Riproduzione a cura di B. E. Durante

"Le origini remote dei Rospigliosi sono mi­lanesi; si dice, anzi, che in una favolosa età comunale Ridolfo Rospigliosi riparò in Toscana per sfuggire alle persecuzioni dell’imperatore Federico Barbarossa.
Di ciò non avanza documento certo; si sa per certo, invece, che nel corso del tredicesimo secolo la famiglia attecchì nel contado pistoiese, acquistando proprietà rurali nei pressi di Lamporecchio e ponendo le basi di una laboriosa prosperità.
Le rendite agrarie resteranno solida fonte di reddito anche quando la famiglia, traslocata in città nel 1315, avrà avviato proficue attività commerciali, manifatturiere, finanziarie.
Ma saranno proprio le arti cittadine (presto con importanti ramificazioni in centri italiani e stranieri) a decidere la rapida ascesa della ricchezza e del prestigio dei Rospigliosi e a consentire il loro ingresso nella vita politica.
Fu Antonio di ser Iacopo, eletto fra gli anziani nel 1388, il primo Rospigliosi a ricoprire una carica pubblica di rilievo; e fu Taddeo suo figlio, nominato gonfaloniere nel 1449, il primo a raggiungere i vertici dello stato.
Nel frattempo Pistoia, indebolilta dalle sanguinose lotte intestine e minacciata da vicini troppo potenti e aggressivi, si era data a Firenze (1401), pur conservando lo statuto di una for­male autonomia.
Non per questo si era placata l’aspra contesa delle fazioni cittadine, pronta a rinfocolarsi ogni volta che si manifestasse un indebolimento del potere centrale o si prospettasse un pericolo esterno.
Tuttavia, nel tramonto dell’età comunale, Pistoia scivolava sempre di più in un ruolo di subordinazione periferica, definitivamente sancita dalla creazione del ducato mediceo (1530) e soprattutto dalle riforme autoritarie e accentratrici di Cosimo I, che soffocarono ogni forma di rivalità locale.
A questo punto la prosperità della famiglia, sopravvissuta alla crisi economica che incombeva sulla città, non si misurava più con il successo o l’insuccesso di un partito politico cittadino, ma doveva fare i conti con entità assai più poderose.
Per sopravvivere e prosperare era necessario cambiare ottica e strategia.
Tra le famiglie pistoiesi, i Rospigliosi sono senz’altro una di quelle che sono meglio riuscite a compiere questo mutamento di rotta.
Così seppero venire a patti con il nuovo potere centrale, instaurando con i Medici un’in­tesa “cortigiana” che procurò loro non spregevoli incarichi di governo.
Così nella famiglia, se uomini d’arme di un qualche nome non erano mancati nei secoli trascorsi, i nuovi militari cercano condotte di prestigio non più nell’ambito municipale o regionale, ma alle dipendenze di potentati esterni, come Giovanni Battista, detto Bati, che fu ammiraglio della Chiesa sotto papa Paolo III.
Ma l’avventura extra moenia che dischiuderà inopinate prospettive di successo e di grandezza verrà dalla scelta vincente della chiesa e di Roma nella persona di Giulio, il futuro Clemente IX.
Giulio nacque il 27 gennaio 1600 da Girolamo e da Maria Caterina Rospigliosi.
A Pistoia ricevette i primi rudimenti scolastici e - non ancora adolescente - la tonsura e gli ordini minori dalle mani del vescovo Alessandro Del Caccia.
Il 16 marzo 1614 partì per Roma per entrare nel Seminario dei Gesuiti.
È questa una svolta decisiva nella vicenda della sua vita e della sua formazione culturale.
Alla scuola di Tarquinio Galluzzi, Famiano Strada, Bernardino Castelli, i padri del classicismo secentesco, si forgiò il latinista destinato a dettare le eleganti missive della cancelleria romana; e sul vivo esempio di Bernardino Stefonio (e forse su una concreta esperienza di recitazione negli spettacoli edificanti che i Gesuiti mettevano in scena con la partecipazione attiva dei seminaristi) il futuro scrittore imparò le regole di un teatro alleato della religione.
