivoglia luogo e tempo".
Eccezioni significative riguardavano i delitti di Lesa maestà ed i debiti degli ebrei contratti con i sudditi della Repubblica, per i quali avrebbero potuto essere convenuti e molestati, sì come avrebbero avuto diritto di convenire e molestare.
Anche nei capitoli successivano comparivano distinguo a riguardo degli ebrei, ma non così sottilmente interpretabili: ad esempio essi potevano prendere a servizio delle donne cristiane, assumere quali servitori dei cristiani o "giovani di scagno" solo a patto d'aver superato i 40 anni d'età: inoltre i cristiani non potevano battezzare in segreto dei fanciulli ebrei senza che questi avessero compiuto i 13 anni d'età, nemmeno era dato agli ebrei di comperare un campo di cui valersi quale cimitero oppure di erigere una sinagoga: per verificare che tutto ciò fosse puntualmente rispettato i "capitoli" comportavano l'istituzione di una nuova magistratura, di durata decennale, quella dei "Protettori degli ebrei" composta da 2 senatori.
Non molto tempo era trascorso dalla stampa dei capitoli in merito agli ebrei, che Agostino Franzone, residente a Roma per Genova e suo curatore di vari interessi presso la Santa Sede, ebbe la visita dell'assessore al Santo Ufficio monsignor Vissani che, a nome del pontefice, gli precisò come siffatti capitoli contenessero "alcune particolarità troppo pregiuditiali alla Chiesa et all'autorità pontificia".
Il Franzone tentò di assumere le difese del governo genovese asserendo che la Repubblica non si sarebbe peraltro comportata, in merito alla questione ebraica, diversamente da Venezia: tuttavia l'emissario di Genova maturò il giudizio che alla Santa Sede fosse soprattutto dispiaciuto che certe concessioni agli ebrei fossero state sancite in atti scritti e pubblicati e che, appena secondariamente, alla Chiesa fosse risultato difficile da accettare non tanto l'insieme dei capitoli quanto piuttosto il contenuto del citato Capitolo I.
Tuttavia il Franzone cercò di appellarsi ad ogni variante sul tema di cui fosse a conoscenza: per esempio all'assessore fece rimarcare come in Livorno si fossero sistemati parecchi ebrei di origine portoghese e che lì si fossero apertamente dischiarati ebrei senza incorrere in alcuna ritorsione governativa od ecclesiastica.
La risposta dell'assessore Vissani lo mise però in difficoltà: costui aveva costruito un proprio teorema, sostenendo che l'Inquisitore di Livorno, al contrario di quanto si pensasse, aveva attivato molti procedimenti ma si era imbattuto in un muro di difficoltà atteso soprattutto il fatto che gli era stato pressoché impossibile conseguire la prova documentaria che gli inquisiti fermatisi a Livorno si fossero realmente battezzati in Prtogallo, atteso che, per scelta strategica e prudenziale, eran soliti far ciò assumendo nomi falsi.
Il Franzone comunicò alle autorità genovese il senso di una corposa resistenza romana a come gli ebrei eran stati trattati a Genova in forza dei "Capitoli" loro concessi e parimenti, sulla scia delle sue affermazioni, si pose il cardinale Raggi.
Le relazioni romane furono discusse a Genova sotto la presidenza del Doge essendo presenti sia i procuratori che i governatori e ne derivò una discussione non priva di calore.
Dopo proposte varie ma non passate ai voti si scelse la strada di scrivere a Roma comunicando che la questione era complessa e non poteva esser risolta seduta stante, almeno in occasione dell'imminente partenza del corriere latore del documento ufficiale.
Le autorità genovesi si assunsero comunque l'onere di soppessare al meglio i fatti sì da esaudire quanto sostanzialmente richiesto dal papa: contestualmente al residente ligure in Roma si comunicò in prima istanza che il governo ligure si sarebbe adoprato al massimo perchè si mantenesse "fermo e stabile" ciò che "ai Sacri canoni, apostoliche costituzioni et universali concilii non ripugna in quella forma che a detti hebrei è permesso ovunque ne' stati de' principi cattolici, ove hanno privilegio di stanziare".
Allo stesso residente si concesse comunque una meno gradita ma comunque fattibile alternativa, quella di proporre alla Chiesa di Roma che, se ritenuto necessario, si potevano "ristampare gli istessi capitoli, senza quel paragrafo del quale si stima offeso il Sant'officio".
Che comunque Genova intendesse difendere il suo operato lo si intende bene dalla lettura della parte finale di quanto scritto al menzionato residente, una sarcina narrativa in cui lo si esortava a mediare astutamente "per via di discorso e con la destrezza ch'è vostra propria ogn'un di questi modi, con chi vi parerà più convenire, per riferirne la disposizione, nella quale si trovano cotesti prelati d'acquietarsi. A noi pare verosimile che debba seguire con loro piena soddisfattione nell'avvertenze fatte agl'altri capitoli, noi non intendiamo persistere gagliardamente come non vediamo tampoco che codesti Prelati insistano più di tanto; perciò vogliamo credere che debba anche bastare una verbale protesta che Voi a nome nostro li facciate della sincerità della nostra intentione" (A.S.G., Archivio Segreto, busta 1390 = Canosa, p. 160 e nota 4).
