ALEANDRO (o ALEANDRI) GIROLAMO IL GIOVANE: erudito e critico nato a Motta di Livenza, nel 1574 morto a Roma nel 1629.
Viene oggi ricordato quasi esclusivamente per la sua Difesa dell'Adone, opera apologetica in cui si sforza di scagionare l'amatissimo Marino dalle accuse formali e stilistiche mossegli da T. Stigliani.
Come appare scritto in questo saggio critico le considerazioni di DOMENICO ANTONIO GADOLFO il grande discepolo di Aprosio (con indagine critica su vita e opere), gratificato per fama illustre con l'ascrizione all'ACCADEMIA D'ARCADIA di sul suo LAVORO ALL'APROSIANA estratte dai Fiori Poetici datano al 1682 e quindi abbastanza presto: sostanzialmente ci dicono che anteriormente al suo allontanamento da Ventimiglia e ad un solo anno dalla morte di Angelico Aprosio egli aveva fornito nuovi scaffali per la biblioteca e che l'aveva arricchita di PARECCHI VOLUMI.
Dati i tempi la cifra già di per sè risulta considerevole ma molto altro il Gandolfo (che non bisogna dimenticare curò sontuosamente le onoranze funebri d'Aprosio nel 1681) dovette ottenere per la dotazione della "LIBRARIA" anche in funzione della sua corrispondenza, continuata sulla linea di quella Aprosiana.
Molto più tardi l'estensore della VOCE SCRITTA DAL CROCCHIANTE dedicata a DOMENICO ANTONIO GANDOLFO nelle Notizie degli Arcadi Morti registra altri interventi del Gandolfo a favore del convento ventimigliese, evidentemente posteriori al 1682: cita infatti a proposito del Gandolfo non solo la finalizzazione dei lavori della "Libraria", ma anche la conclusione di quelli connessi alla realizzazione del dormitorio e al rifacimento del campanile come leggesi nella biografia del Gandolfo attribuita a suo cugino Filiberto Giacinto Gandolfo
entro i Fiori Poetici e precisamente a pagina 191 ed ancora a
pagina 192.
Si potrebbe rimanere sorpresi a fronte di simili asserzioni se già l'Aprosio, nelle sue opere, non avesse fatto cenno alla gradualità nell'edificazione del convento come, cioè, di struttura eretta in dipendenza di particolari situazioni economiche, lasciti e donativi: ad esempio, se nulla di particolare egli specifica in merito al Campanile, parlando del Dormitorio Orientale, quindi sul lato verso Bordighera (peraltro strettamente legato ai processi di realizzazione della sede definitiva della "Libraria") dà l'impressione di riferirsi ad impresa edilizia ancora in fieri e proprio nulla esclude che sia giusta l'osservazione del citato Giovanni Carlo Crocchiante, estensore della voce Gandolfo per il volume sugli Arcadi morti, soprattutto tenendo conto del testamento (di cui scrive il Crocchiante = "entrò tra gli Agostiniani, mutandosi il nome di Antonio Francesco in quello di Domenico Antonio: Ivi con ammirazione di tutti compì esemplarmente il noviziato;nè volle professare, se prima con pubblico TESTAMENTO non dichiarò il suo erede che fu la Chiesa degli Agostiniani di Ventimiglia" fatto rogare dal giovane Gandolfo a beneficio di parecchi interventi ancora da farsi per il convento agostiniano di Ventimiglia"[a sentire invece il Gandolfo egli avrebbe offerto un contributo all'Aprosio per la biblioteca ma ne sarebbe stato dissuaso ed invitato a fare semmai un lascito a pro della Chiesa: la divergenza delle notizie non impedisce di pensare che il donativo sia stato fatto magari a vantaggio del cenobio intemelio e che la rifabbrica del campanile sia stato volto ad un suo restauro stante la considerazione dei tanti danni, per carenza di fondi riparati con estrema lentezza, risalenti al grave terremoto del 1564 che squassò Ventimiglia e poi col tempo aggravatisi].
Una cosa è abbastanza certa, in assenza di un catalogo mai steso dall'agostiniano su quanto effettivamente curò di fare per l'Aprosiana, e che, sebbene non riuscì a realizzare la così detta ACCADEMIA DEGLI OSCURI progettata ma mai finalizzata per le sue assenze, dovute a crescenti impegni religiosi, tuttavia sempre si adoperò perchè alla "Libraria" intemelia giungessero libri di vari studiosi come si evince dalla sua corrispondenza.
Nuovo tempi stavano peraltro andando a surrogaro l'iridescente mondo dell'Aprosio, tempi in cui sempre maggiore era l'attenzione per il rigore scientifico e filologico: ed anche nel contesto delle scienze naturali molto stava evolvendosi in direzione di un sempre maggiore adeguamento ai postulati della scienza nuova cui già l'Aprosio si era accostato ma con qualche remora.
Le nuove conquiste paiono ormai inoppugnabili e contestualmente ad esse si assiste ad una depressione di antiche credenze come quelle sulla stregoneria e sulle sue risultanze "scientifiche" con il consequenziale accadimento dell'abbandono di crediti e quindi di pubblicazioni connesse alla medicina alternativa in nome della ormai trionfante medicina ufficiale: ciò spiega come dai tempi del Gandolfo all'Aprosiana pervengano pubbligazioni di carattere medico ufficiale e scemi sempre più l'interesse, che pure Aprosio ostentò, per opere connesse per esempio alla medicina simpatica e/o simpatetica con il graduale abbandono dell'acquisizione di pubblicazioni ancora ai tempi aprosiani piuttosto agognate (e su cui oggi si va rimeditando) come quelle dei MEDICI EMPIRICI E/O DI TRADIZIONE PARACELSIANA che pure anche in Liguria avevano goduto di lunga e fruttuosa attenzione critica.
ANTIFEMMINISMO> da “femminismo” ed “anti” nel senso di tutto ciò che è contro il movimento internazionale che rivendica alle DONNE
il diritto di parità nei confronti degli uomini in campo economico, giuridico, politico ed uguali diritti civili, di voto e di eleggibilità.
CAVANA, GIO NICOLO’
di cui è possibile vedere qui il
RITRATTO
appartenenne ad una nobile famiglia genovese originaria di Novi. G. N. CAVANA fu nipote dell’ambasciatore genovese presso la corte di Spagna e figlio di un Senatore della Repubblica: a sua volta eletto Senatore ricoprì il ruolo di governatore della Rocca di Pietra Ligure.
Tra il 1665 ed il 1675, anno in cui morì per una gravissima serie di disturbi intestinali come apprendiamo dalle drammatiche lettere all’Aprosio in Ms.40 della Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia, fu tra i più assidui e tenaci sostenitori della “Libraria intemelia”. Antonio Magliabechi accennando al suo ruolo di mecenate e protettore dei letterati liguri lo definì: “L’asilo dei letterati della Liguria”.
Nel suo celebre repertorio bibliografico edito a Bologna dai Manolessi nel 1673 (La Biblioteca Aprosiana..., cit., parte I, p. 630) l'Aprosio
SCRISSE
(leggi qui l'intiero brano aprosiano dal testo originale)
che il comun denominatore, per l'insorgere di una crescente amicizia intellettuale fra lui ed il Cavana, fu "Don Andrea Rossotto di Mondovì Monaco della Congregatione di S. Bernardo riformata" cordiale frequentatore di entrambi; nonostante la loro corrispondenza epistolare, susseguente a questo indiretto ma fortunato contatto, datasse a diversi anni prima, il Cavana ebbe però modo di conoscere personalmente l'Aprosio nella casa del ventimigliese Atanasio Porro, cugino di Aprosio, solo quando tempo dopo, come Supremo Sindicatore della Repubblica di Genova (incaricato cioè come revisore dell'operato degli amministratori del Dominio), dovette soggiornarvi per un discreto periodo onde espletare il suo incarico pubblico a riguardo del territorio, non certo piccolo da ispezionare, del "Capitanato di Ventimiglia".
Fu precisamente in questa occasione -di cui è arduo ricostruire la data esatta ma comunque da collocare fra la II metà degli anni '50 e i primi anni '60 del secolo- che il Cavana ebbe modo di visitare per la prima volta il convento agostiniano di Ventimiglia in compagnia dell'Aprosio che, subito dopo, lo portò a visitare la "Libraria" di cui il Cavana immediatamente si "innamorò", impegnandosi apertamente al suo "accrescimento" (Ibidem, p.631).
Per giudizio di Angelico Giovanni Nicolò Cavana fu il principale mecenate della sua biblioteca ed ai suoi meriti di protettore e fautore (donò, tra stampate e manoscritte, 50 opere di grande rarità) il ventimigliese, nel repertorio "Della Biblioteca Aprosiana", dedicò ben 36 pagine encomiastiche (Ibidem, pp. 630 - 666).
Nell'"Appendice poetica" fece inoltre "costruire" all'amico Minozzi un bizzarro canzoniere celebrativo dell'Aprosiana, dove il Cavana finì per essere assimilato ad "un Libro vivente, dove la Gloria stessa si rappresentò".
Nonostante certe iperboliche esasperazioni formali bisogna riconoscere che non si trattò da parte dell'agostiniano di mera convenzionalità encomiastica e partigiana, ossequiente ai costumi dell'epoca: una vera amicizia legò i due personaggi, Cavana non fu letterato ma amò l'arte più di molti pedanti professionisti sino ai suoi ultimi giorni.
Come si evince dall'albero genealogico della famiglia Cavana (Archivi di Stato di Genova, Ms. 496, "Alberi genealogici", foglio 83) Giovanni Nicolò era figlio di Giovanni Maria e Margherita Scaglia, figlia di Giovanni Scaglia Senatore della Repubblica di Genova cd Ambasciatore presso il Re di Spagna.
Il nonno paterno Gaspare Cavanna nel 1572 si era sposato a Siviglia con Leonora figlia di Giovanni Boccanegra y Guzman e come altri membri della famiglia Cavana svolse incarichi diversi in Spagna intrattenendo rapporti con eruditi iberici.
La famiglia Cavana si segnalò sempre per la protezione degli artisti e letterati: nel 1675 l'amico e mecenate fu compianto come una grandissima perdita (per lui certamente, ma soprattutto per la protezione delle arti tutte) dall'Aprosio in una malinconica ed affettuosa lettera al Magliabechi (in Biblioteca Naz. di Firenze, Magliab. VIII, 141).
Il Cavana personalmente fece, come scritto, dono all'Aprosio di parecchi volumi di pregio e non molto prima della sua fine di un'opera di assoluta rarità che costituisce il Ms. 2 della Biblioteca intemelia, cart., sec. XVII (1615), mm. 142 X 110, cc. 4 n. n. di cui bianche le cc. 1 e 4 più cc. 33 di cui numerate la 1, la 25 e la 32 (erroneamente al posto della 33) più cc. 2 n.n..
La scrittura è corsiva, di una sola mano ed il volume ha legatura in pelle, con fregi dorati: si tratta di un esemplare unico in lingua spagnola, precisamente la "Consolatoria al senor Juan Maria Cavana en la muerte de su padre attribuito al poeta Martir Rizo".
Da una lettera di Giovanni Nicolò Cavana all'Aprosio" (Biblioteca Universitaria di Genova, "Lettere di vari all'Aprosio", Ms. E. V. 27, cc. 4r - 5v.) datata Genova 28-X-1673 si evince che l'opera fu scritta dal Rizo in occasione della scomparsa di Gaspare Cavana, il nonno di Giovanni Nicolò.
Si tratta di un esemplare già ignoto alla bibliografia iberica scoperto dagli illustri ispanisti Mario Damonte e Anna Maria Mignone nel corso di una ricognizione sul vasto fondo di testi spagnoli dell'Aprosiana: con grande competenza critica la Mignone lo editò scientificamente nel "Quaderno dell'Aprosiana", V.S., I (1984), pp. 41 - 62 sotto il titolo di Un inedito del Seicento della Civica Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia: la Consolatoria al senor Juan Maria Cavana en la muerte de su padre di Juan Pablo Martir Rizo.
Per tutta questa serie di doveri, nati comunque da un senso di gratitudine sincera, Aprosio ritenne, tra l'altro, doveroso occuparsi, sempre nella "Biblioteca Aprosiana" edita (pp.645-663) di un argomento che stava molto a cuore al suo protettore cioè la restituzione alla di lui famiglia di alcuni diritti feudali di cui era stata depauperata.
Alla morte del Cavana inoltre, Angelico chiese ed ottenne dal comune amico, l'erudito di Piacenza Lorenzo Legati, la stesura di un elogio funebre, tuttora conservato nella parte rimasta inedita della Biblioteca Aprosiana (II- Raccolta Durazzo, Ms.A.III.5, p.341) cioè la Threnodia, horti Musarum cultorum, in obitu Johannis Nicolai Cavana, patricii Genuensis, collectore domino Laurentio Legato
dall’ incipit: “...Tyndarides fratres proles...”.
EPISTOLARIO
In “Fondo Aprosio”, in Biblioteca Universitaria di Genova: raccolta di volumi delle migliaia di lettere ricevute da Aprosio dalle maggiori celebrità letterarie del suo tempo, italiane e non, opera sondata solo in parte e di straordinaria importanza per una più esauriente conoscenza della cultura del XVII secolo (la raccolta fu trasferita in Genova a fine ‘700 su delibera napoleonica da Prospero Semino/-i nell’ipotesi d’un’istituenda biblioteca centrale ligure).
