cultura barocca
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CREDITI 1

ALEANDRO (o ALEANDRI) GIROLAMO IL GIOVANE: erudito e critico nato a Motta di Livenza, nel 1574 morto a Roma nel 1629.
Viene oggi ricordato quasi esclusivamente per la sua Difesa dell'Adone, opera apologetica in cui si sforza di scagionare l'amatissimo Marino dalle accuse formali e stilistiche mossegli da T. Stigliani.


Come appare scritto in questo saggio critico le considerazioni di DOMENICO ANTONIO GADOLFO il grande discepolo di Aprosio (con indagine critica su vita e opere), gratificato per fama illustre con l'ascrizione all'ACCADEMIA D'ARCADIA di sul suo LAVORO ALL'APROSIANA estratte dai Fiori Poetici datano al 1682 e quindi abbastanza presto: sostanzialmente ci dicono che anteriormente al suo allontanamento da Ventimiglia e ad un solo anno dalla morte di Angelico Aprosio egli aveva fornito nuovi scaffali per la biblioteca e che l'aveva arricchita di PARECCHI VOLUMI.
Dati i tempi la cifra già di per sè risulta considerevole ma molto altro il Gandolfo (che non bisogna dimenticare curò sontuosamente le onoranze funebri d'Aprosio nel 1681) dovette ottenere per la dotazione della "LIBRARIA" anche in funzione della sua corrispondenza, continuata sulla linea di quella Aprosiana.
Molto più tardi l'estensore della VOCE SCRITTA DAL CROCCHIANTE dedicata a DOMENICO ANTONIO GANDOLFO nelle Notizie degli Arcadi Morti registra altri interventi del Gandolfo a favore del convento ventimigliese, evidentemente posteriori al 1682: cita infatti a proposito del Gandolfo non solo la finalizzazione dei lavori della "Libraria", ma anche la conclusione di quelli connessi alla realizzazione del dormitorio e al rifacimento del campanile come leggesi nella biografia del Gandolfo attribuita a suo cugino Filiberto Giacinto Gandolfo entro i Fiori Poetici e precisamente a pagina 191 ed ancora a pagina 192.
Si potrebbe rimanere sorpresi a fronte di simili asserzioni se già l'Aprosio, nelle sue opere, non avesse fatto cenno alla gradualità nell'edificazione del convento come, cioè, di struttura eretta in dipendenza di particolari situazioni economiche, lasciti e donativi: ad esempio, se nulla di particolare egli specifica in merito al Campanile, parlando del Dormitorio Orientale, quindi sul lato verso Bordighera (peraltro strettamente legato ai processi di realizzazione della sede definitiva della "Libraria") dà l'impressione di riferirsi ad impresa edilizia ancora in fieri e proprio nulla esclude che sia giusta l'osservazione del citato Giovanni Carlo Crocchiante, estensore della voce Gandolfo per il volume sugli Arcadi morti, soprattutto tenendo conto del testamento (di cui scrive il Crocchiante = "entrò tra gli Agostiniani, mutandosi il nome di Antonio Francesco in quello di Domenico Antonio: Ivi con ammirazione di tutti compì esemplarmente il noviziato;nè volle professare, se prima con pubblico TESTAMENTO non dichiarò il suo erede che fu la Chiesa degli Agostiniani di Ventimiglia" fatto rogare dal giovane Gandolfo a beneficio di parecchi interventi ancora da farsi per il convento agostiniano di Ventimiglia"[a sentire invece il Gandolfo egli avrebbe offerto un contributo all'Aprosio per la biblioteca ma ne sarebbe stato dissuaso ed invitato a fare semmai un lascito a pro della Chiesa: la divergenza delle notizie non impedisce di pensare che il donativo sia stato fatto magari a vantaggio del cenobio intemelio e che la rifabbrica del campanile sia stato volto ad un suo restauro stante la considerazione dei tanti danni, per carenza di fondi riparati con estrema lentezza, risalenti al grave terremoto del 1564 che squassò Ventimiglia e poi col tempo aggravatisi].
Una cosa è abbastanza certa, in assenza di un catalogo mai steso dall'agostiniano su quanto effettivamente curò di fare per l'Aprosiana, e che, sebbene non riuscì a realizzare la così detta ACCADEMIA DEGLI OSCURI progettata ma mai finalizzata per le sue assenze, dovute a crescenti impegni religiosi, tuttavia sempre si adoperò perchè alla "Libraria" intemelia giungessero libri di vari studiosi come si evince dalla sua corrispondenza.
Nuovo tempi stavano peraltro andando a surrogaro l'iridescente mondo dell'Aprosio, tempi in cui sempre maggiore era l'attenzione per il rigore scientifico e filologico: ed anche nel contesto delle scienze naturali molto stava evolvendosi in direzione di un sempre maggiore adeguamento ai postulati della scienza nuova cui già l'Aprosio si era accostato ma con qualche remora.
