cultura barocca

OLIVICOLTURA

Un discorso a parte merita la coltivazione dell'olivo (ulivetis), che dai documenti noti pare ancora piuttosto rara sino al sec. XIII.

G.MOLLE [esimio giurista ma altresì emerito studioso della sua terra che si confrontò su ogni tematica e che nel campo agronomico analizzò con estrema cura tutto il sistema documentario, qui peraltro riproposto digitalizzato, della GRANDE TRADIZIONE AGRONOMICA ROMANA in un'epoca - specie ed ancora quella del MERCATO APERTO IMPERIALE ROMANO (VEDI CARTA MULTIMEDIALE) in cui il PONENTE LIGURE ERA IMPORTATORE DI OLIO ALIMENTARE E SOLO DI OLIO DA COMBUSTIONE A SCOPO DI ALIMENTAZIONE DELLE LUCERNE] in un mirabile lavoro edito a Milano nel 1971 -Oneglia nella Storia- aveva sostenuto - FATTE SALVE IMPORTANTI ACQUISIZIONI RECENTI CHE CONTRASTANO CON LA SUA IPOTESI- una PACIFICA IMPORTAZIONE DELL'OLIVICOLTURA DALL'AREA GRECO-PROVENZALE (VEDI IL CASO DI ARLES, DELLA SUA PRODUZIONE, DEGLI OPIFICI E DEL SISTEMA DEI MULINI INTEGRATI = VOCI NELLA STAMPA ATTIVE) ed aveva altresì dubitato di un'arcaica guerra di frontiera fra Greci e Liguri nel IV-III sec. a. C., sia perché l'archeologia ha riportato tracce di una pacifica commercializzazione di prodotti massalioti nei castellari del Ponente sia per il fatto che i grecismi " MAGAGLIO" [che deriva da un tipo di zappa greco, la "MAKELLA" (in latino Ligo: la nostra rara e antica riproduzione è tratta da AA.VV., Hesiodi Ascraei...[opera omnia], Amstelodami, apud G. Gallet, 1701, inter pp. 260-261 ma leggi qui LA LUNGA TRATTAZIONE NECESSARIA IN MERITO, DATA LA PECULIARITA' DELL'OGGETTO EFFIGIATO SOTTOSTANTE ALL'IMMAGINE ANTIQUARIA PROPOSTA) il cui nome attuale, attraverso i millenni, salva restando la tipologia dell'attrezzo, si evolse (caso isolato in Italia) nell'italiano/ ligure ponentino, di evidente connotazione dialettale,MAGAJU donde l'approssimativa "italianizzazione" MAGAGLIO, donde il verbo, parimenti adattato dal dialetto, MAGAGLIARE sia nel significato proprio di "lavorare il campo o l'orto" sia nell'accezione proverbiale, con timbro critico" di "non far vita da fannullone e dedicarsi ad un lavoro utile quanto faticoso"] e "CARASSA" [un sistema di sostenimento pei vitigni] e la tecnica colturale marsigliese della colombara (per olio da combustione ed unguenti) paiono introdotti pacificamente nel Ponente ligure ad opera di coloni greci [peraltro, nonostante gli sforzi e le investigazioni -patrocinati soprattutto dall'Istituto di Studi Liguri di Bordighera- una pagina ancora da verificare è quella dei contatti dei Liguri ponentini col mondo greco nella sua totalità non solo con Marsiglia (vedi la carta multimedializzata e iperattiva): ed un oggetto di studio interessante sarebbe quello delle relazioni con la potente isola greca di RODI le cui navi -nel suo periodo di massimo splendore, frequentavano per ragioni commerciali tutto il mediterraneo sui cui mercati erano sempre ben gradite le ottime MONETE nella zecca dell'isola].
Le ultime indagini sui reperti suggeriscono che dal VI sec. agricoltori greco-marsigliesi si siano insediati senza contrasti nel territorio degli Intemeli, non lungi dall'odierno confine costiero tra Francia ed Italia.
I MONACI BENEDETTINI, dal IX al X secolo, diedero impulso all'olivicoltura ligure; furono probabilmente loro che importarono da CASSINO nel PONENTE LIGURE (VEDI QUI), dove esercitaronono una foridabile opera apostolica ma anche di ristrutturazione e rivitalizzazione specie: una pianta di buona qualità fatta risalire alla loro attività agronomica è passata alla gloria della gastronomia come OLIVA TAGGIASCA (cfr. FORNARA, I Benedettini e la Madonna di Canneto a Taggia, Chieri, 1928, pp. 49 e 97) pur essendosi esplicitata l'attività del monachesimo benedettino su un'area molto più estesa grossomodo identifantesi con il
MONACHESIMO EREMITICO, QUINDI MARITTIMO ED INSULARE E SOPRATTUTTO "LERINENSE"
SU CUI ESSI ANDARONO AD IMPOSTARE ED INNESTARE
TRAMITE IL SISTEMA AGRONOMICO GRANGITICO, IMPORTANTE ANCHE PER L'OLIVICOLTURA
IL LORO APOSTOLATO E LA LORO INDUSTRIOSITA'
(CONSULTA QUI GLI AMPLI INDICI TEMATICI)

