cultura barocca
"Colla Sgarba" e al al numero 11 il Palazzo Orengo (fortificata durante la guerra di successione al Trono Imperiale) ove verosimilmente sorgeva il medievale Castello di Portiloria (parte antica ed orientale delle fortificazioni di Ventimiglia medievale) guardavano la via e il nodo di Nervia = Analizza la carta nella sua intierezza con le didascalie a fondo quindi da altra carta, proposta integralmente tramite un link, vedi qui un particolare effigiante i quartieri austro-sardi di Camporosso donde giungeva la strada delle Braie e da dove si poteva sia risalire a Dolceacqua sia ascendere verso le postazioni delle Maule = in merito a siffatto areale vedi il passaggio di intitolazione -previo cointestazione pro tempore- tra chiesa di S. Cristoforo e poi chiesa di S. Giacomo


Il FORTE (O CASTELLO) DI PORTILORIA (del cui nome, sulla base di scoperte e postulazioni si può anche proporre una SPIEGAZIONE FILOLOGICA COME QUI SI LEGGE) costituisce uno tra i punti più enigmatici ma anche affascinanti in merito alle FORTIFICAZIONI DI VENTIMIGLIA (CLICCA E VEDI) in rapporto anche a quell'antemurale naturale per la città furono il
FIUME ROIA ("ROYA" ANTICAMENTE RUTUBA = VEDI)
ed ancor più plausibilmente, data la locazione, il
NERVIA CHE AI TEMPI DI ALBINTIMILIUM DOVEVA COSTITUIRE L'APPRODO PRINCIPALE DELLA CITTA' ROMANA.
In definitiva il
CASTELLO O FORTE DI PORTILORIA (POI ANCHE PORZIOLA)
rimanda a parecchi interrogativi sia alla vasta zona in generale che a
TANTE TRASFORMAZIONI DI QUESTO STESSO AREALE NERVINO ANCHE PER LA REALIZZAZIONE ATTRAVERSO I SECOLI DI STRUTTURE MILITARI, FORTIFICAZIONI, TRINCERAMENTI ECC. SU CUI QUI SI OFFRE UN ATTENTO RENDICONTO.
Atteso inoltre che se come qui di seguito si legge
IL CASTELLO ERA UN FORTILIZIO AVANZATO VERSO IL NERVIA
una vita non guerresca ma assai importante, di natura prevalentemente agricola ma altresì di transito,
RUOTAVA, COME ANCORA CLICCANDO QUI SI LEGGE, INTORNO A QUESTA STRUTTURA
[ al cui interno, e questo è il caso della sua prima citazione del fortilizio, venne firmata nel 1246 una convenzione tra Ventimiglia e Dolceacqua per una reciproca collaborazione anche in caso di guerra incluso plausibilmente lo sfruttamento da parte di Doceacqua dell'approdo del Nervia con i percorsi dell'epoca, non senza verosimilmente precindere dall'accesso al porto del Roia/Roya (ma ferma restando, nonostante questi accordi e ulteriori scontri l' ineluttabilità della storia "genovese" di Ventimiglia e suo contado documentata dall'8-VII-1251 quando Fulco Curlo e Ardizzone De Giudici si recarono a Genova dal Podestà Menabò Torricella per le convenzioni che sancirono la fine del Comune intemelio proiettandolo definitivamente nel "Dominio" della Repubblica siffatta convenzione durò relativamente poco e anche dal lato fiscale e viario dopo che nel 1296 Dolceacqua tentò l'improba strada all'acquisita Ripa Nerviae ad Rotam si ritornò, non senza liti, al tragitto antico sin agli approdi intemeli fu riattivato, in rapportò però alle mutate condizioni geopolitiche, nel 1355 ].
Il
CASTELLO DI PORTILORIA
aveva del resto un'indubbia e molteplice serie di funzioni = esso GUARDAVA (verosimilmente svolgendo una funzione di controllo e dogana) quanto restava del porto canale del Nervia (e quindi l'omonima piana sulla riva occidentale, alla foce, di questo torrente ) e poi la via di fondovalle, i resti del tragitto costiero romano, il duecentesco ponte di legno sul torrente ( di Amand., cit., doc. 641 del 28-VIII-1254) con il sostanziale quadrivio viario di Nervia = ma la vastità delle potenzialità strategiche e di visualizzazione dei siti non si fermava lì atteso che attraverso le presumibili postazioni in altura siffatta vastità di controllo si estendeva ben oltre (poteva controllare, oltre ad eventuali pericoli provenienti dal mare, la vasta zona dei Piani di Vallecrosia dove ancora sopravvivevano medesti reperti della Strada Romana o Strata Antiqua, cui si accedeva dall'importante Guado "del Verbone o Torrente del Crosa, conducendo ad un polmone agricolo storico tradizionale quello delle " BRAIE " verosimilmente percorso, benché chissà in quali condizioni però, dalla deviazione, gergalmente poi denominata "STRADA PER O DA CAMPOROSSO" .
Il FORTE (da non confondersi assolutamente con torri, erette o già esistenti, attrezzate contro i Turchi a guardia del mare e quindi prossime alla costa o con resti di strutture militari posteriori a partire dalla settecentesca "Guerra di Successione per il Trono Imperiale" = vedi qui una carta antica multimedializzata e la stessa, senza moderne attivazioni di voci, come nel '700 la realizzò l'ingegnere di guerra genovese M. Vinzoni) sorgeva verosimilmente in una posizione egemone (sì da sfruttare il sito strategico ed ad elevata potenzialità d'osservazione di "COLLA SGARBA") rispetto a queste proprietà e agli eventuali insediamenti, su un sito relativamente in altura relativamente all'odierna parrocchiale nervina di Cristo Re eretta non lungi da dove stava nel '700 la ridotta o forte Orengo degli Austro-Sardi (nel XVIII secolo ai tempi della guerra di successione al trono imperiale), a sua volta edificato nel PREDIO (CASSINA) ORENGO già prebenda episcopale dal 1260 - 1261: poco più in basso di dove stava il CASTRUM AQUAE [o distributore alle condotte cittadine del rifornimento idrico portatovi da due acquedotti provenienti da rio Seborrino] eretto dagli ingegneri e dagli operai idraulici di Romani e nei pressi una struttura basilicale del medio Impero, rilevata di recente, su cui in seguito venne forse costruito un edificio paleocristiano [G. Rossi, Dove si trovava il castello di Portiola , “Giornale storico e letterario della Liguria”, 1 (1900), p. 376-80 = nel recente "Castelli e fortificazioni nelle città portuali dell’area alto-tirrenica" di Enrico Basso nella La Liguria di Ponente: da Ventimiglia a Savona in Castelli e fortezze nelle città e nei centri minori italiani (secoli XIII-XV), Atti del Convegno di Cherasco 2008 nulla di nuovo vien detto sul Castello in questione rispetto a queste fonti e alle ulteriori ricerche) = latino Portiloria = volgar. Portiola, pron. Porziola: "Manuele, conte e capitano di Ventimiglia, con il consenso dei consiglieri e del consiglio di Ventimiglia, stipula un patto con Carlevario e Giacomo Preposito – per parte di Dolceacqua – onde le due comunità collaborino in pace e guerra con Genova e il conte di Provenza e contestualmente possano percepire i diritti bannali dei cittadini abitanti nei vicini rispettivi distretti. Il documento detta in questa modo: Nos Manuel comes et capitaneus hominum Vintimilii et voluntate et consensu consiliariorum Vintimili et consilio congregato more solito, scilicet Raimundi Saxi, Oberti Marosi, Fulconis de Castello, Wilelmi Prioris, Conradi Intraversati, Fulconis Curli, Ottonis Marchesii, Ugo Speronis, Willelmi Bonabella, Jacobi Grilati, Raimondi Prioris, Wilelmi Valorie, Rubaldi Balbi et nomine capitaneatus Vintimilii concedimus vobis Carlevario consuli Dulcisacque, quod vos possitis accipere banna de seminatis vestris et vestris agregis quos habetis infra territorium Vintimilii de omnibus hominibus preter de hominibus Vintimilii et de suo districtu... in sursum versus collam de fino. Et de dictis confinis in sursum possitis capere banna de vestris seminatis et agregis sicuti dictum est. Item promittimus vobis quod nos non faciemus pacem nec concordiam cun Genuensibus sine vobis. Et contra Iannuenses et Comitem Provincie si guerram habueritis promittimus vobis iuvare pro posse nostro. Et hec omnia predicta promittimus vobis attendere sub ipoteca bonorum Vintimilii. Item nos Carlevarius consul Dulcisaque et Iacobus Prepositus nomine communitatis Dulcisaque promittimus vobis Manuelo capitaneo hominum Vintimilii, quod nos non faciemus pacem nec concordiam cum Genuensibus sine vobis. Et promittimus vobis iuvare pro posse nostro de guerra quam habetis vel habueritis cum Genuensibus et cum Comite Provincie. Et predicta promittimus vobis attendere sub ypoteca bonorum nostrorum. Testes presbiter Ugo Ferrar, Rainaldus Garillius, Ugo Conqua de Saurgio/ Actum in castro Portilorie die XVI. octobris anno dominice incarnationis MCCXLII. inditione V./ Ego Wilelmus Bermundus sacri Palatii notarius extraxi de cartulario quondam magistri Wilelmi notarii nihil addito vel diminuto literam vel punctum quod mutet sententiam vel sillabam scripsi. = Albintimilium...cit., p. 158-9, 183 nota, 189 nota e 197-8).

Tale CASTRO confinava più in alto con la terra di Giorgio Cataneo, inferiormente con l' acqua del Nervia, da un lato con la terra di Mauro de Mauri, dall'altro con quella di Guglielmo Maroso...": da altri documenti si apprende che vi eran nei pressi terre coltivate ed un pozzo per l'abbeveraggio (Id., doc. 357 del 25-III-1261): il toponimo, da cui il FORTE traeva nome, risulta variamente nominato dal notaio di Amandolesio quasi a testimoniare che, accanto alla struttura militare, vi esistessero dei casolari con residenti stabili, impegnati nell'attività rurale.
Sempre dal duecentesco notaio genovese si evince la presenza nel luogo, vale a dire nell'AREALE DEL SITO DI NERVIA SU CUI GRAVITAVANO VILLE RURALI IMPORTANTI TRA CUI CAMPOROSSO (CAMPUS RUBEUS) di strutture funzionali per la vita agricola oltre che come detto di terreni da porre a coltura e di tutto quanto fosse necessario, partendo dalla gastronomia, per la vita di relazione: vedi qui doc. 260 del 9 giugno 1260 [citazione di troilum et fons (che sfruttavano ancora la portata degli acquedotti romani?) = Importante è anche il doc. 563 del 18 maggio 1262 (colture di di fichi e di viti).
In questo caso, oltre al consueto toponimo, compare nel documento la citazione
IN PLANO NERVIE
(che come qui si può vedere ancora agli
INIZI DELLA GUERRA DI SUCCESSIONE IMPERIALE DI META' XVIII SECOLO ERA AREA FLORIDAMENTE AGRICOLA CONFINANTE CON QUELLA DELL'ATTUALE CAMPROSSO MARE CON RELATIVA "STRADA DI E PER CAMPOROSSO", DEI PIANI DI VALLECROSIA E DELL'ACCESSO A BORDIGHERA

e di cui si può qui leggere un'utile
DIDASCALIA CRITICA)
evidentemente per indicare
la zona pianeggiante, a sud dell'area vera e propria del castello, dove grossomodo corrono oggi la via statale e la ferrovia,
sino a confinare con la
prebenda
episcopale, area dell'ex officina del gas e dell'attuale comprensorio ospedaliero intemelio].
Anche se un rilievo eccezionale ha soprattutto
il
doc. 515 del 25 novembre 1262 [ secondo la tecnica colturale aggregativa di PECIAM UNAM TERRE AGGREGATE FICUUM ET AMINDOLARUM
colture di fichi e MANDORLI (del quale e del cui relativo frutto,
si vedano qui, appena dopo delle
considerazioni dei classici la valenza che assunsero successivamente nel contesto del SIMBOLISMO CRISTIANO quanto, più semplicisticamente, della TRADIZIONE ALIMENTARE DEI PELLEGRINI DELLA FEDE ATTRAVERSO LA VIA FRANCIGENA RIVOLTI A RAGGIUNGERE ROMA OD I LUOGHI SANTI OD ANCORA IL SANTUARIO GALIZIANO DI SANTIAGO DI COMPOSTELA.
A titolo integrativo, seppur connesso ad altre motivazioni, non si può poi far a meno di citare
quanto ne scrissero nel XVI secolo
i naturalisti Pietro Andrea Mattioli, "Amatus Lusitanus" e Castore Durante
.