Le nuove conquiste paiono ormai inoppugnabili e contestualmente ad esse si assiste ad una depressione di antiche credenze come quelle sulla stregoneria e sulle sue risultanze "scientifiche" con il consequenziale accadimento dell'abbandono di crediti e quindi di pubblicazioni connesse alla medicina alternativa in nome della ormai trionfante medicina ufficiale: ciò spiega come dai tempi del Gandolfo all'Aprosiana pervengano pubbligazioni di carattere medico ufficiale e scemi sempre più l'interesse, che pure Aprosio ostentò, per opere connesse per esempio alla medicina simpatica e/o simpatetica con il graduale abbandono dell'acquisizione di pubblicazioni ancora ai tempi aprosiani piuttosto agognate (e su cui oggi si va rimeditando) come quelle dei MEDICI EMPIRICI E/O DI TRADIZIONE PARACELSIANA che pure anche in Liguria avevano goduto di lunga e fruttuosa attenzione critica.

ACHILLINI CLAUDIO: bolognese (1574\1640). Insegnò diritto civile a Ferrara e Bologna. Soggiornò anche a Roma, dove entrò nell'Accademia dei Lincei, e presso la corte di Parma. Fu amico e seguace di Marino, di cui prese le difese nella polemica contro Stigliani. La sua raccolta di Rime e prose (1632) fu più volte ristampata dai contemporanei: è uno degli esempi più vistosi del barocchismo, farcito di metafore bizzarre e sorprendenti. Suo il verso "sudate, o fochi, a preparar metalli" che fu oggetto di sarcasmi e ironie da parte della critica a partire dal XIX secolo: in particolare il verso del sonetto di Achillini fu usato da Alessandro Manzoni come citazione ironica nel cap.28 dei Promessi sposi. Al cap.37 dello stesso romanzo sono riprese sempre con lo stesso intento sarcastico, le argomentazioni di Achillini sulla peste, contenute nella lettera "Sopra le presenti calamità" (1630).
ALLACCI LEONE: figlio di Nicola nacque a Chio (Grecia) nel 1586 e si trasferì giovanissimo a Roma ove studiò nel Collegio di S. Anastasio per discepoli greci cattolici: conseguì quindi i titoli di doctor e magister sia in filosofia che in teologia.
Rimpatriò per un breve periodo ma subito tornò in Italia per laurearsi nel 1616. Si impiegò quindi come SCRITTORE DI GRECO alla BIBLIOTECA VATICANA.
Ricevette quindi l'incarico di trasferire in questa BIBLIOTECA la BIBLIOTECA PALATINA DI HEIDELBERG che Massimiliano I duca di baviera aveva donato alla Santa Sede.
Successivamente svolse il ruolo di BIBLIOTECARIO per Francesco Barberini e finalmente successe a Luca Holstenio nella prestigiosa carica di BIBLIOTECARIO DELLA VATICANA.
Coltissimo e dal talento multiforme intrattenne fruttuosi contatti con eruditi del calibro di Antonio Magliabechi ed Angelico Aprosio o con politici quali il Cardinale Mazzarino e Colbert.
Pubblicò oltre 60 opere a stampa e moltissime ne lasciò manoscritte: si occupò di teologia come si vede da questo volume della Biblioteca Durante di Ventimiglia, scrisse di antichità classica, di bizantinistica, patristica e architettura sacra: nel campo delle sue numerose opere di italianistica si ricorda la celebre Drammaturgia divisa in sette indici (Roma, per il Mascardi, 1666) bibliografia delle opere italiane edite e non dal 1654 al 1666 successivamente ristampata con le aggiunte di G. Cendoni, Apostolo Zeno ed altri ancora (Venezia, per il Pasquali, 1755).


Le Antichità di Ventimiglia> in linea ufficiale perduta anche se qui si possono leggere recenti assimilazioni sull'argomrnto, fruito dall'Aprosio solo in parte e comunque proponibile a tempo debito = sulla base di lunghe comparazioni si è riscontrato che, come d'uso aprosiano, non potendosi stampare è fluita (pur trovandosi sarcine manoscritte altrove o stampate in altre opere) soprattutto parte nella Biblioteca Aprosiana edita del 1673 e parte nello Scudo di Rinaldo II (cap.XI dall’incipit “Mentre un giorno tutto ansioso” , dedicato al patrizio siciliano Giovanni Ventimiglia, del casato dei conti di Gerace ed Isola Maggiore e poi Ventimiglia di Sicilia, supposto discendente del ramo siciliano dei dispersi conti di Ventimiglia, corrispondente di Aprosio e storico di Ventimiglia di Liguria> B.DURANTE-M.DE APOLLONIA, Albintimilium antico municipio romano, Gribaudo, Cavallermaggiore, 1988, Sez.II, cap.I e note) e parte nella Biblioteca Aprosiana edita da p.29 a p.68, con inserimenti documentari in ulteriori parti del lavoro: del resto, confrontando bene la descrizione aprosiana col Discorso dell’antichità di Ventimiglia di Girolamo Lanteri, si ha l’impressione di un confronto storiografico tra i due eruditi ventimigliesi e l’idea di un riflesso di vecchie discussioni sulla topografia di Ventimiglia Romana: che per Aprosio, a ragione, era stata in Nervia di Ventimiglia (al suo tempo ancora da disseppellire con scavi organici) mentre per Lanteri era sul Cavo di Ventimiglia alta o medievale, in verità sede d’un insediamento romano suburbano volutosi in città in epoca tarda e di totale decadenza.