La storia parla comunque poco del popolo ligure prima della penetrazione romana; di saldi costumi morali (DIOD.,IV,30 e V, 39), sempre dignitosi di fronte alle avversità (STRAB.,III,4, 17 e IV,63), da epoca lontana i Liguri risultano ben adattati alla loro terra asprigna, traendone, con meraviglia del filosofo greco Panezio, quanto necessario alla loro esistenza (STRAB., cit.).
Nonostante i classici si interessassero soprattutto della tradizione guerriera dei Liguri (LIV., XL, 28 e XL, 34) e della loro attività di pirati e mercenari al servizio di Annibale (POLIB., I, 67, 2; DIOD., XXV, 2, 2), scrittori più attenti, come Cicerone e Strabone, non tralasciarono di ricordare alcuni aspetti della loro vita di relazione.
Cicerone, quando nel De Lege Agraria, II,35 scrisse Ligures Montani duri atque agrestes: docuit ager ipse, nihil ferendo nisi multa cultura et magno labore quaesitum, alluse al duro lavoro necessario per far fruttare una terra tanto aspra
Strabone annotò che in epoca preromana erano già comparse le coltivazioni dell'olivo e della vite, che alla sua epoca (I sec. a.C. - I sec. d.C.) non paiono però particolarmente diffuse, poiché non bastavano ai bisogni locali, rendendo necessaria l'IMPORTAZIONE di olio, vino e grano dal mercato di Genova (ma poi, soprattutto, dalla Spagna e dall'Africa regioni in cui l'OLIVICOLTURA era straordinariamente diffusa) in cambio di legnami, pelli e miele (STRAB.,III ,4, 17 e IV, 63) secondo quelli che sarebbero stati per secoli i principi del MERCATO APERTO tipico dell'economia dell'IMPERO DI ROMA nei secoli del suo fulgore la cui straordinaria frequentazione commerciale è attestata dai rinvenimenti di
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Gli STATUTI del borgo di Apricale in Val Nervia e vari rogiti del notaio di Amandolesio dimostrano che la coltivazione degli olivi era abbastanza diffusa nella Liguria ponentina del XIII sec. anche se molti elementi inducono a far credere che la diffusione dell'olivicoltura nel Ponente ligure [nella romanità secondo una teoria non unica ma egemonica si sarebbe prodotto solo un OLIO DA COMBUSTIONE (usato in particolare per lucerne e lampade come anche sostenuto dal Molle) e si sarebbe importato da Provenza e Spagna (opinione che fa invece differire la Pallarés che opta per una decisa commercializzazione dalla Penisola Iberica rispetto alle idee del Molle che previlegiava una principale "provenienza provenzale") soprattutto, quello alimentare almeno fin a metà III sec. per poi optare verso il prodotto africano: così almeno secondo l'interpretazione della nota studiosa] sia in gran parte da ascrivere, verso la fine del I millennio cristiano, all'opera agronomica dei Benedettini (che ne fecero - senza sottovalutare plausibili relazioni con il Monachesimo di Lerino- dapprima una sorta di monopolio all'interno del sistema della grangia o fattoria monastica con lo sfruttamento di terreno secondo la coltura su terreni a fasce ottenuti con la tecnica dei muri a secco) di Pedona prima e di Novalesa poi ( Albintimilium...cit., p. 221 e nota ).
A questo punto stante l'attribuzione ai Benedettini dell'impianto medievale dell'olivicoltura (sarebbe il caso di dire senza trascurare nel settore l'esperienza addotta dal monachesimo di Lerino viene spontaneo porsi il quesito, a prescindere dalla soluzione della "grangia", come abbiano oprato i monaci sotto il profilo squisitamente agronomico, data la disponibilità di piante selvatiche in loco (oleaster = oleastro) e l'esigenza di migliorare il prodotto ricavabile in direzione del vero e proprio olivo (vedi qui anche una rassegna di immagini antiquarie dell'olivo, della raccolta delle olive, dei frantoi, dei beodi, delle norie ecc. ecc.).
Attraverso lo scorrere del tempo e certo rimanendo sempre nel campo delle teorie non è da escludere che i Benedettini abbiano provveduto all'innesto degli "Ulivi" sugli "Ulivastrelli selvatici" (Oleastri) senza dubbio con un fare assai più sperimentale ma in qualche maniera in consonanza con la maniera di cui scrive (distinguendo la maniera d'oprare anche nel procurarsi gli "Ulivastri" ora seminandoli (p 110) ora invece reperendoli in natura e specie nei boschi (p. 111)) nel Capitolo III del suo Trattato degli Ulivi (opera che risulta contenuta all'interno del monumentale lavoro dal titolo Cosimo Trinci (XVII - XVIII sec.) l'agronomo un tempo celebre Cosimo Trinci = vedi qui "L'agricoltore sperimentato..." [Venezia 1796: VI ed. accresciuta della celebre opera di agronomia L'agricoltore sperimentato, opera di Cosimo Trinci, pubblicato da Pier Salvatore, e Gian-Dom. Marescandoli, 1726 (vedine qui gli Indici Moderni) = il Trinci risulta sempre molto oculato, anche in forza delle varie tavole che mette in ogni settore a disposizione del lettore ( vedine qui alcune a titolo esemplificativo) = e ora qui per comodo dei lettori che intendano districarsi in questo campo si elencano dal Trattato degli Ulivi i cari capitoli qui digitalizzati ed informaticamente proposti da testo antiquario: * - Capitolo I: Del modo, e tempo di far Vivaj, o conservatoj d'Ulivi, e prima di quelli di Uovoli, o Puppole - * - Capitolo II: Del modo, e tempo di far Vivaj, o sieno conservatoj di rami d'Ulivo - * - Capitolo III: Del modo, e tempo di far Vivaj, o sieno conservatoj d'Ulivastrelli selvatici, che nascono dal seme - * - Capitolo IV: Del modo, e delle regole più sicure per mettere all'ordine il terreno per la Coltivazione degli Ulivi - * - Capitolo V: Del modo, e tempo di svellere gli Ulivi dal Vivajo; e piantarli nelle Coltivazioni. - * - Capitolo VI: Del modo, e del tempo di piantare gli Ulivi, detti Piantoni, che si staccano dalle Ceppaje, o barbicaje degli Ulivi grossi - * - Capitolo VII: Del modo di coltivare, e allevare gli Ulivi il primo anno dopo piantati - * - Capitolo VIII: Del modo di coltivare, e allevare gli Ulivi, finchè non saranno d'età di quattro, o cinque anni. - * - Capitolo IX: Del modo di coltivare gli Ulivi passata che abbiano l'età di quattro, o cinque anni, fino a che durano - * - Capitolo X: Del modo di tagliare gli Ulivi, se mai per il gran freddo seccassero: con la Storia di alcune straordinarie seccagioni di Ulivi accadute in Toscana - * - Capitolo XI: Del tempo di raccogliere l'Ulive, e del modo di ben conservarle, e stagionarle. - * - Capitolo XII: Del modo di conservare l'olio, accio non prenda di rancido, nè di altri cattivi odori, o sapori; e del modo, e del tempo di travasarlo per mantenerlo perfetto

L'olivicoltura divenne comunque già a metà del '200 attività agricola "aperta" in Val Nervia anche se in effetti assunse pressoché contestualmente rilevanza storica in tutto il ponente, sin a diventare una monocoltura da esportazione col conseguente rischio che, per carestie o cattivi raccolti o malattie delle piante, le comunità, senza altre fonti di guadagno si dovessero impoverire con indebitamenti gravi.
Attorno all'olivicoltura fiorì un'attività manifatturiera complessa in cui tutto era sfruttato, fin alle sanse ed ai residui, con una regolamentazione capillare che spesso coinvolgeva gli operatori di mulini e frantoi, che potevano essere "ad acqua" (sfruttando la forza idrica incanalata nei "gombi") od "a sangue", secondo la prevalente tecnica romana, sfruttando la fatica di animali adattati a far ruotare i meccanismi delle macine con la loro forza muscolare: un pò in tutti i paesi delle valli sorgono enormi testimonianze della "civiltà e della cultura dell'olio" di cui Dolceacqua costituisce certo un esempio storico di primaria importanza (ma non si dimentichi la tradizione storica di tanti altri siti di rilevante attività molitorio in queste ed altre contrade, come in valle Argentina [area di Taggia]: da Pompeiana a Castellaro a Molini di Triora).
Secondo il MOLLE si può pensare (ma non tutti CONCORDANO su tale ideazione) che i Massalioti abbiano introdotto, verso il IV sec. a.C., la coltura della vite e dell'olivo in Liguria occidentale: anche se non è da prendere del tutto alla lettera quanto in merito, anche troppo entusiasta d'ogni iniziativa dei Greci antichi, scrisse Pompeo Trogo (nelle Historiae Philippicae pervenuteci nel compendio di JUSTINUM, XLIII, 4): et unum vitae cultiores, deposita et manufacta barbarie et urbes moenibus cingere didicerunt. Tunc et legibus nove annis vivere, tunc et vitem putare tunc olivam serere consueverunt.
Strabone parlò pure del vino ligure e lo ritenne scadente per l'aridità della terra che non nutriva a sufficienza i vitigni (ed in realtà non doveva essere davvero buono se, come egli disse, gli stessi liguri gli preferivano ancora la BIRRA!). Il geografo greco elogiò invece il miele ligure, ricordando poi, oltre a varie qualità di ortaggi, la coltura della segala, del miglio e dell'orzo.
A suo dire era diffusa la pastorizia, specie nelle valli e sulle montagne: ne possiamo dedurre l'importanza del latte e dai suoi derivati per le antiche genti di Liguria.