Obbedendo ai mandati della Signoria Agostino Franzone si recò addirittura dal papa onde esporgli le varie preoccupazioni della Repubblica atteso il rigetto da parte dell'autorità ecclesiastica di alcuni "capitoli della natione hebraica".
Alla formale per quanto benevola accoglienza del Santo Padre non corrispose però alcuna concessione: egli rigettò tanto l'ipotesi di una "dichiarazione" del governo genovese quanto l'avanzata ipotesi di ristampare i "Capitoli" sopprimendo o meglio modificando il capitolo I: il fatto che i detti "Capitoli" fossero stati pubblicati e divulgati, a differenze di quanto era capitato altrove, costituiva a suo dire un "motivo di scandalo per tutti i popoli cristiani".
E non a caso il Franzone, poco dopo, nel mese di settembre del 1658 ricevette una nuova visita, per ordine papale, di monsignor Vissani il quale mentre lo rassicurava che il testo dei "capitoli" per gli ebrei in Genova era stato zelantemente studiato e comparato lo ragguagliava della loro inaccettabilità per la Chiesa, viste le tante "oppositioni" riscontratevi, al segno che il Santo Padre era giunto alla conclusione di incaricare sia il cardinale arcivescovo di Genova quanto il padre inquisitore della città di addivenire ad un incontro con le autorità in modo da discutere l'abolizione dei capitoli controversi (Canosa, p. 160).
[ TRA XVII SECOLO E XVIII SECOLO
UNA SUMMA DEGLI INTERVENTI DELLA CHIESA A RIGUARDO DEGLI EBREI
LEGGIBILE SOTTO LA VOCE
HEBRAEUS
QUI DIGITALIZZATA DALL'OPERA DI LUCIO FERRARIS
BIBLIOTHECA CANONICA, JURIDICA, MORALIS, THEOLOGICA....]
La Repubblica organizzò un suo schermo difensivo affidandosi alle competenze giuridiche di Giovanni Battista De Ferrari e di Agapito Centurione: l'arcivescovo prferì abbandonare la tenzone, evidentemente per il quieto vivere, e lasciò l'onere di trattare per la parte ecclesiastica all'inquisitore di Genova Agostino Cermelli, il primo inquisitore genovese di cui Angelico Aprosio ricoprì la carica di Vicario per la diocesi intemelia.
I punti dolenti della questione erano sostanzialmente due; il primo> concerneva la revoca dei "Capitoli" pubblicati mentro il secondo verteva sul contenuto del primo capitolo che comportava la concessione del salvacondotto per il portofranco parimenti agli ebrei già cristiani. A giudizio del cermelli questa sembrava una autorizzazione governativa all'apostasia, un delitto che per natura istituzionale era da sempre stato di competenza del foro ecclesiastico e non dell'autorità governativa laica.
Il Canosa, p. 161 e nota 161 a titolo documentario registra questa intitolazione di documento custodito nell'Archivio di Stato di Genova (Archivio Segreto, busta 1401): "Ristretto di quello è stato aggiustato con il padre inquisitore di S. Domenico intorno a quelli hebrei che fossero vissuti da christiani in quelle parti dove non è permesso di professare liberamente l'hebraismo non ostante che nel primo capitolo de pubblicati ultimamente per la natione hebrea si dica restar esclusi dal salvacondotto quelli che havessero apostato, quale ristretto è stato formato acciò per ogni tempo appaia per la verità del seguito".
I deputati laici incaricati dalla Repubblica obbiettarono contro le postulazioni del Cermelli che non era necessaria una cassazione completa dei capitoli ma che sarebbe stata sufficiente una dichiarazione a stampa tramite cui lo Stato genovese avesse sancito che, qual mai fosse la sostanza dei capitoli, nonera in alcun modo sua intenzione contravvenire ai sacri canoni ed alle costituzioni apostoliche di modo che agli ebrei operanti o residenti in Genova giammai si sarebbero concessi privilegi che travalicassero quelli concessi ai loro correligionari dagli altri principi cattolici.
In merito al temibile discorso sulla apostasia i due rappresentanti di genova sostennero che era necessario formulare due ipotesi ben distinte. Una che riguardasse gli ebrei che avessero abbracciato il cattolicesimo risiedendo in Stati ove potessero liberamente praticare il loro credo ed una invece che riguardasse altri ebrei, quelli meno fortunati che fossero stati obbligati alla conversione, abitando ed operando in Stati, come Spagna e Portogallo in primis, ove la pratica della loro fede fosse proibita e colpita severamente dalla legge tanto laica che ecclesiastica.