Questo
documento del di Amandolesio del 25 novembre 1262, qui trascritto dal testo di riferimento, è assai importante, attestante nell'areale nervino, cenno verosimile ad un più esteso spazio agronomico, la coltivazione di mandorle (vedi le evidenziazioni: amandule = mandorle)
e non manca di interesse anche per la comprovazione di mutate condizioni socio-economiche e giurisdizionali nel contesto dell'areale atteso che siffatto documento risulta
steso soli 2 anni dopo la nuova demarcazione dei confini della Diocesi di Ventimiglia con la realizzazione di 8 prebende episcopali:
in particolare si vedano per approfondire criticamente quanto appena scritto:
LA STORIA DELLE PROPRIETA' DIOCESANE A NERVIA CON IL SETTECENTESCO RIDIMENSIONAMENTO DI POSSESSI EPISCOPALI A NERVIA (VEDI I PUNTI 3 E 6) AD OPERA DEL VESCOVO MASCARDI PER FINALIZZARE IL PALAZZO EPISCOPALE DI LATTE (VEDI G. B. SEMERIA, SECOLI CRISTIANI DELLA LIGURIA..., QUI DIGITALIZZATO = IN DETTAGLIO LA DIOCESI DI VENTIMIGLIA: ANALIZZA QUINDI LA CHIESA DI CRISTO RE A NERVIA (TESTO MULTIMEDIALE) E QUINDI LA SIGNIFICANZA DELLA STORIA NELL'AREALE NERVINO E L'IPOTESI SU ANTICHISSIMI EDIFICI RELIGIOSI.

[doc. 515, 25 novembre 1262 (Ventimiglia) - Iacopa, Moglie di Guglielmo Maroso, vende ad Ingone Burono una pezza di terra, coltifata a fichi e mandorle, situata nel territorio di Ventimiglia, a Portiloria, per il prezzo di 3 lire e 18 soldi di genovini di cui lascia quietanza]

Ingonis Buroni/ Die XXV novembris, post nonam, Ego Iacoba, uxor Guillelmi Marosi, vendo, cedo et trado tibi Ingoni Buroni peciam unam terre, agregate ficuum et amindolarum, positam in territorio Vintimilii, ad Portiloriam, cui coheret superius et ab uno latere terra Mauri de Mauro, inferius ab alio latere via , cum omni suo iure, ratione, actione reali et personali, utili et directo omnibusque demum pertinenciis suis, nichil ex his in me retento, ad habendum, tenendum,, possidendum et quicquid ex ipsa deinceps iure proprietario et titulo emptionis volueris faciendum, finito precio librarum trium et soldorum decem et octo ianuinorum, de quibus me bene solutam et quieta voc[o], renuntians exceptioni non numerate seu recepte pecunie et omni iuri. Quod si dicta terra ultra dictum valet, sciens ipsius veram extimationem, id quod ultra valet mera et pura donatione inter vivos dono et finem inde tibi facio et requisitionem atque pactum de non petendo, renuntians legi per quam deceptis ultra dimidiam iusti precii subvenitur. Possessionem insuper et dominium dicte terre tibi tr[a]didisse, confiteor, constituens me ipsam tuo nomine tenere et precario possidere dum possidebo vel ipsius possessionem sumpseris corporalem, promittens tibi de dicta nullam deinceps movere litem, actionem seu controversiam nec requisitionem facere, sed potius ipsam tibi et heredibus tuis pe meosque heredes ab omni persona legittime defendere, autoriçare et disbrigare. Alioquin penam dupli de quanto dita terra nunc valet vel pro tempre meliorata valebit tibi stipulanti promitto, rata manente venditione. Pro pena et predictis omnibus observandis universa bona mea habita et habenda tibi pigneri obligo faciens hec omnia et singula supradicta consilio Nicolai Barle et Oberti filii Ottonis Iudicis, vicinorum meorum, quos in hoc casu meos eligo consiliatores et propinquos. Insuper ego Raimundus Iudex, iussu et voluntate atque mandato dicte Iacobe, de omnibus et singulis supradictis pro ipsa Iacoba versu te predictum Ingonem me constituo principalem defensorem et observatore, renuntians iuri de principali e omni alii iuri. Et pro predictis omnibus observandis universa bona mea habita et habendo pigneri obligo. Actum in domo dicti Raimundi, presentibus testibus Raimundico clerico et et dictis consiliatoribus. Anno in indictione ut supra/ S. s. I.

cui corrisponde il seguente atto

[ 25 novembre 1262 (Ventimiglia) - Ingone Burone promette di restituire a Iacopa, moglie di Guglielmo Maroso, la terra da essa vendutagli, ed il relativo atto, di cui al documento precedente, se essa, entro un anno, gli verserà la somma di 3 lire e 18 soldi di genovini, prezzo della terra medesima ]

Iacobe, uxoris Wilelmi [Maro]si/ Die eodem, hora, loco et testibus. Ego Ingo Buronus promitto et convenio vobis Iacobe, uxori Guillelmi Marosi, reddere er restituere tibi vel tuo certo misso per me vel meum missum peciamquamdam terre, positam in territorio Vintimilii, ad Portiloriam, cui coheret superius et ab uno latere terra Mauri de Mauris, inferius et alio latere via, quam mihi hodie vendidisti, et cartam illius venditionis, scriptam manu Iohannis de Mandolexio, || notarii subscripti, [us]que ad annum unum proximum si mihi vel meo certo nuncio per te vel tuum nuncium solveris, usque ad dictum terminum, pro precio ipsius, libras tres et soldos decem et octo ianuinorum. Quod si contrada[cero] vel u[t] supra non observavero, penam dupli de quanto dicta terra nunc valet vel pro tempore maluerit tibi stipulanti, pro[m]itto, rato manente pacto,. Pro pena et predictis omnibus observandis univers bona me[a] habita et [h]abenda tibi pigneri obligo. Actum anno et inditione ut supra

[glossa = "E BÁNE" sono biscottini alle mandorle (con stretta connessione, anche per la ricetta, con dolci usuali in Roma antica e nell'Impero vale a dire dei
BISCOTTI PRIMENTI ALLE MANDORLE DETTI CRUSTULA AMYGDALINA),
tradizionali di CAMPOROSSO, che fino all’Ottocento era gran produttore di mandorle secondo una tradizione remotissima certo non esclusiva del borgo ma in area intemelia tipica dello stesso in modo peculiare pur se Luigi Ricca nel suo libro di un ottocentesco Viaggio da Genova a Nizza, per quanto riferisca tale coltura a tutto il Ponente ligure, citi espressamente e prioritariamente le colture di Mandorli a Taggia e quindi a Nizza [resta arduo oltre i dati assimilati precisare l'origine di coltura di mandorle (di origine comunque antichissima con attestazioni che oscillano tra l'uso alimentare, le feste, anche nuziali, e verosimilmente i riti funebri) nell'areale intemelio ma non possiamo dimenticare la conquista romana della Liguria e, con l'Impero, l'introduzione nella regione presto romanizzata di una più sofisticata cultura esistenziale, compresa quella alimentare: sì che -PRENDENDOSI A SEGUIRE I DETTAMI DEL GRANDE ASTRONOMO APICIO piuttosto che quelli della ormai superata vecchia tradizione alimentare strutturata sulle RICETTE GASTRONOMICHE DI CATONE "IL CENSORE" TEORICAMENTE REDATTE PER LA FAMILIA DELLA VILLA RUSTICA MA IN EFFETTI FORMULATE ANCHE COME ESPRESSIONE IDEALE DI VITA FRUGALE D'UNA PRISCA E GUERRIERA CIVILTA' - specie tra i ceti benestanti (come ovunque, anche ad Albintimilium, peraltro influenzati pure dalla penetrazione culturale greca, cioè di una civiltà estremamente raffinata) comparvero cibi sempre più pregiati ed elaborati in cui e specie nei dolciumi o bellaria non mancava certo, come qui si vede, un uso elaborato e sapiente delle
MANDORLE]
(L'INFLUSSO DI ROMA E DELLE SUE COSTUMANZE NELLE REGIONI DELL'IMPERO NON EBBE EGUALI FINO ALL'EPOCA INTERMEDIA E CIO' DIPESE DA MOLTEPLICI FATTORI A PARTIRE DAL MERCATO APERTO IMPERIALE, CON LA DISTRIBUZIONE DI MERCI MA ANCHE CON LA TRASMISSIONE ORALE DA PARTE DEI VIAGGIATORI E MERCANTI DI NOTIZIE VARIE MA ALTRESI' DA UN FATTO SINGOLARE L'AFFERMARSI DI UNA SORTA DI EDITORIA E PREGIORNALIMO CON LA PUBBLICAZIONE PERIODICA DEGLI ACTA DIURNA = QUI SI PUO' LEGGERE IN MERITO ALL' ORIGINE DEGLI ACTA EQUIPARATI AI SERVIZI ROMANI DI COMUNICAZIONE PUBBLICA, PUBBLICITARIA, PROMOZIONALE E MEDIATICA E VEDI POI ALLA LORO EVOLUZIONE E AFFERMAZIONE COME FORME DI PREGIORNALISMO VERO E PROPRIO) VEICOLANTE NOTIZIE UFFICIALI MA ANCHE EPISODI DI VITA SPICCIOLA DELLA CAPITALE IN FORZA DELL'APPARATO VIARIO E DELLA CELERITA' DI COMUNICAZIONI GARANTITE DA VARIE STRUTTURE UTILIZZATE DAI PRIMI VERI EDITORI SPESSO MOLTO EFFICIENTI PER QUANTO ISPIRATI AL PRINCIPIO GIURIDICO CHE DETTA " SUPERFICIES SOLO CEDIT: ED IN GRADO DI FORNIRE DATI ANCHE IN RELAZIONE ALLE COSTUMANZE DI VARIO ORDINE DALLA GASTRONOMIA ALLA COSMESI, PER ESEMPIO NELLA CURA DEI CAPELLI E IL CAMBIARE DELLE MODE ANCHE SE POI ASSIEME AL TRIONFO SI EBBE CON LA DECADENZA DELL'IMPERO PURE LA FINE DI QUESTA FORMA DI PREGIORNALISMO ") .
*************
Venendo
a tempi più recenti e con dati più certi dei quali si può qui leggere è comunque da riconoscere che la produzione di prodotti dolciari come E BÁNE avveniva valendosi del
lavoro domestico oppure, recuperando una tradizione classica, servendosi di vere e proprie "aziende private" o di "pubbliche strutture concesse in appalto" i cui prodotti si vendevano in sedi commerciai prossime alle moderne "panetterie" di cui parla il cinquecentesco T. Garzoni nella sua Piazza di tutte le Professioni del Mondo =
LEGGI QUI IN PARTICOLARE TESTO DIGITALIZZATO DE
DE' FORNARI, O' PANATIERI, O' CONFERTINARI, ZAMBELLARI, OFFELARI, & CIALDONARI, DISC. CXXXIII