Vedi alla Biblioteca Univ. di Genova i Ms.E.II.38; E.II.4 bis; E.V.25; E.V.26; E.V.27; E.V.28; E.VI.4; E.VI.5; E.VI.6; E.VI.7; E.VI.8; E.VI.9; E.VI.10; E.VI.11; E.VI.11 bis; E.VI.16; E.VI.17; E.VI.18; E.VI.19; E.VI.20; E.VI.22.
Si consulti qui l'
ELENCO ALFABETICO CON INDICAZIONI CRONOLOGICHE E SUCCINTE NOTE DEI CORRISPONDENTI D'APROSIO.
Per orientarsi in siffatta congerie di nomi e di documenti è basilare il regesto di A.I.FONTANA, Epistolario e indice dei corrispondenti del Padre A. Aprosio, in "Accademie e Biblioteche d’Italia", XLII (1974), n.45.
Di straordinaria utilità per il ricercatore sono soprattutto gli ordinati e curatissimi indici.
Alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze si conservano nel fondo “ Magliabechi-diverse scritture” diverse lettere dell’Aprosio al bibliotecario mediceo.
Purtroppo pochi contemporanei d’Angelico avevano la sua abitudine di catalogazione e conservazione, così che la massima parte delle sue numerosissime lettere o è sparsa in vari archivi senza particolari segnalazioni o soprattutto è andata distrutta.
Si veda comunque per un’ipotesi di ricerca: A.I.FONTANA, L’epistolario di Angelico Aprosio con Antonio Magliabechi, Università degli Studi di Genova-Facoltà di Lettere e Filosofia, Tesi di Laurea, dattiloscritto, anno accademico 1972-’73.
Una copia già in Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia.
MAGLIABECHI, ANTONIO
Antonio Magliabechi (Firenze 1633-ivi 1714) inizialmente dedicatosi all’attività di orefice dopo la morte del padre nel 1640, riprese gli studi interrotti sotto il magistero di Michele Ermini, bibliotecario di Leopoldo de’ Medici.
Acquisì presto grande competenza nel greco, nel latino e nell’ebraico, anche in virtù della sua straordinaria memoria: in forza d’una fama crescente fu alla fine chiamato da Cosimo III a reggere quale bibliotecario la Palatina.
La poliedricità delle sue investigazioni, sostenute da una potente cultura erudita, gli suscitarono contro i sospetti dell’Inquisizione che lo chiamò a scagionarsi di sospetti d’interessi ereticali o comunque di ingiustificata predisposizione a raccogliere e leggere libri proibiti.
Verso la fine della vita si ritirò fra i Domenicani di S.Maria Novella, dove morì e fu sepolto.
La sua grande biblioteca, resa pubblica nel 1747, rappresentò il nucleo primigenio dell’odierna Biblioteca Nazionale di Firenze.
Sì acuto e grande bibliotecario non godette invece pari fama come scrittore: anzi è difficile individuare con certezza libri od opuscoli da attribuirgli.
La critica propende a riconoscergli, in collaborazione con A.F.Marmi, le Notizie letterarie ed istoriche intorno agli uomini illustri dell’Accademia fiorentina (Firenze, per il Matini, 1700).
Aprosio, come s'evince dalla manoscritta raccolta dei suoi corrispondenti, fu in assiduo rapporto epistolare con il Magliabechi e del bibliotecario fiorentino parlò più volte anche nel repertorio bibliografico La Biblioteca Aprosiana... del 1673.
con cui il frate ebbe corrispondenza letteraria ed anche RAPPORTI DI LAVORO [ricordando altresì le curiosità del frate per i FERMENTI ARTISTICI in atto nel Ponente ligure].
Della RACCOLTA DI RITRATTI [in ciò soprattutto consisteva la PINACOTECA dell’Aprosiana] imponente nel ‘600 e ai primi del ‘700 (varie diecine di esemplari di ritratti dei “Fautori” dell’Aprosiana - in gran parte distrutti dai mercenari austriaci di quartiere al convento agostiniano a metà XVIII sec. durante la “guerra di successione al Trono imperiale austriaco"” fra Anglo-Franco-Spagnoli e Austro-Piemontesi di metà '700)], si conserva ormai ben poco: oltre al grande dipinto centrale nella SALA I del “Fondo storico” detto quadro dell’Aprosio che fu opera del pittore vicentino Carlo Ridolfi esistono oggi alla Biblioteca di Ventimiglia altri 9 ritratti, in parte restaurati, non del tutto identificati:
n.1 “Ritratto di Placido Reina” (che fu esponente di spicco dell'Accademismo Meridionale = quadro di autore imprecisabile del XVII sec.);
n.2 “Ritratto di Gio.Nicolò Cavana all’età di 47 anni”;
n.3 “Ritratto del conte Bernardo Morando”;
n.4 “Ritratto del patrizio genovese Tommaso Spinola figlio di Giuliano Spinola” (di autore non identificabile);
n.5 “Ritratto di Giovanni Ventimiglia all’età di anni 38" (autore non identificato ma di scuola siciliana del ‘600, prima metà del secolo);
n.6 “Padre Fabiano Fiorato” (agostiniano, architetto, ideatore dell’ampliamento della “Libraria intemelia
” opera di anonimo, di bottega locale verisimilmente);
n.7 “ritratto di Anonimo” (opera di autore non identificato);
n.8 “Ritratto di Gian Domenico Cassini” (astronomo massimo dopo Galileo, definito anche “Astronomo dei Re” perchè chiamato espressamente all’osservatorio di Parigi da Luigi XIV>autore ignoto);
n. 9 “Ritratto di Padre Paoletti" (Agostino Paoletti di Montalcino, erudito e predicatore agostiniano> per un approfondimento si veda “II Quaderno dell’Aprosiana-Miscellanea di Studi”> B.DURANTE, Il ritratto aprosiano di Carlo Ridolfi conservato nella Biblioteca intemelia...., passim.
RIDOLFI, CARLO (anche scritto RIDOLFO nei repertori del ‘600: Lonigo-Vicenza 1595/ Venezia 1658)
Pittore, letterato ed incisore venne spesso citato dall’Aprosio
nelle sue opere. Per 18 anni allievo a Venezia dell’Aliense fu un continuatore della tradizione veneta di imitazione veronesiana e tintorettiana, dipingendo molti quadri di argomento religioso di cui però rimangono solo le due “Adorazioni dei Magi” (in S.Giacomo di Rialto e in S.Giovanni Elemosinario) e la “Visitazione di Ognissanti” tutti nella città lagunare (ove pure si conservano uan “Sacra Famiglia” e “Venere e Amore”). Aprosio lo conobbe a Venezia verso gli anni ’40 del XVII sec.ed oltre che i risultati pittorici ne apprezzò (come si legge ne La Biblioteca Aprosiana
, Bologna, pei Manolessi, 1673, pp.583-589) la qualità di storico d’arte espletata nell’opera Le Meraviglie dell’Arte overo gl’Illustri Pittori Veneti e dello stato, ove sono raccolte le opere insigni, i Costumi, ed i Ritratti loro. Con la narrazione della Historie, delle Favole e delle Moralità da quelli dipinte (edizione in II volumi, stampati rispettivamente nel 1646 e nel 1648: Aprosio ricevette in dono il tomo II, pubblicato in 4° in Venezia ad opera di G.B.Sgava). Sempre dal “Catalogo” aprosiano del 1673 (p. 586) si apprende che Carlo Ridolfi avrebbe fatto il
RITRATTO
STIGLIANI, TOMMASO (Matera 1573-Roma 1651). Di nobile famiglia Stigliani (di cui si può qui vedere sia il ritratto che la firma autografa) si recò presto a Napoli, conoscendovi certo il Marino e forse anche T.Tasso. Ancora giovane editò il Polifemo (Milano, per il Ciotti, 1600), un poemetto pastorale, ed appena un anno dopo (sempre per lo stesso stampatore ma nella tipografia di Venezia) la raccolta poetica Delle rime. Per breve tempo cortigiano di Carlo Emanuele I di Savoia, si sistemò quindi (1603) presso Ranuccio Farnese duca di Parma come gentiluomo di corte e segretario. Fece allora pubblicare il suo Canzoniere
(ancora a Venezia, per il Ciotti, 1606), raccolta che, per alcuni Indovinelli erotici ma secondo Tommaso soprattutto per colpa del Davila (che sfidò a duello rimanendone però ferito) fu messa all'Indice dei libri proibiti”.
Riparato a Napoli lo Stigliani potè rientrare a Parma solo per intercessione del cardinale Cinzio Aldobrandini: di nuovo al sicuro ed eletto principe dell’Accademia degli Innominati si diede alla stesura dei primi 20 canti del suo poema
Il mondo nuovo(Piacenza, per il Bazachi, 1617)
un poema che, sulla scorta d'una tradizione letteraria coeva, andava celebrando tanto l'impresa di Colombo quanto la conquista delle nuove terre transoceaniche.
Nel poema si lasciò andare ad alcune allusioni pesantemente critiche contro l’allora trionfante G.B.Marino, sì che finì per accendersi contro l’ira dei suoi tanti partigiani ascritti all’Accademia degli Invidiosi.
[Trattando per inciso, il suo non disprezzabile poema non si può far a meno di notare quanto per gli intellettuali italiani e, seppur in minor misura europei, il Mondo Nuovo scoperto da Colombo e poi saccheggiato dai conquistatori (era già trascorso oltre un secolo e non mancavano le prime ampie relazioni scritte) fosse ancora sostanzialmente un luogo estraneo, ancora ben arginato dalle Colonne d'Ercole, un sito retorico, metastorico, su cui indulgere in celebrazioni epiche ma senza alcun discernimento critico: proprio mentre quelle terre ormai insanguinate, con la folle carneficina degli Amerindi, se veramente fosse esistito un autentico genio poetico, avrebbero facilmente offerto argomenti poetica e non solo polemica o morale come qualche coraggioso pur fece: vera tristezza della pedanteria umana sublimata dall'ossequiosità formale del peggior barocco, del tutto nemmeno oggi obliato!].
Stigliani fuggì poi da Parma nel 1621 e prese dimora a Roma, ove, sotto la protezione di Virginio Cesarini, riuscì nell’intento d’entrare al servigio prima del cardinale Scipione Borghese e quindi di Pompeo Colonna. La sua attività letteraria crebbe di intensità: curò (a Roma, per il Mascardi, 1623) l’edizione del Saggiatore, fece quindi stampare una nuova edizione del Canzoniere che, privata dei carmi “osceni”, superò l’investigazione del Santo Ufficio (Roma, Manelfi, 1623) e poi ancora editò l’opera critica (Dell’occhiale, Venezia, per il Carampello, 1627) che da un lato lo rese celebre ma dall’altro gli suscitò addirittura l’odio dei più fanatici seguaci del Marino contro il quale mosse severe osservazioni in nome di un più controllato modo di poetare, per cui l’esperienza barocca, rifuggendo dagli sperimentalismi più estremi, si inquadrasse entro gli schematismi della tradizione tardorinascimentale e della grande esperienza tassesca: a conclusione di questa fervida attività realizzò l’edizione definitiva del Mondo Nuovo per il Manelfi, a Roma, nel 1651 (il rimario Arte del verso italiano, opera cui si dedicò con grande cura, vide al contrario, la luce dopo la sua morte nel 1658).
Il CONTE BERNARDO MORANDO (anche scritto MORANDI) è effigiato in un RITRATTO tuttora custodito alla ventimigliese Biblioteca Aprosiana:
l'autore è nel suo secolo, una figura letteraria e sociale di un certo
rilievo. Di origini mercantili(Sestri Ponente 1589 - Piacenza 1656) si trasferisce a Piacenza nel 1612 per
sbrigare alcuni oneri commerciali
della famiglia; il soggiorno diviene
col tempo stabile residenza nella
città che, con Parma, costituisce il
ducato dei Farnese.
l meriti mercantili, politici e soprattutto letterari lo
rendono gradito ai duchi Odoardo
(1622-1646) e Ranuccio II (1646-1694)
che lo gratificano nel '49 dell'ascrizione alla nobiltà locale, investendolo nel 1652 del feudo di Montechiaro [D. BIANCHI, B. Morando prosatore. B. Morando verseggiatore, in Atti dell' Accademia Ligure di Scienze e Lettere, 1959, pp. 110-22 -
E. CREMONA, Bernardo Morando, poeta lirico
drammatico e romanziere del Seicento, Piacenza, 1960 - D. CONRIERI, Il romanzo ligure dell' età barocca, in Annali di Sc. Norm. Sup. di Pisa, IV, 3, 1974, pp. 1074-88
- Romanzieri del Seicento, a. c. di M. CAPUCCI
Torino, 1974, pp. 44-48, 529-572].
Il RITRATTO DEL CONTE BERNARDO MORANDO non risultava comunque ingressato nella PINACOTECA dell'APROSIANA all'anno 1673: altrimenti ciò sarebbe stato menzionato da Angelico Aprosio, come fatto in tutti gli altri casi, nelle glosse a stampa riportate nell'Indice de' Fautori dell'Aprosiana che va da p.XXIX a p.L del repertorio a stampa del 1673 (Bologna, per li Manolessi) intitolato La Biblioteca Aprosiana.