Secondo gli interpreti laici si poteva effettivamente parlare di apostasia nella prima evenienza ma non nella seconda atteso che la conversione degli ebrei al cattolicesimo era stata estorta con la violenza ed il terrore di maniera che, abbandonata l'area iberica, essi avevano potuto riprendere le loro pratiche religiose senza molestie da parte del foro ecclesiastico: la postulazione del De Ferrari e del Centurione, per quanto dettata dalla logica, non era però assolutamente esatta stando alle giuste considerazione del Canosa, p. 161.
I teoremi giuridici dei deputati laici di genova non incisero sull'intransigenza del Cermelli, che peraltro seguiva le indicazioni di Roma: sulla direttrice degli ordini della Santa Sede e del santo Ufficio egli continuava a reclamare la revoca dei capitoli mentre ribadiva, in una sorta di litania, che se in altri Stati gli ebrei fuggiaschi dai paesi iberici non erano perseguitati ciò dipendeva da uno stato di tolleranza tacita senza che nulla fosse mai stato verbalizzato e stampato da altri governi che non quello genovese. Per venire incontro ad un processo di conciliazione lo stesso cermelli precisò, usando un'immagine popolareggiante e colorita, che qualora la repubblica avesse scelto la strada, abbastanza ambigua comunque, della tacita tolleranza il S. Ufficio, come in altri casi, "non avrebbe cercato il pelo nell'uovo.
A fronte di queste resistenze e delle minime concessioni ottenute i deputati di Genova non ebbero altra scelta che quella di appellarsi ai Collegi e quindi avvalersi del giudizio di alcuni teologi di fiducia leali alla Repubblica: questi ultimi, sostanzialmente vanificando le resistenze del Cermelli diedero il responso che la citata declaratoria a stampa da parte genovese sarebbe stata garanzia bastante per le autorità ecclesiastiche.
I vertici dello Stato, cui pervennero gli atti del contenzioso, non ebbero il coraggio di trascinare oltre la questione e volendo interporre una accettabile conclusione, menzionando la necessità di cedere alla "somma pietà e religione", formularono l'ordinanza di redigere nuovi capitoli ed il primo di questi , in definitiva il più discusso, venne rivisto in siffatta maniera dai nuovi estensori: "Concedesi ampio salvacondotto alla natione hebrea per le loro persone e beni nella forma istessa che godono nelle altre città d'Italia per il quale salvacondotto però resteranno esclusi per debiti che detti hebrei avessero contratto con nostri cittadini e sudditi in qualunque parte del mondo per i quali potranno essere convenuti" (A.S.G., fondo Archivio Segreto, 1390 A = Canosa, p. 162, nota 6).
Padre Agostino Cermelli cui venne rimesso il tetso non lo accettò, come prevedibile: lui pretendeva, seguendo la propria logica, che del salvacondotto in alcuna maniera potessero godere gli ebrei che avessero apostatato dalla fede cristiana cui si fossero convertiti risiedendo in Stati estranei all'idea di persecuzione (e per questo dovette reiterare la promessa di non molestare gli ebrei che avessero ripreso la propria fede dopo esser stati costretti ad una conversione forzata in Spagna ed in Portogallo).
La Repubblica a questo punto, visto l'oltranzismo ecclesiastico, si trovò abbastanza inerte e non trovò altra via che appellarsi a questione economiche, precisando cioè quanto per lei fosse vitale l'attivismo degli ebrei giungenti da Spagna e Portogallo atteso che lo Stato di Genova, per la sua sterilità costituzionale, esigeva un attivismo mercantile cui gli ebrei erano necessari e che a sua volta era necessario per il sostentamento di "tante popolazioni" che diversamente "non potrebbero mantenersi".
In pratica, questa disperata protesta, aprì la strada al trionfo di Agostino Cermelli; ed il primo capitolo alla fine risultò modificato in questa guisa:"Concedono ampio salvacondotto alla natione hebrea per le loro persone e beni nella forma stessa che godono nelle altre città d'Italia; dal quale salvacondotto però resteranno esclusi quelli che havessero apostatato dalla nostra fede quei debiti che delli hebrei havessero contratto coi nostri cittadini".
Le distinzioni a pro degli ebrei provenienti da Spagna e Portogallo non comparivano e qualsiasi protezione statale contro eventuali processi per apostasia veniva meno: non restava che affidarsi alla promessa del cermelli che egli "Non avrebbe cercato il pelo nell'uovo.