ANTIFEMMINISMO> da “femminismo” ed “anti” nel senso di tutto ciò che è contro il movimento internazionale che rivendica alle DONNE il diritto di parità nei confronti degli uomini in campo economico, giuridico, politico ed uguali diritti civili, di voto e di eleggibilità.
In senso stretto il termine (dalla forte valenza ideologica moderna e contemporanea) sarebbe improprio applicato al passato, al cui riguardo sarebbe più competente parlare di
MISOGINIA.
Attualmente però anche in letteratura oltre che in politica militante, antifemminismo ha finito per essere usato, data anche la sua lampante chiarezza, in sostituzione dell’altro termine che è un grecismo dalla grafia non sempre chiara: Così in tutta la discussione del presente “Quaderno” antifemminismo e misoginia son da ritenere sinonimi: di maniera che misogino ed antifemminista era l’erudito ventimigliese del ‘600 Angelico Aprosio nelle sue opere moralistiche, in vero più nello Scudo di Rinaldo I (ma si vedano anche queste sarcine dello Scudo di Rinaldo II) o nella Maschera Scoperta che nella Grillaia. Nel ‘600 l’antifemminismo si espresse principalmente in atteggiamenti polemici contro il lusso femminile: critiche alla moda, allo spreco economico, alla donna vanitosa. Un pilastro di siffatta postazione può esser ritenuta (senza che fosse nelle intenzioni dell’autore) la Satira Menippea di Francesco Buoninsegni (primi del 600-?: vedi MAZZUCCHELLI, Scrittori d’Italia, II, parte IV, p.2399) che dapprima studiò filosofia a Roma, divenendo poi membro delle Accademie degli Umoristi e degli Incogniti e quindi fu segretario del Principe Leopoldo di Toscana e poi del fratello Mattias, lasciando -oltre alla citata “Satira contro il lusso donnesco”- varie poesie d’amore, una celebrazione del suo casato e un Trionfo delle Stimmate di S.Caterina da Siena (Siena, 1640). La sua Satira svolgeva un tema di vecchia tradizione destinata ad avere in realtà maggior risonanza nelle opere di Benedetto Manzini, Lodovico Adimari e Dario Varotari. Il Buoninsegni in effetti non suscitava, nei suoi interlocutori e neppure nel contenuto della sua “Satira”, l’idea che alla radice delle sue considerazioni satiriche sussistesse davvero quella potente tradizione predicatoria antidonnesca che aveva costituito dal ‘200 il troncone su cui si sarebbe innestata tutta una tradizione culturale di misoginia e antifemminismo: in effetti lui stesso aveva mirato a prender posizione distante da ogni forma d’eccesso limitandosi ad alimentare una sorta di gioco in burla delle donne.
Il caso volle che l'opera del Buoninsegni si spostasse al centro d’un dibattito non privo di toni aspri: e tutto accadde dopo che il Buoninsegni spedì ad Aprosio in Treviso la sua operetta. Al frate questa non dispiacque e la mandò al Loredano in forma di copia perché si stampasse come Satira Menippea contr’l Lusso donnesco: il lavoro fu quindi editato presso il tipografo veneziano Sarzina assieme ad una “scrittura modestissima” di Giovan Battista Torretti (vedi: Biblioteca Aprosiana edita, pp. 167-168> il Torretti fu Accademico Incognito, lettore di Teologia a Fuligo e S.Miniato e “lesse la morale” in Roma) intitolata la Controsatira: si era nel 1638.
Inaspettatamente però da Venezia nel 1644 la suora Arcangela Tarabotti rispose al Buoninsegni, travalicando la debole portata delle sue considerazioni e sviluppando piuttosto un argomento alternativo, molto pungente, sostanzialmente ruotante entro la più vasta problematica epocale del conflitto “storico” tra uomo e donna. La competenza della Tarabotti si rivelò più che bastante a fronte della fragilità dell’operetta del Buoninsegni ma in un primo momento, anche in funzione di precedenti contatti, l’Aprosio (Francesco Buoninsegni assunse presto una funzione di II piano nella questione!) mantenne con la donna contatti epistolari di notevole cortesia: il frate meditò tuttavia di rispondere all’Antisatira con uno scritto più adeguato, all’altezza di certe acutezze della Tarabotti, cui, facendosi paladino del Buoninsegni (che, sotto sotto, finiva per sembrare la parte debole in causa!), in qualche modo finiva per riconoscere, almeno in questo caso, la superiorità di una donna, diventata colta col sudore di mille fatiche intellettuali al chiuso d’un convento, a fronte d’un erudito d’una certa fama come pur sempre era ritenuto F.Buoninsegni.