Il QUADRO in questione fu fatto pervenire all'Aprosio dagli EREDI DI BERNARDO MORANDO coi quali egli tenne una certa corrispondenza (vedi alla B.U.G. le "lettere dei corrispondeti di A. Aprosio" in "fondo Aprosio"): nello Scudo di Rinaldo - parte II Aprosio rammenta i figli di Bernardo cioè il CONTE GIOVANNI FRANCESCO MORANDO ed il CONTE GIOVANNI CARLO precisando però che essi ricevettero notevole collaborazione per salvaguardare la memoria del padre dai nipoti di BERNARDO MORANDO e precisamente OTTAVIO, GIOVANNI MARIA e GIOVANNI BERNARDO (non a caso dalle sinergie intercorse tra fratelli e cugini ebbe origine la stampa dell'OPERA OMNIA del romanziere: i 4 volumi delle sue Opere edite a Piacenza per i tipi del Bazachi nel 1662).
Stando alle informazioni reperibili Angelico Aprosio ebbe in particolare eccellenti rapporti col figlio del romanziere GIOVANNI CARLO e con OTTAVIO MORANDO figlio del fratello di Bernardo di nome G. BATTISTA MORANDO: proprio ad OTTAVIO il frate ventimigliese dedicò il capitolo XVIII dello Scudo di Rinaldo - parte II (per tutte queste notizie vedi di B. Durante il numero monografico Angelico Aprosio il "Ventimiglia": le "carte parlanti d'erudite librarie" in "Quaderno dell'Aprosiana", Nuova Serie, I, 1993, pp.11-12 e p.83).
Aprosio non potè fruire a lungo dell'amicizia, comunque sincera di Bernardo Morando (che tra l'altro lo inserì come coprotagonista in un suo romanzo La Rosalinda) vista la morte nel 1662 del romanziere: egli peraltro conobbe Bernardo in modo relativamente fortuito nell'ottobre del 1643 grazie all'intermediazione del pittore LUCIANO BORZONE amico di entrambi.
Ad elogio di LUCIANO BORZONE, che gli aveva fatto un RITRATTO, il Morando pubblicò nelle sue Fantasie varie il seguente sonetto (ripubblicato da Aprosio nel suo Catalogo del 1673): "Al Sig. Luciano Borzone Pittore, e Poeta/ Borzon, che con la Penna, e col Pennello/ Agguagli la Natura, e vinci l'Arte,/ Poca lode in te sia, mentre in lodar te;/ Sol gran Poeta, e gran Pittor t'appello.// L'uno i color di questo volto, o quello/ Ritrar non può con vivi inchiostri in carte,/ L'altro non sà dell'incorporea parte/ Co' i color morti, effigiar il bello.// Mà tu, con doppio honor che pingi, e scrivi,/ L'Alma, e il sembiante altrui li manifesti,/ Ch'il Volto in tele, il Nome in carte avvivi.// D'Alessandro, e d'Achille in un potresti/ Ritrar con tinte morte, e inchiostri vivi,/ Più d'Apelle, e d'Omero, il volto, e i gesti".
LUCIANO BORZONE (nato a Genova nel 1590) potè ancor meno partecipare della triplice amicizia che aveva instaurata visto che scomparve nel 1645 mentre realizzava la sua ultima opera ovvero l'Adorazione dei pastori dell' Annziata del Vastato (morì infatti per una devastante caduta dal palco su cui lavorava alla tela, che fu condotta a termine dei figli): autore dal talento discontinuo a volte il Borzone dovette accontentarsi di "sopravvivere" realizzando ritratti come quello dedicato al MORANDO che si ritiene poi trasmesso dagli EREDI DEL ROMANZIERE alla PINACOTECA eretta da Angelico Aprosio ad ornamento della sua grande BIBLIOTECA = sul BORZONE vedi AA.VV., La Pittura in Italia, Il Seicento, tomo II, Electa, Milano, 1989, pp. 648 sgg.
Tra le celebrità di BADALUCCO
, antico borgo della MEDIA VALLE ARGENTINA (VEDI CARTA MULTIMEDIALE), ricordiamo l'oggi ingiustamente misconosciuto GIOVANNI MATTIA STRIGLIONI che ivi nacque il 25-II-1628 da Giovanni Bartolomeo e da Bianchinetta Jiugales e, dopo una fanciullezza qualsiasi, nè bella nè brutta, prese i voti religiosi, divenendo prete quasi soltanto per un voto fatto dalla madre, quando egli venne alla luce con qualche tribolamento di troppo. Finiti gli studi religiosi si diede, fra la sorpresa di tutti, a quelli della pittura e dell’incisione in Genova avendo quale maestro Giulio Benso di Pieve di Teco. Scoperta questa sua vocazione autentica, lo Striglioni si lasciò coinvolgere presto nel mondo degli artisti, spesso ai limiti della provocazione e dei sospetti inquisitoriali, anche nella Genova apparentemente quieta del suo tempo! Prese così a frequentare le botteghe ed i cenacoli d’arte, divenne amico del Fiasella e di Domenico Piola, pittori di vaglia, apprese le tecniche rare dell’incisione da artigiani eccellenti come Cesare Bassano, Luciano Borzone, Giuseppe Testana. Presto riuscì ad ottenere ottimi successi e gran reputazione in un ambiente difficile e per un lavoro tanto complesso quanto poco retribuito come quello dell’incisore, cui si dedicò per pubblicazioni di gran pregio: amico dell’Aprosio e del Piola realizzò, per esempio, su disegno di quest’ultimo la bella incisione per il frontespizio della tragedia Belisa al cui testo Aprosio fece allegare, in accordo con l’autore Antonio Muscettola, un suo elogio critico intitolato Le Bellezze della Belisa: parecchio dopo sarebbe ritornato proprio per Aprosio all'arte dell'incisione realizzando su disegno del Fiasella l'eterea antiporta del volume La Biblioteca Aprosiana.
SABBA ["riunione di streghe" ma, contrariamente ad un'opinione errata, mai privo di presenze mascili ]> dal fr. sabbat dal latino sabbatum].
ERESIA (donde ERETICO - ERETICI) nel PONENTE LIGURE: dal pieno '400 al '600 sul territorio diocesano intemelio si ebbero casi di persecuzione oltre che di streghe e di "maghi", anche di PRESUNTI ERETICI E/O COLPEVOLI DI ERESIA (cioè protestanti, riformati, luterani, in particolare riformati di fede calvinista contro i quali la Chiesa romana e cattolica reagì in forza della CONTRORIFORMA SANCITA DAL CONCILIO DI TRENTO), senza tuttavia arrivare, per quanto noto e come AVVENNE NEL XVI SECOLO (in merito ai SOSPETTI DI ERESIA), all'estremo della "pena di morte ": si ricorse almeno in un caso noto alla comminazione dell'"esilio " e del "bando " (in certi casi si ricorse alla comminazione dello stato di "infame "): pene comunque severissime, molto più di quanto oggi possa sembrar credibile.
Dal punto di vista giuridico, la lotta contro gli eretici e le streghe era affidata ad un inquisitore ecclesiastico il quale era assistito da due frati, da due gentiluomini appartenenti alla classe politica, da un notaio e da un cancelliere.
STREGONERIA NEL PONENTE LIGURE NEL XVII SECOLO: Rossella Masper che ha indagato sugli archivi diocesani e non del ponente ligure ed ha riassunto le sue competenze nel lavoro Le Streghe in Tribunale - l'opera dell'Inquisizione nel Ponente Ligure nei secoli XVI e XVII (comparso sulla "Rivista della Provincia di Imperia", anno 2001) forse senza rendersene conto può aver portato un contributo utile per intendere la ragione per cui l'Aprosio si sia sgomentato, quale Vicario dell'Inquisizione, nell'indagare su fatti che ancora venivano rilevati.
TOMASINI, GIACOMO FILIPPO: (1595-1655) - Padovano, teologo e canonico a Padova e Venezia, quindi vescovo di Città Nuova d'Istria dal 1641. Fu amico e corrispondente di Aprosio che lo citò elogiativamente in parecchie parti della Biblioteca Aprosiana....
ALCHIMIA E SPAGIRIA DALLA BIBLIOTHECA CANONICA, JURIDICA... DI L. FERRARIS LA POSIZIONE DELLA CHIESA SULL' ALCHIMIA: LEGGI IN PARTICOLARE LA COSTITUZIONE SPONDENT DI GIOVANNI XXII. Onestamente parlando di siffatti argomenti è facile cadere, sia per gli uni che per gli altri, in banalità: l'unico espediente è offrire una precisazione, nel caso contingente, sulla questione rifacendosi ad esperti e competenti di alchimia
UGHELLI FERDINANDO:
Monaco Cistercense, Consultore Sagra Congregazione dell'Indice, nacque a Firenze nel 1595, morì a Roma nel 1670.
Fu l'autore di una ponderosa opera: "Italia Sacra Sive De Episcopis Italiae Opus", stampata a Napoli dal 1642 al 1648. Nel V volume (di 465 pagine) sono descritti ed enumerati i Vescovi di Nola e le Chiese del Regno di Napoli; una ristampa, ancor oggi reperibile, fu fatta nel 1720 (VI Venetiis); l'Opera consta di 10 Volumi e 5300 pagine.
Il Remondini censura ampiamente lo scrittore, quale autore di anacronismi ed inesattezze, specialmente per quel che riguarda i Vescovi di Nola; ma, d'altra parte, bisogna considerare che lo stesso Ughelli, era stato fuorviato anche dalle inesatte attestazioni del Leone, nel suo De Nola. L'Ughelli è altresì accusato (da altri scrittori), che nella catalogazione dei Vescovi Nolani, abbia solo tenuto conto della "Cattedra" Nolana dei Vescovi, volendo ostinatamente considerare solo Nola, Sede Vescovile, anche con la falsa affermazione che, per un certo periodo di tempo, la Cattedrale di Nola sia stata la Chiesa di SS. Apostoli (dei Morti).
GEORGE RIPLEY [1415? - 1490] fu uno dei più importanti alchimisti inglesi anche se oggi poco si sa di lui, è plausibile che fosse Canonico presso il Priorato di S. Agostino a Bridlington nel Yorkshire verso la fine del quindicesimo secolo: ivi approfondì lo studio sulle scienze e particolarmente sull'alchemia. Per incrementare il proprio sapere viaggiò poi in Francia, Germania ed Italia soggiornando per un certo periodo a Roma. Verso il 1478 ritornato in Inghilterra avrebbe acquisito il segreto della trasmutazione. George Ripley
Una celebre descrizione di SABBA si attribuisce comunemente a Stefano di Borbone mentre il capitolare franco, falsamente attribuito ad un Concilio di Ancira, noto come Canon Episcopi (IX sec.) al contrario ne aveva in precedenza negata la realtà, considerando il SABBA una leggenda alimentata dalla fantasia di donne superstiziose e peccaminose (vedi CORPUS IURIS CANONICI, col. 1030: secondo le investigazioni inqusitoriali laiche ed ecclesiastica la pratica del SABBA non sarebbe stata estranea neppure alle costumanze del PONENTE LIGURE
"Quando si accoglie un neofita e lo si introduce per la prima volta nella assemblea dei reprobi, gli appare una specie di rana; altri dicono che è un rospo. Alcuni gli danno un ignobile bacio sull'ano, altri sulla bocca leccando la lingua e la bava dell'animale. Talvolta il rospo appare a grandezza naturale, altre con le dimensioni di un'oca o di un'anitra. Naturalmente ha la grandezza della bocca di un forno. Il neofita, intanto avanza e si ferma di fronte a un uomo di un pallore spaventoso, dagli occhi neri, e talmente magro ed emaciato da sembrare senza carne e niente più che pelle e ossa. Il neofita lo bacia e si accorge che è freddo come il ghiaccio; in quello stesso istante ogni ricordo della fede cattolica scompare dalla sua mente. Poi si siedono tutti a banchettare e quando si alzano dopo aver finito, da una specie di statua che di solito si erge nel luogo di queste riunioni, emerge un gatto nero, grande come un cane di taglia media, che viene avanti camminando all'indietro e con la coda eretta. Il nuovo adepto, sempre per primo, lo bacia sulle parti posteriori , poi fanno lo stesso il capo e tutti gli altri, ognuno osservando il proprio turno: ma solo quelli che lo hanno meritato. Agli altri, cioè a quelli che non sono considerati degni di questo onore, lo stesso maestro di cerimonia augura loro la pace. Quando ritornano al loro posto rimangono in silenzio per qualche istante con la testa rivolta verso il gatto. Poi il maestro dice "Perdonaci". Lo stesso ripete quello che segue e il terzo aggiunge: "Lo sappiamo, signore". Il quarto conclude:"Dobbiamo ubbidire".
Terminata questa cerimonia si spengono le luci e i presenti si abbandonano alla lussuria più sfrenata, senza distinzione di sesso. Se ci sono più uomini che donne, gli uomini soddisfano tra loro gli appetiti depravati, e le donne fanno lo stesso.
Quando tutti questi orrori hanno fine, si accendono di nuovo le candele e tutti vanno al loro posto.
Poi, da un angolo scuro appare un uomo il cui corpo dai fianchi in su è brillante e luminoso come il sole, mentre nella parte inferiore è ruvido e peloso come quello di un gatto.
Il maestro taglia un pezzo dell'abito del neofita e dice rivolto al luminoso personaggio: "Padrone, costui mi si è concesso: a mia volta lo do a te".