In effetti era un po' poco e ed allora , affinche "detta natione hebrea non s'adombrasse per la pubblicazione di nuovi capitoli riduttivi e ciò non comportasse l'interruzione dell'arrivo di ebrei spagnoli e portoghesi, venne "d'ordine pubblico fatto intendere a detta natione come, nonostante la publicatione di detti nuovi capitoli, detti hebrei vissuti in Spagna e Portogallo potevano liberamente venire perchè per detto capo non le sarebbe data molestia dal Foro ecclesiastico, havendo la Repubblica così concertato con esso".
ma gli eventi successivi contribuirono a vanificare questa ultima asserzione.
Nel 1660 approdò nel porto genovese una nave dello Stato che aveva caricato in Spagna due famiglie ebree "assai ben stanti di fortuna, per un totale di 12 persone: esse in Spagna "erano vissute e avevano fatto ogni atto da christiani e lo stesso havevano continuato a fare in tutto il tempo del viaggio": Genova, di questo viaggio, costituiva solo una tappa, perchéè la loro meta finale era la città ducale toscana di Livorno.
Nonostante ciò il Cermelli si attivò e, lungi dalla tolleranza di cui aveva lasciato intravedere le possibilità concrete, intervenne sulla base della delazione di un confessore domenicano, parimenti imbarcato su quella nave, cui quegli ebrei avrebbero confidato la loro volontà di raggiungere la relativamente sicura base di Livorno onde non solo mercanteggiare ma pure ritornare alla loro fede ed anzi farsene apostoli, prendendo a "giudaizzare".
Non ci soffermiamo a discutere sulle ambiguità del delatore domenicano, basti evincere come il Cermelli, senza discutere la notizia, abbia fatto richiesta allo Stato del braccio al fine di arrestare tutti e 12 gli individui.
Ottenne quanto voleva e li fece rinchiudere nelle carceri dell'Inquisizione di Genova: si trattava di una violazione palese delle promesse che il potere civile aveva appena fatto agli esponenti di tutta una "natione; fu questa la motivazione per cui lo Stato decise di assumere verso l'Inquisizione un atteggiamento più deciso di quanto fosse solito.
L'Inquisitore venne convocato personalmente dal Doge che non lesinò rimproveri specie perché il Cermelli nel procedere agli arresti, chiedendo il braccio secolare nulla aveva detto in merito alla condizione di ebrei delle persone in questione.
Padre Agostino Cermelli, con alle spalle Santa Sede e congregazione del Santo Ufficio, si sentiva però sicuro e non andò oltre a delle scuse di circostanza promettendo unicamente che "haverebbe fatto una consulta sopra del seguito".
Appena conclusa l'udienza il Cermelli sicuro della propria posizione fece sparegere la voce che le sue giustificazioni eran state accolte: di conseguenza i Collegi ritennero opportuno inviare al convento di San Domenico il segretario che, a fianco dei due deputati, aveva già partecipato alle discussioni con l'Inquisitore in merito ai "Capitoli per gli Ebrei". Costui dopo avergli rammentato le sue promesse non rispettate, tra cui quella di "non cercare il pelo nell'uovo" soprattutto lo disingannò dalla maturata credenza di aver data soddisfazione al doge e contestualmente alle massime autorità governative di Genova.
Il Cermelli assunse un atteggiamento abbastanza riottoso sostenendo di essersi attenuto al rispetto degli accordi: addirittura precisò che, in merito alla sua gergale postulazione di "non cercare il pelo nell'uovo", ne aveva fatto un principio concreto ed applicato, atteso che in Genova egli aveva tollerato la residenza e l'operato di quattro o cinque individui che professavano senza problemi l'ebraismo dopo essersi comportati da cristiani in Spagna e Portogallo.
Aggiunse, a giustificazione del suo operato, che invece quanti aveva fatto arrestare sulla nave non erano da reputarsi ebrei visto che non erano circoncisi ma battezzati ed erano vissuti nei tempi pregressi da cristiani, al segno di comportarsi come tali anche sul vascello genovese, dove non avevano mancato neppure di far la confessione (Canosa, p. 164 e nota 8).
I teologi di fiducia della repubblica reputarono superficiali e pretestuose queste giustificazioni del cermelli ma lo Stato genovese non prese altre iniziative: si preferì attendere che dopo gli arresti e gli interrogatori degli ebrei fermati dall'Inquisitore Roma pronunciasse il suo parere, prendendo finalmente una qualche posizione.
Il Cermelli, verso il 19 giugno 1660, si premunì di trasmettere alla Congregazione del Santo Ufficio in Roma i documenti in suo possesso e soprattutto i verbali degli interrogatori (tuttora custoditi in A.S.G., Archivio Segreto, busta 1401) esemplarmente studiati dal Canosa, p. 164 e seguenti di cui sono debitrici le seguenti sarcine narrative.