[in merito ai FACITORI DI DOLCIUMI vedi qui ZAMBELLARI e OFFELARI ed ancora i CIALDONARI creatori fra l'altro del CHONO FATTO D'UVA PASSA, & AMANDOLE (per espressa indicazione dell'autore ascritti a RICETTE PROPRIE DEGLI ANTICHI, INTENDENDOSI PER ANTICHI. COME SI LEGGE DA RIGA VI DAL BASSO, PRINCIPALMENTE GRECI E POI ROMANI ) = visualizza poi anche, per quanto scrive l'autore, le PENE COMMINABILI A FORNAI FURFANTI (a titolo integrativo e con molta cautela sembrano esservi convergenze sostanziali tra ciò che il Garzoni chiama Chono e qualche alimento prossimo al "pangiallo", meglio noto come "pangiallo romano" un dolce, citato anche da Apicio, che ha la sua origine nell'antica Roma e più precisamente nell'età imperiale. Era, infatti, un'usanza di quei tempi distribuire questi dolci dorati, durante la festa del solstizio d'inverno, in modo da favorire il ritorno del sole. Il tipico "pangiallo romano", ha subito numerose trasformazioni durante i secoli a causa dell'espansione dei confini territoriali e dell'incremento nella comunicazione tra le varie regioni italiane. Tradizionalmente il pangiallo veniva ottenuto tramite l'impasto di frutta secca, miele e cedro candito, il quale veniva in seguito sottoposto a cottura e ricoperto da uno strato di pastella d'uovo. Fino a tempi molto recenti nella preparazione del pangiallo le massaie romane mettevano i noccioli della frutta estiva - prugne e albicocche - opportunamente essiccati e conservati, in luogo delle costose mandorle e nocciole, che avrebbero però dovuto costituire l'elemento portante)].

Purtroppo le nuove guerre dei nuovi eserciti, dal '600 e soprattutto dal '700, andarono ad accelerare vertiginosamente i danni strutturali e spesso periodici all'ambiente ed ai vari tipi colture tradizionali, anche arboricole, come qui si vede da un semplice confronto cartografico oltre che da uno specifico commento critico = in merito all'eccedenza dei prodotti agricoli ed al loro trasporto (con quasi certezza anche tramite l'ausilio di muli) ed eventuale commercio nel territorio del Capitanato di Ventimiglia si poteva utilizzare questo percorso (clicca sul numero 1) anche visualizzando la carta enfatizzata mentre per accedere nell'area di Vallecrosia era fattibile, forse da molto tempo, avvalersi di un ponte a Camporosso o di un guado utilizzando poi la così detta strada di Camporosso o per Camporosso sempre auspicando che i percorsi non fossero impediti da alluvioni o tracimazioni del Nervia.
A chiosa di di queste affermazioni merita di esser analizzata un' opera (apparentemente d'autore anonimo) ovvero il Viaggio da Genova a Nizza, ossia Descrizione con notizie storiche, di statistica ed estetica e d'arti e di lettere / scritta da un ligure nel 1865 Firenze : tip. Calasanziana, 1871, 2 v. ; 16 cm. = CLICCA QUI PER ACCEDERE A DUE TIPI DI DIGITALIZZAZIONE INTEGRALE, CON O SENZA APPROFONDIMENTI CRITICI = ENTRAMBE CON INDICI.
L'anonimo ligure che è poi il Padre Luigi Ricca minore osservante di Civezza (nella carta tutte le voci evidenziate di borghi, città ed altro sono attive: basta cliccarvi sopra)
- il Ricca (1836-1881) fu botanico e naturalista, membro della Società Ligure di Storia Patria. Gli si debbono, fra gli altri lavori, il qui digitalizzato Viaggio da Genova a Nizza e un Catalogo delle piante vascolari spontanee della zona olearia nelle due valli di Diano Marina e di Cervo. Importante poi il suo lavoro Compendio delle più importanti vitali manifestazioni delle piante coll'aggiunta delle Geografiche e Geologiche loro relazioni. Saggio di studi botanici Tip. Lit. di Gio. Ghilini, Oneglia, 1866. In-8°, pp. 248, (4) -
annota in conclusione del suo lavoro :
"Io vi ho descritto questa riviera occidentale come un piccolo mondo in miniatura favorito dalla natura, con i suoi monti tagliati in forma di terrazzo, sistemati da muri a secco, ove il fico, il pesco, il mandorlo abbelliscono questi pensili orti, e la vite vi stende le sue allegre ghirlande e l’ulivo si inchina sotto il peso delle pingui sue frutta (pag. 186, vol. II)"
= la sua opera, che assai risente degli scritti del Navone e poi del Bertolotti, si eleva qui in una descrizione del paesaggio (nemmeno poi rimasto estraneo all'Intemelion del novecentesco Peitavino) in cui la presenza di mandorli era una costante: ma verosimilmente era una costante da secoli come si evince da documenti ufficiali proposti in questa sede.
Ma altri sono i pregi del lavoro a prescindere da qualche errore sulla storia antica ed uno di questi pregi dipende dal fatto che il Ricca scrive decenni dopo il Navone ed il Bertolotti e di conseguenza la sua opera (leggi indice) diviene particolarmente utile per i diversi punti in cui parla della nuova strada litoranea, per quanto con strutture ancora da terminare e per cui tanto si adoprò il deputato Fruttuoso Biancheri, avvocato di Camporosso, e della ferrovia in corso di realizzazione.
Ai tempi cui risale il viaggio di Luigi Ricca come qui si legge
"il treno giungeva già dal 1856 da Genova" solo
"a Voltri e potè raggiungere la qui effigiata Savona, essendo finalizzata per questa tratta la linea ferroviaria solo il 19 maggio 1868 come si vede in questa litografia del Gozo = i lavori comunque presero a procedere sempre più velocemente e tra il 1865 ed il 1875 Domenico Cambiaso disegnò la crescente linea ferroviaria come si vede in merito a Porto Maurizio ed ancora qui in relazione all'areale di Bordighera = l'arrivo della linea ferroviaria a Ventimiglia nel 1871 costituì un evento epocale, anche se molto restava da fare, anche in relazione, oltre che per il crescente turismo, per lo sviluppo dei commerci, in forza dei moderni sistemi di trasporto tra grande via litoranea e strada ferrata, per i nuovi prodotti agronomici da trasportare in piazze mercantili sempre più lontane"
Occorre dire che Luigi Ricca risulta particolarmente interessante anche in merito alle trasformazioni dell'areale tra Bordighera e Ventimiglia ed in particolare a riguardo di fondamentali trasformazioni viarie tra Vallecrosia-Camporosso Mare separate da due corsi d'acqua non indifferenti e nel caso del Nervia privo di un ponte alla foce = ciò che scrive in merito è qualcosa su cui meditare in rapporto alle notevoli trasformazioni strutturali e conseguentemente socio-economiche e commerciali di questa vitale contrada ponentina =
" In quella sorta di diario di eventi, personali e non, dello storico locale Girolamo Rossi, intitolato Memoriale Intimo ed edito su iniziativa, nel 1983, della Cumpagnia d’i Ventemigliusi, in collaborazione con l’Istituto Internazionale di Studi Liguri a titolo meramente cronachistico l'autore annota: 1852 - Oggi viene deliberata al sign. Becchi di San Remo l’impresa di costruire il ponte sul torrente Nervia = sembra davvero che le postulazioni e le interpellanze del deputato sabaudo avvocato Fruttuoso Biancheri di Camporosso vadano in porto in merito all'assetto stradale tra Nervia e Ventimiglia. il Ricca, non menziona il ponte sul Nervia (frazione intemelia che prescindendo dagli scavi archeologici auspicati dal Ricca gradualmente si evolverà in centro importante, specie come nodo viario, ma fa comunque molte citazioni utili tra cui la rattificazione del tratto vallecrosino della romana Iulia Augusta o del suo ormai misero tracciato con la strada fatta dal Goveno Francese e in atto di finalizzazione sotto i Savoia (al fine anche di evitare una deviazione, per accedere mancando di ponte il Nervia alla foce, al sito di Camporosso, tramite la "strada di e per Camporosso" e quindi al tragitto di val Nervia oppure proseguendo per la via della Tramontina conducente all'altura delle Maule Maure, San Cristoforo/San Giacomo, donde era fattibile un pur tormentato accesso alla città, sempre che non si intendesse aggirare la città procedendo alla volta di Bevera, Latte e quindi dell'areale francese ) come qui e altrove si legge scritto dal Ricca, citando l'autore altre imprese pubbliche in corso di finalizzazione (quale il nuovo ponte sul Roia) o in essere e progettate e comuque di prossima realizzazione a Ventimiglia compresi, alla maniera che scrive l'autore e qui si può leggere, i lavori per la strada rotabile, che fra non molto si collegherà colla corriera di Breglio per il Piemonte e fra breve si darà opera ad altro nuovo ponte in ghisa per la strada ferrata "