Al che l'altro risponde "Mi hai servito bene, mi servirai anche meglio, quello che mi hai dato lo pongo sotto la tua custodia". E sparisce subito dopo aver detto queste parole.
Tutti gli anni, a Pasqua, essi ricevono il corpo del Signore dalle mani del sacerdote, lo portano in bocca e lo gettano tra le immondizie per recare offesa al Salvatore.
Questi uomini, i più miserabili, bestemmiano contro il Re dei cieli e nella loro pazzia dicono che che il Signore dei cieli ha operato da malvagio, gettando Lucifero nell'abisso.
Gli sventurati credono nel demonio, dicono che egli è creatore di tutti i corpi celesti e che, nei tempi futuri, dopo la caduta del Signore, ritornerà alla sua gloria.
Per mezzo di lui e con lui, non altrimenti sperano di raggiungere la felicità eterna e invitano a non fare ciò che piace a Dio ma ciò che a Lui dispiace".
Ed ecco, invece, alcuni stralci della cronaca del processo inquisitoriale, in cui comparve per la prima volta l'accusa concreta di stregoneria a carico di due donne e la descrizione circostanziata di un SABBA e della cerimonia di MESSE NERE, svoltosi, fra il 1330 ed il 1340, a Toulouse, nella zona di Carcassonne, con la RONDA E/O DANZA DEI DEMONI IN ASPETTO DI CAPRI (v.:H.CH.LEA ):
"Anna Maria di Georgel e Caterina, entrambe di Toulouse e in età matura, hanno detto nelle loro confessioni processuali che da circa vent'anni fanno parte dell'innumerevole esercito di Satana, concedendosi a lui, sia in questa come nell'altra vita. Che molto spesso, e sempre nella notte fra venerdì e sabato ( ma la scadenza settimanale del SABBA non d'obbligo cade di sabato, giorno dedicato a Saturno, il più oscuro dei pianeti ma anche, quasi per una sorta di sfida al divino, giorno consacrato alla Vergine. In molte credenze sembra preferirsi il giovedì, giorno di mezza settimana che rientra così nella simbologia del ponte che divide due concetti antitetici e di entrambi assorbe le caratteristiche, giorno che culmina il periodo settimanale della licenza, vigilia dei futuri tre giorni di penitenza, castità e digiuno, ed anche culmine del Carnevale) hanno assistito al SABBA
Anna Maria di Georgel dice che una mattina, trovandosi da sola a lavare i panni della sua famiglia...vide venire verso di sè, sull'acqua, un uomo gigantesco, dalla carnagione molto nera, i cui occhi ardenti assomigliavano a due carboni accesi, vestito con pelli d'animali.
Il mostro le chiese se voleva concedersi a lui, e lei rispose di sì.
Allora lui le soffiò in bocca e dal sabato successivo fu portata al SABBA, per sua volontà.
Qui trovò un CAPRONE gigantesco , che salutò ed al quale si abbandonò.
Il CAPRONE, in cambio, le mostrò ogni genere di segreti malefici .
Anna Maria di Georgel ha rivelato in seguito che nel lungo periodo di tempo trascorso dalla sua possessione sino all'incarceramento, non ha cessato di praticare il male e di compiere pratiche abominevoli, senza che la fermasse il timore del Signore. Così cuoceva in caldai, su un fuoco maledetto, erbe avvelenate, sostanze estratte sia dagli animali che dai corpi umani che, per un'orribile profanazione, avrebbe fatto alzare dal riposo dalla santa terra dei cimiteri (simili deliri non sono dunque esclusivo appannaggio delle menti malate, e dei vantaggi economici conseguenti, di alcuni registi contemporanei!) per servirsene nei suoi incantesimi; girovagava durante la notte intorno alle forche patibolari, sia per sottrarre strisce ai vestiti degli impiccati, sia per rubare la corda da cui pendevano, o per impossessarsi dei loro capelli, unghie e grasso...Ha voluto pentirsi, ha chiesto di riconciliarsi con la Chiesa, il che le è stato concesso, senza che per questo possa evitare di essere consegnata al potere secolare, che valuterà le pene in cui è incorsa.
Caterina, moglie di Pietro Delort, di Toulouse, è stata dichiarata colpevole: secondo le sue dichiarazioni e le testimonianze di persone affidabili dieci anni fa...si unì in criminale amicizia con un pastore che, abusando del suo ascendente su di lei, la costrinse a stringere un patto con lo spirito infernale. questa odiosa cerimonia ebbe luogo a mezzanotte, in un bosco, nel crocicchio di due strade (altro conosciutissimo topos del SABBA
L'inquisitore dipendeva direttamente dal Vescovo, ma poteva contare sull' aiuto dell'autorità civile tanto per la caccia agli eretici che alle streghe che per l'investigazione vera e propria.
Esistono casi meno noti di quelli di Triora o di Castellar ma comunque da registrare e cui fa cenno in un suo bel saggio Le Streghe in Tribunale - l'opera dell'Inquisizione nel Ponente Ligure nei secoli XVI e XVII (comparso sulla "Rivista della Provincia di Imperia", anno 2001) Rossella Masper che ha indagato sugli archivi diocesani e non del ponente ligure.
Aggiungiamo peraltro che Ventimiglia, quale sede del Vescovo, non solo era una piazza giuridica importante dell'Inquisizione ma che, sull'operato di questa nella città e nel territorio ponentino, abbiamo dati indiretti che derivano sia dagli scritti di un erudito del '600 come Angelico Aprosio, già Vicario dell'Inquisizione, che dall'esser stata inserita la città di Ventimiglia in un ROMANZO BAROCCO in cui sono descritte le pratiche su come si tenevano le ABIURE IN QUESTA LOCALITA' cioè le pubbliche e scenografiche ricusazioni a favore del cattolicesimo romano delle religioni riformate.
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L'esame di alcuni documenti, compiuta dalla Masper, fra le carte dell'Archivio della Diocesi di Ventimiglia, dell'Archivio di Stato di Imperia e della sezione di Sanremo fanno pensare che gli inquisitori ebbero una certa mole di lavoro da compiere in questa zona.
In effetti la riforma protestante ebbe "scarsi riflessi in Liguria...é però vero che essa fu motivo di non poche preoccupazioni per le autorità religiose locali. Nella seconda metà del XVI secolo, la Liguria di ponente, grazie alla sua posizione di confine con la Francia, fu [infatti] interessata dalla circolazione di idee ereticali, in particolare calviniste di cui si trova traccia in alcuni editti inviati dalla curia di Ventimiglia alle parrocchie della diocesi. Numerose sono le denunce a carico di persone che a causa delle loro idee o anche solo per certi comportamenti vengono considerati eretici".
Tra i casi registrati dalla Masper un cenno significativo merita quello del frate Antonio del Bugnato del convento degli Zoccolanti di Sanremo che nel 1588 fu denunciato in quanto sosteneva che fossero due, e non tre, le persone divine.
L'autrice ricorda poi "Francesco Pallanca di Vallebona accusato di eresia per aver affermato che Papa Urbano [Urbano VIII] divide la cristianità".
Ancora la Masper giudica "Particolarmente interessanti, in quanto dimostrano la penetrazione dell'eresia calvinista specie nella zona di confine,... le abiure pronunciate da due cittadini francesi che vivevano nella città di Ventimiglia: Isac Giorgio e Abram Sciopré i quali rispettivamente nel 1627 e nel 1639 lasciano la Francia ed appena giunti in Italia si affrettano ad abiurare quella che entrambi definiscono l' "heresia dei Calvinisti" per abbracciare la fede cattolica, anche se i loro nomi di battesimo farebbero pensare che costoro più che calvinisti fossero ebrei [timorosi dopo i recenti IRRIGIDIMENTI DELLA CHIESA ROMANA e soprattutto dopo l'OPERATO DI PAOLO IV CARAFA e del suo successore: si veda al proposito tutta la questione concernente l'ebrea colta Sara Copio Sullam, con cui per certi versi ebbe a che fare pure l'Aprosio a Venezia]; ma, considerate le persecuzioni che dovettero subire gli ebrei, che nel secolo precedente furono costretti ad abbandonare i territori cristiani [ma sarebbe più corretto dire cattolici ], é possibile che entrambi abbiano preferito dichiararsi calvinisti per sfuggire a sanzioni peggiori" .
Nel 1638 in particolare ricorda l'autrice che "Caterina Molinari di Camporosso fu accusata di stregoneria venne torturata affinché confessasse i suoi crimini".
Gli atti processuali annota ancora la Masper nel suo utile saggio "contengono la trascrizione delle invocazioni e dei lamenti della donna diligentemente annotati dal cancelliere come imponeva la procedura".
Proseguendo nella sua indagine l'autrice scrive: "Le accuse di stregoneria riguardavano soprattutto donne; numerose sono le denunce nei confronti di presunte streghe presenti un po' in tutti i paesi dell'entroterra, Bajardo, Seborga, Sasso, Latte, Pigna dove nel 1596 vennero perseguite una decina di donne che sarebbero state viste ad un sabba notturno, ma non mancano testimonianze che attestano la presenza di maghi e guaritori operanti nei piccoli villaggi a ridosso della costa".
Un caso significativo fu poi quello che accadde nel 1635 a Sanremo qunado fu denunciato tal Martino Orbo originario di Mondovì, luogo da cui era stato bandito, accusato da alcuni conoscenti di aver fatto perdere il latte (segno ritenuto tipico di qualche maleficio) ad una donna che aveva partorito da poco.
"Il caso più singolare sull'operato di un mago" - scrive ancora la Masper cui sono debitrici queste note " é quello che riguarda Giovanni Rodi di Montalto .
Nel 1584 ( quattro anni prima dei fatti di Triora) costui viene denunciato al Sant'Uffizio ed una lettera inviata dall'inquisitore generale Gierolamo Bernerio di Correggio di Genova ordina un'inchiesta incaricando il proprio vicario a Sanremo, Mons. Giovanni Bianco di procedere ad un'accurata perquisizione dell'abitazione di costui ed alla confisca di numerosi libri e scritti proibiti che l'uomo possiede.
I documenti forniscono poi tutta una serie di testimonianze dei compaesani in cui il Rodi viene dipinto come mago , incantatore, dedito a strane pratiche ed oscure peregrinazioni notturne nei boschi del luogo.
Purtroppo non vi sono indicazioni sugli interrogatori e sulla sentenza di condanna, che si può comunque evincere dal fatto che i suoi beni risultano confiscati e venduti all'incanto per il pagamento delle spese processuali.
Il quadro dell'attività dei tribunali della fede nella Liguria di Ponente, assume connotazioni simili a quelle che caratterizzarono l'opera dell'inquisizione in altre parti della cristianità: l'autorità ecclesiastica comincia ad associare la lotta all'eresia che comunque nei primi decenni del XVII secolo va lentamente scemando, alla lotta contro le superstizioni per tentare di ricondurre la pratica religiosa entro i canoni dettati dal Concilio Tridentino .
La Chiesa, che da sempre svolge un ruolo determinante all'interno della società, é fortemente impegnata a ricucire le profonde lacerazioni prodotte dallo scisma di Lutero .
In tale contesto il patto tra la strega ed il demonio non viene più considerato soltanto come una grave offesa, ma piuttosto come una ribellione contro Dio, rinnegato attraverso un patto esplicito ed abbandonato anche quando viene mantenuta un'apparente diligenza nell'osservanza dei riti .
E' su questo terreno di ribellione, di non accettazione, che vivono le popolazioni contadine di quell'epoca.
In un'atmosfera mentale permeata dalla presenza di una religiosità spesso intensamente vissuta, anche se superficialmente intesa, sopravvivono antiche e nuove superstizioni: la fede nei Santi e nelle reliquie a cui si sovrappone la fiducia negli amuleti e nelle formule magiche , che rischiano di radicarsi e diffondersi le idee ereticali, ecco il motivo per cui l'Inquisizione persegue sistematicamente qualsiasi pratica che non si allinea con gli insegnamenti della chiesa, persino coloro che non rispettano il riposo domenicale verranno segnalati alle autorità ecclesiastiche e minacciati di scomunica ".
Pubblicò parecchie opere tra cui gli Elogia illustrium virorum (1629), il Petrarcha redivivus (1635), il Parnassus euganeus, sive de scriptoribus ac literatis huius aevi clarissimi (1647).
L'opera che lo rese più caro al frate ventimigliese fu però la corposa Bibliothecae Patavinae manuscriptae et privatae del 1639 zeppa di dati biblioteconomici che venne ampliata sotto forma di
Bibliothecae Venetae manuscriptae publicae & priuatae ( Vtini, Typis Nicolai Schiratti, 1650) in cui citò i manoscritti in possesso di Angelico Aprosio.
Su questo letterato, parimenti iscritto all'Accademia degli Incogniti di Venezia, oltre che le consuete Glorie del Loredano (pp. 189-191) merita di essere analizzato di Carlo Frati il Dizionario bio-bibliografico dei bibliotecari e biblliofili italiani, Firenze, Olschki, p. 542.
Ferma restando la naturale predisposizione aprosiana per l'antiquariato, pur sempre tenendo nel debito conto i suoi contatti con il collezionismo italiano e con quello straniero e senza mai dimenticare sia le sue osservazioni sul sito reale di Albintimilium quanto sulla necessità civile e culturale di salvaguardare i reperti classici e in particolare le epigrafi, in ordine di tempo sembra esser stato proprio GIACOMO FILIPPO TOMASINI colui che avvicinò per primo Aprosio all'idea di investigazioni scientifiche dei manufatti classici ed alla loro conservazione e catalogazione.