Al confronto il successivo soggiorno all’u­niversità di Pisa, dove Giulio si trasferì nel 1618 o nel 1619 per compiere gli studi di teologia, di filosofia e di diritto, appare quasi una parentesi marginale, un necessario adempimento tecnico, se non proprio formale.
Il suo destino era a Roma, dove egli traslocò di nuovo, appena conseguito il dottorato in utroque iure (1624).
Di nuovo a Roma, entrò al servizio del cardinale Antonio Barberini seniore, fratello del neoletto papa Urbano VIII.
Ma i rapporti di Giulio con il clan dei Barberini furono subito estesi a tutti i suoi membri, non escluso lo stesso pontefice (che pare non esitasse ad avvalersi dell’opera del giovane letterato nella riscrittura degli inni liturgici che in prima persona si era assunto), e con particolare cordialità compresero i nipoti del papa: i cardinali Francesco e Antonio iuniore e Taddeo, capitano della Chiesa, prefetto di Roma e principe di Palestrina.
Ed è anche questo uno snodo decisivo nella vita di Giulio.
Se alla scuola dei Gesuiti era nato l’uomo di lettere e di dottrina, alla scuola dei Barberini si forgiò l’abilissimo curiale, smaliziato in tutti i segreti ravvolgimenti della vita di corte e nello stesso tempo avvezzo a trattare fin da principio i più gravi e complessi maneggi della politica europea.
E alla scuola dei Barberini si compiva l’uomo di gusto, l’amante delle arti belle, che anzitutto in se stesso raffinava quello stile di gentilezza e di urbanità, quella politesse che i suoi “padroni” non sempre seppero serbare.
La cultura di ispirazione barberiniana, tanto ospitale e prodiga di riconoscimenti per il Chia­brera quanto ostile al Marino (fino a mettere all’indice l’Adone), diede vita a una scuola che si suol dire moderato-barocca e che, sul fondamento di un solido classicismo e sulla premessa di una certificata devozione, si proponeva una scrittura di alti sensi morali e di nobili intenti educativi, rifuggendo dalle esasperazioni concettose e dal ribellismo alla moda, senza disdegnare e senza esagerare la seduzione della “meraviglia”.
Al dibattito Giulio Rospigliosi diede un suo modesto contributo con un Discorso stampato in appendice all’Elettione di Urbano papa VIII di Francesco Bracciolini (1628), un pistoiese che aveva fatto fortuna e che i suoi stessi familiari gli additavano a modello.
Ma il suo più serio contributo fu tributato al prodotto più felice della serra barberiniana, un prodotto per natura effimero e quasi irripetibile al di fuori del suo prezioso involucro originario (le mura stesse dei magnifici palazzi di famiglia): il maturo melodramma romano, che con il sigillo delle api barberine conobbe una breve e splendida stagione della quale Giulio Rospigliosi fu protagonista indiscusso.
Non era ancora agibile il nuovo grandioso palazzo alle Quattro Fontane sul Quirinale quando i Barberini inaugurarono la loro stagione operistica mettendo in scena l’8 marzo 1631 nel più modesto palazzo ai Giubbonari il Sant’Alessio, libretto di Giulio Rospigliosi, musica di Stefano Landi.
La vicenda di Alessio, nobile romano che, di ritorno da un pellegrinaggio in Terrasanta, rinuncia ai privilegi della sua condizione sociale e al conforto stesso degli affetti familiari e si riduce - irriconoscibile pezzente - a vivere, deriso ed oltraggiato, sotto le scale della sua ricca abitazione, insegnava il disprezzo del mondo e degli effimeri e periclitanti beni terreni, per affermare - nella solitudine, se necessario - il valore supremo della fede, dello spirito, dell’umiltà, della penitenza.