Un' interpretazione alternativa a quelle "storiche" sviluppate sulla coltura dell'olivo in Liguria occidentale è in qualche modo "figlia" di un saggio di P. Garibaldi e P. Sacco (Olivicoltura e commercio oleario antico tra Ponente ligure e Francia meridionale in "Rivista Ingauna Intemelia", LI, 1996 - 1998).
Gli autori vi citano la vicenda di un commercio oleario molto antico tra Ponente di Liguria e la Provenza: un interscambio storico che alla fine avrebbe favorito la coltura dell'olivo nel Ponente ligustico.
La loro ipotesi è stata in tempi recentissimi ripresa abilmente da C. Eluère in un dotto saggio (su "Intemelion - cultura e territorio", n.5, 1999, pp.151 - 163
) dal titolo Le "pietre olearie" di Pigna: un incontro tra l'antichità e la tradizione?.
Quest'ultimo studioso, integrando le osservazioni di quanti l'hanno preceduto, si sofferma su alcune riflessioni tanto intelligenti quanto sostanziali: tenendo conto a suo dire dei rilevamenti di stabilimenti oleari in Provenza (J.P. Brun, L'oléiculture antique en Provence, in "Revue Archéologique de Narbonnaise", aupplément 15, 1986) e nella Ligura levantina (A.Bertino, Villa romana del Varignano (La Spezia): un oleificio di 2000 anni fa, costruito nell'età imperiale, il più antico della Liguria, in "Archeologia in Liguria", 1976, 1984, 1990) l'autore ipotizza che la liguria ponentina non abbia costituito una sorta di isola, cui era estranea l'olivicoltura, ma potesse costituire parte di un unicum colturale proprio dell'intiero arco ligure storico.
Le affermazioni dello studioso sono condivisibili in linea di principio, tenendo conto dell'impressionante succedersi di rilevamenti di aziende rustiche di epoca romana soprattutto imperiale ridisegnato, tramite vari contributi, per l'occidente ligure e specificatamente per l'importante area rurale della VALLE DEL NERVIA.
Anche per C. Eluère la Valle nervina ha finito per costituire un punto di riferimento per l'evoluzione dei suoi studi: in particolare egli si è soffermato a studiare una porzione valliva, quella identificabile come ALTA VALLE DEL NERVIA peraltro ricca di insediamenti rurali romani a suo tempo variamente segnalati: vedi qui Guida di Dolceacqua e della Val Nervia.
Le osservazioni di C. Eluère (cui si rimanda il lettore interessato) sono però ben fondate su una serie di interessanti ritrovamenti e per questo acquisiscono una valenza culturale significativa.
Le riflessioni sono infatti sviluppate dallo studioso in chiusa di una sua indagine sul campo, in merito al ritrovamento di "pietra olearie" nell'agro di PIGNA in alta valle del Nervia.
L'autore ha analizzato tutte le PIETRE OLEARIE (sostanzialmente pietre di torchio arcaico) in alcuni siti nei quali, diversamente, si sono avuti altri ritrovamenti di insediamento umano, rurale e specificatamente di ambiente culturale romano.
Precisamente si tratta di 2 pietre scoperte nella località OURI, di 1 verisimilmente proveniente dalla località VERDUNO e di 2 pietre ancora nel sito rurale che prende il nome di CARNE dal rio che l'attraversa.

Il Formentini (in Studi velleiati e bobbiesi, La Spezia, 1938, p. 25) citò un diploma di Carlo Magno, datato 5 giugno 774, con cui in qualità di rex Longobardorum concedette a Guinibaldo, abate di Bobbio, un podere con oliveto sulla via del Bracco (anticamente Petra Calice).
Nella ricordata concessione del vescovo Teodolfo (X sec.) l'olivo viene menzionato accanto ad altre qualità di piante e di alberi; questo però e l'unico documento dell'epoca che ne registra sì antica presenza nel Ponente ligustico.
Infatti in un successivo atto (4-VII-1049 ma forse correggibile al 1036-1038) con cui Adelaide di Susa donò al monastero genovese di S. Stefano il fondo Porciano (S. Stefano), nonostante la quantità di elementi, piante, coltivazioni citate, l'olivo non compare.
La coltivazione intensiva dell'olivo e lo sfruttamento artigianale dell'olio (su cui, a livello generale, una fra le prime opere scientifiche fu quella settecentesca di Pietro Vittori) sono databili alcuni secoli dopo: la coltura si affermò a livello intensivo dal pieno '500 mentre tra fine XV e primi del XVI secolo non era ancora particolarmente diffusa pur se, a riguardo dell'areale della val Nervia sia negli atti del notaio di Amandolesio non mancano citazioni di terre coltivate ad olivi (in particolare quelle del caso di una vedova di Dolceacqua, certa Benvenuta -XIII secolo- che possedeva, oltre a varie altre terre a differenti specializzazioni agricole, alcune piantagioni di olivi) sia, ancora, entro gli Statuti del borgo di Apricale alla Rubrica 38 si leggono precise norme contro i furti perpetrati a danno degli olivicoltori.
Su questo argomento concorrono utilmente le rilevazioni fatte da Fausto Amalberti nel suo saggio Popolazione di Soldano nel secolo XVI ed ancor meglio quello di Beatrice Palmero nel contributo Proprietà catastale e struttura familiare (pp.161-162): entrambi i lavori sono stati editi nell'opera Il Catasto della Magnifica Comunità di Ventimiglia...(1545 - 1554).
Grazie alla sua più estesa ed organica visione dei problemi la Palmero sviluppa un esaustivo piano comparativo sulla diffusione dell'olivicoltura nel Ponente ligure, sottolineando però con cura un'anticipazione della coltura e dell'annessa civiltà dell'olio propria delle valli di Diano.
La studiosa sulla base dello strumento notarile, appunto il Catasto, arriva a segnalare una modestia tale della coltura nell'agro intemelio da giustificare sia l'importazione del prodotto dalla Provenza sia il principio che tra metà 1200 e metà XVI secolo l'incremento dell'olivicoltura, a fronte delle colture predominanti della vite e dell'olivo, non avesse fatto registrare alcun significativo incremento.
Sempre Beatrice Palmero riporta per esteso le terre dell'amministarzione intemelia che, sulla base del catasto, risultavano poste a olivicoltura: una terra ad Airole (in località Pian) di cui era titolare un certo Jancherius, una a Bordighera in località Ponte di un Gerbaldus, una a Borghetto di certo Aproxius, una a Vallebona (località Toria) di un Pallancha, una appartenente a tutta la comunità di Soldano (Universitas Soldani) in località Sagrao, una ancora a Vallebona di tal Allavena in località Savel, sempre a Vallebona un'altra di tal Guillelmus in luogo Cazetta, di nuovo a Vallebona, del Guillelmus, un'altra terra ad olivi in zona Vallon de Vi, sempre a Vallebona la terra olivata Pian de Lora di certo Arnaldus ed ancora, nello stessa villa, le terre di Iancherus in località Savel, di Leonus in zona Chiaforno, di un Pallancha in sito Fontana.
Il facile calcolo fatto dalla studiosa registra quindi un il numero di 10 oliveti e calcola successivamente un numero ancora limitato di frantoi, una ventina circa, a fronte degli oltre 30 mulini necessari alla Comunità per la macinazione del grano di autoconsumo.
Secondo l'Amalberti, e sulla base di una sua condivisibile constatazione, proprio dalla metà del '500 (periodo di stesura del catasto) l'olivicoltura registra la sua crescita: il ricercatore d'archivio ci rende edotti di alcuni dati interessanti che evince dall'Archivio di Stato di Genova (Notai Antichi, n. 1808 bis, notaio Stefano Berruto).
Tra i segnali del sempre maggior valore attribuito ai campi posti a coltura di olivi egli adduce, per esempio, un atto del 1524 col quale tal Domenico Fenoglio diIsolabona vende 35 rubbi di olio ad Antonio Orengo di Ventimiglia ed un altro ancora, del 1532, per cui Luigino Moro di Apricale che accusa un debito di 10 scudi nei confronti di certo Francesco Massa di Ventimiglia si impegna a saldare il suo debito in natura e specifatamente con una convenuta quantità di olio.