La Tarabotti, di fronte alle polemiche che andava comunque suscitando la sua opera, non rimase inattiva: ed al proposito spicca quanto irritata scrisse in merito alle critiche ricevute al cognato Giacomo Pighetti, quasi che non sviluppasse pensieri autonomi "Poca pratica di scrivere debbono aver certo questi tali, mentre si maravigliano che lo stile del Paradiso sia differente da quello dell' Antisatira, onde mostrano di non sapere che lo stile va diversificato in conformità delle materie" [Lettere familiari e di complimento..., Venezia, per il Guerigli, 1650, lettera 113 (entro lo stesso volume si possono leggere Le Lagrime d'Arcangela Tarabotti per la morte della Illustrissima Signora Regina Donati)].
Aprosio, che verisimilmente nonostante i buoni rapporti pregressi doveva essere ascritto ormai dalla donna tra i "tali" che ne avevano tradita la fiducia ed andavano criticandola in modo anche pretestuoso, intanto redasse, dedicandola al bolognese Andrea Barbazza/-i, la Maschera Scoperta di Filofilo Misoponero in Risposta all’Antisatira di D[onna] A[rcangela] T[arabotti] scritta contro la Satira Menippea del signor Francesco Buoninsegni. Secondo Aprosio la Tarabotti, grazie alle sue importanti conoscenze ed a vari sotterfugi, sarebbe poi riuscita a vanificare la pubblicazione dell’opera scritta contro di lei ed il suo sesso: sulla base di questo fallimento maturò egli, contro le donne e la Tarabotti in particolare, un’avversione cocente che si stemperò col tempo anche se nel 1646 fece fluire parte delle sue considerazioni antidonnesche entro lo Scudo di Rinaldo I e se, ancora negli anni ’70 del secolo, s’adoprò, senza esito però, affinché l’opera, per cura del Cinelli Calvoli e sotto il patrocinio di Antonio Magliabechi, la Maschera Scoperta venisse ristampata seppur in forma lievemente modificata e con un nuovo dedicatario, il suo mecenate genovese Gio.Nicolò Cavana [opera poi decifrata da Emilia Biga> l’avversione aprosiana contro le donne, in verità più formale e iridescente che sostanziale, si stemperò verso gli ultimi anni di vita dell’Aprosio, grazie anche all’incontro con la colta letterata Camilla Bertelli Martini vedi B.DURANTE, Ventimiglia nel ‘600: “Madre dei saggi” III (nella Biblioteca Aprosiana: gli inizi di un dibattito internazionale su femminismo e antifemminismo) in “Riviera dei Fiori”, n.1(1992), pp.39-48].


BARBAZZA, ANDREA> nato a Bologna nel 1582, morto nel 1656, amico e corrispondente di Aprosio (cui il conte felsineo era solito inviare sue liriche come questa). Nel 1607 fu eletto tra gli Anziani della città di Bologna, poi nel 1611 entrò a servizio del cardinale Ferdinando Gonzaga a Mantova. Nel 1646 fu quindi eletto Senatore a Bologna e poi nel 1651 ricoprì la carica di Gonfaloniere della stessa città. Come letterato raggiunse discreto prestigio componendo la favola tragicomica l’Amorosa Costanza (Bologna, 1646) e per una serie di opere sceniche per musica andate purtroppo perdute. La sua fama, specie nella I metà del XVII se., fu legata alle Strigliate a Tomaso Stigliani [Spira (Napoli?), 1629] stampato sotto lo pseudonimo di Roberto Pogomega e, forse ancor più, al fatto d’aver fatto scarcerare G.B.Marino, episodio che gli valse un’incondizionata stima da parte dell’Aprosio.