In merito a ciò spicca una rilevazione fatta da Aprosio all'interno di una sua opera rientrante nella polemica letteraria antistiglianea, vale a dire l'Occhiale Stritolato del 1642.
All'interno di una narrazione volta a demistificare il principio stiglianeo che un poema di ambito cristiano non possa iniziare con una invocazione per divinità pagane, l'Aprosio compie una di quelle sue digressioni che, in quanto tali e rispetto all'assunto generale, creano dispersività intellettuale ma che, analizzate con diversa prospettiva, rivelano ad ulteriori indagini singolari curiosità documentarie.
A pagina 171 di siffatta pubblicazione l'Aprosio cita appunto un'opera emblematica di GIACOMO FILIPPO TOMASINI e precisamente il
De donariis ac tabellis votiuis liber singularis. Ad eminentiss. principem Franciscum Barberinum ...
, Vtini : ex typographia Nicolai Schiratti, 1639
[ 8, 226, 22 p., 5 c. di tav., 1 c. di tav. ripieg. : ill., in gran parte calcogr. ; 4o -
Marca: Aurora: Micat aurea Phaebo sul front. -
Segn.: a4A-2H4 - tuttora custodita nella Civica Biblioteca Aprosiana come anche in :
Biblioteca comunale - Palazzo Sormani - Milano
- Biblioteca Trivulziana - Archivio storico civico - Milano
- Biblioteca di archeologia e storia dell'arte - Roma
- Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II - Roma
- Biblioteca universitaria Alessandrina - Roma
- Biblioteca nazionale universitaria - Torino
- Biblioteca dell'Accademia delle scienze - Torino
- Biblioteca nazionale Marciana - Venezia
- Biblioteca dell'Accademia di agricoltura scienze e lettere di Verona].
Proprio dal testo del De donariis ac tabellis votiuis< il frate intemelio estrapola non solo osservazioni sulla salvaguardia di reperti epigrafici ma ne riproduce direttamente nel volume dell'Occhiale Stritolato: in dettaglio alle pagine 172 - 173
Consultando peraltro il fondo antico della Biblioteca di Ventimiglia, si trovano queste altre nove opere di GIACOMO FILIPPO TOMASINI:
1 - Bibliothecae venetae manuscriptae publicae et privatae quibus diversi scriptores hactenus incogniti recensentur. Opera Iacobi Philippi Tomasini .., Utini : typis Nicolai Schiratti, 1650 [28], 111 p. ; 4°
2 - Territorii Patavini inscriptiones sacrae et profanae quibus accesserunt omissae in primo volumine, ac noviter positae, in lucem productae a Iacobo philippo Tomasino .., Patavii : typis Sebastiani Sardi, 1654 [8], 152, [16] p. ; 4°
3 - Urbis Patavinae inscriptiones sacrae, et prophanae, quibus templorum et altarium exstructiones atque dedicationes ... in lucem proferuntur a Iacobo Philippo Tomasino .., Patavii : typis Sebastiani Sardi, 1649 [44], 391, [1] p. ; 4°
4 - Gymnasium Patavinum Iacobi Philippi Tomasini ... Libris 5. comprehensum .., Utini : ex typographia Nicolai Schiratti, 1654 [16], 497, [45] p., 2 c. di tav : ill. ; 4°
5 - Jacobi Philippi Tomasini patavini ... Elogia virorum literis et sapientia illustrium ad vivum expressis iconibus exornata .., Patavii : ex typographia Sebastiani Sardi, 1644 [12], 411 p., 3 c. di tav. : ill. ; 4°
6 - Bibliothecae patavinae manuscriptae publicae et privatae. Quibus diversi scriptores hactenus incogniti recensentur, ac illustrantur. Studio et opera Iacobi Philippi Tomasini .., Utini : typis Nicolai Schiratti, 1639 [15], 142, [32] p. ; 4°
7 - Iacobi Philippi Tomasini ... De donariis ac tabellis votivis liber singularis .., Utini : ex typographia Nicolai Schiratti, 1639 [8], 226, [22] p., [6] c. di tav : ill. ; 4°
8 - Parnassus euganeus, sive De scriptoribus ac literatis huius aevi claris, auctore Iacobo Philippo Tomasino .., Patavii : typis Sebastiani Sardi, 1647 [6], 46, [4] p. ; 4°
9 - Manus Aeneae, Cecropii votum referentis, dilucidatio auctore Iacobo Philippo Tomasino .., Patavii : typis Sebastianis Sardi, 1649 34 p. : ill. ; 4°
Tutte di interessante carattere calssificatorio: si noti comunque quella elencata al numero 3 che nuovamente ripropone il certosino lavoro del TOMASINI nell'investigazione sui reperti archeologici della sua area patavina e soprattutto sulla illustrazione di epigrafi classiche e non altrimenti, come nel testo può leggersi, a rischio di dispersione.
"La nostra chimica deriva, per filiazione diretta, dalla vecchia alchimia; questo hanno dichiarato tutti gli autori che hanno scritto opere riguardanti la storia della chimica: conseguentemente, l’origine dell’una si confonde con la storia dell’altra. Per questo ragionamento la scienza attuale sarebbe debitrice, circa i fattori positivi sui quali è basata, alla paziente fatica degli antichi alchimisti. Questa ipotesi, alla quale non si sarebbe potuto accordare che un valore relativo e convenzionale, è, attualmente, ammessa come una verità dimostrata e la scienza alchemica, spogliata dei suoi propri principi, perde tutte le ragioni di motivare la sua esistenza, di giustificare la sua ragione di essere. Considerata così, a distanza, attraverso le foschie della leggenda e dei secoli, essa non appare più che sotto una forma vaga, nebulosa, senza consistenza.
Fulcanelli, il grande alchimista, nella sua meravigliosa opera Le Dimore Filosofali (Ed. Mediterranee) in proposito scrive: "Ma, quando sarebbero necessarie delle prove, quando si confermano indispensabili dei fatti, ci si accontenta, invece, d’opporre alle pretese ermetiche una petizione di principio, perentoria, la Scuola non discute, ma taglia netto! Ebbene! Noi dichiariamo, a nostra volta, proponendoci di dimostrarlo che questi scienziati che, in buona fede, hanno abbracciato e diffuso un’ipotesi, si sono sbagliati per ignoranza e per mancanza d’approfondimento. Poiché hanno compreso soltanto in parte i libri da loro studiati, hanno scambiato l’apparenza per realtà.
A questo punto diciamo chiaramente, poiché tante persone istruite e sincere sembra che l’ignorino, che la vera antenata della nostra chimica è l’antica spagiria, e non la scienza ermetica. Infatti tra la spagiria e l’alchimia esiste un profondo abisso: questo è quanto tenteremo di chiarire in questo scritto.
Sempre stando a Fulcanelli, nel medioevo e probabilmente nell’antichità greca, se ci rifacciamo alle opere di Zosime e di Ostantes, esistettero due gradi, due livelli di ricerche nella scienza chimica: la spagiria e l’alchimia.
Queste due branche d’una medesima arte essoterica, ci spiega Fulcanelli, erano diffuse nella classe operaia mediante la pratica dei laboratori.
Metallurgici, orefici, pittori, ceramisti, vetrai, tintori, smaltatori, distillatori, vasai, ecc., dovevano, allo stesso modo dei farmacisti, essere provvisti di sufficienti conoscenze spagiriche che completavano in seguito con l’esercizio del loro mestiere.
Gli archimici formavano, invece, una categoria speciale tra gli antichi chimici, una categoria più ristretta e più oscura: lo scopo che essi si prefiggevano aveva qualche analogia con quello degli alchimisti, ma i materiali ed i mezzi di cui disponevano per raggiungerlo erano unicamente dei materiali e dei mezzi chimici.
Trasmutare i metalli gli uni negli altri; produrre oro e argento partendo dai minerali volgari o da composti metallici salini: obbligare l’oro contenuto in partenza nell’argento e l’argento nello stagno, a divenire effettivi ed estraibili, era ciò che si proponeva l’archimico. In definitiva, assicura Fulcanelli, era uno spagirico arroccato nel regno minerale e che lasciava volontariamente da parte le quintessenze animali e gli alcaloidi vegetali.
Coltivavano la loro scienza in piccolo e privatamente, secondo l’espressione piuttosto sdegnosa usata dagli alchimisti per indicare questi praticanti occasionali indegni del nome di filosofi.
Nonostante i loro errori, o piuttosto a causa dei loro errori, Fulcanelli afferma che sono proprio essi, gli alchimisti, che hanno procurato agli spagiristi prima, ed alla chimica moderna poi, i fatti, i metodi, le operazioni di cui essa aveva bisogno.
I veri fondatori d’una scienza splendida e perfetta sono loro, uomini tormentati dal desiderio di ricercare e d’imparare tutto, essi dotarono questa scienza di osservazioni giuste, di reazioni esatte, di abili manipolazioni, di destrezza faticosamente acquistata.
L’alchimia, però, ripetiamo, non ha niente a che fare con queste successive acquisizioni. Solo gli scritti ermetici, incompresi dagli investigatori profani, furono la causa indiretta di scoperte che i loro autori non avevano mai previsto. In tal modo Blaise de Vigenère ottenne l’acido benzoico, per sublimazione del benzoino; Brandt riuscì ad estrarre il fosforo mentre cercava l’alkaest nell’urina; Basilio Valentino, adepto prestigioso che non disprezzava affatto gli esperimenti spagirici, ordinò tutta la serie di sali d’antimonio e realizzò il colloide d’oro rubino; Raimondo Lullo preparò l’acetone e Cassio la porpora d’oro; Glauber ottenne il solfato di sodio e Van Helmont riconobbe l’esistenza dei gas.
Ma, ad eccezione di Lullo e di Basilio Valentino, Fulcanelli dichiara che tutti questi ricercatori, classificati a torto fra gli alchimisti, furono soltanto dei semplici archimisti o dei sapienti spagirici.
Per questo un celebre adepto, autore di un’opera classica (Cosmopolita) ebbe a dire assai giustamente: "Se Ermes, Padre dei Filosofi, risuscitasse oggi insieme con il sottile Geber ed il profondo Raimondo Lullo, non sarebbero considerati dei Filosofi dai nostri volgari chimici (epiteto che l’autore usa per gli archimici e gli spagiristi che non sono gli alchimisti veri chiamati anche Adepti – da Adeptus, che ha acquisito) che quasi non si degnerebbero neanche di annoverarli tra i loro discepoli, perché essi non saprebbero come fare per eseguire tutte quelle distillazioni, circolazioni, calcinazioni, e tutte quelle operazioni innumerevoli, che i nostri volgari chimici hanno inventato perché hanno compreso male gli scritti allegorici di quei Filosofi.
I libri, con il loro testo confuso, arricchito d’espressioni cabalistiche, restano la causa efficiente e genuina del grossolano disprezzo che abbiamo segnalato. Nonostante gli avvertimenti ed i solenni rimproveri degli autori, gli studenti o discepoli ricercatori dell’aurea verità si ostinano a leggerli secondo il significato che tali libri hanno nella lingua corrente. Essi non sanno che questi testi sono riservati agli iniziati e che è indispensabile prima di capirli bene possedere la chiave segreta.
Il primo lavoro da fare è proprio quello di scoprire questa chiave.
Certo, questi vecchi trattati contengono, se non tutta la scienza, almeno la sua filosofia, i suoi principi e l’arte di applicarli conformemente alle leggi naturali.
Non dobbiamo, mai, dimenticare che l’alchimia è una scienza esoterica: di conseguenza un’intelligenza viva, una memoria eccellente, il lavoro e l’attenzione aiutati da una forte volontà non sono qualità sufficienti per sperare di diventare dotto in questa arte.
Scrive Nicolas Grosparmy: "Si sbagliano di grosso tutti coloro che credono che abbiamo scritto i nostri libri soltanto per loro; noi invece, li abbiamo scritti per buttar fuori tutti coloro che non appartengono alla nostra setta.
Un altro alchimista, più caritatevolmente, previene il lettore con queste parole: "Ogni uomo prudente, deve, per prima cosa, imparare la Scienza, se ci riesce, cioè imparare i principi ed i metodi per operare, altrimenti è meglio che non inizi neppure, in modo da non sprecare in modo dissennato il suo tempo e le sue ricchezze... Ora, io prego coloro che leggeranno questo libretto, d’aver fede nelle mie parole. Ripeto ancora una volta che non impareranno mai questa scienza sublime con l’aiuto dei libri e che essa si può imparare soltanto per mezzo della rivelazione divina, infatti, per questa ragione è chiamata Arte divina, oppure la si può imparare con l’aiuto di un maestro buono e fedele; e poiché ce ne sono pochi, ai quali Dio ha concesso questa grazia, sono pochi anche quelli che l’insegnano.
E infine non possiamo non riportare le pregnanti parole di un autore del XVIII secolo che spiega in altro modo la difficoltà di rinvenire la chiave segreta o l’enigma: "Ecco qui la prima e vera causa per cui la natura ha nascosto questo palazzo aperto e regale a tanti filosofi, anche a quelli provvisti di intelligenza assai acuta; la causa è che, già dalla loro giovinezza, costoro si sono allontanati dalla semplice strada della natura attraverso delle conclusioni di logica e di metafisica e, ingannati dalle illusioni che stanno nei libri migliori, essi s’immaginano e giurano che quest’arte sia la più profonda e la più difficile da conoscere di qualsiasi metafisica, sebbene la natura ingenua avanzi con passo diritto e assai semplice per questa strada come in ogni altra sua strada".