La tormentata ascesi del protagonista trionferà, infine, delle tentazioni e degli inganni del maligno come delle stesse pietose rimostranze e dolcissime blandizie dei congiunti, che non concepiscono il senso di quella rinuncia e reclamano i diritti dei loro vincoli terreni.
Attorno al motivo principale di questo immobile itinerario a Dio il Rospigliosi intreccia un dramma dialettico: una corale altercazione che assedia lo scandalo della santità.
L’azione scenica (ancora povera di elementi spettacolari) consiste in primo luogo in una disputa reiterata, che si acquieta solamente nel silenzio solenne della morte.
Hanno una funzione di contrappunto tematico e tonale le scene farsesche che l’autore dissemina nella compagine del dramma: insegna la retorica antica che ciò che è terreno è humilis e quin­di necessariamente “comico”.
Il dramma sacro rospigliosiano, anzi, evolverà sempre di più verso una barocca “tragicommedia”, verso un genere misto che sconfessa spavaldamente la regola aristotelica dell’unità.
Vi si sente il discepolo del teatro edificante dei Gesuiti, l’erede ideale delle scene canore fiorentine, ma soprattutto il campione maturo e geniale della poetica barberiniana che suggeriva il “diletto” spettacolare co­me mezzo per conseguire l’“utile” morale.
Al Sant’Alessio non compete il primato nella sto­ria del melodramma di argomento sacro: eventi spettacolari anteriori al 1631 si erano avuti a Fi­renze, a Mantova e in Roma stessa; ma il suo suc­cesso strepitoso, favorito dalla cassa di risonanza della scena dei Barberini, ne fece un archetipo esemplare, consacrato dalle repliche che si tennero negli anni successivi.
Ormai il melodramma ha con­quistato il primo posto nelle rappresentazioni di gala romane.
D’altronde, questa raggiunta dignità di nobile “rappresentanza” viene immediatamente confermata dalla lussuosa stampa della partitura (che doveva divulgare fuor di Roma i fasti del teatro Barberini), impreziosita da una serie di incisioni che riproducono le scene.
Il nome del librettista non c’è, come non ci sarà mai nelle designazioni ufficiali (anche se tutti a Roma lo sapevano), certamente per un nobile scrupolo dell’autore, oltre che per ovvie ragioni di convenienza.
Nel 1633 si mette in scena Erminia sul Gior­dano, primo melodramma profano del Rospi­glio­si, che attinge la storia a uno dei grandi serbatoi nar­rativi della letteratura italiana, la Gerusalemme li­berata, concedendosi ampia e felice «licenza di fin­gere».
Ne scaturisce una sorta di favola pastorale che dopo qualche sentimentale peripezia corona l’amore di Erminia per Tancredi, regalando allo spettatore il lieto fine vanamente atteso nella Libe­rata.
Domina il tono una malinconica grazia madri­galesca.
Il 1635, invece, è l’anno del secondo dramma sa­cro, I santi Didimo e Teodora.
Se il San­t’Alessio pre­dicava l’umiltà e la rinuncia, il nuovo dramma esalta l’eroismo per la fede.
I due protagonisti si le­vano subito, «campioni» di Cristo, a sfidare impavidi la rabbia dei persecutori, contendendosi in nobile gara il primato della ‘testimonianza’, la palma del martirio.
La gloria della chiesa militante - in attesa del trionfo celeste che arriverà puntuale in conclu­sione - squilla fin dalla prima scena negli accenti risoluti di Teodora, entusiasta adolescente, nuova vergine guerriera, che non esita ad opporre il petto immacolato al ferro crudele del carnefice.
Ma il dramma si distende pietoso agli affetti straziati dei padri, al tormento degli innamorati: all’u­mana fra­gilità di chi non è chiamato alla santa follia del sa­crificio.