E' comunque curioso ricordare che, alla origine della sua storia moderna, la pianta serviva frequentemente da recinzione delle proprietà, per lo più lavorate a colture tradizionali (intarziato ).

La lavorazione degli olivi ha una sua chiave di lettura nell'analisi dei documenti notarili riguardanti i più antichi FRANTOI (MULINI AD OLIO/ AEDIFICIA/ U DEFISSIU) noti nel PONENTE LIGURE e destinati attraverso i secoli ad un CONSISTENTE SVILUPPO
Uno dei primi FRANTOI venne menzionato in un atto del 28-XII-1205 per cui un certo Bonaventura Marzano di Ardizzone cede all'abate di S. Stefano un fondo di Villaregia, a pagamento di un legato di 19 soldi (è anche nota l'esitenza di un processo di molitura svolto secondo la tecnica della NORIA o POZZO A SANGUE con trazione animale: in epoca romana esistevano parimenti i frantoi ma la spremitura delle olive (a differenza di quanto accadeva per il grano spesso macinato in complesse aziende di molitura: un esempio industriale si legge archeologicamente ad ARLES dove si è ricostruita un'INDUSTRIA DI MULINI OPERANTI IN SEQUENZA per realizzare -sfruttando un'EVOLUTA TECNOLOGIA un grande quantitativo prodotto da commerciare) avveniva per mezzo di TORCHI mossi dall'uomo o attivati per trazione animale, detti mulini a sangue".
Nel documento, studiato da N. Calvini - A. Sarchi (op cit., pp. 56-57 e 125) e conservato nell' Archivio di Stato di Genova (Ab. S. Stefano, 1509, m. II, fasc. perg. 161, indizione genovese), compare la frase "... usque ad Gombum per rectam lineam , dove il GOMBO veicolato sino ad oggi a livello dialettale, è sinonimo di mulino da olio: la forza motrice, con l'evolversi delle tecniche, prese ad essere fornita, sia per i mulini che per i frantoi, dall'incanalamento delle acque per via di veri e propri ACQUEDOTTI (BEODI) di cui rimangono tracce, anche monumentali, come nel caso di questo, i cui considerevoli reperti si trovano a Pompeiana in località Loghi.
Solo più tardi entro nell'uso aedificius ab oleo, che l'etimologia popolare ha poi deformato nel dialettale u defissiu.
L'uso dell'espressione edificium ab oleo (con aferesi della A iniziale) è riscontrabile in scritti del XV secolo, come quello che regolarizza la divisione confinaria tra le chiese di Pompeiana, Lingueglietta e Riva (A.S.G., Ms. Perasso, manoscritti 843, p. 270).
Per rilevare i rapporti di sinonimia tra frantoio ed i suoi equivalenti ligustici è interessante riportare un inedito documento (12-V-1692) redatto nei locali della Confraternita dello Spirito Santo (detta anche Congregazione della Carità) di Pompeiana.
Si tratta dell'enunciazione di un ricorso, accolto dalla Marchesa Teodora Spinola, contro i Gombaroli rei di trattenere, contro le norme prefissate, le sanse.
Nell'atto si legge: " ... Sig.i dovete sapere che essendo stato fatto ricorso dai nostri predecessori all'Ill.ma Sig.a Marchesa Teodora Spinola per caosa che dalli Gombaroli osij fitavoli dell'edificij d'oglio del presente luogo ci vengono usurpate le sanse delle olive che d'ogn'uno del presente luogo si mandano a frangere alli Gombi suddetti con supplicarla che dovesse ordinare a Gombaroli osij fitavoli che dovessero puntualmente restituire e consignare a ogni persona le sanse predette doppo cavarne l'oglio secondo il solito...".
Risultano qui evidenti gli interessi legati all'olivicoltura; tutto era sfruttato e gli stessi residui, come la sansa che si utilizzava quale mangime, combustibile (specie per i forni) e olio alternativo (per es. da saponi), rivestivano particolare importanza nella vita di tutti i giorni.

La ricerca di nuove frontiere commerciali e quindi di lunghi viaggi marittimi, che portarono alla scoperta dell'America, comportarono dal XV sec. il problema di un'economica conservazione dei cibi.
Ed a questo punto ebbe origine la moderna fortuna dell'olivo.
Si scoprì infatti che l'olio non acido si conservava ed aveva la proprietà di mantenere inalterati gli alimenti.
La coltura della pianta venne in breve tempo intensificata sino a ridurre la distanza tra calza e calza dell'albero (per tradizione di 10 m) a soli 5 metri.
I risultati pratici furono mediocri ma l'abitudine venne conservata ed il successo dell'olivicoltura fu ufficialmente ratificato.
Tutto ciò si rivelò, col tempo, un inconveniente, perché l'agricoltura ligure si concentrò troppo su questa monocoltura senza predisporre valide alternative (G. MOLLE, op. cit., p. 316).