Queste sono le opinioni dei filosofi circa le loro opere: non meravigliamoci se tanti studiosi si sono ingannati su questa scienza della quale erano incapaci d’assimilare anche le nozioni più elementari.
Vogliamo spingere i neofiti di questa Ars Magna, l’Alchimia, a meditare su questa verità proclamata dall’Imitation: "Essi possono far ascoltare il suono delle loro parole, ma non ne indicano il significato. In essi c’è soltanto la lettera, ma è il Signore a scoprirne il significato; essi propongono dei misteri, ma è Lui a spiegarli. Essi mostrano la strada che si deve seguire, ma è Lui che dà la forza necessaria per avanzare".
Qui è bene precisare che ermeticamente per Dio o Lui si intende il nostro Io Solare, particella, questo sì, dell’Essere Infinito.
E’ il grande ostacolo contro il quale hanno cozzato i nostri chimici.
Fulcanelli afferma che se i nostri scienziati avessero capito il linguaggio dei vecchi alchimisti, conoscerebbero le leggi della pratica di Ermes e la pietra filosofale, ormai da molto tempo, avrebbe cessato d’essere considerata una chimera.
Abbiamo detto che incontrare un maestro dell’arte alchimica, buono e sincero, equivarrebbe ad un regalo divino.
Il maestro ancora c’è, ma è difficile trovarlo, e anche se lo si trova non è disposto a parlare e bisogna essere abili per rubargli ciò che si vuol sapere.
[Accademia Kremmerziana Napoletana -
http://www.accademiakremmerziana.it]
Autore di diverse opere, alcune rimaste manoscritte.
Tra queste vale la pena di rammentare:
.
The compound of alchymy. Or the ancient hidden art of archemie: conteining the right & perfectest meanes to make the Philosophers Stone, Aurum potabile, with other excellent experiments. Divided into twelve Gates. First written by the learned and rare Philosopher of our Nation George Ripley, sometime Chanon of Bridlington in Yorkeshyre: & dedicated to K. Edward the 4. Whereunto is adioyned his Epistle to the King, his Vision, his Wheele, & other his workes, never before published: with certaine briefe Additions of other notable Writers concerning the same. Set foorth by Raph Rabbards Gentleman, studious and expert in Archemicall Artes..., London imprinted by Thomas Orwin. 1591 ove si conserva l'esplicativa EPISTOLA
a Edoardo IV Re d'Inghilterra.
Questa, importante per la conoscenza dell' ALKAEST sarebbe stata spiegata COME QUI SI LEGGE da Ireneo Filalete che fu uno dei più discussi alchimisti del Seicento. Sulla sua vera identità si è creata, negli ultimi tre secoli, una ridda di ipotesi e congetture. Alcuni hanno voluto vedere dietro lo pseudonimo di Filalete (l'"amante della verità" = "Filarete") lo scozzese George Starkey (1627-1665). Altri hanno creduto che il misterioso adepto fosse John Winthrop Jr., uomo politico, scienziato ed erudito delle Colonie britanniche in Arnerica e primo governatore del Connecticut. L'edizione completa dei testi di Filalete è oggi presentata per la prima volta dalle edizioni Mediterranee per la traduzione e la cura di Paolo Lucarelli (Eireneo Filalete, Opere, pagg. 160). In anteprima pubblichiamo uno stralcio dell'introduzione del moderno autore.
Tra le opere di . George Starkey se ne elenca comunque una che ha stretta relazione con il tema dell'ALKAEST e precisamente trattasi del
Liquor alchahest, or a discourse of that immortal dissolvent of Paracelsus & Helmont. It being one of those two wonders of Art and Nature, which radically dissolves animals, vegitables, and minerals into their principles, without being in the least alter'd, either in weight or activity, after a thousand dissolutions, &c. published by J. A. Pyrophilus [J. Astell]...,
London, printed by T.R. & N.T. for W. Cademan at the Popes-Head in the lower walk of the New-Exchange, 1675.
Il SERVIZIO BIBLIOTECARIO NAZIONALE a GEORGE STARKEY attribuisce queste opere, custodite in Italia nelle pubbliche biblioteche, scritte sotto lo pseudonomo dei EIRENEO FILALETE:
Introitus apertus ad occlusum regis palatium; authore anonymo Philaletha Philosopho. In gratiam artis Chymicae filiorum nunc primum publicatus, curante Joanne Langio,
Amstelodami : apud Joannem Janssonium a Waesberge, & viduam ac haeredes Elizei Weyerstraet., 1667 -
16, 79, 1 p. ; 8° -
Note Generali: Philaletha Philosophus è lo pseudonimo di George Starkey; cfr. VD17, Dokument Nr. 39:117191Q -
Marca (Sfera armillare) sul front
- Impronta - i-i- ncus e-em fapr (3) 1667 (A)
- Localizzazioni: Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II - Roma
Natures explication and Helmont's vindication, or, A short and sure way to a long and found life ... By George Starkey ...
London : printed by E. Cotes for Thomas Alsop ... , 1657
- 336 p. ; 8.
- Impronta - ifay n-s- heor bysi (3) 1657 (A)
- Localizzazioni: Biblioteca nazionale centrale - Firenze - FI - 1 esemplare.
Verborgenheit dess unsterblichen Liquoris Alcahest, oder Ignis aquae ...
Franckfurt am Mayn : G.H. Dehrling, 1707
16 p. ; 16°
- Localizzazioni: Biblioteca Trivulziana - Archivio storico civico - Milano
Enarratio methodica trium Gebri medicinarum, in qua continetur lapidis philosophici vera confectio. Autore Anonymo sub nomine Aeyrenaei Philalethes, natu Angli, habitatione Cosmopolitae.
Amstelodami : apud Danielem Elsevirium, 1678
- 180 p. ; 8°
- Marca sul front. -
Cfr. Willems, Les Elzevier, n. 1552
- Segn.: A-L8 M2
- Impronta - umta aso. usm, iltu (3) 1678 (R)
- Localizzazioni: TS0013 - Biblioteca civica Attilio Hortis - Trieste
Anonymi Philalethae philosophi Opera omnia, quae adhucinotuerunt cum 12. figuris aeneis, ipsius Philalethae, nunquam visis,
Mutinae : typis Fortunati Rosati ... , 1695
- [12], 288 p., [4] c. di tav. : ill
- Le illustrazioni sono incisioni fuori testo
- *6, A-M12
- Impronta - o,um 0.0. a-ta limo (3) 1695 (R)
- Localizzazioni: Biblioteca Estense Universitaria - Modena
Lettera ipercritica di Ireneo Filalete ad un cavaliere fiorentino dell'ordine di Santo Stefano suo amico ...
A Cosmopoli :
Enarratio methodica trium Gebri medicinarum, in quibus continetur lapidis philosophici vera confectio ...,
[London : G. Cooper, 1678]
- 222 p. ; 16°
- Biblioteca Trivulziana - Archivio storico civico - Milano
Wirdig, Sebastian,
Sebastiani Wirdig ... Nova medicina spirituum: curiosa scientia & doctrina, unanimiter hucusque neglecta, & a nemine merito exculta, medicis tamen & physicis utilissima: in qua primo spirituum naturalis constitutio, vita, sanitas, temperamenta ... dehinc spirituum praeternaturalis seu morbosa dispositio ... demonstrantur. Accedit ob affinitatem argumenti anonymi Philalethae tractatus nunquam antehac editus De liquore alcahest,
[Amburgo] : sumptib. Viduae Gothofr. Schultzen, bibliopolae Hamburgens., 1688
2 v. ; 12°
-
Localizzazioni: Biblioteca nazionale Braidense - Milano
Introitus apertus ad occlusum regis palatium; autore anonymo Philaletha philosopho. In gratiam artis Chymicae filiorum nunc denuo publicatus, illustriss., & excellentiss. domino Hieronymo Michaeli Serenissimae Reipublicae Venetiarum patritio...,
Venetijs : sumptibus Pontij Bernardon sub signo Temporis, 1683
- [24], 118, [2] p. ; 12°
- Philalethes è lo pseudonimo di George Starkey, cfr: Library of Congress Authorities on-line, n. 84203895; NUC-pre 1956, vol. 455, p. 258
- Impronta - uii- e-us u-um furo (3) 1683 (R)
- Localizzazioni: Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II - Roma
Magnalia Medico-Chymica Continuata, Oder Fortsetzung der hohen Artzney und Feuerkunstigen Geheimnussen: Darinn die ubrigen Tractaten, so viel deren der so genannte beruhmte Philosophus Philaletha heraus gegeben zum fleissigsten verhochdeutschet vorgetragen werden, Handlend von der Universal-Artzney Oder dem Stein der Weisen. Die samtliche experientz-reiche Schrifften des Englischen Philosophi, Georgii Riplaei, so bis dato noch nie verdeutscht worden: Wie auch einige Principal Schrifften des ... Philosophi Basilii Valentini, ... und anjetzo aus einem geheimen manuscript ersetzt worden. Denen Liebhabern der Spagyrischen Arcanen zu gefallen publilciret von Johanne Hiskia Cardilucio ...<
/i>, Nurnberg : Zu Verlegung Wolffgang Moritz Endters und Johann Andreae Endters Seel. Erben, 1680
- [24], 818, [12] p. ; 8°
- Note Generali: VD17 39:124923T -
Iniz., fregi e cornicette xil. -
Segn.: ):( - 2):( 8 A-3F8(-3F8) -
A c. 3F7v Errata -
Impronta - r-er lnyn t:r- sodi (3) 1680 (R)
- Localizzazioni: Biblioteca civica Attilio Hortis - Trieste
EPISTOLA
a Edoardo IV Re d'Inghilterra
Spiegata da Ireneo Filalete
* Questo Principe ha cominciato il suo Regno & è morto nello stesso anno di Luigi XI, Re di Francia; cioè egli ha regnato 22 anni dopo l'anno 1461 sino al 1483; da qui si può giudicare il tempo in cui ha vissuto Ripley.
I
QUESTA Epistola essendo stata scritta immediatamente a un Re ugualmente saggio & valoroso, deve contenere tutto il segreto dell'opera, sebbene descritto ermeticamente, & nascosto con molta arte, come l'Autore stesso assicura; & che in questa Lettera egli ne deve sciogliere interamente i nodi più difficili; da parte mia io posso testimoniare con lui che questa Epistola, benchè corta, contiene tuttavia, tutto ciò che si possa desiderare, sia per la teoria, che per la pratica dei nostri misteri.
I I
IO pretendo che questo scritto sia la chiave di tutte le Opere che io ho pubblicato; e perciò si può essere sicuri che io non mi servirò di nessuna parola dubbia, nè allegorica, come ho fatto nei miei altri scritti, ove sembra che io provi delle cose, che si troverebbero false, se non le si prende figuratamente; questa cosa io l'ho fatta solamente per celare questa arte, non essendo dunque mia intenzione che questa chiave divenga comune, io supplico coloro che l'avranno di tenerla segreta, & di non comunicarla che a qualche amico, di una fedeltà riconosciuta, & della cui discrezione si sia certi.
I I I
NON è senza motivo che io faccio questa preghiera, essendo sicuro che tutti i miei scritti messi insieme, non sono niente a paragone di questo, a causa delle contraddizioni che ho inframmischiato negli altri. Io mi servirò, dunque, in questa Epistola di un metodo molto differente da quello che ho impiegato altrove; io estrarrò all'inizio la sostanza Fisica, che contiene l'Epistola di Ripley & la ridurrò in parecchie conclusioni, che chiarirò in seguito.
I V
SICCOME le prime otto strofe di questa Epistola, che è in versi, non sono che segni di rispetto, io prendo la prima Conclusione alla nona Stanza: sapere che tutte le cose si moltiplicano per la loro propria specie, & che i metalli di conseguenza lo possono essere; poichè da sè stessi sono capaci di essere cambiati da imperfetti, in perfetti.
V
LA seconda Conclusione contenuta nella decima stanza, è che il fondamento più certo della possibilità della trasmutazione, è di poter ridurre tutti i metalli & minerali, che sono di principio metallico, nella loro prima materia mercuriale.
V I
LA terza Conclusione estratta dalla undicesima stanza, porta che tra tanti zolfi minerali & metallici & tanti mercurii, non ve ne sono che due che hanno rapporto con la nostra opera ai quali il Mercurio è essenzialmente unito.
V I I
LA quarta Conclusione, che si estrae dalla stessa Stanza, è che chi concepisce come bisogna questi due zolfi & questi due mercurii troverà che uno è più puro dell'oro, che è uno zolfo nella sua apparenza, & mercurio nel suo occulto, & che l'altro è il mercurio più puro & più bianco, che è in verità vero argento vivo, nel suo aspetto esteriore, & zolfo nel suo interiore; & ecco quali sono i nostri due principi.
V I I I
LA quinta Conclusione si trova nella dodicesima Stanza, & è che se i principi sui quali lavora un uomo sono veri, & le operazioni sono regolari, l'effetto deve essere certo, & non è altro che il vero mistero dei Filosofi.