L'Inquisitore genovese fecce accompagnare il materiale da una sua epistola nella quale metteva in evidenza come le autorità genovesi, in questo caso tanto restie ad accettare il suo operato, si fossero altrimenti, pressoché nello stesso tempo, comportate sì da agevolarlo vistosamente: gli si riferiva al fatto che trovandosi nella necessità di far arrestare una donna "fuggiasca dal Santo Officio di Piacenza" e temendo che per il contenzioso in atto a ragion degli ebrei fermati il governo genovese non intendesse soccorrerlo aveva preferito rivolgersi ad alcuni "ministri" dell'arcivescovo genovese per fermare la donna in oggetto. Ed invece, con sua sorpresa, aveva poi potuto constatare che le autorità di genova, saputo ciò, avevano spedito celermente un loro segreterio presso il vicario dell'arcivescovo, invitandolo a desistere dalla concessione del "braccio" dato che il governo stesso e le autorità laiche tutte "erano pronti ad ogni suo cenno per servirlo.
Il cermelli non aveva colto o più probabilmente non aveva voluto cogliere la distinzione: le autorità genovesi con questo gesto verisimilmente intendevano pubblicizzare come non fossero tanto contrarie all'operato legittimo dell'Inquisitore ma semmai come non ammettessero che questi operasse violando gli accordi e soprattutto l'autonomia dello Stato, come appunto nel caso degli ebrei arrestati.
L'anali dei verbali di interrogatorio degli ebrei è illuminante, come si evince ancora dalla lettura del citato Canosa.
La cosa che balza subito agli occhi è che l'Inquisitore operò autonomamente senza ricorrere in alcun modo all'ausilio dei "Protettori del Santo Uffizio" giammai citati nei documenti.
la lettura delle verbalizzazione è poi chiarificatrice della triste condizione degli ebrei in Spagna e Portogalle ove per vivere o meglio sopravvivere erano essi costretti a vari inganni ed espedienti, sì da professare nell'ombra quella fede che avrebbero desiderato professare pubblicamente e senza tema di atroci ritorsioni.
L'inquistore nel corso degli interrogatori battè più volte il tasto della propria inchiesta su una linea monotematica: se cioè quegli ebrei fossero battezzati o no, sposati con rito cattolico e se si fossero sempre comportati da cristiani.
Le risposte degli interrogati, per quanto talora abbastanza fumose, ed è arduo dire se per volontà o reale ignoranza, finirono comunque sempre per concludersi verso un'unica meta, che cioè la loro condizione nei Paesi iberici era stata ardua e realmente difficile da sopportare.
Ad esempio Beatrice Aries affermò d'aver avuto i natali in Portogallo ma d'essersi quindi trasferita in Spagna a Malaga dove rimase sempre ebrea, nella vita e nelle pratiche di fede, pur ammettendo che, per ragioni di sicurezza, qualche volta si era confessata e comunicata nell'ambito di una messa.
Isabella Diaz fu più drastica: negò d'essersi mai comportata da cristiana in Spagna, dove pur era sempre vissuta, e d'essersi costantemente mantenuta fedele al giudaismo pur non potendo dire nulla sul fatto se da piccola gli fosse stato amministrato il battesimo: anche in merito ai propri figli nulla seppe dire. Dopo che gli aveva dati alla luce qualcuno li aveva portati via per breve tempo: la donna non poteva giurare che in quel breve tempo a loro fosse stato o no impartito il battesimo ma, comunque, pure essi eran stati cresciuti secondo le costumanze ebraiche.
Gaspar Arbares sostenne con decisione d'esser sempre stato ebreo nel proprio animo ma si lasciò andare all'ammissione d'aver in qualche caso ceduto alla pratica del rito cattolica per motivi di tranquillità esistenziale. Sostenne peraltro di non poter dir nulla sull'eventuale battesimo della figlia Beatrice, allorché fu partorita dalla madre in Estremadura, anche se la donna gli aveva aveva una volta confidato che la neonata era stata battezzata. Lui era partito alla volta dell'Italia sperando di trovarvi la pace che non aveva riscontrato nel mondo iberico; concluse il suo interrogatorio dicendo :"Io son nato in Portogallo in Castel Blanco e tutti sono christiani e tutti si battezzano. Vi sono delli hebrei, ma occulti per timore del castigo e questi ancora fanno battezzar i suoi figli e non può essere altrimenti perchè sarebbero castigati rigorosamente.
Manuel, un altro degli ebrei fermati ed inquisiti, fece scrivere al verbalista:"Tutti li miei di casa, in casa con l'atri che eravamo, vivevamo secondo la legge hebraica e procuravamo osservar tutte le leggi e precetti, fuori di quello della circoncisione per non essere scoperti...Io mi partii di Spagna per andare a vivere conforme la legge hebrea in Livorno, ma sopra la nave l'istessa gente del vascello mi disse che gli hebrei vivevano liberamente e che il principe le aveva dato salvacondotto e che tutti potevano vivere conforme volevano, onde io risolsi di fermarmi in Genova essendo città grande e quando non havessi trovato a far bene il mio negotio di mercante, me ne sarei andato in Livorno e questa è la causa perchè mi partii si Spagna".