Il Batto> Ms. E.II.38: dopo il titolo, al fronte, nell’incipitario, sotto “Capitolo I”, si legge: “Le parole dette da me nel capitolo ventiduesimo del nostro Occhiale che sono le seguenti;
La quinta conditione della sentenza, che è la novità, si è quando il concetto non è involato di fuori, ma nasce dalle stesse viscere della cosa. Puossi questa violare per ladroneccio, e così fà perpetuamente l’Adone, carpendo i concetti da questi scrittori, ma più spesso dalle mie Rime, e dal Mondo Nuovo, come pur si vedrà nella seconda censura ove apparisse che se gli altri sono stati rubati, io sono (per così dire) stato assassinato ancorché siano state ribattute nella mia Sferza Poetica, nel mio Veratro, m’hanno nientedimeno forgiata occasione di compilare la presente operetta...”>
Aprosio, che scrive sempre sotto pseudonimo, intende tornare sulla polemica Marino-Stigliani riprendendo temi della Sferza Poetica e soprattutto del Veratro I e del Veratro II ma non conclude né edita l’opera sia perché la questione letteraria è ormai superata sia perché, comunque, finirebbe per far stampare un doppione ridotto del Veratro cui Il Batto assomiglia in particolare per l’andamento espositivo e i meccanismi difensivi dell’Adone (come nel Veratro anche nel brano riportato del Batto l’opposizione dello Stigliani non è solo citata ma ritrascritta: la sottolinatura è dell’Aprosio e, secondo le convenzioni tipografiche del suo tempo poi non assolutamente dissimili dalle attuali, tale espediente d’evidenziazione del testo manoscritto serviva per avvertire il tipografo di variare carattere, passando dal tondo al corsivo: è un’ulteriore testimonianza che, in prima istanza, Aprosio non aveva mai dubitato di poter pubblicare questa opera abbastanza tarda sulla polemica letteraria di marinismo ortodosso e marinismo moderato e che andava comunque preparando il suo manoscritto con tutti i segni diacritici e gli avvertimenti neccessari per un procedimento di stampa.


Le Bellezze della Belisa: è il commento celebrativo d’Aprosio accorpato nella stampa alla citata tragedia dell’erudito napoletano Antonio Muscettola: a questo è dedicato l’interessante capitolo XVI dello Scudo di Rinaldo II intitolato “Delle Veglie, e de’ Balli” ora editato e commentato in “Quaderno dell’Aprosiana - numero 1(1993), N.S”, numero unico” in B.DURANTE, Angelico Aprosio il “Ventimiglia”: le “carte parlanti d’erudite librarie” pp.78-82. E’ interessante notare che nella Biblioteca di Ventimiglia nella pagina finale bianca di un altro libro donato ad Angelico dal Muscettola (“Prose di D.A.M. dedicate all’Em. e Rev. Sign. Carlo Decio Azzolini, in Piacenza, per il Bazachi, 1665" dove forse non a caso da p. 186 si legge un “Discorso degli eccessi della vera amicizia” dedicato all’Aprosio) mano della seconda metà del XVII sec. abbia disegnato il progetto di uno stemma od icona della Biblioteca Aprosiana: argomento discusso in “Quaderno dell’Aprosiana - numero 2 (1994), N.S., Miscellanea di Studi” in B.DURANTE, Il ritratto aprosiano di Carlo Ridolfi conservato nella Biblioteca intemelia (note in calce all’evoluzione della “Libraria” ed alle sue valenze iconografiche), contributo cui si rimanda per ulteriori approfondimenti.


Biblioteca Aprosiana edita [volume peraltro arricchito da una suggestiva Antiporta]> è una colossale rassegna dei sostenitori (Fautori) dell’Aprosiana (disposti in ordine alfabetico, seguendo però la disposizione dei nomi e non come oggi s’usa dei cognomi) con relativo elenco dei libri da questi donati: per ogni donatore (che spesso era anche autore o comunque erudito militante: in chiave forse previsionale o statistica, magari per agevolare questo possibile lavoro, Aprosio aveva disposto nella sua biblioteca una “Philoteca”, un volume nel quale i visitatori scrivessero quelle annotazioni di encomio che poi egli stesso riprodusse in quest’opera parlando degli stessi, specie se illustri o donatori di libri) vengono altresì inserite utili note biografiche e bibliografiche> in sostanza si tratta di un commentatissimo elenco dei libri ingressati da Aprosio nella sua biblioteca. L’autore risulta “Cornelio Aspasio Antivigilmi”, un giovane amico e collaboratore dell’Aprosio, ormai vecchio e stanco, che ne narra l’immane impresa biblioteconomica e le tante avventure letterarie. In effetti l’autore è Aprosio stesso che usa questo ennesimo pseudonimo (che è anagramma puro del suo nome legale con indicazione della città di nascita) che, temendo di trascurare qualche “Fautore” sì da suscitarne il dispiacere, o comunque d’esprimere qualche giudizio a rischio o perlomeno “sopra le righe” (magari trascinato dalla mole stessa della lavoro e da una revisione molto faticosa) tanto da alimentare qualche inutile polemica o qualche imprevista rimostranza. Da p.74 a p.261 dell’opera è collocata la biografia aprosiana corredata da una miriade di utili notizie sui fermenti letterari, italiani e non, del XVII sec. [con svariati riferimenti di archeoletteratura e bibliografia che permettono di studiare altri fondi librari oltre, naturalmente, quello dell’Aprosiana sulla cui evoluzione, sviluppo e disposizione architettonica si forniscono tante notizie che hanno permesso la ricostruzione della struttura seicentesca e la primigenia disposizione delle sale, coi libri, i quadri della pinacoteca aprosiana, le raccolte antiquarie e di monete> B.DURANTE, Il ritratto aprosiano di Carlo Ridolfi conservato nella biblioteca intemelia (note in calce all’evoluzione della libraria ed alle sue valenze iconografiche in “Quaderni dell’Aprosiana”, N.S. n.2, 1994, passim)]. Forse neppure Aprosio, iniziando questa impresa editoriale, ne aveva presente la dimensione, esasperata dalla sua tendenza alla dispersione: fatto sta che (visti anche i costi di stampa) egli potè pubblicare solo la I parte dell’opera, fermandosi alla lettera “C”. I “Fautori” con nomi inizianti colle lettere successive furono trattati (fino alla “M” però) in manoscritto, già predisposto per la stampa ed ora conservato in Genova. Molto utile e documentatissimo, soprattutto sulla parte biografica dell’Aprosiana, è il lavoro di QUINTO MARINI (Angelico Aprosio da Ventimiglia, “tromba per far conoscere molti”) in “Quaderni Franzoniani-Semestrale di bibliografia e cultura ligure- 1995”.