***
QUESTE Conclusioni sono un piccolo numero; ma esse sono di grande importanza, in quanto la loro estensione, la loro illustrazione, & anche la loro delucidazione devono soddisfare un figlio della Scienza.
I X
PRIMA CONCLUSIONE SPIEGATA
QUANTO alla Prima, poichè non è nostro disegno spingere chiunque nell'impresa di questa arte, ma di condurre soltanto i Figli della Scienza, io non mi soffermerò a provare la possibilità dell'Alchimia, (o della trasmutazione) poichè l'ho già fatto a sufficienza in un altro Trattato.
X
COLUI, dunque, che vuol essere incredulo lo sia; colui che vuol sottilizzare, sottilizzi; ma colui il cui spirito è persuaso della verità & della dignità di quest'arte, sia attento sulla delucidazione di queste cinque Conclusioni; & il suo cuore non mancherà di rallegrarsi.
X I
IN queste Conclusioni io mi fermerò principalmente a chiarire i luoghi ove si trovano i segreti dell'arte.
X I I
IN relazione alla prima Conclusione, ove egli assicura la verità dell'arte & la sua possibilità, colui che vorrà soddisfarsi più a lungo su questo argomento, legga le testimonianze dei Filosofi; ma l'incredulo resti nel suo errore, giacché per la sottigliezza di questi argomenti egli vuole eluderne le prove, & non crederà a molte persone, la maggior parte delle quali, si sono acquisite molta reputazione anche al loro tempo.
X I I I
COSI' per spiegare questa prima chiave, io mi fermerò soltanto alla testimonianza di Ripley, che nella quarta Stanza dell'Epistola, assicura il Re, che essendo a Louvain, egli vide per la prima volta l'effetto di questi grandi & ammirabili segreti dei due Elixirs; & nel verso seguente, egli protesta che ha anche lui trovato la via del segreto dell'Alchimia, di cui gli promette la scoperta, a condizione, tuttavia, di tenerla segreta; & sebbene nella ottava Stanza egli assicura che mai confiderà queste cose alla carta, offre tuttavia di far vedere al Re non solo l'Elixir bianco & rosso, ma il modo stesso di lavorarlo facilmente, con poche spese & in poco tempo.
X I V
COLUI, dunque che vorrà dubitare di questa arte, considererà questo famoso Autore come un imbecille, o un sofista insensato, per scrivere tali cose al suo Principe, se non fosse stato capace di effettuarle; ma la sua storia, i suoi scritti, la sua reputazione, la sua serietà, infine la sua professione, lo giustificano pienamente da questa calunnia.
X V
SECONDA CONCLUSIONE SPIEGATA
LA seconda Conclusione contiene in sostanza che tutti i metalli & i corpi dei principi metallici possono essere ridotti nella loro prima materia mercuriale; cosa che fa il principale & più sicuro fondamento della possibilità della trasmutazione metallica; è su questo che ci soffermeremo più a lungo. Dovete credermi, & questo è il perno sul quale ruotano tutti i nostri segreti.
X V I
SAPPIATE per prima cosa che tutti i metalli & la maggior parte dei minerali hanno per materia prossima un mercurio, al quale aderisce quasi sempre uno zolfo esterno & non metallico, molto differente dalla sostanza esterna o nocciolo del mercurio.
X V I I
LO zolfo non manca neanche a questo mercurio; & è per mezzo suo che può essere precipitato in una polvere secca, da un liquore, che non ci è sconosciuto, ma che è inutile all'arte della trasmutazione. Questo mercurio può essere fissato al punto che indurirà ogni sorta di fuoco, la coppella stessa, & ciò senza alcuna aggiunta che il liquore che lo fissa; il quale in seguito ne può essere separato tutto intero, senza alterazione del suo peso, nè delle sue virtù.
X V I I I
LO zolfo è molto puro nell'oro; ma meno negli altri metalli, tanto che è fisso nell'oro & nell'argento, & è volatile negli altri. E' coagulato in tutti i metalli; ma nel mercurio o argento vivo è coagulabile. Nell'oro, l'argento & il mercurio, questo zolfo è così fortemente unito, che gli antichi hanno sempre creduto che lo zolfo & il mercurio non fossero che una stessa cosa.
X I X
MA vi è un liquore, del quale dobbiamo, in questa parte del mondo, l'invenzione a Paracelso, sebbene sia stato & sia comune tra i Mori, gli Arabi, & anche per qualcuno dei più abili Chimici; & è per mezzo di questo liquore che noi sappiamo separare in forma di olio tinto e metallico, lo zolfo esterno & coagulabile del mercurio; ma coagulato negli altri metalli. Allora il mercurio resterà spogliato del suo zolfo, eccetto quello che si può chiamare interno o centrale, che non potrebbe essere coagulato che con il nostro Elixir; perchè da solo non può mai essere fissato, nè precipitato, nè sublimato; ma dimora senza alterazione in tutte le acque corrosive & in tutte le digestioni, ove lo si può mettere.
X X
VI è dunque una via per ridurre il mercurio in olio, così bene come tutti i metalli & i minerali: E' con il liquore Alkaest, che da tutti i corpi composti da mercurio può separare un mercurio colante o argento vivo, dal quale tutto lo zolfo è allora separato, eccetto il suo zolfo interno & centrale che nessun corrosivo può toccare.
X X I
OLTRE questa via universale di riduzione, se ne trovano altre particolari per le quali si possono ridurre il piombo, lo stagno, l'antimonio & anche il ferro in mercurio colante, & questo per mezzo di sali che siccome sono corporali non saprebbero penetrare i corpi metallici così radicalmente come il liquore Alkaest; & è per questo che non spogliano interamente il mercurio del suo zolfo; ma gliene lasciano tanto come se ne trova nel mercurio comune.
X X I I
MA il mercurio dei corpi ha soltanto alcune qualità particolari a seconda della natura del metallo o del minerale dal quale è estratto; per questo è inutile alla nostra opera disciogliere in mercurio le specie dei metalli perfetti; non ha più virtù del mercurio comune. Non vi è che una sola umidità applicabile alla nostra opera, che non è certamente nè del piombo, nè del rame; essa non è estratta neanche da nessuna cosa che la natura ha formato, ma da una sostanza composta dall'arte del Filosofo.
X X I I I
SE dunque il mercurio estratto dai corpi ha una qualità così fredda & le stesse fecce & superfluità come il mercurio comune, unite a una forma distinta & specifica, cosa che lo rende ancora più lontano dal nostro mercurio, che è il mercurio volgare.
X X I V
LA nostra arte dunque è di fare un composto di due principi; nell'uno è contenuto il sale, & nell'altro si trova lo zolfo di natura; tuttavia siccome non sono, l'uno e l'altro, nè interamente perfetti, nè interamente imperfetti, & che possono essere cambiati & esaltati dalla nostra arte, se ne viene a capo con il mercurio comune; che estrae non il peso, ma la virtù celeste del composto; cosa che non si potrebbe fare se i suoi principi fossero imperfetti. Ora questa virtù che di per sè stessa è fermentativa, produce nel mercurio comune una razza ben più nobile di esso, che è il nostro vero ermafrodito, che si congela da sè stesso, & discioglie i corpi.
X X V
CONSIDERATE un grano di semenza ove il germe è appena visibile; tuttavia se voi separate questo germe dal grano, egli muore nello stesso istante; ma lasciate il grano tutto intero, si gonfia & fermenta; non è, tuttavia, che il germe che produce la pianta. E' la stessa cosa nel nostro corpo, lo spirito fermentativo, che è in esso, è la minima parte del composto, & le parti impure & corporali del corpo si separano con la lega del mercurio.
X X V I
MA oltre all'esempio del grano, che vi ho dato, si può osservare che la virtù nascosta del nostro corpo purga & purifica l'acqua, che è la sua matrice nella quale soffia, cioè, che ne caccia quantità di terra sporca, & una grande abbondanza di umidità sporca: & per averne la prova & vederne l'effetto, seguite ciò che vado a dire.
X X V I I
FATE la vostra lozione con dell'acqua di fonte molto pura; prima pesate esattamente una pinta di questa acqua, & lavate il vostro composto facendo la preparazione di otto o dieci aquile, mettendo da parte tutte le fecce; poi, avendole prima ben seccate, distillate o sublimate tutto ciò che potrà essere distillato o sublimato, & ne uscirà una piccolissima quantità di mercurio, mettete il resto della feccia dentro un crogiolo tra i carboni ardenti, & tutte le sostanze fecciose del mercurio bruceranno come del carbone, ma senza fumo.
X X V I I I
ALLORCHE' tutto sarà consumato pesate il resto, & voi non troverete che i due terzi del peso del vostro corpo; essendo l'altro terzo rimasto nel mercurio; pesate anche il mercurio che voi avete distillato o sublimato, & il mercurio che avete preparato a parte, & il peso di questi due mercurii non si avvicinerà molto al mercurio che avrete preso all'inizio; fate così bollire l'acqua che è servita alla vostra lozione, & fatela evaporare sino a una pellicola, poi mettetela al freddo, & formerà dei cristalli, che sono il sale del mercurio crudo.
X X I X
QUESTI lavori non sono, in verità, di alcuna utilità; ma danno un'estrema soddisfazione all'Artista, facendogli vedere le sostanze estranee, che sono nel mercurio, & che non si possono scoprire che col liquore di Alkaest; ma tuttavia in modo distruttivo & non degenerativo, come è la nostra preparazione, che si fa tra maschile & femminile nella propria specie ove si trova il fermento, che opera quello che tutte le altre cose non possono fare.
X X X
IO dunque vi dico che se voi prendete il vostro corpo imperfetto, & il Mercurio separatamente, & li fate fermentare, voi estrarrete, in verità, dall'uno uno zolfo purissimo, & dall'altro un Mercurio nero & impuro; tuttavia voi non farete mai niente di entrambi, perchè mancano della virtù fermentativa, che è il miracolo del mondo.
X X X I
E' questa che fa sì che l'acqua comune diventi erba, albero, pianta, frutto, carne, fango, pietra, minerale; è essa, infine, che fa tutte le cose.
Cercatela dunque, solamente, & avrete la gioia di possederla; essa lo merita, poichè è un tesoro inestimabile; ma sappiate nello stesso tempo che la qualità fermentativa non opera al di fuori della sua specie, & che i sali non saprebbero far fermentare i metalli.
X X X I I
VOLETE dunque sapere perchè alcuni Alkali separano il Mercurio dai minerali & dai metalli più imperfetti? Considerate che in tutti i corpi lo zolfo non è proprio così radicalmente mescolato, nè così intimamente unito come si trova nell'oro & nell'argento, & che lo zolfo si lega con alcuni Alkali, che sono straordinariamente disciolti & fusi con esso: & con questo mezzo le parti sono disgiunte, & il Mercurio è separato dal fuoco.
X X X I I I
QUESTO Mercurio così separato è spogliato del suo zolfo; ma solo quanto è necessario, quando non si tratta che di una depurazione dello zolfo con una separazione del puro dall'impuro; ma questi Alkali avendo separato questo zolfo, hanno reso il Mercurio peggiore di prima, avendolo allontanato dalla natura metallica.
X X X I V
PER esempio, lo zolfo del piombo non brucerà mai, & se anche lo sublimate, & se anche lo calcinate per farne dello zucchero o del vetro, non lascerà col flusso & col fuoco, di riprendere la forma che aveva prima; ma essendo il suo zolfo, come avevamo detto, separato, se è aggiunto al nitro, prenderà fuoco così facilmente come lo zolfo comune; in quanto che i sali agenti sullo zolfo, di cui separano il Mercurio, mancano del fermento, che non si trova che nelle sostanze della stessa natura.
X X X V
PERCIO' il fermento del pane non agisce sulla pietra, nè il fermento di un animale o di un vegetale, opererà sui metalli, non più che sui minerali. E sebbene voi possiate estrarre il Mercurio dall'oro per mezzo del primo essere del sale, questo Mercurio, tuttavia, non compirà mai la nostra opera; invece una parte del Mercurio, che sarà estratto dall'oro con solo tre parti del nostro Mercurio, compirà l'opera interamente con una digestione continua.
X X X V I
NON vi stupite dunque di vedere il nostro mercurio divenire più potente, essendo preparato col mercurio comune. Perchè il fermento che sopravviene nel corpo preparato & l'acqua, causa la morte, poi la rigenerazione, & opera quello che nessuna altra cosa saprebbe fare; perchè oltre che separare dal mercurio una terrestralità che brucia come il carbone, & una umidità che si discioglie in acqua comune, gli comunica uno spirito di vita, che è il vero zolfo embrionale della nostra acqua invisibile, ma che opera visibilmente.
X X X V I I
DA ciò concludiamo che tutte le operazioni del nostro mercurio, escluso quella che si fa col mercurio comune, & col nostro corpo secondo le regole dell'arte, sono false & non condurranno mai al fine della nostra opera; perchè in qualsiasi modo questi mercurii siano lavorati, non avranno mai la virtù del nostro. E' questo che dice l'Autore della Nouvelle Lumiere Chimique, che nessuna acqua in tutta l'Isola dei Filosofi è propria, se non quella che si estrae dai raggi del Sole & della Luna.
X X X V I I I
VOLETE sapere cosa vuol dire, il mercurio nel suo peso è incombustibile; è un oro fuggitivo, il nostro corpo, che nella sua purezza è chiamato luna dei Filosofi, essendo ben più pura dei metalli imperfetti, il suo zolfo è così puro come lo zolfo dell'oro: non che questa sia la luna in effetti, poichè non può dimorare al fuoco.