Giammai comunque bisogna dimenticare, con quella agronomica, l' antichissima valenza viaria oltre che spirituale di questo borgo dal toponimo originario di
CAMPUS RUBEUS
originario insediamento rurale di origine romana [ il cui primigenio complesso demico nello straordinario areale topografico della CHIESA DI S.PIETRO ( inevitabilmente soggetta all'influsso delle case monastiche pedemontane e delle loro appendici sino al Convento dolceacquino di N.S. della Mota (Muta) e quindi all'influenza monastica dei Benedettini oltre che della loro vigorosa ripresa dell'agronomia in forza del sistema della Grangia ma anche, dopo la cacciata dei Saraceni del Frassineto e il ricontrollo cristiano dei tragitti, sito strategicamente eccezionale per i "Viaggi e i Pellegrinaggi della Fede" nei diversi Luoghi Santi), in epoche successive dimensionato quale contrata (contrada) = siti tutti, verosimilmente da tempi lontanissimi, raggiungibili per un ponte (guado? romano a pedate di tipo medievale?) sul Nervia imboccata, provenendo da est, una DEVIAZIONE DELLA STRATA ANTIQUA O "STRADA ANTICA" (GIA' DELLA STRADA ROMANA?) secondo la direttrice delle Braie ] dovette per qualche scelta demografica o rurale esser "scivolato", per quanto sappiamo dal XIII secolo, nell'attuale logistica.
per agevolare la lettura visualizza qui dalla
CARTA NOTARI UN DISCORSO SULLE POSSIBILI TAPPE
DI UNA
ANTICA VIA DEI PELLEGRINAGGI A SANTIAGO DI COMPOSTELA QUASI SULLA DIRETTRICE VIARIA SEGNATA IN QUESTA MAPPA DEL XVIII SEC.
PER QUANTO I SITI ABBIANO PATITO
L'INCURIA DEL TEMPO, DI TANTE QUERRE, PASSAGGIO E SOPRATTUTTO DANNOSI STANZIAMENTI DI TRUPPE DI VARI ESERCITI

seguendo questo tragitto
"chiesetta di San Rocco, a Vallecrosia, di San Giacomo di Camporosso, crinale di Ciaixe," [in questo contesto assume importanza a riguardo di Camporosso qual storico produttore di mandorle la moderna constatazione a riguardo della località Ruge, sotto il vallone di Ciaixe verosimilmente un Castellaro proprio della Civiltà ligure preromana, ove vasta è tuttora la presenza di mandorli, anche inselvatichiti e in pratica divenuti un endemismo] "rovine della grangia sottostante i Martinazzi, Santuario delle Virtù, San Rocco presso Bevera, Sant’Antonio sul crinale della valle di Latte e perduta chiesuola di San Gaetano sulla Spiaggia di Latte
[a proposito di questo auspicato approfondimento in merito allo spostamento di Pellegrini di Fede ma anche della conservazione di certi percorsi medievali colpisce questa
******************CARTA DEL '700******************
in cui si indica il recupero di un tragitto con sorprendenti analogie con quello descritto dall'autore di un articolo edito nel sito della Cumpagnia d’i Ventemigliusi sotto la Categoria: TRADIZIONI INTEMELIE (Pubblicato on line: 24 Novembre 2016).
(analizzata qui nel particolare del superamento del torrente/fiume Nervia in prossimità dei QUARTIERI DEL CAMPO BASE DELL'ARMATA AUSTRIACA)
Specificatamente per quanto concerne osservazioni più approfondite e anche cartografiche -che integrano assolutamente quanto scritto dal citato autore- redatte da
Cultura-Barocca
la
QUI PROPOSTA E BASILARE NOTA 10

in merito
alla specificità del superamento, tramite una deviazione, del Nervia, nell'areale di Camporosso per procedere verso ulteriori tragitti montani
tragitto arduo per secoli, anche in rapporto all'evoluzione commerciale, almeno fino ai tempi nuovi ed anche in rapporto dopo la metà del XIX secolo alla realizzazione di un
MIGLIORE SERVIZIO STRADALE
COMPORTANTE L'ARGINATURA DEL NERVIA E CONTESTUALMENTE LA CREAZIONE DI UN PONTE, ALLA FOCE DEL FIUME, ATTO A CONGIUNGERE I DUE TRONCHI DELLA NAPOLEONICA
STRADA DELLA CORNICE POI STATALE AURELIA

per la cui finalizzazione si rivela importante nel Parlamento Subalpino l'opera dell'
AVVOCATO DI CAMPOROSSO FRUTTUOSO BIANCHERI)]

Ritornando all'assunto di partenza per intendere però quanto gravi fossero stati i DANNI CAUSATI DALLA GUERRA DI SUCCESSIONE AL TRONO IMPERIALE DI META' '700 E DI CUI PARLANO RELAZIONI COEVE DI TESTIMONI OCULARI (in merito alle devastazioni cagionate non solo da guerre e saccheggi ma anche per lo stravolgimento del terreno in ragione di creare fortificazioni e trinceramenti adeguati alla bisogna come emblematicamente nel caso qui proposto dal "RACCONTO DEI FATTI AVVENUTI IN VENTIMIGLIA NEGLI ANNI 1745/46/47/48" RESOCONTO DEL MAGNIFICO DON VINCENZO ORENGO in relazione a quante TRASFORMAZIONI EBBE IL PALAZZO ORENGO A NERVIA IN OCCASIONE DELLA REALIZZAZIONE DEL SITO CENTRALE DELLE FORTIFICAZIONI AUSTRO-SARDE DEL 1748) basta confrontare QUESTA CARTA (PARTICOLARE ENFATIZZATO) DEL 1745 OVE SI INDIVIDUA TRA CAMPOROSSO E NERVIA UN AUTENTICO RIGOGLIO DI COLTURE, ARBORICOLE E NON con questa altra CARTA (PARTICOLARE ENFATIZZATO) DEL 1748 OVE IN FORZA DEI BOMBARDAMENTI E DELL'ALTERAZIONE DEI SITI PER IMPIANTARE BATTERIE, SCAVARE TRINCEE, ERIGERE FORTIFICAZIONI GRAN PARTE DEL PATRIMONIO AGRONOMICO ANDO' VARIAMENTE DISPERSA
Nell'immediato e verosimilmente per anni e non pochi il polmone agricolo di Nervia ed i campi oltre il Nervia dovettero risultare scempiati rispetto ad un passato anche recente di maniera che nel caso dei camporossini dovette risultare più conveniente spostare le loro iniziative agronomiche in zone più tranquille [per quanto lo potessero essere in tempi in cui dopo questi eventi si manifestarono le scelte rivoluzionarie della Francia e quindi il bellicoso periodo napoleonico con l'invasione dell'Italia, non escludendo soggiorno e passaggio di truppe per queste contrade con l'alternarsi di avanzate e ritirate cui partecipò parlandone nell'Ortis Ugo Foscolo (del resto non si possono dimenticare a riguardo del Nervia le reiterate tracimazioni dovute soprattutto a carenza di argini adeguati = e fra queste la più terribile che fu la "Fiumara degli Angeli Custodi del 2/IX/1777)] = Camporosso verosimilmente, nel clima generalmente bigio se non tragico del tempo, probabilmente arretrò i siti agronomici di produzione (anche per evitare le minacce dell'artiglieria navale dell'Inghilterra acclarata nemica dei Francesi).
Però i danni ambientali e quindi colturali a Nervia avevano verosimilmente anticipato questo regresso nello sfruttamento dei coltivi e, anche se "una rondine non fa primavera", un qualche significato può averlo questo documento individuato presso la Sezione dell'Archivio di Stato di Ventimiglia dal dott. A. Carassale e trasmesso al Sign. Sergio Verrando (vedi atto di notaio Andrea Battaglia, Ventimiglia, Quartiere Piazza, 25 novembre 1776, n. 289 in cui si legge tal Francesco Squarciafico di Gio. Batta...ha venduto, e vende a Giuliano Squarciafico suo stretto parente, et accettante un pezzo [di terra] aggregata di vitti, fichi e amandole con fontana essa sita nel territorio di Camporosso chiamato Giré ma altresì le indicazioni del citato notaio duecentesco di Amandolesio come pure l'abbondanza del donativo del Capitanato intemelio fatta a Genova in occasione della peste che la tormentava nel 1579-1580

Prescindendo dalla supposta antica proprietà terapeutica della mandorla e dall'assodata valenza proteica e nutritiva della stessa, associata alla sua proprietà di lunga conservazione, è poi assolutamente da menzionare la significanza simbolica della mandorla in merito alla cultualità cristiana ma altresì la valenza pratica in correlazione al fenomeno dei Pellegrinaggi della Fede ( su cui per quanto concerne
il simbolismo della mandorla in ambito cristiano, nell'ambito dei pellegrinaggi,
e nel settoriale di quelli transitanti per l'estremo Ponente di Liguria, vale la pena oltre a quanto scritto qui

di leggere altresì, specie per un riferimento alternativo nella sua specificità
quanto scritto da Michel Feuillet, Lessico dei Simboli Cristiani edizioni ArKeios (Lexique des Symboles Chrétiens, Presses Universitaries de France , 2004,.
Parimenti attesa
la confezione di dolci a base di mandorle specie in rapporto ai periodi delle varie festività religiose
non è neppure da escludere che tali prodotti o comunque, se non assai più verosimilmente, forme similari degli stessi abbiano avuto
origine nei tempi remoti delle varie forme di paganesimo per esser poi ripresi, anche per adattamento a certe radicate costumanze popolari, entro la spiritualità religiosa cristiano-cattolica

[Nei secoli passati i pellegrini che dall’Europa si recavano a Roma (ma ciò naturalmente vale per quanti percorrevano altre diramazioni della Frangigena come quelle che conducevano agli approdi marittimi verso i Luoghi Santi e quindi a Santiago di Compostela) seguivano un cammino che, passato il Po, raggiungeva gli Appennini. Nelle loro tasche e bisacce dovevano stare alimenti semplici e nutrienti, che si conservassero a lungo e aiutassero a recuperare le forza perse lungo la strada: frutta secca e miele erano i migliori compagni del pane [lo zucchero di canna utilizzato a lungo per ragioni terapeutiche entrò nei processi di dolcificazione, specie per le classi abbienti, dal XIV secolo anche se spesso a livello sociale meno elevato "si utilizzavano per la dolcificazione i fichi"].
Ancora oggi nella cittadina di Tabiano, in provincia di Parma -per vari aspetti legata in una sorta di contenzioso storico alla supposta Taggia bizantina- lungo il percorso dei pellegrini, si preparano con quegli stessi ingredienti dolci deliziosi ispirati all’antica ricetta in cui la mandorla ha un ruolo basilare = appunto "biscotti alla mandorla" rientravano inoltre fra quanto si offriva spesso ai PELLEGRINI (GENERALE INDICE "PELLEGRINI - PELLEGRINAGGIO": CLICCANDO QUI CONSULTA LE TANTE VOCI) (come scrive Fabrizio Ardito ne La Via Francigena nel Capitolo 3 "Lombardia: la piana del Po" in un libro pubblicato Touring Editore edito nel 2012, citando S. Benedetto o meglio la sua Regola "Ora et Labora" e specificatamente in essa i dettami del Capitolo LIII - L'accoglienza degli ospiti = contestualmente vale da ricordare come gran parte dei prodotti agricoli donati a poveri e pellegrini secondo la "Regola" - precisamente il qui trascritto capitolo XLVIII - dovessero dipendere dal lavoro diretto dei Benedettini stessi nel contesto di quel sistema agronomico della Grangia che, tra genti spaesate, andava a riproporre molte competenze della cultura classica romano-imperiale ).