Biblioteca Aprosiana inedita [D.Puncuh (a cura di), I manoscritti della raccolta Durazzo, Genova, Sagep, 1979: si evidenzia come, assieme a questo autografo aprosiano, nella raccolta genovese fluirono, tramite regolare acquisto a fine ‘700/primi ‘800 diversi altri manoscritti dell’Aprosiana].
A - Della biblioteca aprosiana, parte II, lettere D-G, Copia autografa dell’Aprosio completata entro il 1674 come si evince da p.638.
B - Della biblioteca aprosiana, parte II, lettere D-G, Autografo aprosiano destinato alla stampa. E’ meno completo del precedente ma ha in più da p.341 la Threnodia...in obitu Iohannis Nicolai Cavana. Questo II manoscritto (Ms.A.III.7) è frutto di svariati rimaneggiamenti del I (Ms.A.IIII.4) dovuti anche a suggerimenti di altri eruditi e di amici vari> dalla lettura del II manoscritto si apprende che Aprosio aveva fatto passare per mano di alcuni “Fautori” il suo manoscritto (precisamente per quanto concerne il gruppo di lettere D-F) ma che poi, temendo che potesse andare smarrito, si decise a ricopiarlo. Appunto nel volume II, 1, p.43 espresse la sua preoccupazione per qualche sfortunata perdita alludendo allo smarrimento di un manoscritto di Domenico Chiesa: “...Accidente che mi ha fatto accorto di non avventurare questa seconda parte, come feci la prima, che sebbene non son solito di copiare, mi par minor briga il far questo, che l’havessi di bel nuovo a ricomporre”
C - Della biblioteca aprosiana, parte III, lettere H-K. Autografo aprosiano datato come risulta da p.1 “A dì 22 febraro 1674”
. D - Della biblioteca aprosiana, parte IV, lettere L-M> Autografo aprosiano dedicato al Sig. Lorenzo Legati (erudito di Piacenza ed intimo dell’Aprosio oltre che del bolognese Ovidio Montalbani, Accademico Gelato e studioso di scienze naturali -tra i massimi corrispondenti dell’Aprosio - di cui alla biblioteca intemelia si conserva in pratica tutta la produzione).
Per intendere le ragioni della mancata stampa della restante parte della Biblioteca Aprosiana... bisogna percorre un cammino nella storia dell'editoria seicentesca, valendosi in particolare dell'opera di Emilia Biga, Una polemica antifemminista del 600, La Maschera Scoperta di Angelico Aprosio, entro i "Quaderni dell'Aprosiana", V.S., IV, 1989 integrata da altri dati contenuti in Ventimiglia nel '600: "Madre dei Saggi"..., di Bartolomeo Durante in "Riviera dei Fiori", 1992, 1 [ultimo di tre articoli (i primi due dell'anno 1991, nn. 5 e 6)]


Buratto>"Buratto”, come referente extralinguistico, rimanda ad una macchina che, per via di setacci di varia finezza, separa la farina dalla crusa (strumento simbolo od icona dell’Accademia della Crusca). L’allusione è programmatica: vagliando il Mondo Nuovo stiglianeo si individuerebbero cacofonie, licenze poetiche improprie, perversione di leggi naturali, metafore prive di misura e decoro (“mare”/”Foresta umida”) e altri errori invece inindividuabili nell’Adone di Marino.