Ai crudi oppressori sono riservate alcune delle scene più belle, come la scena (melodiosissi­ma) in cui il «tiranno» Eustrazio, lacerato dalle Furie infernali, prende (inorridito) coscienza del suo ine­luttabile destino di malvagità e di pena.
Il 1637 e ancor più il 1639 sono date memorabili nella storia della musica per la prima rappresenta­zione e la replica (in una redazione felicemente am­pliata) di quella che è considerata la prima comme­dia musicale: l’Egisto o Chi soffre speri, in assoluto uno dei più alti risultati della poesia per musica ita­liana.
Anche in questo caso il Rospigliosi si affidava a un collaudato modello narrativo: la celebre novel­la boccacciana di Federigo degli Alberighi (Decame­ron V 9), intricata e contaminata, peraltro, di vicen­de minori parallele o intersecanti, fino allo scoppio finale di un vero e proprio spettacolo pirotecnico che tutto risolve e dissolve.
La novità più clamorosa era l’innesto delle maschere di Zanni e Coviello (e dei figli Frittellino e Colello) che portano sulle aristocra­tiche scene di un teatro di palazzo il saporoso dialet­to e le burattinesche movenze della commedia dell’arte e traducono il motivo della signorile e ge­nerosa povertà del protagonista nell’eterna comme­dia della fame e del bisogno.
Si trattava, beninteso, di una stilizzazione di altissima maestria poetica, che toccava il suo culmine nel secondo intermezzo del 1639: un evento che fece scalpore e che ardiva nientemeno di mettere in scena (sotto la regia del Bernini) una fiera di paese con la sua discorde ar­monia di mille voci e di mille suoni.
Nel 1638, nell’intervallo fra le due redazioni dell’Egisto, era andato in scena il San Bonifazio; nel ’41, ’42 e ’43 era la volta della Genoinda, del Palazzo incantato, del Sant’Eu­sta­chio.
Segue un lungo periodo di silenzio.
Frattanto, in­fatti, era andata avanti la “carriera” ecclesiastica del Rospigliosi, “entrato in prelatura” nel 1631.
Se­gretario dei brevi ai principi (della corrispondenza diplomatica - si direbbe oggi) nel 1635, nel 1644 veniva nominato nunzio apostolico in Spagna e consacrato vescovo di Tarso.
Poco dopo spirava Urbano VIII.
Era la fine di un’epoca e una calamità per i Barberini, che, messi sotto accusa dal nuovo pontefice Innocenzo X per le loro malversazioni, riparavano in Francia sotto la protezione del cardinale Mazzarino.
Il teatro del palazzo alle Quattro Fontane restò chiuso per due lustri.
Gli anni trascorsi in Spagna come nunzio apostolico non sembrano segnati da eventi memorabili.
I rapporti fra quella che restava una delle più potenti monarchie d’Europa e la Santa Sede erano tesi e difficili dopo anni di controversie giurisdizionali e di divergenze politiche.
In questo spinoso contesto il Rospigliosi svolse un’attenta opera di mediazione - senza risultati appariscenti ma non per questo meno abile e tenace - tesa in primo luogo ad assecondare la grande offensiva diplomatica di Roma che mirava a ristabilire la pace fra gli stati cristiani e a creare un fronte comune contro la minaccia degli infedeli nei Balcani e nel Mediterraneo.
Né era meno prezioso l’oscuro lavorío volto a smussare le asperità dei piccoli incidenti quotidiani che costellavano l’ordinaria amministrazione dei rapporti internazionali.
La sua solerzia e la sua urbanità gli attirarono la stima e la fiducia del re Filippo IV, che seppe distinguere i meriti dell’uo­mo dalle ragioni di divergenza fra gli stati.
Ma nel soggiorno madrileno, più delle fatiche della diplomazia, ci interessa l’incontro con il grande teatro spagnolo del siglo de oro.
Purtroppo i poveri documenti finora messi in luce sono ben lontani dal rischiarare nel dettaglio le modalità di que­st’in­con­tro.