La ricetta delle
******************"E BÁNE"******************
che qui si possono vedere
rappresentate fotograficamente dal reale
(e la cui denominazione a detta di alcuni esperti di dialettologia deriverebbe dall'espressione Bàna deriverebbe dal verbo sbanà nel senso di spalancare la bocca secondo quanto scrive la "Cumpagnia d'i Ventemigliusi", tra le cui fila si annoverano fior di esperti in dialettologia = senza entrare nel settore sempre arduo di un discorso di dialettologia che non è nostro, a titolo di pura documentazione, colpisce il fatto che in questo vocabolario ottocentesco di Casimiro Zalli dedicato al dialetto piemontese e ai corrispondenti rapporti con l'italiano, il francese ed il lattino compaia l'espressione Slanbanè -legato al verbo indicante la ragione di tanto aprir la bocca -come qui si vede- stante, nel giudizio dell'autore, ad indicare lo "smascellarsi dal ridere")
tramandata di generazione in generazione originariamente
proviene da questi componenti =
200 gr di Burro
200 gr di zucchero o miele 100 grammi (alternativamente si può anche usare il miele di melata)
vino = secondo le antiche tradizioni, vino moscatello (anticamente e alla latina detto APIANUS che tra '500 e '600 costituì un vero caso letterario cui nel '600 partecipò attivamente Angelico Aprosio con molti altri studiosi, italiani e stranieri) = 10 DL [vedi anche moderne considerazioni sul recupero del Moscatello di Taggia]
2 uova
Bustina di lievito
200 gr di mandorle a pezzi
400 gr di farina
mentre il confezionamento risulta esser costituito dall'
"Impastare tutto e infornare 200° gradi fino e doratura"
.
["E BÁNE" hanno una composizione non molto dissimile, nel contesto dei BELLARIA a quella espressa in merito alla CVPPEDIARVM MENSA (TAVOLA DELLE GHIOTTONERIE) di ROMA ANTICA - ricostruibile avvalendosi anche degli antichi lessici e citando qui ancora il CALEPINO - da quella di un tipo di dolce gradito a tutti e prediletto dai fanciulli come la CRUSTULA detti (CRUSTULA) AMYGDALINA (BISCOTTI ALLE MANDORLE) di cui si elencano qui gli Elementa o "ingredienti" tramandati anche nella tradizione = vale a dire Similago: quattuor unciae (Farina bianca: gr. 100) - Butyrum : quattuor unciae (Burro: gr. 100) Mel : duae unciae (Miele: gr.50) Amygdalae: duae unciae (Mandorle: gr. 50) Tres vitelli (Tre tuorli di uovo) = "Il pane costituì la base della dieta dell’antica Roma dal II secolo a.C., cioè da quando si diffuse l’uso del lievito, che permise la lavorazione del farro macinato non più solo per cucinare la puls, cioè la zuppa di farro, ma anche per impastare pagnotte e focacce di vario tipo, e cuocerle in forno. Il che innescò un netto cambiamento delle abitudini alimentari" (NOTA BENE = il termine è indubbiamente raro ma è sopravvissuto anche nel contesto di studi di dialettologia come questo vocabolario ottocentesco di Casimiro Zalli ove, confrontando termini piemontesi, italiani, francesi e latini, l'autore non solo cita con altre forme il latino crustularius come pasticciere ma in definitiva nomina a riferimento di alcuni dolci e biscotti del suo tempo crustula amygdolina seppur sotto due delle tante consimili forme come crustulum ex amygdalis ed ancora pastillus amygdalinus)].

Anche per Soldano una fra le ville orientali di Ventimiglia destinate a costituire la seicentesca Magnifica Comunità degli Otto Luoghi tra XIII e XVI secc. risultano attestate colture aggregative in cui rientrano vari tipi di alberi tra cui quelli (di) avellanarum rotundarum e avellanarum longarum come colture di nocciole e mandorle = però l'analisi filologica più aggiornata di Plinio a riguardo dell'edizione critica della sua Storia Naturale, cui si debbono molti di questi fitonimi, non avvalerebbe l'identificazione delle avellanae con le mandorle ma piuttosto con le sole nocciole = VEDI ANCHE DI SALVATORE BATTAGLIA, SOTTO VOCE "AVELLANA" IL GRANDE DIZIONARIO DELLA LINGUA ITALIANA, UTET, TORINO, ANNI VARI, VOLUME I (tuttavia i dubbi persistono, anche per le tante trasformazioni linguistiche e terminologiche attraverso molteplici secoli = ed anche per la ragione che qui si parla di due tipi di avellanae cioè rotundae e longae cui Plinio non fa cenno: come non fa cenno un moderno e compianto fautore della Biblioteca Aprosiana Pier delle Ville alias Pietro Loi scrivendo delle avellanae nuces = passando attraverso il grasso latino medievale però le forme classiche (amandulae - avellanae) potevano aver assunto nel XVI secolo forme alternative od univoche con distinzioni date dalla descrizione della forma rispetto alla tipologia classica pur attestata nel 1262 tali cioè che le avellanae rotondae fossero in effetti le nocciole (tonde) e le avellanae longae (oblunghe) le mandorle, al modo che scrive F. Amalberti, Popolazione e territorio di Soldano nel secolo XVI in Il Catasto della Magnifica Comunità di Ventimiglia, Famiglie, proprietà e territorio (1545-1554), a c. di M. Ascheri e G. Palmero, S.A.S.V., Accademia Vemigliusa, Accademia di cultura intemelia, 1996, p. 229 e nota 30: nella stessa opera l'autore a p.230 scrive "Alcune località, dove mandorli e noccioli erano abbastanza numerosi, hanno preso i toponimi colari e/o colareo" secondo un termine, come precisa ancora l'Amalberti, usato per indicare sia il nocciolo che il mandorlo alla maniera che si legge in Nilo Calvini, Nuovo glossario medievale ligure, Genova, 1984)].

******************
A titolo integrativo - dopo aver precisato quanto le mandorle rientrassero nella gastronomia, specie se raffinata, degli antichi romani (vedi) non esclusi i ceti benestanti delle città minori come Ventimiglia romana o meglio il Municipium di Albintimilium che inglobava ben più estese emergenze demiche - rammentando dopo i tempi ferrei succeduti al collasso economico imperiale una valida ripresa colturale, anche di frutteti, dal XII secolo agevolata dalla tradizione agronomica dei Benedettini e dal loro sistema colturale della Grangia = qui, poi, si analizzi la citazione, con l'elenco degli autori e dei brani in cui hanno parlato della "mandorla/mandorle" tratta dal "Grande Dizionario della Lingua Italiana" di S. Battaglia con la citazione del testo della stessa collana elencante le opere donde son state tratte le citazioni: contestualmente qui si possono visualizzare sempre da questa grande opera l'etimologia del fitonimo "mandorla" e quella dell' antico e disusato fitonimo "amandola" = risalendo nel tempo è da dire ( al pari di altri prodotti agronomici e zootecnici come le " uova " dalla forte simbologia religiosa, anche in contesto cristiano ) pure la mandorla ha varie valenze simbologiche tanto che che l'amygdala è più volte come qui si vede citata nella Bibbia per il suo particolare significato di rapporto fra Dio e gli uomini (anche se non soprattutto il mandorlo è stato un simbolo di promessa per la sua precoce fioritura, che simboleggia l'improvvisa e rapida redenzione di Dio per il Suo popolo dopo un periodo in cui sembrava lo avesse abbandonato; si veda ad esempio Geremia 1,11-12) = ma ben 11 sono le citazioni della mandorla nel contesto della Bibbia: I suoi frutti hanno un elevato valore nutritivo; i figli di Giacobbe dall’Egitto riportano al padre i “prodotti più pregiati del paese” e, tra questi, le mandorle (Gn 43,11). Per gli ebrei la pianta ha anche un valore simbolico: quando Mosè consegna un bastone ad ogni capo delle dodici tribù, quello di Aronne fiorisce, fa “spuntare fiori e maturare mandorle” (Nm 17,23). Non solo: secondo le prescrizioni di Mosè, il candelabro d’oro del Tempio deve avere sei “calici in forma di fiore di mandorlo” (Es 25,33-34 e quindi 37,19-20) = la vesica piscis o mandorla è un simbolo di forma ogivale ottenuto da due cerchi dello stesso raggio, intersecantisi in modo tale che il centro di ogni cerchio si trova sulla circonferenza dell'altro: Il nome significa letteralmente vescica di pesce in latino. conosciuto in India, in Mesopotamia, in Africa e nelle civiltà asiatiche, esso passa nel Cristianesimo come un riferimento a Cristo, come è evidente nell'ichthys = pesce, utilizzato pure come simbologia di riconoscimento, auspicabilmente ignota a persecutori pagani, fra i Cristiani delle origini. Nella successiva elaborazione dell'iconografia cristiana, la mandorla viene associata alla figura del Cristo o della Madonna in Maestà e rappresentata in molti codici miniati e sculture del Medioevo, come nell'affresco o nell'arte musiva. In tale contesto è un elemento decorativo romanico-gotico utilizzato per dare risalto alla figura sacra rappresentata al suo interno, spesso attorniata all'esterno della mandorla da altri soggetti sacri ed ha una doppia significanza: alludendo al frutto della mandorla, e al seme in generale, diventa un chiaro simbolo di Vita e quindi un naturale attributo per Colui che è "Via Verità e Vita" quindi come intersezione di due cerchi essa rappresenta la comunicazione fra due mondi, due dimensioni diverse, ovvero il piano materiale e quello spirituale, l'umano e il divino. Gesù, il Verbo divino fattosi uomo, diventa il solo Mediatore fra le due realtà, il solo pontefice fra il terrestre e il celeste, e come tale viene rappresentato all'interno dell'intersezione. A conferma di ciò, in alcune miniature del periodo Carolingio e Ottoniano i due cerchi vengono anche rappresentati attorno al Cristo, ma in verticale. vedi = Giulio C. Argan, Storia dell'arte italiana, Sansoni, 2002. ISBN 88-383-1912-X - Meyer Schapiro, Adriano Sofri, Arte romanica Torino, G. Einaudi, 1988. ISBN 88-06-60025-7 - Hans Erich Kubach, Architettura romanica. Milano, Electa, 1978. ISBN 88-435-2474-7.
Accanto a tutto questo non si può dimenticare il significato simbolico della mandorla in ambito cristiano come qui si recupera dall'opera di Michel Feuillet, Lessico dei Simboli Cristiani edizioni ArKeios (Lexique des Symboles Chrétiens, Presses Universitaries de France , 2004, sotto voci, traduzione italiana di Livia Pietrantoni ) dà di queste difinizioni "Mandorla. 1/ Da biancore immacolato, di forma perfetta, ma racchiusa in un guscio duro, la mandorla rappresenta la Natura divina del Cristo, nascosta nella sua natura umana. 2/ La mandorla ha anche un significato erotico, poiché la sua forma icorda il sesso femminile: nella tradizione cristiana, si tiene conto di questo significato, perché la mandorla mistica è il simbolo della verginità di Maria,...la Mandorla Mistica è una grande aureola a forma di mandorla che circonda la figura di Cristo: essa indica la gloria irradiante dalla Persona divina che è il Verbo incarnato".