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L'ancor giovane ANGELICO APROSIO usa non di rado autori classici ed Ovidio in particolare per elaborare materiale letterario onde adeguarsi all'epocale antifemminismo prima occorre dirlo invecchiando di moderare alquanto siffatta postazione, sgomento di fronte alla scoperta fragilità dell'esistenza in un comune destino di morte per tutti sia uomini che donne.
Tale antifemminismo in diversi autori caratterizzato da inaspettate esasperazioni di sessuofobia nel suo animo peraltro esacerbato dopo un iniziale amichevole contatto dai contrasti (con relativa "giovanile" avversione) con l'erudita suora Arcangela Tarabotti lo portò ad elencare vari femminei difetti (COME QUI SI LEGGE) da lui dettagliatamente descritti entro il suo qui digitalizzato "SCUDO DI RINALDO" con , a guisa di corollario, la definizione che la donna altro non è che un "MAZZO DI CARTE" come scritto nel capitolo XXXVII di siffatta opera registrando un lirica di cui Aprosio dice di ignorarne l'autore .
Nel menzionato "SCUDO DI RINALDO" Aprosio analizza la costumanza di donne pagane, sia antiche che del suo tempo, nella loro "peccaminosa" usanza della cosmesi, specialmente, ma non solo, se applicata alla cura delle chiome sì che son dedicati ai capelli o chiome il cap. XIX (sul lusso delle donne nelle acconciature dei capelli: sull'uso delle parrucche), il cap. XX (sull'errore di tingersi i capelli) e quindi il cap. XXI (sul colore ideale dei capelli).
Per integrare quanto da lui scritto e ripreso in parte dalla sua fonte ovidiana si è pensato di riprodurre questo profondo
SAGGIO CRITICO
di Emilia Nanni a suo tempo pubblicato, per la Nuova Serie dei "Quaderni dell'Aprosiana" (n.4, 1996) sotto il titolo di "Magia d'amore e vizio di sensualità nei capelli ornati o sciolti delle donne" (l'influsso di Publio Ovidio Nasone sulla cultura barocca dei "crin di femmina audace": il caso di Angelico Aprosio").
Il lavoro della studiosa risulta distinto (tenendo conto che esso analizza la moda femminile delle acconciature secondo l'interpretazione di Ovidio e di conseguenza solo per l' arco cronologico proprio del periodo in cui fu imperatore Ottaviano Augusto ) secondo queste parti = IL CULTO DELL' ACCONCIATURA FEMMINILE e poi (tenendo conto che le voci sottolineate in rosso sono attive e rimandano alle immagini di cui si narra nel testo) = LA FOGGIA "ALL'ANTONIA" quindi LA FOGGIA "ALL'OTTAVIA" ed ancora LA FOGGIA "DELL'APOLLO CANORO" (I CAPELLI SCIOLTI SULLE SPALLE) non tralasciando riflessioni su LE TINTURE DEI CAPELLI e di seguito sull'uso de LA PARRUCCA potendo visualizzare da questa pagina l' APPARATO DI NOTE CHE NEL TESTO SON INDICATE TRA PARENTESI TONDE, PER ES. (1) = NOTA 1 SPIEGATA DA QUESTO COLLEGAMENTO.
Nel campo delle ACCONCIATURE una voce rilevante era comunque conferita alla realizzazione di adeguate TINTURE DEI CAPELLI ed il maggior contributo di ricette in merito indicate dalle fonti classiche è connesso alla loro proprietà di ravvivare il nero colore della capigliatura ed è peraltro naturale che siano tanto numerose visto che le chiome della razza mediterranea sono scure, oscillanti dal castano al nero.
Plinio nella sua Storia naturale ricorda il laudano che "conserva scuri i capelli" (XXVI 48), dice che l’"iperico che è anche chiamato corisso scurisce i capelli, ed in modo analogo li scurisce l’ofride e la valeriana cotta nell’OLIO D'OLIVA" (XXVI 164): racconta poi che "le foglie del cipresso tritate e mescolate all’aceto scuriscono i capelli" (XXIV 15), che "le foglie dell’albero del lentisco tingono i capelli" (XXIV 42), che "le bacche del sambuco...tingono i capelli" (XXIV 52), che "le bacche dell’edera tingono in nero i capelli" (XXIV 79), che "le more unite al succo delle OLIVE ACERBE tingono i capelli" (XXIV 122) ed ancora che "La cenere dell’assenzio mescolata ad olio di rosa scurisce i capelli" (XXVII 52).
Lo stesso scienziato fa pure riferimento, nel caso delle tinture, a quelle ricavate da sostanze animali scrivendo nella sua famosa enciclopedia che "i capelli delle donne vengono tinti con il fiele di testuggine" (XXXII 38), che "un uovo di corvo sbattuto in un vaso di rame...tinge in nero i capelli" (XXIX 109) ed ancora che "rendono neri i capelli le sanguisughe lasciate per trenta giorni a putrefarsi nel vino nero. Alcuni prescrivono che un sestario di sanguisughe venga lasciato imputridire in due sestari di aceto dentro un vaso di piombo per altrettanti giorni e poi che venga esposto al sole. Sornazio attribuisce a ciò un così alto potere scurente da dire che, se coloro che ne fanno uso non tengono OLIO DI OLIVE in bocca, anneriscono persino i loro denti con questa tintura" (XXXII 67).



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Una straordinaria iniziativa culturale nel PONENTE LIGURE, peraltro eccezionale anche nella sua unicità, è l'istituzione ad opera della FAMIGLIA CARLI e dell' AZIENDA FRATELLI CARLI del MUSEO DELL'OLIVO.
La SEDE sorge in via Garessio 13 ad Imperia-Oneglia [tel.0183-295762]: la visita è possibile tutti i giorni (eccetto il Martedì) dalle ore 9 alle 12 e dalle 15 alle 18,30.
Istituito dal maggio 1992 il MUSEO DELL'OLIVO trae però origine dall'appassionata ricerca di vari membri della FAMIGLIA CARLI che, raccogliendo un vastissimo campionario di oggettistica legata al mondo dell'olivo, hanno inteso onorare sia la loro grande azienda che quello straordinario mondo dell'olivicoltura, che affonda in epoca quasi mitiche, ed a cui ogni azienda, anche modernassima, deve riandare culturalmente per trovare le proprie origini.
Il complesso museale è stato realizzato con tecniche di avanguardia che si leggono appena entrati nelle SALE SPAZIOSE se non addirittura al primo approccio quando il visitatore "scopre" la fedele ricostruzione di un FRANTOIO A TRAZIONE ANIMALE tipico di XVII e XVIII secolo.
Il disegno strutturale del MUSEO permette di effettuare realmente un viaggio esauriente nel mondo dell'olivicoltura: ed è così possibile, solo per fare un minimo cenno ai reperti esposti, ammirare EPICHISIS, elegantissimi vasi greci destinati a contenere olio d'oliva (databili tra il 400 e il 200 a.C.) o contemplare lo splendore di "oliere moderne" come un'OLIERA FRANCESE DI PRIMI '900 od una GENOVESE DEL XVII SECOLO.
O magari, soffermandosi sugli aspetti storicamente pratici dell'olio d'olivo, iniziare un percorso sulla storia dell'illuminazione a fini residenziali che parta da lampade e lucerne di provenienza classica come UN BELLISSIMO ESEMPLARE che guida, idealmente, il curioso a scorrere col pensiero quella straordinaria civiltà romana che nel Ponente Ligure specie nel territorio di VENTIMIGLIA ha lasciato tracce straordinarie (col rinvenimento tra l'altro di lampade e LUCERNE) ma della quale si son trovate testimonianze su tutto l'arco della LIGURIA OCCIDENTALE per scoprire quindi nei fondali di DIANO MARINA l'eccezionale relitto di una di quelle NAVI ROMANE ONERARIE che trasportavano attraverso il mediterraneo varie derrate alimentari tra cui primeggiavano il vino ed appunto l'olio d'oliva.
Ma il MUSEO, una tappa che dovrebbe essere obbligata per gli studenti della provincia di Imperia e non, permette ben altri e diversificati percorsi: grazie al materiale raccolto in esso si può infatti, seguendo la storia dell'olivo, tracciare infinite altre storie alternative.
Da quella dei profumi antichi, la cui base era quasi sempre l'olio d'olivo, a quella della cultura termale romana (di cui ancora alle TERME ROMANE di Ventimiglia è possibile scoprire un mondo affascinante e rivedere gli antichi intenti a farsi massaggiare con olio d'oliva prima di impegnarsi in qualche esercizio ginnico o dopo essersi rigenerati nelle ACQUE DELLE PISCINE) all'uso -e questo è un argomento di scuro meno noto- dell'uso dell'OLIO D'OLIVA nella PREPARAZIONE DI TINTURE PER I CAPELLI attività lucrosa ed importante della cosmesi romana tra il I ed ilIV sec. d.Cristo.
Ed oltre a tutto questo il MUSEO DELL'OLIVO ci offre dati sui BENEDETTINI che rivoluzionarono la coltura dell'OLIVO anche in virtù della tecnica della GRANGIA (elementare recupero di alcuni aspetti della agronomia romana e progenitrice della cultura ligure dei muri a secco e delle fasce colturali.
E quindi si può scorrere all'infinito su molti campi il materiale del museo: da libri rari di poesia, scienza e botanica a elementi di vita spicciola scanditi attraverso il procedere dei secoli: magari per soffermarsi ad un concetto basilare, che nel PONENTE LIGURE, tra le popolazioni rurali, la buona condizione dell'OLIVICOLTURA nel passato ha persino determinato il fiorire o non delle PRIME ESPERIENZE PUBBLICHE DI SCOLARITA'.