Analizzando con la solita competenza questa questione il Canosa p. 166 e seguenti mette in rilievo alcuni aspetti fondamentali:
1 - Si trattava di ebrei convertiti a forza in Spagna o Portogallo.
2 - Fuor di dubbio essi si erano indirizzati alla volta d'Italia per giudaizzare.
3 - In base alle leggi ecclesiastiche avendo siffanto intento di giudaizzare essi ricadevano sotto l'autorità del Tribunale dell'Inquisizione.
4 - Gli stessi "Capitoli" genovesi per la "natione hebrea" che ran stati contestati dalla santa Sede sancivano che dal salvacondotto si dovevano escludere gli ebrei giunti a Genova con la volontà di giudaizzare.
5 - Su queste basi l'intervento inquisitoriale di Padre Cermelli rientrava formalmente nel campo della legalità.
La Repubblica tuttavia eccepiva su questa linea, vi individuava forzature e costrizioni e opponeva all'Inquisitore una resistenza mai prima ostentata.
Genova in definitiva attendeva che si chiarisse ben bene la posizione di Roma e della santa Congregazione.
Che la resistenza genovese avessein qualche modo inciso sulle autorità ecclesiastiche romane, magari in concomitanza con l'agire troppo decisionista del Cermelli, si intuì vagamente da una lettera a quest'ultimo scritta dalla santa Sede dal cardinale Barberini.
Egli il giugno 1660 comunicò al Cermelli che il papa approvava sì i suoi sentimenti ed il suo agire deciso ma che lo esortava a non assumere alcuna decisione senza prima aver avuto ordini espliciti dalla Congregazione.
A questa missiva, nello stesso giorno, il cardinal Barberini notificò all'Inquisitore di Genova de il ministro residente in Roma allo scopo di curare gli affari di Genova aveva ribadito quell'emblematica e gergale frase, pronunciata dal Cermelli in occasione della "querelle sui "Capitoli per gli ebrei", che cioè all'atto pratico si sarebbe astenuto dal "cercare il pelo nell'uovo".
Per siffatta poco chiara ragione l'alto prelato romano invitò il cermelli ad "avvisare sinceramente come sia passato questo negotiato [dei "Capitoli"] acciò si possano prendere le deliberationi che saranno convenienti".
Ed ancora il 23 giugno del 1660 il Barberini reiterò le sue raccomandazioni all'Inquisitore genovese invitandolo sì ad agire "virilmente e con prudenza e destrezza, potendo sperare che la pietà di codesti Signori non vorrà che il giusto" ma, emblematicamente, gli fece presente che per sanzione della Sacra Congregazione si riteneva opportuno che fossero liberati "li putti che non eccedono li dieci anni, quando oltre un'idonea sigurtà venga essa assicurata dalla parola del doge che non siano per essere sottratti altrove e che saranno collocati in casa di qualche christiano sin che termini la causa.
Obbiettivamente il cermelli era subissato dalle comunicazioni provenienti da Roma ma, giustamente, il < ahref="bibliog.htm#canosa">Canosa, p. 167, nota 10
MICHELE PIO PASSI DAL BOSCO - DOMENICANO - INQUISITORE A GENOVA
VICARIO DELL'INQUISIZIONE incarico conferito a Genova, come in altre contrade d'Italia e non, per collaborare variamente all'opera dei Grandi Inquisitori, mediamente residenti nelle capitali.
GRANDI INQUISITORI DI GENOVA DEL XVII SECOLO
-AZZARDO (BISCA - TIPI DI GIOCO - PROIBIZIONE DEL GIOCO D'AZZARDO NELL'ETA' ROMANA)
[25 LETTERE - IN ITALIANO (C.74) - FONDO APROSIO BIBLIOTECA UNIVERSITARIA DI GENOVA MS. E. VI. 19]
(IN GRAFIA CONSERVATIVA SALVO SCIOGLIMENTO ABBREVIAZIONI)
LETTERA 1 (DA GENOVA A VENTIMIGLIA - 17 MAGGIO 1660)
LETTERA 2 (DA GENOVA A VENTIMIGLIA - 4 GIUGNO 1661)
LETTERA 3 (DA GENOVA A VENTIMIGLIA - 24 SETTEMBRE 1661)
Attraverso i vari tempi della storia dell'Inquisizione sotto molteplici forme gli Inquisitori Generali, data la ramificazione e parcellizzazione dei territori, dovettero essere soccorsi da altri ecclesiastici che rivestirono ruoli e funzioni variamente da interpretare come, nella fattispecie, fu il cinquecentesco caso di PADRE DOMENICANO ANTONIO RICHELMI DI PIGNA.
