LUDOVICO ANTONIO MURATORI fu storico, erudito, letterato (Vignola 1672-Modena 1750).
Sacerdote, ricercatore di una verità storica basata solo sui documenti e quindi non tacque i torti della Chiesa.
Fu inoltre il primo studioso ad avere una visione unitaria della Storia d'Italia.
Lasciò tre opere monumentali: Rerum Italicarum scriptores (1723-1751), raccolta delle fonti della Storia d'Italia dal VI al XVI sec.; Antiquitates Italicae Medii Aevi (1738-1743, ripubblicate dal 1751 al 1755 in italiano col titolo Dissertazione sopra le antichità italiane), in cui il Muratori prende in esame questioni di Storia medievale, dando così impulso agli studi su questo periodo; Annali d'Italia dal principio dell'era volgare al 1749 (1744-1749).
Ludovico Antonio Muratori nel suo trattatello Del governo della peste (Modena, per i tipi del Soliani, 1714) al capitolo [IL RIMEDIO PIU' EFFICACE, LA QUARANTENA]
"Ma ponghiamo che il morbo, superato ogni riparo ed entrato in una terra o città, non si possa colle vie suddette" [fin qui il Muratori ha parlato dei mezzi più efficaci per tenere lontano il contagio, come le fedi di sanità, le guardie speciali, le limitazioni al commercio, i bandi, l' isolamento degli infetti] "soffocare e che oggi uno, domani due e tre, e in luoghi diversi della città, comincino a morir di peste, in guisa che resti solo il gran pensiero di salvare da così fiero incendio i più che si potranno del popolo: allora e necessario che i magistrati con una pronta e ben pesata consultazione propongano l'ultimo de' rimedi, che son per accennare. Non e gia esso da mettere in disputa, essendo efficacissimo e tale che si dee, purché si possa, tosto abbracciarlo; ma solo e da esaminare, se si abbiano, o possano aversi mezzi per mettere in opera questo ripiego, il qual pure fu insegnato e praticato in vari luoghi con felicissimo successo dal p. Maurizio da Tolone cappuccino, siccome egli narra nel suo trattato politico della peste, opera molto utile, stampata in Genova l'anno 1661" [ trattato . . . anno I66I: Narratio compendiosa de Fratribus Capuccinis qui in civitate Genuensi et suburbiis peste infectos ministraverunt anno I656 et pro fratribus suis animas posuerunt tradotto e pubblicato presso Giovanni Callizzano in Genova nel 1661 dal cappuccino Ambrogio da Genova].
"Consiste esso nel mettere in quarantena almeno tutto il basso popolo della città, dal quale, e non dai nobili e dalle persone comode, la sperienza fa troppo spesso vedere che il male e facilmente disseminato e introdotto anche nelle case de' più guardinghi. Cioè, dopo avere ordinato che chi vorrà in termine di alcuni giorni partirsi dalla città possa farlo, si ha assolutamente da rinserrare nelle proprie lor case il volgo e i poveri tutti sotto pena della vita, con interdire ogni commerzio fra una casa e l'altra e con provveder poscia al rinserrati bisognosi il vitto ed altro che occorra. Scorgendosi dipoi infetta alcuna d'esse case, quella colle robe sue, e non l'altre, si dovrà purgar coi profumi, avendo buona cura delle persone che o ivi restano o si conducono altrove siccome sospette del male. Che se anche nell'ordine più civile de' cittadini fosse penetrata la peste, i medesimi si dovrebbono obbligare a questa medicinal prigionia.
Un gran bene si ricava da tal rinserramento, perché così vien tolta l' occasion di conversare e di vicendevolmente imbrattarsi . I magistrati più facilmente esercitano le loro incumbenze, e si schivano le ladrerie costumate in simili tempi, ne' quali la vil plebe si fa lecito ogni disordine, e coll'appropriarsi le robe degli appestati tira addosso a se la morte e la comunica ad altri. Basta il tempo di quaranta giorni per recidere e soffocare il male, mentre chi e sano si fa conoscer tale dopo tal pruova; e chi tale non era o avea in casa i semi del male o manca di vita o guarisce, ed espurgandosi immediatamente la sua casa e robe, si taglia la via al male di passare ad infettar altre persone e case. Il sequestrar la plebe minuta nella forma suddetta, può conservar la vita a loro e a tante altre migliaia di persone, le quali, per conversare, potrebbono contrarre un morbo che si facilmente si comunica pel commerzio o delle persone o
delle robe. Dopo i suddetti quaranta giorni, scorgendosi che non muore alcuno di peste ed espurgati i luoghi e le robe o sospette o infette, si può rimettere come prima il commerzio interno della terra o città.