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Il POMODORO in Liguria, come in moltissime altre parti d'Italia ed Europa, fu a lungo utilizzato per scopi ornamentali, sin ad ornare splendidi giardini come il giardino rinascimentale dei Doria in Dolceacqua: per una certa resistenza culturale la sua introduzione fu anzi ritardata rispetto alla generalità della Penisola e, stando a quanto è stato scritto dal Pira, sarebbe da connettere alla constatazione pubblica che di quello che mediamente era ritenuto un adornamento vegetale si nutrivano, con gusto e profitto, i soldati di Spagna ai tempi della Guerra di successione al trono imperiale.
La STORIA DEL POMODORO è comunque complessa quanto poco nota e merita di esser riproposta.
Fu importato in Europa dalle Americhe nel XVI secolo e venne ribattezzato col nome di LICOPERSICUM CERASIFORME tenendo conto della sua somiglianza morfologica con una ciliegia straordinariamente sviluppatasi.
Il nome volgare di POMO D'ORO fu probabilmente coniato dal botanico senese Pietro Andrea Mattioli a metà del '500 per indicare una pianta, come detto, soprattutto destinata ad ornare i giardini patrizi.
Questo nome pervenne quindi nella lingua italiana ufficiale mentre a livello dialettale (in genovese per esempio ma anche nelle lingue dei paesi stranieri) si generò un nome prossimo a quello con cui la pianta era nota agli indigeni d'America, le TOMATE Il trattato che suggella la fruizione gastronomica dei POMODORI risale al '700 e si tratta di un lavoro di Francesco Gaudentio tuttora custodito alla Biblioteca Comunale di Arezzo.
Nel codice si può infatti leggere la prima ricetta relativa al "sugo di pomodoro":...Piglia detti pomi, simili alle mele, tagliali in pezzetti, mettili in tegame con olio, sale, aglio trito, mentuccia di campagna. Li farai soffriggere col rivoltarli spesso e se ci vorrai aggiungere un poco di malignane [melanzane] tenere o cocuzze bianche [zucchine] ci faranno bene".
Il successo alimentare del POMODORO si può tuttavia datare ufficialmente solo dal 1773 quando venne divulgato con gran fortuna il trattato gastronomico del napoletano Vincenzo Corrado intitolato Il cuoco galante....
Come condimento del maccheroni tuttavia anche a Napoli l'affermazione del sugo di pomodoro fu tardiva: i "maccaronari" preferirono condire infatti i maccaroni "in bianco" sin almeno al 1830 quando si prese la consuetudine di proporre al pubblico, agli angoli delle strade, "spaghetti e pomodoro".
Poco dopo, nel 1834, il duca di Buonvicino Ippolito Cavalcanti redasse e pubblicizzò una sua arguta ricetta intitolata "vermicielli co le pommadoro".
La sanzione ufficiale di questa pianta in campo alimentare relativamente alla Liguria si deve invece a G.B. Ratto che diede alle stampe, intorno al 1865, il suo volume La Cucineria Genovese... in cui erano proposte diverse ricette a base di pomodori.
Finalmente alla fine del XIX secolo Pellegrino Artusi sancì ufficialmente a livello gastronomico il trionfo del pomodoro scrivendo in uno dei suoi celebri testi di gastronomia:"Fate un battuto con un quarto di cipolla, uno spicchio d'aglio, un pezzo di sedano lungo un dito, basilico e prezzemolo. Conditelo con un poco d'olio, sale e pepe, spezzate sette o otto pomodori e mettete al fuoco ogni cosa insieme. Mescolate di quando in quando e allorché vedrete il sugo condensato come una crema liquida, passatelo al setaccio e servitevene. Questa salsa si presta a moltissimi usi: è buona con il lesso, è ottima per aggraziare le salse asciutte condite a cacio e burro, come per fare il risotto con i pomodori".