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A livello filologico, restando nel campo della cultura del barocco,
a pagina 606 del suo repertorio La Biblioteca Aprosiana Angelico Aprosio cita il Calepino ed il suo celebre "Dizionario" = le varie voci concernenti in molteplici lingue il "mandorlo" partendo dal latino amygdala son qui visibili entro un'edizione padovana, per i tipi del Manfrè, datata del 1726 = è inoltre da dire che Aprosio, essendo peraltro un eccellente (e talora anche criticato trattandosi di un religioso) commensale, già si chiedeva, già ai tempi del suo soggiorno a Venezia quanto fosse conciliabile condurre una vita accademica ed una da "opsophago" tra erudite discussioni, buon cibo ed ottime bevande aveva indubbio interesse per l'autore dei Deipnosofisti cioè i "dotti a banchetto" di Ateneo da Naucrati: nella sua smisurata opera Ateneo aveva parlato spesso anche di mandorli e mandorle: a titolo solo documentario si riporta qui, dal contesto della gigantesca opera, un frammento (836e Page = 5 Sutton) tratto da Filosseno di Citera ove si legge questo stralcio "...e c'era una distesa di dolcetti/ al sesamo e formaggio, fritti nell'olio e cosparsi/ di sesamo, e poi ceci/ con zafferano bastardo, floridi/ nella loro stagione, e uova e mandorle dalla tenera pelle/ [...] e deliziose noci/ che i bambini sgranocchiano,/ e quant'altro si addice a un banchetto prospero e lieto ..." = vedi 643c, volume XIV dall'edizione vol. III de I Deipnosofisti - i dotti a banchetto - di Ateneo, Prima traduzione italiana commentata su progetto di Luciano Canfora / introduzione di Christian Jacob, Salerno editrice, Roma, 2001 )].

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Ritornando nuovamente alle riflessioni di base è da far rilevare che
questo sopra studiato duecentesco ( 25 novembre 1262 ) documento del notaio di Amandolesio costituisce il dato al momento antico sulla produzione di mandorle nell'agro del Capitanato di Ventimiglia e sue Ville
anche se, presubimilmente, è in occasione della
Peste Nera del 1579-'80
che si evincono i dati più significativi.
In siffatta, drammatica situazione
Genova e la restante Liguria furono colpite in maniera impressionante con migliaia di morti,
causati dall'epidemia e dalla conseguente carestia anche per l'arresto dei rifornimenti, rimanendo immuni dal catastrofico contagio l'agro intemelio e alcuni Stati confinanti.
Il Parlamento di Ventimiglia e sue Ville,
onde soccorrere la capitale, deliberò allora una coraggiosa spedizione di
derrate alimentari (costituite soprattutto da prodotti locali) tra cui risultano da ascrivere pure
...UNDICI SACCHI DI AMANDORLE...

Nemmeno trascurando di rammentare
questo atto notarile settecentesco concernente una vendita di un terreno in Camporosso coltivato a mandorli
[resta utile far notare che, a prescindere dagli utili rifornimenti alimentari, molti dei prodotti inviati erano ritenuti in campo fitoterapico e nel contesto della tradizione popolare [senza dimenticare il ricorso, diffuso non solo fra il popolo, del ricorso a vari tipi di amuleti, come anche poi scrisse Ludovico Antonio Muratori nel suo trattato Del Governo della Peste (Modena, Soliani, 1714), opera in cui riprendese certe considerazioni di Teofilo Rinaldo (Rainaldo) di Sospello già corrispondente dell'intemelio erudito G. Lanteri] come forme più preservative che medicamentose contro il contagio pestilenziale (clicca e vedi) = compreso il vino, componente base di tanti medicamenti pressoché tutti i prodotti qui citati entravano infatti nel campo, pressoché infinito quanto inefficace, e trattato in tanti libri dei rimedi proposti contro la peste. Una significativa proprietà medicinale era attribuita anche alle mandorle o più precisamente all'olio di mandorle: vedi qui per esempio come col il contributo anche dell'olio di mandorle dolci sarebbero stati curati un uomo ed una donna colpiti dalla sifilide (o "infranciosati" come al tempo anche si diceva) secondo quanto scrisse nel suo Fulmine de' Medici Putatitij rationali di zefiriele Tomaso Bovio Nobile Veronese, interlocutore Marsiglia, Zefiriele, Filologo (vedi qui per individuare anche altri esempi tutte le opere digitalizzate di Zefiriele Tomaso Bovio (1521-1609) medico empirico, alchimista e cabalista veronese, anche attivo tra Genova - Savona - Ponente Ligure. .
In merito a ciò risulta utile qui proporre un particolare testo, che essendo del XIX secolo dimostra quante credenze fossero destinate a sopravvivere. il testo in questione e qui multimedializzato porta un titolo emblematico = Dell'Olio preservativo sicuro e Rimedio contro la Peste e della causa della Peste, se di natura animale: lettera del Cons. A. A. Frari al Cons. Pezzoni a Costantinopoli, per Gio: Cecchini, Venezia, 1847 (la citazione dell'olio di mandorle
rimanda a terapie antiche, specie in un libro come questo di metà 1800 = per esempio nel precedente Manoscritto Wenzel qui digitalizzato il dimensionamento delle proprietà farmacologiche dell'olio di mandorle che qui, pur trattandosi di malattie e terapie importanti, risulta ristretto ad un campo quasi solo estetico in merito alla caduta dei capelli)] .

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-Federico Guglielmo Leutrum fratello minore di un condottiero tedesco al servizio dei Savoia nacque il 27 giugno 1692 nel Baden dal barone Federico Cristoforo e dalla baronessa Giuliana de Gemmingenburg. Date prove di attitudine al servizio di guerra si trasferì in Piemonte a soli 14 anni. Agli inizi del conflitto nel 1740 aveva già raggiunto il grado di brigadiere: fu uomo dal carattere deciso, buon stratega e tattico intelligente e si dimostrò anche valido trascinatore dei suoi soldati. Morì all'età di 63 anni il 16 maggio 1755 dopo essere diventato, a compenso dell'eccellente servizio prestato per i Savoia, governatore perpetuo di Cuneo nel 1748.