Il punto sta, come dissi, in consultar bene se vi sia nerbo per provveder di vitto il popolo rinchiuso. Ma si osservi essere di spesa ed impegno maggiore il mantenimento delle capanne e dei lazzeretti, i quali in fine non difendono la gente dalla morte, anzi talvolta servono a far morire chi non sarebbe morto o ad affrettargli i1 passaggio, e certamente non sono atti ad estinguere il male già penetrato ed allignato in una città. Né la spesa di tal quarantena si troverà insoffribile alle prove, sì perché moltissimi cittadini si saran già ritirati alle ville, e di quei che restano in città buona parte sarà provveduta di vettovaglie, senza che i magistrati abbiano da pensare al loro sostentamento. Io per me non so precisamente come riesca e fosse per riuscire in pratica, e massimamente in città grandi, questo rimedio, che in teorica mi comparisce sommamente utile, per non dir anche necessario. Ma so bene che nelle due pestilenze che tanto afflissero la popolata città di Milano negli anni 1576 e 1630, dopo esser morte tante migliaia di persone, non cessando i1 male, altro rimedio non si trovo per vederne il fine (e si noti bene) che quello di mettere in quarantena, cioè di rinserrar nelle sue case per quaranta di, tutto il popolo sì nobile come ignobile, a riserva de' magistrati, ministri e serventi necessari: dopo di che resto oppressa e cesso affatto la pertinace mortalità, mantenuta fin allora dal commercio de' cittadini e spezialmente da quello della plebe e de' poveri. Ma se in fine bisogna ridursi alla quarantena, o sia a tal rinserramento, per salvare le reliquie del popolo fin allora preservate dal comune incendio, quanto più gioverà e sarà convenevole, quando mai si possa, il tentare lo stesso rimedio e scampo sui principi, per vedere di mettere in salvo la cittadinanza tutta? Per compimento di ciò aggiugnerò le parole stesse del soprammentovato cappuccino il quale, dopo aver consigliato e commendato questo ripiego, come atto a purgare dal contagio qualsivoglia città, così conchiude: La lunga pratica ed isperienza e quella che m'ha insegnato non potersi dare rimedio né più facile, né più efficace, né più presentaneo di questo.
Ludovico Antonio Muratori nel suo trattato Del governo della peste (Modena, per i tipi del Soliani, 1714) al capitolo [GLI UNTORI (VEDI QUI)]
"Hanno in oltre i magistrati da invigilare, non solamente per impedire che il morbo non si comunichi e dilati inavvertentemente per lo commerzio delle persone e robe infette o sospette, ma ancora per vedere che non sia esso accresciuto dalla malizia e diabolica ingordigia degli scellerati. E cosa che fa orrore, anzi può comparir tosto come incredibile, cioè che si dieno delle pesti suscitate o dilatate per via di veleni, polveri ed unzioni pestifere. Alcuni negano che ciò sia avvenuto mai o possa avvenire, ma superiori in numero e più accreditati son quelli che asseriscono e citano i casi. Raccontano essi che nella peste di Casale del 1536 furono giustiziati molti, i quali in numero di 40 s'erano congiurati per moltiplicare la mortalità con unguenti e polveri pestilenziali. Niccolo Polo scrive succeduto lo stesso in Franchestein l'anno 1606. Ercole Sassonia e il celebre nostro Falloppia attestano il medesimo della peste de' lor tempi ed altri narrano fatta la medesima scelleraggine in diverse pesti di Genevra, Parma, Padova ed altre città. Non importa ch'io citi gli autori. Mattia Untzero nel lib. I, cap. 17 del suo Trattato della peste ne ha raccolto molti. Ma nessun caso è più rinomato di quel di Milano, ove nel contagio del 1630 furono prese parecchie persone che confessarono un sì enorme delitto e furono aspramente giustiziate. Ne esiste ivi tuttavia (e l'ho veduta anch'io) la funesta memoria nella Colonna infame, posta ov'era la casa di quegl'inumani carnefici. Il perché grande attenzion ci vuole affinché non si rtrovassero più simili esecrande scene.