Sta di fatto che dopo la nunziatura la librettistica rospigliosiana denuncia una svolta così radicale che non può che postulare una fervida osmosi.
Richiamato nel 1652 e rientrato a Roma nel­l’e­state del 1653, Giulio sembra aver attraversato una congiuntura economica così difficile da fargli meditare il ritiro a vita privata a Pistoia.
Salvò una carriera che sembrava compromessa l’avvento al pontificato di Alessandro VII (1655) che lo chiamò alla segreteria di stato e che alla prima creazione di car­dinali lo elevò alla porpora.
Assolvendo agli uffici della sua nuova carica con l’acume e la solerzia che gli erano propri e guadagnandosi il favore della curia e della Francia (oltre a quello già incamerato della Spagna) spianò la strada all’ultimo e supremo avanzamento.
Nel frattempo era ripresa la frequentazione assidua delle lettere e delle arti; e certo adesso si può parlare di un mecenatismo e di un collezionismo praticato in grande stile, sostenuto da adeguati mezzi finanziari.
Nel 1654, amnistiati e rimpatriati i Barberini e riaperto il teatro del palazzo alle Quattro Fontane, Dal male il bene inaugura subito il ciclo “spagnolo”.
È uno spettacolo radicalmente innovativo rispetto all’età di Urbano VIII, quello che adesso va in scena.
Si mette da parte il gusto mirabolante delle fastose scenografie e delle macchine ingegnose, si riducono gli organici, si compatta l’azione, si privilegia la coerenza sulla varietà.
Tre coppie “amorose” esauriscono il cast; una scena urbana racchiude l’orizzonte; un breve volgere d’ore frena la fuga del tempo.
La “fonte” spagnola (Los empeños de un acaso di Calderón) suggerisce una concezione più moderna e funzionale della commedia, incentrata sui “caratteri” e sugli intrecci.
Il teatro Barberini conobbe un’autentica esplosione in coincidenza con il cosiddetto “carnevale della regina”, cioè con i trionfali festeggiamenti che si tennero durante il carnevale del 1656 per onorare Cristina di Svezia, che l’anno prima aveva abdicato al trono e si era convertita al cattolicesimo.
Il ruolo di punta toccò ancora al Rospigliosi, che vide rappresentati ben tre dei suoi melodrammi: di nuovo Dal male il bene e per la prima volta La vita umana (una macchinosa allegoria, fortemente ideologizzata, nella quale si legge in filigrana il valore emblematico che la chiesa di Roma voleva attribuire alla conversione di Cristina) e Le armi e gli amori.
Dopo il 1656 gli impegni sempre più gravosi in curia (non assistiti da una florida salute) misero da parte l’attività teatrale.
Anche il teatro Barberini avvizzì.
Alla morte di Alessandro VII (1667) un rapido conclave elesse quasi senza contrasto Clemente IX, «aliis non sibi clemens» (‘clemente con gli altri ma non con se stesso’), come recitava il motto di una sua medaglia.
Il promettente ma troppo breve pontificato di Cle­mente IX non bastò a segnare in modo significativo la storia della chiesa.
Gli atti di governo politico ed ecclesiastico di minore momento sembrano confermare nella sostanza - come il papa medesimo volle più volte che si ritenesse - gli orientamenti già delineati dal suo predecessore.
Le due iniziative di maggior rilievo che portano la sua impronta - la cosiddetta “pace clementina” e la difesa di Candia contro i Turchi - si risolsero in un formale ma ambiguo successo la prima, in una cocente sconfitta la seconda.
Nel primo caso si trattava di porre fine alla questione giansenista, aperta dalla pubblicazione postuma dell’Augustinus di Cornelius Jansen (Giansenio), che formulava proposizioni in contrasto con la dottrina cattolica su principi capitali come la grazia, il libero arbitrio, la predestinazione, l’efficacia del sacrificio di Cristo.