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I primi dati di fornitura organizzata dell'acqua risalgono a tempi remotissimi.
Nella prima età del bronzo, le sorgenti che rifornivano le comunità dell'Europa erano spesso racchiuse in un rivestimento di legno.
Talvolta si raccoglieva l'acqua piovana e si scavavano cisterne in strati di argilla impermeabile, rivestendoli poi con una struttura di legno.
Oltre a scavarle nella roccia, i Greci e i Romani costruivano le loro cisterne in mattoni o cemento con volte a botte e pilastri, aggiungendovi spesso vasche più piccole di decantazione.
Ai tempi ellenistici e durante l'Impero Romano le grandi città, come Alessandria e Bisanzio, costruirono enormi cisterne.
A Bisanzio la più grande misurava 141x73 metri e aveva 420 colonne.
Ancor oggi le grandiose cisterne di Valente (364-78) e di Giustiniano (527-65) riforniscono d'acqua Istanbul.
Per raccogliere, accumulare e conservare l'acqua delle precipitazioni atmosferiche, furono realizzate in tutte le regioni e in tutti i periodi dell'antichità opere importanti (cisterne teatrali, ipogee, ecc.), che però sono state messe in ombra dalle successive costruzioni di grandi acquedotti.
Né è conferma il fatto che fino a oggi non è stato portato a termine nessun restauro sistematico delle antiche cisterne.
Questa lacuna di conoscenza e di impegno nel campo specifico delle cisterne per cui non ci si rende conto dell'effettivo utilizzo, molto diffuso nell'antichità, dell'acqua piovana, è dovuta a una causa precisa: l'unica funzione delle cisterne era quella della raccolta e della riserva sotterranea dell'acqua e, di conseguenza, non furono stabilite norme particolari relative al loro aspetto esteriore.
Le forme delle cisterne potevano essere infatti molto diverse; la gamma delle varianti ha più interesse storico che estetico.
"Benché espressioni come "cisterne teatrali", limitate a situazioni particolari, o "cisterne navali", inducano a supporre che le cisterne avessero più funzioni, le cisterne vere e proprie servivano soltanto alla raccolta dell'acqua. Dal punto di vista della tecnica idraulica, tutti i bacini di raccolta posti al termine di una conduttura vanno distinti dalle cisterne e sono in realtà dei semplici serbatoi, come ad esempio la cosiddetta Piscina Mirabilis o i famosi serbatoi d'acqua di Costantinopoli, che nonostante le loro dimensioni vengono sempre qualificati come cisterne" (R. T. Kastenbein, 1990).
Gli autori antichi sono concordi nel considerare buona la qualità dell'acqua piovana. All'acqua "mandata da Zeus" si attribuivano infatti varie proprietà benefiche, compresa quella di giovare alla salute.
La buona qualità dell'acqua di una cisterna, d'altro canto, dipendeva anche dalla cura dell'impianto; se poi l'acqua di una cisterna non era solo per gli usi comuni, ma anche per l'alimentazione, si consigliava di bollirla.
Secondo Aristotele, una città ben progettata deve avere: "specialmente una naturale abbondanza di acque e di fonti e, in caso contrario, vi si deve far fronte predisponendo serbatoi per l'acqua piovana, capienti e numerosi".
Benché oggi le cisterne richiamino più l'idea dell'acqua d'uso comune che di quella potabile, specialmente perché si tratta di acqua ferma, nell'antichità l'acqua delle cisterne veniva impiegata anche per bere.
Questo accadeva soprattutto quando ancora mancavano i grandi acquedotti, e cioè in qualche grande città prima della fine del VI secolo a.C., in numerose città fino all'inizio dell'età imperiale e in molte altre località per l'intera storia della città.
Ciò poteva accadere inoltre in periodi di guerra o di altre contingenze.
Conformemente alla raccomandazione di Aristotele, le cisterne sulla rocca di Pergamo (attuale Bergama in Turchia), ad esempio, dovevano essere sorvegliate secondo le ordinanze con grande attenzione, anche quando veniva garantito un soddisfacente approvvigionamento idrico attraverso le tubazioni.
In periodi normali, tutte le fattorie, tutti i poderi, tutti gli allevamenti di bestiame, tutte le ville dovevano disporre di una o più cisterne, per non lasciare disperdere le precipitazioni atmosferiche che cadevano in quantità diverse a seconda del periodo e del luogo, e che si sarebbero rivelate preziose nei periodi di siccità. Su questo principio di compensazione tra i periodi di grande abbondanza e quelli di siccità si regolavano soprattutto le isole prive di sorgenti, prime fra tutte quelle di origine vulcanica come Tera/Santorino, e molte altre delle Cicladi.
Ventotene col suo complesso sistema di captazione mediante cisterne rappresenta un significativo modello di circolazione delle acque che collega tutti gli insediamenti principali dell’isola portando l’acqua alla fine del percorso in una piscina con annessa peschiera localizzata nel porto.
Tutto il sistema di captazione e di accumulo tramite cisterne contribuiva a rendere l’isola autonoma dal punto di vista idrico.
Delo, notoriamente povera di sorgenti, presenta quindi numerose cisterne, e così Nasso, che fino all'inizio del nostro secolo ha vissuto esclusivamente di acqua di cisterne.
Anche alcune città di terraferma, dove la falda freatica era troppo profonda per essere raggiunta da pozzi, come ad esempio la città mineraria di Laurio in Attica (Regione della Grecia) o alcune piccole città siciliane, si rifornivano soltanto di acqua di cisterne.
Per gli abitanti delle zone aride dell'Africa settentrionale, che una sola volta all'anno godevano di un periodo di pioggia breve ma abbondante, l'acqua piovana era un bene così prezioso che essi costruirono grandi terrazze lastricate per raccoglierla al meglio.
Il metodo più semplice per raccogliere l'acqua piovana era quello di sfruttare i tetti delle case: una superficie modesta, ma sufficiente con un pratico sistema di raccolta in grandi pithoi come a Olinto (Regione Calcidica della Grecia) o a Priene (in Turchia).
La pianta delle case signorili greche e romane, con i due cortili interni, (atrio e peristilio), era straordinariamente adatta alla raccolta dell'acqua piovana.
Ci si può quindi domandare se il tipo comune di casa sviluppato dai Greci e dai Romani non fosse proprio conseguenza del largo bisogno di acqua piovana.
Dai tetti relativamente piatti e pendenti verso il cortile interno (compluvium), l'acqua piovana fluiva, direttamente oppure attraverso grondaie e doccioni, in una vasca al centro, del cortile stesso, ossia nell'impluvium.
Da qui l'acqua scorreva in cisterne sotterranee, per depurarsi in bacini di sedimentazione.
Parallelamente al costante miglioramento del rifornimento idrico grazie alla costruzione di condutture, aumentò anche, in generale, il numero delle cisterne private.
Questo accadeva soprattutto per la volontà della gente di essere indipendente evitando di recarsi ogni volta ai punti pubblici di distribuzione.
La maggior quantità di acqua piovana veniva raccolta sui tetti: si pensi, oltre alle case private, anche alle sedi di lavoro, agli edifici pubblici di ogni genere o alle superfici di copertura dei templi, talvolta gigantesche, che spesso erano collegate con cisterne. I grandi edifici, con cisterne di raccolta per singole zone della città, oppure costruzioni particolari, come teatri, che si prestavano ottimamente alla raccolta dell'acqua piovana, erano collegati con l'imboccatura delle cisterne mediante grondaie, tubature in terracotta o canalette.
Le cisterne poste in superficie, erano piuttosto infrequenti, perché troppo esposte all'azione del calore.
In alcune località, come a Pompei, c'erano invece delle cisterne sopraelevate, da non confondere con gli impianti di raccolta idrica con cisterne sotterranee.
Questi contenitori sopraelevati assolvevano a una doppia funzione: oltre a immagazzinare acqua dai tetti, posti ancora più in alto, servivano contemporaneamente all'immediata distribuzione.
Una via di mezzo tra le cisterne di superficie e quelle sotterranee è rappresentata dalle camere di riserva scavate nella roccia, come le cisterne in pietra presso il tempio di Apollo Maleatas vicino a Epidauro (nel Peloponneso in Grecia), risalente all'età imperiale.
Normalmente si preferiva immagazzinare l'acqua piovana in impianti sotterranei (lacus, cisterna), che erano protetti dal calore, dalla sporcizia e da sgraditi agenti esterni.
Per conservare l'acqua fresca e pulita, le cisterne greche e romane più antiche venivano scavate nel terreno con il fondo a forma di pera o di bottiglia, e avevano soltanto una piccola apertura verso l'alto.
Già nell'età cretese-micenea, le cisterne interrate vennero rivestite di intonaco, per ridurre e più tardi per bloccare completamente le perdite per drenaggio.
Molte cisterne arcaiche del Pireo vennero costruite, in un primo momento, a forma di pera e, nel corso del tempo, furono notevolmente ampliate con camere sotterranee e, in alcuni casi, collegate l'una all'altra mediante gallerie praticabili.
Queste costruzioni con gallerie, tipiche di Atene, ritornano nell'Alessandria ellenistica, dove però non venivano sfruttate per l'acqua piovana, bensì per l'acqua portata da un canale del Nilo.
Le cisterne sotterranee non murate non sono legate a particolari periodi storici, ma si presentano in ogni secolo dell'antichità, sulla rocca di Pergamo (profondità media di 7-9 m, capacità 50-70 Mc) come sull'acropoli della città di Samo, dove un vecchio pozzo venne sostituito con una cisterna originariamente piccola, più tardi ampliata con alcune camere laterali.
Nell'età arcaica non sono documentate cisterne completamente murate, e nell'età classica sono una rarità: nella colonia milesia di Olbia nel Ponto c'era invece una cisterna con una classica muratura a conci, che poteva contenere circa 22 Mc di acqua piovana.
Nel corso dell'età ellenistica e repubblicana, la capacità media della cisterna aumenta sensibilmente e, in seguito all'impiego della pietra da taglio come materiale edile, vengono preferite le piante rettangolari a quelle rotonde, e ci si preoccupa sempre più di mantenere pulita l'acqua delle cisterne.
Il criterio sperimentale fissato dal Palladio, secondo cui una cisterna deve essere più lunga che larga, veniva rispettato ad esempio nella Perachora ellenistica.
Si trattava ancora di una cisterna a navata unica: i piloni mediani riducevano solamente la campata delle travi in pietra, che sostenevano la copertura orizzontale della cisterna.
Se in età tarda le cisterne venivano impiegate prevalentemente per l'acqua d'uso comune, all'inizio, invece delle camere comunicanti separate da filtri, doveva essere stato realizzato qualche sistema sconosciuto di purificazione soprattutto per l'acqua potabile.
Le cisterne più antiche, che non possedevano ancora nessun dispositivo di depurazione, furono dotate in seguito, come la cisterna di Dictinna a Creta, di un bacino di sedimentazione.
Dall'età ellenistica in poi si moltiplicarono le strutture edili e le tecniche di muratura. In particolare, la tecnica degli archi a cunei si dimostrò molto promettente per la costruzione dei ponti d'acquedotto e delle cisterne.
La cisterna di Delo, datata al III secolo a.C., che raccoglieva l'acqua dalla cavea del teatro, si distingue, nella sua epoca, per le dimensioni (circa 200 mq di superficie di base) e per gli otto archi in granito, collocati a regola d'arte, che sorreggono una volta a botte.
Nel periodo successivo, ebbe grande importanza l'introduzione della malta e della muratura a gettata, la tecnica di costruzione in mattoni e il continuo miglioramento della tecnica degli archi anche nelle cisterne.
Tutte queste tecniche edilizie romane sono presenti negli impianti di deposito sotterranei.
Il sistema di camere con volta a botte e a crociera viene realizzato anche con sei o sette locali adiacenti o con combinazioni di locali più grandi e più piccoli, più alti e più bassi, collegati l'uno all'altro.
Vengono costruite perfino cisterne a due piani (Leptis Magna).
Soltanto alcune cisterne grezze, prive della muratura in malta, non avevano intonaco.
In genere le pareti delle cisterne venivano intonacate con opus signinum, mentre il suolo veniva rivestito con pavimentum testaceum (ammattonato), per smussarne le asperità.
Alcuni o molti strati di intonaco o di pavimentazione in mattoni testimoniano un uso più o meno prolungato della cisterna.
L'intonaco impermeabile, che veniva applicato sulle superfici ruvide, come in diversi casi a Delo, caratterizzata da rocce scistose, necessitava in particolar modo di manutenzione.
L'acqua piovana veniva attinta dalle imboccature chiudibili delle cisterne nello stesso modo e utilizzando gli stessi mezzi che servivano per attingere l'acqua dei pozzi.
Nell'antichità, il metodo del prelievo rappresenta un elemento che collega molti e diversi impianti di approvvigionamento d'acqua.
I medici e gli ingegneri antichi insistevano concordemente sulla necessità di avere un'acqua pura.
Galeno, Vitruvio e altri denunciarono l'uso del piombo per i rivestimenti delle cisterne o per fare tubi, ma nonostante alcune precauzioni sebbene l'incrostazione prodotta dal carbonato di calcio e di piombo sulla superficie interna dei tubi ne riducesse il pericolo continuarono, sorprendentemente, a manifestarsi casi di avvelenamento da piombo sì da far ipotizzare qualche altra indecifrabile ragione del malessere.
Vitruvio raccomanda i seguenti metodi per provare la purezza dell'acqua: "l'acqua, spruzzata su un recipiente di bronzo corinzio (una lega di oro-argento-rame) o su qualsiasi altro bronzo buono, non dovrebbe lasciare traccia. Se si fa bollire dell'acqua in un recipiente di rame e dopo averla fatta riposare la si versa, essa sarà soddisfacente se non lascerà tracce di sabbia o di fango sul fondo del recipiente di rame. Inoltre, se i legumi bolliti nel recipiente cuociono presto, vuol dire che l'acqua è buona".