Tuttavia avvertano i saggi magistrati e lettori che una tal vigilanza non degenerasse poi in superstizione e in timori ed apprensioni spropositate, dalle quali potrebbono poi nascere altri non men gravi disordini. Il punto è di particolare importanza, e però bisogna pesar bene e tenersi a mente anche le seguenti riflessioni. Egli è facilissimo secondo me che sia accaduto spesso, ed accada spessissimo anche di nuovo ne' tempi di peste, ciò che veggiamo tante volte accadere ne' mali straordinari o non molto usitati delle donne e de' fanciulli del volgo, mentre con gran leggerezza s'attribuiscono quasi tutti a malie e stregherie e ad invasioni di spiriti cattivi, giungendosi anche talvolta non solo a sospettare, ma a credere streghe certe povere donne che altro delitto non hanno se non quel d'essere vecchie. Molto più senza paragone possono occorrere tali sospetti nell'inusitato ed orrendo spettacolo d'una pestilenza, al mirar tante morti e tanti, che di sani che erano, restano all'improvviso estinti. Basta che un solo cominci a sparger voce, benché dubbiosa e timida, che quella misera e non mai più veduta carneficina proceda da stregherie, unguenti o polveri di veleno artefatto, affinché tal voce prenda gambe e corpo, e diventi una indubitatissima verità in mente dei più del popolo. Il solo aver letto o inteso a dire che si danno e si son date dilatazioni di peste per empia e crudel manifattura d'alcuni, e bastante a cagionare in molti una fiera apprensione della stessa, e che l'apprensione gagliarda ad ogni picciol romore o osservazione passi in ferma credenza. In que' tempi sì calamitosi, ne' quali per attestato di chi n'ha veduta la pruova non si può dire quanto sia il terrore del popolo, passando esso insino a farne molti stolidi ed insensati, egli e troppo facile il concepir simili spaventi, e che alla fantasia sembri poi di trovar qua e là fatucchierie, e unti i martelli delle porte o le panche o i vasi dell'acqua santa nelle chiese, e sparse polveri pestifere e simili altre visioni.
Da questo stravolgimento di fantasmi nasce poi un'incredibil miseria di molti, che temono la morte anche dove non l'hanno da temere, e alcuni si muoiono anche senza peste, di pura apprensione e spavento. Anzi si giunge ad imprigionar delle persone e per forza di tormenti a cavar loro di bocca la confession di delitti ch'eglino forse non avranno mai commesso, con far poi di loro un miserabile scempio sopra i pubblici patiboli. Questa malattia dell'immaginazione è vecchia in altri simili casi, ed è curioso quanto abbiamo dal famoso arcivescovo e scrittore Agobardo, il quale nel libro De grandine et tonitruis, al cap. xv, narra che, insorta a' suoi tempi, cioè nell'anno 810, la mortalità de' buoi, quale ancor noi abbiam provata, si ficcò nella mente a molti che tal disavventura procedesse da Grimoaldo, duca di Benevento, il quale, per esser nemico di Carlo Magno imperadore, avesse mandato in Francia persone a spargere polveri micidiali pe' campi, monti e prati. Furono presi non pochi su questo sospetto ed ancora alcuni trucidati; e il mirabile era che taluno confessava questo delitto, senza mai porsi mente come potesse formarsi una polvere sì giudiziosa e discreta che desse la morte al soli buoi e non agli altri animali. Così Agobardo. Ma i tormenti (torno a dirlo) hanno il segreto di far confessare misfatti anche agl'innocenti. Ho trovato gente savia in Milano, che avea buone relazioni dai lor maggiori e non era molto persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti velenosi, i quali si dissero sparsi per quella città e fecero tanto strepito nella peste del 1630. Anzi, ho osservato esserne stato in dubbio lo stesso cardinal Federigo Borromeo, arcivescovo allora di Milano, personaggio di santa ed immortal