Attesa però la differenza fra la gestione delle investigazioni e dato che i' Inquisitore Generale non poteva da solo continuamente spostarsi su tutto il territorio del Dominio, si dovette attivare un inevitabile processo di uniformazione.
In questo ebbe ruolo decisivo per la Repubblica genovese il GRANDE INQUISITORE ELISEO MASINI, che resse la carica prestigiosa in Genova tra il 1609 ed il 1627.
Noto per la stesura di un celebre manuale ad uso degli inquisitori il MASINI diede alle stampe anche una meno nota operetta, di non comune significanza; essa porta il nome di Breve informatione del modo di trattare le cause del S. Officio per i reverendi Vicarij della Santa Inquisizione, instituiti nel Serenissimo & Cattolico Dominio della Repubblica di Genova, & ne' luoghi dell'una & dell'altra Riviera, in Genova, per Giuseppe Pavoni, 1612.
I Vicari dell'Inquisizione costituivano dunque da tempo una figura istituzionale ma il testo del MASINI mirava a produrre una linea di condotta comune che non causasse divergenze nel trattamento delle cause.
Riferendosi ai "luoghi del Dominio" l'Inquisitore non manca di ragguagliare sulla presenza di una rete di collaboratori diversi dell'Inquisizione facenti capo all'Inquisitore Generale storicamente dapprima nominato fra i domenicani ma poi anche tra i francescani e quindi ancora fra esponenti dei nuovi ordini religiosi postridentini e specificatamente fra i gesuiti: dal fatto che dai tempi di Gregorio XIII la nomina dei grandi inquisitori si tenne sempre a Roma deriveranno non pochi contrasti per il timore degli Stati (non esclusa la Repubblica di Genova che visse tra '500 e '600 stati di tensione con la Chiesa) per il costante timore di intromissioni politiche romane nella vita interna istituzionale e politica (naturalmente in siffatta materia il caso estremo fu quello che coinvolse Venezia contro Roma e specificatamente Paolo Sarpi contro il cardinal Bellarmino.
Carlo Brizzolari, L'Inquisizione a Genova e in Liguria, Genova, ERGA, 1974 pp. 73 - 75 registra un catalogo custodito presso l'Archivio di Stato di Genova - Archivio Segreto - Jurisdictionalium Sancti Officii, n.g. 1406 del 19-IV-1757 in cui si può compulsare una lista di 64 vicari disseminati nel territorio del Dominio (compresi 6 centri del Regno di Corsica vale a dire Bastia, Nebbio, Calvi, Ajaccio, Aleria, Bonifacio).
L'Inquisizione quindi ancora a metà del '700, all'alba della sua crisi epocale, poteva quindi vantare per il genovesato un complesso sistema di relazioni nel contesto di un sistema piramidale al cui vertice risiedeva l'Inquisitore Generale ma la cui ossatura era formata dai Vicari logisticamente e tatticamente distribuiti nelle varie località sì da garantire un controllo capillare dell'ortodossia.
Proprio Angelico Aprosio che fu Vicario dell'Inquisizione per la Diocesi intemelia in forza della sua corrispondenza con gli Inquisitori Generali di Genova al cui servizio fu (A. Cermelli, Michele Pio Passi Dal Bosco, Sisto Cerchi, Tommaso Mazza, : non sussite carteggio ma, dato che l'Aprosio non risulta aver dismesso l'incarico, dovette esser Vicario anche di Angelo Giuliano da Cesena grande inquisitore di Genova tra il 1679 ed il 1681) rende possibile l'analisi abbastanza compiuta dei compiti di un Vicario dell'Inquisizione.
Al "servizio" di Agostino Cermelli in un caso scortò nel 1655 un prigioniero al Palazzo del S. Uffizio di Genova, quindi nel 1658 fu incaricato di far affiggere nell'area di sua competenza manifesti avversi all'introduzione di libri dell'apostata Giansenius, poi ancora nel 1659 dovette affrontare argomenti giurisdizionali sulla dipendenza del Principato monegasco dall'Inquisizione di Genova.