Diversi testi antichi riferiscono che certe acque "possono sopportare un po' di vino"; ed è possibile dedurre che, mescolando l'acqua a goccia a goccia con un vino ben colorato, i Romani valutassero il tenore di calce della loro acqua.
Gli antichi consigli per la depurazione dell'acqua vanno dalla semplice esposizione al sole, all'aria e alla filtrazione.
Erodoto segnala che l'acqua del Karkheh (in Iran, il nome originario del fiume era Choaspes), che scorre nei pressi di Susa, veniva bollita e conservata in caraffe d'argento per i re persiani.
Sono stati rinvenuti filtri porosi di tufo, e la filtrazione attraverso la lana o il lino ritorto era ben nota.
Sulla depurazione dell'acqua, Ateneo di Attila scrisse un'opera (50 d.C. circa) dove si parla della filtrazione.
Il filtraggio attraverso strati di sabbia è anche consigliato da Vitruvio.
Per la depurazione dell'acqua gli antichi autori consigliano l'aggiunta di varie sostanze, tra cui la più comune e la più efficace era il vino.
Le coperture dei tetti non dovevano essere di materiale organico (legno) né di lastre di piombo o contenenti comunque piombo.
Da preferirsi erano i tetti in laterizi o in lastre di lavagna.
Tali coperture non dovevano essere comunque a livello inferiore a quelle di contigue abitazioni, dalle quali potevano essere gettate sostanze di rifiuto, né dovevano essere accessibili all'uomo o agli animali.
Le dimensioni delle superfici di raccolta e delle cisterne dovevano essere calcolate in funzione delle necessità.
Se si trattava di località piovose si calcolavano in genere dimensioni tali da sopperire alle necessità di un bimestre, mentre se si trattava di località con piogge scarse ci si riferiva ad almeno un quadrimestre.
Per le cisterne si aumentava del 20% la quantità di acqua calcolata necessaria, al bimestre o al quadrimestre, come quota riservata alla sedimentazione delle sostanze sospese.
Le cisterne dovevano essere installate lontano da qualsiasi fonte di inquinamento (almeno 10 m da pozzi neri e 20 m da depositi di letame); dovevano essere possibilmente interrate per favorire la costante temperatura dell'acqua; non dovevano ricevere luce, altrimenti veniva favorita la formazione di alghe; dovevano avere un'apertura o botola di ispezione, ben protetta dall'eventuale ingresso di animali e contornata da una platea impermeabile con inclinazione verso l'esterno al fine di impedirvi l'infiltrazione di acqua caduta sul suolo circostante.
Infine la loro forma doveva essere preferibilmente a fondo semisferico per favorire la sedimentazione delle sostanze sospese, e la muratura doveva essere rivestita interamente con materiale assolutamente impermeabile (il rivestimento era di solito in malta di cocciopesto ed uno strato finale di olio di cocciopesto). Il sistema di attingimento era dall'alto, attraverso la canna del pozzo. Era inoltre opportuno periodicamente svuotare la cisterna e ripulirla.
Nella domus delle città di provincia troviamo l'essenziale dell'architettura civile romana.
Nelle case più arcaiche l'atrium aveva solo una stretta apertura che fungeva da camino e da lucernaio a un tempo.
Successivamente l'apertura diventò un vero e proprio pozzo di luce, il compluvium, al quale doveva necessariamente corrispondere un bacino a terra, l'impluvium, in cui confluiva l'acqua piovana.
Fu probabilmente a partire dal VI secolo a.C., che le case si dotarono di tali cisterne.
Da qui, tramite un orifizio di presa, la cui ghiera diventerà in seguito un elemento decorativo, l'acqua fluiva nella cisterna sottostante.
Anche gli edifici pubblici (terme) furono dotati di adeguate cisterne.
La più grande fu quella riservata alle terme del Foro, costruite nell'80 a.C., con una lunghezza di 15 metri, una larghezza di 5 e un'altezza di 9; da questa cisterna una macchina elevatrice travasava l'acqua nelle piscine delle sezioni maschile e femminile dell'impianto termale.
Le cisterne destinate a raccogliere l'acqua piovana, anche se innumerevoli, non ci hanno lasciato, se non raramente, la possibilità di rilevare esattamente il loro sistema di alimentazione.
Gli architetti, sempre attenti nel disporre i piani dei tetti inclinati verso l'interno delle case, applicavano sistematicamente il principio del compluvium.
L'impluvium, a parte il suo valore ornamentale, serviva ad una prima decantazione delle acque, che abbandonavano sul fondo di questo bacino le impurità più grosse che avevano raccolto sui tetti.
Nel peristilio, un canaletto, periferico di pietra o di mattoni dotato di pendenza, conduceva l'acqua a una vaschetta di decantazione, nel fondo della quale, si apriva il condotto per la cisterna.
Il prelievo dell'acqua dalla cisterna avveniva attraverso una sorta di pozzo di presa aperto nell'atrium, o talvolta nel peristilio, raramente nella cucina, la cui vera, detta puteal, era un cilindro di marmo o di terracotta, spesso decorato.
Una stagione eccessivamente piovosa poteva provocare la fuoriuscita dell'acqua dalla cisterna; si predispose allora un condotto di troppopieno posto a un livello inferiore a quello dell'alimentazione.
A Pompei, città sprovvista di fognature urbane, questo condotto portava l'acqua in eccesso alla strada, passando sotto i marciapiedi.
Primo esempio significativo di riuso dell’acqua a Pompei si ritrova nella Casa del Poeta tragico dove l’acqua della cucina portata da un tubo di piombo veniva utilizzata come sciacquone nella latrina.
Le dimensioni delle cisterne erano assai variabili in funzione della loro destinazione: nelle case private la cavità, accuratamente rivestita di calce e di cocciopesto, poteva limitarsi a 2 mq, mentre, se si trattava di un edificio termale, doveva contenere decine di migliaia di litri d'acqua.
La villa romana di Russi costituisce una delle ville rustiche più esemplificative e meglio conservate dell'Italia Settentrionale.
Presenta una estensione di almeno 8.000 metri quadrati, un impianto termale e 3 cisterne per la raccolta dell'acqua.
Sul lato est della villa c'è un ambiente scoperto in cui si usava molta acqua, come si può desumere dalle fognature e da un pozzo; particolarmente interessante risulta una vasca sopraelevata, pavimentata in mosaico a tessere appuntite e collegata ad una vaschetta più bassa, con un incavo per la raccolta dei liquidi: probabilmente era destinata alla lavorazione del vino.
L'ingresso principale era a sud del complesso in un altro cortile, od aia, nel quale sono stati scavati solo alcuni ambienti sul lato ovest, una probabile latrina ed una cisterna per acqua.
L'impianto termale serviva un ambiente , con pavimento in marmo e mosaico e con una scala che permetteva di accedere ad altre stanze sopraelevate; vi sono poi una fognatura con pozzetto in marmo traforato, due vasche in mosaico per il bagno, di cui una semicircolare, e altri ambienti con resti di intonaci parietali.
Complicati sistemi di rifornimento idrico furono creati in epoche sbalorditivamente remote.
Nel monastero di Christchurch, a Canterbury, si installò un impianto idraulico completo nel 1150.
Vicino alla sorgente c'era un serbatoio principale, in forma di torre rotonda, dalla quale si dipartiva un tubo sotterraneo di piombo che passava attraverso cinque cisterne di decantazione oblunghe, ciascuna munita di suspirail o apertura per controllare la pressione; di qui, il tubo passava sotto le mura della città ed entrava nel territorio del monastero.
Raggiungeva quindi un lavabo, dove alimentava un serbatoio collocato su un pilastro per creare una centrale di distribuzione.
Da questa si dipartivano due tubi: uno andava al refettorio, al retrocucina e alla cucina; l'altro andava al forno, alla distilleria e alla sala degli ospiti, e infine a un altro lavabo vicino all'infermeria.
Nei lavabi, sottili rivoli d'acqua si riversavano ininterrottamente nelle vaschette.
Altre diramazioni alimentavano il bagno e una cisterna che serviva agli abitanti del luogo.
L'acqua in eccedenza si raccoglieva in una vasca di pietra per i pesci, e di lì passava a una cisterna accanto alla cella del priore e quindi alla "vasca" del priore, dove arrivavano anche l'acqua in eccedenza del bagno e l'acqua piovana dei tetti, in modo da formare un energico flusso purificatore che correva attraverso lo scarico principale sotto le latrine o "retrodormitori".
Inoltre, esisteva una riserva d'emergenza: nel cortile dell'infermeria c'era un pozzo, e accanto a questo una colonna cava collegata al condotto principale, nel quale si poteva così immettere l'acqua del pozzo in modo che l'erogazione non venisse sospesa nei tempi di siccità.
Brevi diramazioni, chiamate purgatoria, servivano per lavare periodicamente le tubazioni.
L'efficienza di questo sistema idraulico può spiegare come mai il monastero rimase immune dalla peste nera nel 1349.
Il tracciato dell'impianto idraulico della Certosa di Londra è indicato dalla "Watercourse Parchment", la "pergamena del corso d'acqua", esposta nella sala-archivio della Certosa stessa.
Nel 1430, un certo John Feriby e sua moglie Margery, concessero al priore e al convento una fountain (sorgente d'acqua) e un tratto di terreno attraverso Irlington per installarvi una conduttura sotterranea.
Dalla sorgente, l'acqua passava in un tubo di piombo e in un canale di pietra, con suspirails come a Canterbury. Da una torre-cisterna nel chiostro principale si dipartivano diramazioni per portare l'acqua al lavabo, alla lavanderia, al caseificio e alla distilleria.
Poiché il certosino viveva quasi isolato, cucinandosi i pasti da sé e coltivando un orticello personale, ogni cella aveva la propria provvista d'acqua.
L'abbazia di Praglia, situata ai piedi del Monte Lonzina nei Colli Euganei (Padova), è dotata di 4 chiostri.
Il chiostro doppio che risale al 1490, ha un pozzo ancora funzionante per l'approvvigionamento idrico.
Il chiostro pensile, che risulta sicuramente il più interessante, risale al 1495, come è attestato da una iscrizione posta sull'architrave del pozzo, attribuito all'architetto Tullio Lombardo.
Esso è ubicato nella stessa posizione del chiostro medievale, di cui ricalca all'incirca la geometria, il pavimento è lastricato con ottima trachite con andamento leggermente convesso, per favorire la raccolta dell'acqua piovana nella sottostante grande cisterna (magnifico spazio funzionale ricavato nella roccia del monte Lonzina e costruito con pilastri e volte).
L'acqua raccolta dai tetti, veniva filtrata attraverso uno strato di sabbia fine, per poi essere prelevata dal pozzo.
Il chiostro botanico risale al 1490 ed è dotato di una fontana, alimentata dalla sorgente del monte Lonzina.
Infine, il chiostro rustico del 1550, sistemato dalla parte del monte Lonzina, serviva come spazio di fattoria.
Il Santuario di S. Maria delle Grazie di Covignano (Rimini), conserva ancora a lato della chiesa, un classico chiostro francescano di stile cinquecentesco.
Rifatto dopo la distruzione bellica, presenta al centro il tradizionale pozzo conventuale con cisterna sotterranea.
Infatti ad una profondità di circa 5 metri, si trova la cisterna dotata di un filtro a carboni, che serviva a captare e depurare le acque raccolte dai tetti.
Nelle fortezze medievali erette per far fronte agli assedi prolungati, il pozzo era un elemento di prima necessità, non solo nella cerchia dei bastioni difensivi, ma all'interno dell'ultimo rifugio, il "mastio" vero e proprio.
Spesso i castelli sorgevano in posizioni elevate e l'approvvigionamento d'acqua era assicurato da cisterne, alla maniera di quanto era stato fatto in ambito greco e romano che raccoglievano la pioggia.
Le superfici di raccolta erano: la corte, i tetti o le terrazze delle torri degli edifici e persino i cammini di ronda.
Usualmente l'acqua veniva filtrata prima di essere ammessa in cisterna con filtro a ghiaia e sabbia.
Nella fortezza normanna, il cannone del pozzo veniva elevato a volte fino al primo piano e anche più su, come protezione accessoria contro gli assedianti, se avessero invaso il pianterreno.
L'acqua si poteva attingere a qualsiasi piano.
A Newcastle, il pozzo si trova in una torre d'angolo del mastio e a entrambi i lati della fonte principale vi sono vaschette o nicchie nelle pareti con tubi e condotti che alimentano le altre parti del forte.
Dalla fine del secolo tredicesimo i masti non si costruirono più, e il pozzo venne situato nella corte centrale, o in una torre speciale come a Carnarvon, dove l'acqua veniva distribuita da una cisterna rivestita di piombo per mezzo di canali di pietra.
Nella Rocca dei Conti Guidi a Modigliana (915 - 1376, Forlì), dove si ritrova un peculiare esempio di tonacatura impermeabile, scavi archeologici hanno portato alla luce un sorprendente impianto di captazione, filtraggio e contenimento dell’acqua piovana.
La superficie interna delle tre cupole sovrapposte e del cilindro che le contiene sono tonacate con uno spesso strato di malta di cocciopesto e rifinite di uno stucco oleoso ancor di cocciopesto.
Questa tecnica, che ricorda le affascinanti rifiniture "sagramate", tipiche di quell’area, non si avvale dell’opera marmorata superficiale. Ciò non toglie che il manufatto non sia stato, a suo tempo, trattato adeguatamente per ottenere che diventasse impenetrabile all’acqua.
Di fatto, un intonaco di cocciopesto, anche se ben battuto ed assodato, ha una porosità superiore a qualsiasi altra crosta marmorata.
Ragione per cui questi manufatti sono molto più avidi d’olio di quanto non lo siano i comuni intonaci di calce e sabbia: anzi, queste materie sembrano non saziarsi mai, ed assorbono l’olio sino a farlo penetrare nelle loro più profonde ed intime vacuità, conferendo allo strato di rifinitura, una volta essiccata, uno straordinario potere di contenimento dei liquidi.
E’ poi riconosciuto, che gli intonaci di calce e cocciopesto, per la loro composizione chimica e la loro struttura, garantiscono le qualità organolettiche dell’acqua.

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