memoria e gran filosofo ancora, il qual fece insigni azioni durante quella pestilenza, e poté parlarne con fondamento. Fu anche più orrida la scena nella terribilissima peste del 1348 poiché, sparsa voce che alcuni, e spezialmente i Giudei, fossero quegli che con vari veleni e malie avessero introdotta e dilatata quella incredibile mortalità, furono trucidati molti cristiani e moltissime poi migliaia d'Ebrei per la Francia e per la Germania, di modo che lo stesso Clemente VII fu mosso dalla carità cristiana a soccorrere e proteggere con varie bolle quella povera gente, al certo non rea di questo delitto. Bisogna dunque andar adagio in profferir sentenze e in avvalorar sospetti allorché si spargono tali voci. Nel presente anno 1713 abbiam co' nostri occhi veduto nella nostra città che romori, che paure e cavate di sangue abbia cagionato la voce disseminata che si mirasse di notte una fantasima per le contrade. Oh molti la videro, ma loro la fece vedere la sola precedente apprensione e paura, la quale e un'industriosa dipintrice, massimamente in tempo di notte. Quel solo che si può credere senza veruna difficultà essere avvenuto qualche volta, e poter di nuovo avvenire, si è che qualche scellerato possa in tali occasioni valersi di veleni o d'unguenti pestiferi per incamminare all'altro mondo qualche particolare e determinata persona, la quale non avesse gran fretta o voglia d'andarvi, per isperanza di cogliere i loro danari o saccheggiar le loro case: il che avrà anche dato motivo a più larghi e generali sospetti, e al che si dee ben por mente, invigilando spezialmente alla condotta de' beccamorti, gente ingordissima, e di chi volesse fare il medico e il cerusico allora senza le legittime licenze ed approvazioni della sua abilità e fedeltà. Per altro, che si dieno congiure di gente la quale con simili unti e veleni si metta a far morire il popolo alla rinfusa, lo non m'indurrei a crederlo se non dopo una grande evidenza".
Ludovico Antonio Muratori nel suo trattatello Del governo della peste (Modena, per i tipi del Soliani, 1714) al capitolo [GLI AMULETI (VEDI QUI)]
"Prima però d'inoltrarmi nel gran caos de' preservativi farmaceutici, che si prendono in bocca o per bocca, mi sbrigherò dagli esterni. Che non fa l'intenso natural desiderio che ha ognuno di conservare la sanità e la vita in mezzo ai gran pericoli? Esso ha anche inventato non pochi antidoti esteriori ed amuleti contra la peste, con dar loro o buonamente o maliziosamente un credito e spaccio considerabile. Gli astrologi e i superstiziosi hanno inventato molti sigilli, medaglie, bullettini, anelli, carte e simili cose con figure, segni, numeri e parole anche sacre. Alcuni, e massimamente in Germania, esaltano e danno per un preservativo maraviglioso il portare in tempi di contagio sospeso al collo un rospo seccato o bruciato e ridotto in cenere e chiuso in un sacchetto. Altri nella stessa guisa consigliano il portare argento vivo ben chiuso e sigillato con cera in una noce o in una penna da scrivere, e ne raccontano mirabili effetti. Per parere d'altri lo smeraldo, lo zaffiro, il giacinto ed altre gemme appese al collo, in maniera che tocchino l'esterna region del cuore, atteriscono talmente la peste che non osa accostarsi. Più celebri degli altri sono gli amuleti d'arsenico cristallino puro, o varie paste e composizioni di polveri ed erbe, nelle quali entra arsenico o sublimato, da portar chiuse in uno zendado o sacchetto di tela vicino al cuore. Anche i nostri medici italiani, e fra essi alcuni de' primi, commendano forte questo segreto, citando massimamente l'esempio di papa Adriano VII che dicono preservato dal contagio per mezzo d'una lamina d'arsenico, portata sopra la region del cuore, e sostenendo che l'un veleno resiste all'altro.