Al "servizio" di Michele Pio Passi Dal Bosco svolse per quanto noto le seguenti operazioni: 1 curò l'affissione di un Editto di libri proibiti curando che tale operazione fosse rispettata anche dal Prencipe di Dolc'acqua - 2 chiese ed attese il nuovo Editto inquisitoriale: si occupò dell'investigazione a proposito di un supposto reo - 3 Tra altre cose Aprosio si lamentò della mancata concessione del braccio secolare (cioè della forza armata di polizia) ad opera dell'autorità statale: il Passi promise il suo pronto interessamento - 3 Trattò problemi giurisdizionali in merito alla persecuzione di un mercante suddito sabaudo reo secondo i dettami inquisitoriali - 4 Fece pervenire al Passi Editti delle Autorità sabaude e dell'Inquisitore di Torino - 5 - Ricevette indicazioni per accompagnare in carcere e poi far la causa a tal Marcianò, verisimilmente il citato mercante, destreggiandosi fra le competenze degli Inquisitori di Genova e Torino - 6 Ricevette un altro "Editto di libri proibiti" di cui controllare l'affissione per opera delle autorità: venne informato dal Passi del comportamento da tenersi per parte dell'inquisitore a riguardo di tal Giovanni Battista Spirito di Castellaro - 7 Venne incaricato di un'azione di polizia a scapito di una fantomatica e truffaldina Confraternita, o hospitale della Madonna de sette dolori dell'Aquila - 8 Esaminò tal Padre Francesco della Bordighera e mandò atti della procedura al Passi - 9 Curò la affissione del nuovo Editto su libri proibiti alle Chiese della Diocesi e vigilò sull'operazione delle autorità per far lo stesso a riguardo dei luoghi soliti di affissione - 10 Inviò a Genova gli atti a riguardo della supposta rea Maria Guglielmi: ricevette comunicazioni, che aveva richiesto, dal Passi sui libri sospetti del Merenda e del Raynaudi - 11 Ricevette altri Decreti de' libri prohibiti da far affiggere nei luoghi soliti - 12 Il Passi informò Aprosio, su sua richiesta, in merito a libri sospetti: si leggono i nomi di Vincenzo Barone, Guimenius, Caramuel, G.B. Gonet ed ancora del Merenda - 13 Il Passi accusò ricevuta delle lettere aprosiane su 2 casi sospetti della Diocesi di sua competenza: uno presunto di poligamia ed uno riguardante una "strega ostetrica" di Vallebona - 14 Il Passi accusò ricevuta delle scritture aprosiane sul supposto caso di poligamia di tal Giovanni Maria Corra, ritenendo però sufficientemente in regola la sua situazione - 15 Il Passi accusò ricevuta del ricevimento, evidentemente da parte aprosiana, della Demonomania del Bodin - 16 Il Passi inoltrò all'Aprosio Decreto della Sacra Congregatione dell'Indice su libri proibiti da far affiggere nei soliti luoghi: nel contempo fu dato ad Aprosio l'ordine di inoltrare a Genova libri proibiti o sospetti eventualmente consegnatigli da fedeli.
Sul "servizio" di Aprosio nei riguardi dell'inquisitore Sisto Cerchi non rimangono che due lettere ma interessanti: la prima riguarda una valutazione positiva dell'operato di Aprosio come Vicario dell'Inquisizione, la sua riconferma e l'estensione delle sue prerogative mentre la seconda comporta la richiesta dell'inoltro al Cerchi degli atti dell'interrogatorio gestito da Angelico Aprosio di un Supposto Reo di Materie Superstiziose per le risoluzioni da prendersi.
Per quanto concerne il "servizio" di Aprosio nei riguardi dell'inquisitore Tommaso Mazza ha invece particolare importanza una lettera del 22 gennaio 1674 concernente una accesa e perigliosa polemica religiosa riguardante Padre Macedo ed Enrico Noris, già corrispondente dell'Aprosio.
[Si utilizza l'onomastica latina secondo l'uso proprio dell'epoca]
BAPTISTA DE FINARII - DAL 1600 AL 1609
ELISEUS MASINUS - DAL 1609 AL 1627
PETRUS MARTYRYS RICCIARDI DE ACQUA NIGRA - DAL 1629 AL 1632
BAPTISTA BOLSIO - DAL 1633 AL 1635
VINCENTIUS PETRUS A SERRAVALLE - DAL 1635 AL 1639
IUSTINUANUS VAGNONIUS A CALLIO - DAL 1639 AL 1647
PROSPER BARAGAROTTUS DE FLORENTIOLA - DAL 1647 AL 1652
AUGUSTINUS CERMELLI - DAL 1652 AL 1662
MICHAEL PIUS PASSUS DE BOSCO - DAL 1662 AL 1669
SIXTUS CERCHIUS - DAL 1669 AL 1674
THOMA MAZZA - DAL 1674 AL 1679
ANGELUS IULIANUS DE CESENA - DAL 1679 AL 1681
THOMAS MARIA BOSIUS DE BONONIA - DAL 1681 AL 1688
IO. DOMINICUS BERTACCIUS DE CINGULO - DAL 1689 AL 1671
-AZZARDO: VEDI QUI L'ANTENATA DEL MODERNO CASINO' = LA ROMANO IMPERIALE TABERNA LUSORIA
AZZARDO (AUTORIZZAZIONI AL GIOCO D'AZZARDO NELL'ETA' ROMANA - LA TABERNA LUSORIA - LE MACCHINE PER IL GIOCO)
-AZZARDO (PROIBIZIONE LAICA DEL GIOCO D'AZZARDO NELL'ETA' INTERMEDIA)
-AZZARDO (PROIBIZIONE ECCLESIASTICA DEL GIOCO D'AZZARDO)