X X X I X
ORA vengo alla composizione di questi tre principi; prima, sul nostro mercurio comune & sui due principi del nostro composto, interviene un fermento estratto dalla luna, fuori della quale, qualunque sia un corpo, non lascia di uscire un odore specifico, & sovente capita che perda del suo peso, se il composto è troppo lavato, dopo che è stato sufficientemente purificato.
X L
SE dunque il fermento del Sole & della Luna interviene nella nostra composizione, genererà una stirpe mille volte più nobile di esso; invece se voi lavorate sul nostro corpo composto con la via violenta del sale, voi avrete in verità, il mercurio; ma molto meno nobile del corpo, trovandosi separato & non esalato da una tale operazione.
X L I
TERZA CONCLUSIONE SPIEGATA
LA Terza Conclusione è: tra tutti gli zolfi minerali & metallici, non ve ne sono che due che siano propri per la nostra opera; & che siano essenzialmente uniti al loro mercurio. Tale è la verità dei nostri segreti, sebbene per ingannare gli imprudenti, sembra che noi diciamo il contrario: perciò non credeteci, allorchè noi insinuiamo due strade differenti; come testimonia Ripley, non vi è che un solo & vero principio, noi non abbiamo che una materia & una sola via lineare, cioè un modo uniforme di procedere.
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SICCOME questi due zolfi sono i principi della nostra opera, essi devono essere omogenati, o resi della stessa natura; è solo l'oro spirituale che noi cerchiamo di far diventare bianco, poi rosso, & questo oro non è altro che il volgare che si vede tutti i giorni, ma del quale non si percepisce lo spirito che è nascosto in esso. Questo principio non ha bisogno che di composizione, & questa composizione deve essere fatta col nostro zolfo bianco & crudo, che non è altra cosa che il mercurio volgare preparato con frequenti coobazioni sul nostro corpo ermafrodito, sino a che diviene un'acqua ignea o ardente.
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SAPPIATE dunque che avendo in sè, il mercurio, uno zolfo passivo, la nostra opera consiste nel moltiplicare in esso uno zolfo attivo, che esce dai reni del nostro corpo ermafrodito, il cui padre è un metallo & la cui madre un minerale.
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PRENDETE dunque la più amata dai figli di Saturno, che porta per sue armi un cerchio d'argento (1) sormontato da una croce di sabbia in campo nero, che è il marchio segnalato dal grande mondo, maritatela al più valente degli Dei, (2) che dimora nella casa di Ariès, & voi troverete il sale della natura: acuite la vostra acqua con questo sale meglio che potete, & voi avrete il bagno lunare nel quale l'oro vuole essere purificato.
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IO vi assicuro oltre ciò, che quando avrete ridotto il nostro corpo in mercurio, senza addizione di mercurio comune o il mercurio di qualche altro corpo metallico, fatto da sè, cioè senza addizione di mercurio, vi sarà totalmente inutile, perchè non vi è che il nostro solo mercurio, che ha una forma & un potere celeste, che non riceve tanto dal nostro corpo composto, o principio, quanto dalla virtù fermentativa, che procede dai due, sia dal corpo che dal mercurio. & è il mezzo col quale è prodotta una meravigliosa creatura: Applicatevi dunque a maritare lo zolfo con il mercurio. Cioè il nostro mercurio, che è impregnato di zolfo, deve essere maritato col nostro Oro. Allora voi avrete due zolfi maritati & due mercurii di una stessa radice, il cui padre è l'oro, & la cui madre la luna.
(1) Tutta questa allegoria non è che per spiegare l'antimonio che i Chimici designano con un Globo nel modo segnato.
(2) E' il marte o il ferro, dal quale si fa il metallo stellato con l'antimonio.
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QUARTA CONCLUSIONE SPIEGATA
LA quarta Conclusione, chiarisce interamente tutto ciò che noi abbiamo detto sopra; principalmente che questi zolfi sono, uno il più puro dell'oro, & l'altro il più puro zolfo bianco del mercurio; questi sono i nostri due zolfi, dei quali, l'uno che sembra un corpo coagulato, porta tuttavia il suo mercurio nel suo seno; l'altro in ogni modo, vero mercurio; ma mercurio purissimo, che porta il suo zolfo dentro di sè, sebbene nascosto sotto la forma & la fluidità del mercurio.
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VI è qui il più grande imbarazzo per i Sofisti, perchè non essendo istruiti nell'amore metallico, essi lavorano su delle sostanze eterogenee, o se lavorano su dei corpi metallici, essi uniscono maschio con maschio o femmina con femmina. Talvolta lavorano su un solo corpo, o se prendono maschio & femmina, il maschio sarà impotente, & l'utero della femmina sarà viziato, in modo che per la loro sconsiderazione sono frustati nelle loro speranze, attribuiscono la colpa all'Arte, sebbene in effetti debba essere imputata solo alla loro follia, perchè essi non ascoltano i Filosofi.
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IO conosco parecchi di questi Sofisti, che sognano su parecchie pietre vegetali, minerali, & animali; alcuni aggiungono anche l'igneo, l'Angelico, & la pietra del Paradiso. E poichè lo scopo a cui tendono, è troppo alto, essi inventano dei modi convenienti per arrivarvi. Essi vogliono che vi si possa pervenire per una doppia via, una, che chiamano via umida, & l'altra, la via secca. L'ultima, a quanto pretendono è un labirinto, che non è conosciuto che da i più illustri Filosofi; & l'altra è il solo Dedalo, via agevole e di poca spesa, che i poveri possono intraprendere.
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MA io lo so, & posso renderne testimonianza, che nella nostra opera, non vi è che una sola via, che un solo Regime; & che non vi sono altri colori che i nostri: & ciò che diciamo o che scriviamo altrimenti, non è che per ingannare gli imprudenti. Perchè se ogni cosa deve avere le sue proprie cause, non vi è effetto prodotto per due vie su dei principi differenti.
Così noi protestiamo & avvertiamo il Lettore, che nei nostri primi scritti abbiamo nascosto molte delle cose sotto il pretesto di due vie, che noi abbiamo insinuato, & che toccheremo in poche parole.
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UNA delle nostre opere è un gioco da ragazzi & lavoro da donne; & questo non è altro che la cottura, col fuoco. Protestiamo che il più basso grado di questa opera è che la materia sia eccitata & che possa di ora in ora circolare senza timore della rottura del vaso, che per questa ragione deve essere molto forte; ma la nostra cottura lineare o uniforme è un'opera interna, che avanza di giorno in giorno & di ora in ora, & che è molto differente da questo calore esterno; perchè è invisibile & insensibile.
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IN questa opera la nostra Diana è il nostro corpo allorchè è mescolata con l'acqua, anche se il tutto è chiamato Luna, perchè il tutto è sbiancato & la femmina governa. La nostra Diana ha un bosco, poichè nei primi giorni della pietra, che il nostro corpo è sbiancato, spinge parecchie vegetazioni: nel seguito dell'opera si trovano in questo bosco due colombe, poichè dopo tre settimane l'acqua del nostro Mercurio sale con l'anima dell'oro dissolto. Esse sono unite fortemente negli abbracci eterni di Venere; in questo tempo la composizione, si trova interamente colorata di una pura acerbità. E queste Colombe sono circolate sette volte, poichè nel numero sette si trova ogni perfezione. Esse infine muoiono, poichè non si elevano più, & non danno più alcun segno di movimento: allora il nostro corpo è nero come il becco di un corvo; & in questa operazione tutto è cambiato in una polvere più nera del nero stesso.
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NOI usiamo spesso queste Allegorie, quando parliamo della preparazione del nostro Mercurio. Quello che facciamo per ingannare i semplici & per oscurare & ingarbugliare le nostre opere, parlando dell'uno quando dovremmo parlare di un altro. Poichè se questa Arte fosse scritta tutta di seguito & nell'ordine del nostro procedimento, allora le nostre opere sarebbero disprezzate & sembrerebbero anche delle follie.
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CREDETEMI dunque, quando dico che le nostre opere sono veramente naturali, è perciò ci prendiamo la libertà di confondere il lavoro dei Filosofi & di imbrogliare con questo ciò che è l'effetto della sola natura: io lo faccio affinchè si possano lasciare gli imbecilli nell'ignoranza del nostro vero aceto, che essendo loro sconosciuto rende inutile il loro lavoro. Per finire dunque, questa conclusione, soffrite che io vi dica queste parole.
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PRENDETE il vostro corpo che è l'oro volgare, & il nostro Mercurio che è stato acuito sette volte col suo matrimonio col nostro Corpo Ermafrodito, che un Caos, & il lampo dell'anima del Dio Marte nella terra e nell'acqua di Saturno; mescolate questi due assieme nel peso che la natura domanda. In questo miscuglio voi possedete il nostro fuoco invisibile, poichè nell'acqua o Mercurio vi è uno zolfo attivo o fuoco minerale: & nell'oro vi è uno zolfo morto & passivo, ma tuttavia attuale. Quando dunque questo zolfo dell'oro è eccitato e rivivificato, si forma dal fuoco della natura, che è nell'oro & dal fuoco contro natura, che è nel Mercurio, un altro fuoco partecipe dell'uno e dell'altro; è l'unione di questi due fuochi in uno solo, che causa la corruzione, che è l'umiliazione, da cui viene in seguito la generazione, che è glorificazione & perfezione.
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SAPPIATE ora che solo l'oro governa questo fuoco interno; l'uomo ignorando interamente l'evoluzione, tutto quello che può fare è di aver cura nel tempo della sua operazione, & percepire solo il calore; egli deve notare che questo fuoco opera tutti i gradi del calore necessario alla cottura. Non vi è sublimazione in questo fuoco, perchè la sublimazione è una esaltazione, & questo fuoco è talmente esaltazione che è esso stesso la perfezione, & non si può fare alcun progresso senza esso.
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TUTTA la nostra opera non consiste in altro che nel saper moltiplicare questo fuoco, cioè far circolare il corpo sino a che la virtù dello zolfo sia aumentata. Poi questo fuoco è uno spirito invisibile, & siccome non ha alcuna dimensione, sia in alto che in basso, estende la Sfera di attività della nostra materia nel vaso, in modo che la sua sostanza sebbene materiale & visibile, si sublimi & salga per l'azione del calore elementare; questa virtù spirituale è tuttavia sempre così bene in ciò che resta in fondo al vaso, come in ciò che sale in alto, poichè è come la vita nel corpo dell'uomo, che è dappertutto nello stesso tempo, senza essere tuttavia per questo, attaccata o determinata in qualche luogo particolare.
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TALE è il fondamento dei nostri Sofismi, allorchè noi diciamo che nel vero fuoco Filosofico non vi è alcuna sublimazione. Poichè il fuoco è vita, è un'anima che si assoggetta alle dimensione del corpo, da dove deriva che l'apertura del vaso, o il raffreddamento della materia durante il lavoro, uccide questa vita, o questo fuoco che risiede nello zolfo segreto, sebbene non vi sia un solo grano che vada perduto; i ragazzi stessi sanno come si accende & governa il fuoco elementare, ma non vi è che il Filosofo, che possa discernere il vero fuoco interno; in effetti è una cosa miracolosa, che agisce nel corpo, sebbene non faccia parte del corpo; perciò diciamo che il fuoco è una parte celeste, & che è uniforme, perchè è sempre lo stesso sino a quando il Periodo della sua operazione sia giunto; allora essendo nella sua perfezione non agisce più, poichè ogni agente si separa quando il termine della sua operazione è venuto.
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RICORDATE dunque, quando parliamo del nostro fuoco, che non sublima, di non sbagliarvi, & di non credere che l'umidità della nostra composizione che è nel vaso, non deve sublimarsi. E' questo che deve fare incessantemente. Ma il fuoco che non sublima è l'amore metallico, che è in alto & in basso & in tutta l'estensione della materia.
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ORA per concludere tutto ciò che ho detto, imparate & siate attenti alla materia che prendete; poichè come dice il Proverbio: un cattivo corvo depone un cattivo uovo.
Che la vostra semenza & la vostra materia sia pura, & allora vedrete una stirpe nobile.
Che il fuoco esterno sia tale che in esso la nostra confezione possa giocarsi in tutti i lati nel vaso, & con questo mezzo & in pochi giorni produrrà ciò che desiderate, cioè il becco del corvo.
Poi continuate la vostra cottura, & in 130 giorni vedrete la bianca Colomba.
E 90 giorni dopo apparirà lo scintillante Cherubino.
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QUINTA CONCLUSIONE SPIEGATA
INFINE eccoci arrivati alla quinta conclusione, che è: se le operazioni di un uomo sono regolari, & i principi veri, la fine deve essere certa, cioè il magistero.
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OH folli & ciechi che non considerate che ogni cosa nel mondo ha la propria causa & il suo modo di agire, credete voi che un Pilota possa andare per mare ove vorrà con una carrozza, bella che possa essere? La prova che ne facesse, sarebbe senza dubbio una follia; immaginatevi con un Naviglio per ben equipaggiato che sia, andare in volata, & senza considerazione: prima di arrivare alla costa d'oro, non mancherebbe di fare naufragio contro qualche Roccia. Sono dei simili folli, coloro che cercano il nostro segreto nelle materie triviali, & che tuttavia sperano di trovare l'oro di Ophir.