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Un discorso a parte vale invece per la PATATA o come meglio si chiamava dai tempi della sua scoperta, in Perù, i POMI DI TERRA.
Nel 1817 l'illustre botanico italiano dell'università di Modena FILIPPO RE (Saggio sulla coltivazione e su gli usi del Pomo di Terra..., Milano, per Giovanni Silvestri, 18817, p.5 e sgg.), datando la scoperta del prezioso tubero a poco dopo la metà del 1500 [oltre a fornire -a genti ancora inesperte- un basilare PRONTUARIO PER SERVIRSI DELLA PATATA IN ALIMENTAZIONE] mosse una serie di pesanti accuse ai ceti dirigenti italiani che relegarono, come una rarità, tale coltura negli orti botanici senza proporre un'oculata educazione degli agricoltori, in genere refrattari alle novità, anche ottimali come questa.
Pregiudizi, superstizioni, timori irrazionali (che la pianta portasse malattie o fosse velenosa), avversione verso i gruppi dominanti (nella convinzione che volessero impoverire i contadini sostituendo a quella del grano la meno costosa cultura del tubero), ignoranza agronomica ed interessi particolari dei fattori fecero sì che la coltura delle patate si affermasse tardi in Italia e solo in occasione delle guerre di Napoleone quando la gente vide i genieri francesi coltivare e far mangiare il tubero alle truppe senza alcun inconveniente.
In Liguria poi la resistenza alla coltivazione del Pomo di Terra fu ancora più tenace specie perché i contadini, fin troppo esposti ai rischi delle fluttuazioni del mercato ed estremamente condizionati dalla limitatezza della terra a disposizione per colture alternative, rimanevano -come detto- tenacemente attaccati alla monocoltura dell'olivo accettando con rassegnazione, ma nella speranza di recuperi e quindi di una garantita sopravvivenza, i rischi delle malattie della pianta, delle carestie, dei saccheggi degli oliveti.
La Repubblica per convincere gli agricoltori liguri ad intraprendere questa nuova esperienza agronomica ricorse, ma senza grande efficacia, persino ad una Petizione dei Parroci, mediamente le persone più ascoltate dai contadini = e per correttezza intellettuale -contro magari alcune convinzioni anticlericali- giova rammentare che un po' ovunque accanto agli Ideologi dell'Illuminismo risulta da segnalare la vigorosa opera di alcuni illuminati religiosi avverso Superstizione e False Credenze tra cui un posto assolutamente di rilievo spetta di diritto al Domenicano Spagnolo Padre Benedetto Gerolamo Feijoo.
Nel caso in questione invece una menzione specifica spetta di dovere al parroco di Roccatagliata di Neirone tale don Michele Dondero che più di tutti gli altri parroci credeva alla coltura della patata come un deterrente contro le carestie e ne esperimentava da tempo le tecniche colturali nonostante i villici ritenessero le sue investigazioni tacciabili di stregoneria.
A proposito di queste sue ricerche il parroco, nelle proprie "lettere" scrisse tra l'altro: "Allora le ho grattate [i pomi di terra] alla maniera delle zucche, e rimescolate con farina le ho impastate all'uso di tagliarelli ma anche ridotte in polenta sono ottime. E le focacce poi son perfette e di grato sapore". I suoi parrocchiani, in seguito ad una carestia, si lasciarono convincere finalmente alla colture dei preziosi tuberi sì che il Dondero poteva scrivere nel 1792: "al presente la valle di Fontanabuona vale il doppio di prima e generalmente si vive meglio".
Ma nelle altre località l'affermazione della coltivazione fu in linea di massima più laboriosa: e peraltro il fatto della peculiarità di tale coltura nell'area di Roccatagliata e Meirone è segnalata dal fatto che qui si celebra tuttora, a commemorazione dell'antico evento, la "sagra della patata".
Infatti la scelta definitiva, nell'intiero arco ligustico, della coltivazione avvenne solo in forza dell'impresa di Napoleone e del fatto d'aver visto i suoi soldati approvvigionarsi del nutriente alimento.
Molta gente prese così a coltivare, in questi periodi di guerra, il Pomo di Terra vincendo lo spettro della carestia: poi (ancora si lamenta il Re a p.9) finiti i conflitti o passate le truppe la coltura da molti era abbandonata sì che solo quanti vi credettero, persistendo in siffatta coltivazione e commercializzazione, ne trassero grande vantaggio su un mercato che rapidamente accolse le patate come uno dei nuovi, fondamentali alimenti.
Per certi aspetti stupisce che la RESISTENZA ALLA COLTURA DELLE PATATE sia stata considerevole anche in Liguria occidentale, in quella terra che, oltre ad essere più prossima alla Francia e quindi più esposta alle innovazioni agronomiche di tale nazione, possa vantare di aver dato i natali all' illustre agronomo Carlo Amoretti (Oneglia 1741 - Milano 1816) che fu un convintissimo sostenitore dell'importanza della coltura delle patate e della loro importanza alimentare ed alle quali dedicò un'opera fortunata il Della coltivazione delle Patate e loro uso (Milano 1801) di cui si giunse fin a quattro edizioni, essendone l'ultima, nota al Re, del 1811.
Annagrazia Cogno Zarbo ha scritto in un suo articolo apparso sulla "Riviera dei Fiori", II, 1990 ed intitolato significativamente La patata:
"Sempre nello stesso anno (1793) la Società Patria di Genova faceva stampare dalla tipografia Caffarelli un'istruzione agraria sui Pomi di terra, indirizzata al Parroci rurali del Dominio della Serenissima Repubblica, con lo scopo di propagandare la coltivazione della patata fra i loro parrocchiani. Venivano anche proposte maniere per ridurre la patata in farina o 'panizzarla'.
Il prezzo del tubero nel 1794 a Genova era di 36 soldi il rubbo e di 30 nelle campagne.
Nello stesso anno a Nizza veniva pubblicata una
Istruzione sopra la coltura e gli usi dei pomi di terra nella quale era evidenziato come nell'anno precedente rimarchevole per la sua siccità, il pomo di terra fu il solo che diede frutti discreti.
Anche la Società Economica di Chiavari si adoperò per far conoscere l'utilità delle patate e per diffonderne la piantagione e, grazie ai Parroci nominati Soci Coadiutori, nel 1799 erano piantate in quasi tutto quel circondario.
Tommaso Viano, compilando la storia di Montalto Ligure e Badalucco, scrive:
Le patate si son conosciute nei nostri paesi dopo il 1800, non conoscendosi prima del 1796, essendoci appunto in detto anno mandate a noi dal Sig. Governatore Spinola di San Remo, ma subito se ne faceva poco uso per i molti pregiudizi che si avevano nei confronti del tubero.
Un'osservazione molto curiosa è fatta da un coltivatore di Diano che, stampata a Genova nel 1818, cita testualmente:
gran parte degli agricoltori specialmente di montagna, della Riviera di Ponente, sono intimamente persuasi che l'irregolarità delle stagioni sia effetto della coltivazione delle patate. Ho calleggiato (?) con molti su questo proposito, né mi è riuscito di far ricredere un solo: post hoc, ergo propter hoc.
A Porto Maurizio il primo listino, o Mercuriale, che fa cenno alle patate risale al 1809 ed in uno successivo e scritto che nella seconda metà di Novembre se ne vendettero 18 ettolitri a Lire 5,96 l'ettolitro.
In una lettera del Settembre 1814 il Sindaco di Porto Maurizio scrive al Governatore di San Remo:
Le persone si sono abituate all'uso delle patate e di più si semina molto più grano di quel che si seminasse prima....
Il Pira, nella
Storia della città e Principato di Oneglia, scrive che l'inverno del 1811 era stato orrido, e che le patate che a principio della rivoluzionaria invasione vedevansi con meraviglia mangiare dai soldati francesi, erano divenute un cibo comune delle popolazioni; alla stessa maniera che cinquant'anni prima si apprese dalle truppe di Spagna a coltivare per lusso i pomi d'amore (pomodori), s'imparò da quelle di Francia a coltivare per bisogno i pomi di terra.































Tuttora alla C.B.A. si conservano: "Stephanii Johannis Stephanii Notae uberiores in historiam danicam "Saxonis gramatici, una cum prolegominis ad easdem notas Sorae", Typis Henrici Crusii Academ, Tipogr., 1645 252, [20] p. : ill. ; fol.
"Saxonis grammatici historiae danicae libri 16. Stephanus "Iohannis Stephanius summo studio recognovit, notisque uberioribus illustravit Sorae", typis et sumptibus Ioachimi Moltkenii, 1644 [8], 384, [22] p. ; fol.



