Io lascio altri simili curiosi antidoti e mi ristringo a dire che i precetti della religione infallibile son chiari contra que' rimedi che vengono manipolati dalla superstizione, essendo non men delitto presso a Dio che follia presso gli uomini il prestar fede a tali invenzioni. E per conto degli amuleti velenosi, creduti contraveleni, i più saggi tra i medici li vogliono sbanditi dall'uso; e ciò perché la ragione fa intendere che o non sono atti a giovare, come si crede, o possono anche nuocere. In fatti la sperienza adduce vari casi funesti, che qui non importa riferire, avendo essi avvelenato chi veniva a sudare e chi per mezzo loro si credeva sicuro dall'altro veleno, e non avendo essi difeso tanti altri dalla peste, che pur deridevano i medici con portar simili amuleti. Io per me non oserei affatto riprovare l'uso di questi pretesi rimedi, ma dirò bene che non saprei fidarmene molto. E se talun rispondesse che per attestato d'insigni medici hanno essi giovato e giovano nella peste, se gli vuol rispondere essere più che difficile in molti casi (e possono in ciò prendere abbaglio anche le prime teste) il decidere qual cagione o rimedio abbia precisamente preservato dal male o salvato dalla morte un uomo. Ne' tempi di contagio può essere che si sieno preservati molti, portanti simili velenosi amuleti, non per cagione d'essi amuleti, ma per altre circostanze, ed anche talora per la gran fede che appunto aveano riposta in essi, e che li riempieva d'intrepidezza e coraggio, due già da noi dichiarati buoni preservativi contra la pestilenza. All'incontro, sapendosi che rospi, ragni, arsenici, argenti vivi ed altri di questi almeno sospetti ritrovamenti sono stati avvertiti per inutili ne' medesimi contagi da altri più attenti e men creduli medici, egli è difficile che la sperienza di questi abbia preso abbaglio; e perciò bisogna qui andar cauto per non cadere nel cerretanismo, da cui pur troppo non sanno talvolta tenersi lontani alcuni ancora che fanno strepito nella medicina".
Ludovico Antonio Muratori nel suo trattatello Del governo della peste (Modena, per i tipi del Soliani, 1714) al capitolo [L'ESEMPIO DEL VESCOVO]
"Quindi rivolga il prelato il suo studio a levar dagli animi del popolo la costernazione e la stupidezza che spesso allora assalisce quasi tutti ed impedisce non solamente l'esercizio de' vari ufizi, ma eziandio la buona cura di se stesso, non che degli altri. Anch'egli esorterà ciascuno alla costanza e al coraggio, dandone prima, per quanto potrà, egli medesimo esempio a tutti. A ciò contribuirebbe assaissimo s'egli potesse di quando in quando lasciarsi vedere per le contrade e piazze della città a cavallo, come hanno costumato in simili occasioni i cardinali S. Carlo e Federigo Borromei, arcivescovi di Milano d'immortale memoria, Gianfrancesco di Sales, vescovo di Genevra, successore e fratello dignissimo di S. Francesco, e tanti altri cardinali, vescovi e principi. Non si può dire che consolazione e che gioia inspiri ne' cuori o mesti o abbattuti della gente il poter mirare allora dalle porte o dalle finestre o pure a cielo aperto il volto del loro sacro pastore o di chi li governa. Quell'osservare che personaggi tanto loro superiori non paventano la peste è una grande scuola di non paventare anche agli altri; e quel chiarirsi che i governatori dati loro da Dio si prendono in persona tanta cura d'essi e si sforzano di rimediare alle loro miserie e pericoli, accresce a tutti il conforto e il coraggio per non disperar da lì innanzi e per sopportare con più tolleranza gl'incomodi di quella misera congiuntura. Utilissimo pertanto al popolo, e glorioso ai vescovi e ad altri superiori, sarebbe allora il portarsi sino alle porte dei lazzeretti e il passeggiar talvolta per le contrade, informandosi eglino stessi dello stato degl'infermi e di qualunque altro bisognoso, con ascoltargli o dalle finestre o in una convenevole lontananza, tenendo poi registro di tutto per soccorrere, come si potrà il meglio, alle necessità da cadauno. A questo atto d'eroica fortezza e d'insigne carità cristiana certo è che terranno dietro le benedizioni non meno di tutto il popolo che di Dio. Qualora non sia loro possibile il farlo, almeno mandino i lor primari ministri o altre accreditate persone, che in loro nome s'informino e confortino e rincorino chi ne ha bisogno, soccorrendo poi con gli effetti alle indigenze altrui".