CASSINI, GIO. DOMENICO> (Perinaldo 1625 - Parigi 1712). Angelico Aprosio nella parte inedita de La Biblioteca Aprosiana (Genova, Biblioteca Durazzo, parte II, lettere D-G, Ms. A.III.4) lasciò scritto: “Gio. Domenico Cassini il cui ritratto è quello che tenendo in mano un telescopio per iscoprire gli arcani [del cielo] è quegli che si rimira primo in ordine nella facciata orientale della Libraria. Nacque in Perinaldo, Castello del Marchesato di Dolceacqua, Diocesi di Ventimiglia, Feudo del marchese Doria.
Ancorché l’Abbate Giustiniano non manchi d’usare ogni grande diligenza nelle sue scritture non m’arrischierei di dire che nelli suoi Scrittori Liguri non habbia commesso qualche erroruccio. Dice che egli fusse nato nel MDCXXIIII li IIX giugno: ed io ho dal libro de’ Battezzati di quella Chiesa, se non m’ha ingannato Capitan Giuseppe Cassini un figliuolo del quale ha preso in consorte una sorella del medesimo Cassini li giorni a dietro, che sia nato il MDCXXV il primo di Giugno (sic!, in realtà il 10 Giugno come si legge tuttora nel suddetto libro conservato nell’Archivio Parrocchiale di Perinaldo) alle H(ore) XV. Dice oltracciò che ‘l Padre fusse Jacopo Cassini, e camminiamo d’accordo: ma che la madre si chiamasse Tullia Lovresi non è vero. Si chiama Tulla sì, che vive ancora la buona vecchia, ma Crovesia...”. Il giovinetto, prima di recarsi a studiare a Genova presso il moderno collegio dei Gesuiti, come scrisse ancora l’Aprosio nel citato manoscritto de la Biblioteca Aprosiana inedita, fu inviato a studiare lettere presso il Rettore della Parrocchia del vicino borgo di Vallebona: “Gio.Francesco Aprosio, di Vallecrosa, già Rettore della Parochiale di Vallebuona, da cui il Dottore Astronomo Gio. Domenico Cassini succhiò il latte de’ primi rudimenti Grammaticali, Dottore nell’una e l’altra legge, di cui si vede il ritratto alla sinistra di Monsig. Vescovo Promontorio, ed hora frate tra Minori Conventuali, prima di mutar habito donò [alla biblioteca di Ventimiglia] nell’anno MDCLXVI F. Marini Mersenni Ord. Minimorum S.Francisci dePaula Quaestiones Celebrerimae in Genesim...”. Grazie al suo genio precoce percorse le tappe di una rapida carriera accademica diventando docente di astronomia nell’Università di Bologna ove realizzò la meridiana di S.Petronio per calcolare l’esattezza dell’equinozio. Divenne quindi direttore dell’osservatorio di Parigi nel 1669, legando il suo nome a grandi scoperte tra cui in campo astronomico il moto di rotazione di Marte e Giove, i quattro satelliti di Saturno (Giapeto scoperto nel 1671, Rea nel 1672, Tetide e Dione nel 1684) e la divisione degli anelli di Saturno dal suo nome detta “Divisione di Cassini”. In campo matematico rivelò una particolare famiglia di curve piane poi nota come “Curva di Cassini”.


CAVANA, GIO NICOLO’
di cui è possibile vedere qui il
RITRATTO
appartenenne ad una nobile famiglia genovese originaria di Novi. G. N. CAVANA fu nipote dell’ambasciatore genovese presso la corte di Spagna e figlio di un Senatore della Repubblica: a sua volta eletto Senatore ricoprì il ruolo di governatore della Rocca di Pietra Ligure.
Tra il 1665 ed il 1675, anno in cui morì per una gravissima serie di disturbi intestinali come apprendiamo dalle drammatiche lettere all’Aprosio in Ms.40 della Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia, fu tra i più assidui e tenaci sostenitori della “Libraria intemelia”. Antonio Magliabechi accennando al suo ruolo di mecenate e protettore dei letterati liguri lo definì: “L’asilo dei letterati della Liguria”.
Nel suo celebre repertorio bibliografico edito a Bologna dai Manolessi nel 1673 (La Biblioteca Aprosiana..., cit., parte I, p. 630) l'Aprosio
SCRISSE
(leggi qui l'intiero brano aprosiano dal testo originale)
che il comun denominatore, per l'insorgere di una crescente amicizia intellettuale fra lui ed il Cavana, fu "Don Andrea Rossotto di Mondovì Monaco della Congregatione di S. Bernardo riformata" cordiale frequentatore di entrambi; nonostante la loro corrispondenza epistolare, susseguente a questo indiretto ma fortunato contatto, datasse a diversi anni prima, il Cavana ebbe però modo di conoscere personalmente l'Aprosio nella casa del ventimigliese Atanasio Porro, cugino di Aprosio, solo quando tempo dopo, come Supremo Sindicatore della Repubblica di Genova (incaricato cioè come revisore dell'operato degli amministratori del Dominio), dovette soggiornarvi per un discreto periodo onde espletare il suo incarico pubblico a riguardo del territorio, non certo piccolo da ispezionare, del "Capitanato di Ventimiglia".