Stephan Hansen Stephanius ( 23 - luglio - 1599 Copenhaghen - 22 aprile 1650 era uno storiografo e professore in Sora . Il suo nome è a volte completamente latinizzato come "Stephanus Johannis Stephanius".
Ha pubblicato un'edizione latina delle "Gesta Danorum" intitolata "Saxonis Grammatici Historiae Danicae Libri XVI".



















































AGRUMI [CEDRI, LIMONI, ARANCE : ARANCI AMARI (BIGARADIER) - ARANCI DOLCI (PORTOGALLI] ]: IMPORTANZA ALIMENTARE-TERAPEUTICA (UNO STORICO DISTILLATO: L'AGRO)
L'IMPORTANZA DEGLI "ANELLI" PER IL COMMERCIO LOCALE E INTERNAZIONALE.

Mai abbastanza vien dato peso all'AGRUMICOLTURA, ed in particolare all'AGRUMICOLTURA LIGURE (cui tra l'altro nelle Hesperides B. Ferrari dedicò un trattato basilare, da cui si è ricavata qui l'immagine del CELEBRE LIMONE LIGUSTICO).
Eppure la LIGURIA OCCIDENTALE raggiunse tanta fama per questo tipo di colture da meritare nel passato, a partire dal '500, un RUOLO PRODUTTIVO E MERCANTILE primario di cui rimangono ormai solo poche TESTIMONIANZE.
Questa attività colturale del Ponente, più di quella d'ogni altro paese dell'età delle grandi scoperte geografiche, incise sulle navigazioni oceaniche e quindi su esplorazioni e viaggi molto lunghi, altrimenti impossibili: infatti non tanto le carenze tecnologiche frenavano le grandi spedizioni navali quanto una lotta efficace contro le avitaminosi, da cui derivavano malattie come lo scorbuto .
Rilievo si è dato all'introduzione sulle navi dell'olio d'oliva quale conservante, merito è stato conferito all'intuizione di deporre, sotto l'albero di maestra, una o più botti piene di frutta colta acerba, da cui i marinai traessero vitamine ma si son sottovalutati gli agrumi che, per gli ultimi secoli della navigazione a vela, hanno costituito un antemurale contro le carenze vitaminiche.
I CEDRI furono acclimatati in Europa negli ultimi secoli dell'Impero Romano; limoni e aranci erano ancora sconosciuti nel X-XI secolo finché Siciliani, Provenzali e Genovesi trasportarono a Salerno, Sanremo, a Hyères il limone e l'arancio verso il 1096 e forse gli Arabi diffusero questa piante in Africa e Spagna.
Il clima del Ponente (quando naturalmente l'ambiente non era danneggiato da calamità varie con conseguente carestia)favorì la coltura di cedri, limoni ed aranci (fondamentali contro le carenze di vitamina C, di cui sono ricchissimi: da essi si prese presto a ricavare per scopi medicamentosi e non l'acido citrico) e da XV-XIX secc i frutti furono cespite di guadagno per coltivatori di Sanremo (mercato principale degli agrumi), Ospedaletti, Bordighera, Borghetto S.Nicolò, Ventimiglia, Porto Maurizio, Dolceacqua, Nizza, Roccabruna, Mentone, Monaco): B. Ferrari celebrò le qualità del limone ligure (Limon Ponzinus Ligusticus) cui dedicò un'incisione nel volume Hesperides sive de Malorum Aureorum Cultura et usu, Libri Quattuor, Roma, 1646.
Nella "Sez. di Sanremo dell'Arch. di Stato" (Archives Departement de Nice, Serie M. 377) si leggono alcuni Capitoli della Frutta Limoni alla Todesca, ed alla Caravana, regolamentazione su coltura, raccolta e vendita sotto sorveglianza di un Magistrato dei Limoni e trattasi precisamente del Regolamento di Borghetto S. Nicolò, del Regolamento di Bordighera e infine del Regolamento di Sanremo .
I Magistrati dei Limoni, nominati ad Aprile stabilivano le Poste (tempi e modi di raccolta) con facoltà di multare i contravventori. Alla raccolta presiedevano i Collettori, annualmente eletti, che si servivano di ANELLI DI FERRO per misurare i frutti da commerciare o no, quindi per una SELEZIONE TIPOLOGICA, COMMERCIALE, STRUMENTALE E QUINDI FARMACOLOGICA (E.MUSSA in un suo fondamentale studio sull'agrumicoltura -Gli agrumi nell'estremo Ponente ligure (110 - 1843), in "Riv. Ing. Intem.", XXXIX, 1/2- ha fatto rimarcare la rarità ormai di queste misure fiscali e, sulla base di una collezione prinvata incompleta, ha menzionato: Anelu grossu di mm.54, Anelu de Mentun di mm. 51, Spezin di mm.47 e Anello Minuto di mm.35: Le misurazioni non sono ancora state completate ma una serie fiscale completa di ANELLI è stata recentemente scoperta da Denise Avvantaggiati e quindi assimilata alle raccolte librarie e antiquarie della "Collezione M. e B. Durante" donde provengono le quasi introvabili immagini selezionate nel collegamento fotografico).
Collettori e Proprietari procedevano alle operazioni, portandosi una scala ogni due unità e con l'obbligo di non prender denari, bevande od altro da terzi tranne la paga.
I Sensali, presiedevano ai Collettori, riscuotevano il dovuto, versavano la quota ai proprietari, trattenendo la tassa per la "Comunità".
Gli agrumi eran divisi per qualità: quelli da commercio si dicevano "alla Tedesca o Todesca" con rosetta verde ed "brotto" ma privi di picciolo (colti acerbi, per viaggi entro casse onde giungere maturi sui mercati) mentre "alla Caravana" ("
alla Baca
" o "Bianchi") eran quelli per il commercio locale o comunque solo in Liguria, scelti già maturi ((il trasporto avveniva per via di mare oppure secondo il sistema tipicamente ligustico dei mulattieri))
I frutti minori, del tipico LIMONE LIGURE, che non passavano per gli ANELLI, erano spremuti per ottenere, tramite DISTILLAZIONE l' "AGRO" o acido citrico, venduto in Europa per bevande, tinture e come emostatico e diuretico in medicina.
Tra il 15 ed il 22 del mese ebraico di Tishri (settembre-ottobre), celebrandosi la "Festa dei tabernacoli o delle Capanne", detta "della Raccolta" per la fine dei lavori dei campi, molti EBREI erano nel Ponente per procurarsi cedri, rami di cedro, palma e salice da portare al tempio in processione nei 7 giorni della festa: per la richiesta, i commercianti di Bordighera guadagnavano molto dalla ricorrenza (l'a. ligure decadde in pieno '800 affermandosi il prodotto di Sicilia, Africa settentrionale e Spagna).
A proposito dei CEDRI bisogna tuttavia rammentare che, essendo abbinata la loro vendita a quella delle PALME, sia la RACCOLTA che la VENDITA seguiva linee alternative rispetto a quelle degli altri AGRUMI.
Il prodotto era quasi tutto indirizzato verso la Germania, sede di fortissime comunità ebraiche, ed i frutti che avevano anche grandi dimensioni (fino a 8-10 hg. cadauno) e che erano richiesti perfetti dai commercianti ebrei tedeschi, venivano valutati uno per uno od al massimo a dozzine.