L’adesione di una parte considerevole del clero francese e belga (che aveva come ideale punto di riferimento il monastero di Port Royal), a dispetto delle sempre più circostanziate condanne emanate da Urbano VIII, Innocenzo X e Alessandro VII, non metteva apertamente in discussione l’autorità della cattedra di Pietro, ma si riparava sotto lo schermo di cavillazioni causidiche nelle quali era maestro soprattutto Antoine Arnauld e che, salvando la forma, mantenevano nella sostanza le ragioni del dissenso.
La conciliazione voluta da Clemente IX e formalizzata in un breve del 2 febbraio 1669 è oscurata dal­l’at­teggiamento ambiguo dei giansenisti, che sottoscrissero le dichiarazioni di fede volute da Roma ma nello stesso tempo confermarono tutte le loro riserve in un protocollo segreto, ammantato sotto la formula del “silenzio ossequioso”.
La benedizione papale, salutata come una vittoria della diplomazia francese, fu accolta in Francia con autentico giubilo; il giansenismo continuò a vigoreggiare e anzi ad espandersi, disseminando cellule persino in Italia, persino a Pistoia.
Il comportamento del papa, invece, fu interpretato nelle corti europee con molto scetticismo, come un segno di debolezza e di cedimento, laddove Cle­mente rivendicava la conformità delle sue azioni con i dettami dei suoi predecessori.
La difesa dell’isola di Candia, ultimo possedimento veneziano nel Mediterraneo orientale, la cui piazzaforte era assediata dalle armate turche, assurse agli occhi del pontefice a baluardo della cristianità contro gli insulti della paganía.
Animato da un fervido spirito di crociata, Clemente, oltre a finanziare generosamente la difesa veneziana, riuscì a promuovere una le­ga fra i principali stati cattolici e a far allestire due spedizioni militari (nel 1668 e nel 1669) sotto il comando del nipote Vincenzo Rospigliosi.
L’impresa, minata alla radice dalla scarsa coesione dell’alleanza e tutt’altro che assistita da una brillante direzione strategica, non ebbe esito felice, nonostante che riuscisse a varare una flotta di tutto riguardo.
Alla fine l’eroica resistenza veneziana, con la piazzaforte di Candia ridotta a un cumulo di macerie dalle artiglierie e dalle mine nemiche, il 6 settembre 1669 fu costretta alla resa ad onorevoli condizioni.
Il dolore dello smacco abbreviò la vita del pontefice.
Nella notte fra il 25 e il 26 ottobre Clemente subisce un attacco apoplettico, dal quale sembra riprendersi rapidamente; ma nella notte fra il 28 e il 29 novembre l’attacco si ripete; il 9 dicembre sopravviene la morte.
Nel carnevale precedente era stato rappresentato per l’ultima volta un suo melodramma: La Baldassara o La comica del Cielo (questa volta sono gli stessi Rospigliosi che mettono in scena lo spettacolo nel loro palazzo romano con l’assistenza del Bernini).
Anche la Baldassara dipende da una “fonte” spagnola, ispirata a un autentico fatto di cronaca: la clamorosa conversione di un’attrice di successo (una donna perduta) a vita di devozione e penitenza.
Il copione è prestabilito e prevedibile.
Anche qui assistiamo al percorso obbligato della santità: la scelta irremovibile del chiamato da Dio, la dissuasione da parte delle persone care, le tentazioni del­l’“avversario” e le seduzioni dell’“abisso”, l’apo­teosi finale con carole paradisiache.
Ma quel percorso è cesellato con arte sopraffina, spesso con risultati che possono sorprendere.
Il congedo stesso appare siglato da un’epigrafe suggestiva:
Del Paradiso ecco i teatri aperti:
Venga da’ suoi deserti,
Dall’orrore e dal gelo
A trionfar la Comica del Cielo!
"
[Danilo Romei, Profilo biografico di Giulio Rospigliosi]