Fu precisamente in questa occasione -di cui è arduo ricostruire la data esatta ma comunque da collocare fra la II metà degli anni '50 e i primi anni '60 del secolo- che il Cavana ebbe modo di visitare per la prima volta il convento agostiniano di Ventimiglia in compagnia dell'Aprosio che, subito dopo, lo portò a visitare la "Libraria" di cui il Cavana immediatamente si "innamorò", impegnandosi apertamente al suo "accrescimento" (Ibidem, p.631).
Per giudizio di Angelico Giovanni Nicolò Cavana fu il principale mecenate della sua biblioteca ed ai suoi meriti di protettore e fautore (donò, tra stampate e manoscritte, 50 opere di grande rarità) il ventimigliese, nel repertorio "Della Biblioteca Aprosiana", dedicò ben 36 pagine encomiastiche (Ibidem, pp. 630 - 666).
Nell'"Appendice poetica" fece inoltre "costruire" all'amico Minozzi un bizzarro canzoniere celebrativo dell'Aprosiana, dove il Cavana finì per essere assimilato ad "un Libro vivente, dove la Gloria stessa si rappresentò".
Nonostante certe iperboliche esasperazioni formali bisogna riconoscere che non si trattò da parte dell'agostiniano di mera convenzionalità encomiastica e partigiana, ossequiente ai costumi dell'epoca: una vera amicizia legò i due personaggi, Cavana non fu letterato ma amò l'arte più di molti pedanti professionisti sino ai suoi ultimi giorni.
Come si evince dall'albero genealogico della famiglia Cavana (Archivi di Stato di Genova, Ms. 496, "Alberi genealogici", foglio 83) Giovanni Nicolò era figlio di Giovanni Maria e Margherita Scaglia, figlia di Giovanni Scaglia Senatore della Repubblica di Genova cd Ambasciatore presso il Re di Spagna.
Il nonno paterno Gaspare Cavanna nel 1572 si era sposato a Siviglia con Leonora figlia di Giovanni Boccanegra y Guzman e come altri membri della famiglia Cavana svolse incarichi diversi in Spagna intrattenendo rapporti con eruditi iberici.
La famiglia Cavana si segnalò sempre per la protezione degli artisti e letterati: nel 1675 l'amico e mecenate fu compianto come una grandissima perdita (per lui certamente, ma soprattutto per la protezione delle arti tutte) dall'Aprosio in una malinconica ed affettuosa lettera al Magliabechi (in Biblioteca Naz. di Firenze, Magliab. VIII, 141).
Il Cavana personalmente fece, come scritto, dono all'Aprosio di parecchi volumi di pregio e non molto prima della sua fine di un'opera di assoluta rarità che costituisce il Ms. 2 della Biblioteca intemelia, cart., sec. XVII (1615), mm. 142 X 110, cc. 4 n. n. di cui bianche le cc. 1 e 4 più cc. 33 di cui numerate la 1, la 25 e la 32 (erroneamente al posto della 33) più cc. 2 n.n..
La scrittura è corsiva, di una sola mano ed il volume ha legatura in pelle, con fregi dorati: si tratta di un esemplare unico in lingua spagnola, precisamente la "Consolatoria al senor Juan Maria Cavana en la muerte de su padre attribuito al poeta Martir Rizo".
Da una lettera di Giovanni Nicolò Cavana all'Aprosio" (Biblioteca Universitaria di Genova, "Lettere di vari all'Aprosio", Ms. E. V. 27, cc. 4r - 5v.) datata Genova 28-X-1673 si evince che l'opera fu scritta dal Rizo in occasione della scomparsa di Gaspare Cavana, il nonno di Giovanni Nicolò.
Si tratta di un esemplare già ignoto alla bibliografia iberica scoperto dagli illustri ispanisti Mario Damonte e Anna Maria Mignone nel corso di una ricognizione sul vasto fondo di testi spagnoli dell'Aprosiana: con grande competenza critica la Mignone lo editò scientificamente nel "Quaderno dell'Aprosiana", V.S., I (1984), pp. 41 - 62 sotto il titolo di Un inedito del Seicento della Civica Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia: la Consolatoria al senor Juan Maria Cavana en la muerte de su padre di Juan Pablo Martir Rizo.
Per tutta questa serie di doveri, nati comunque da un senso di gratitudine sincera, Aprosio ritenne, tra l'altro, doveroso occuparsi, sempre nella "Biblioteca Aprosiana" edita (pp.645-663) di un argomento che stava molto a cuore al suo protettore cioè la restituzione alla di lui famiglia di alcuni diritti feudali di cui era stata depauperata.
Alla morte del Cavana inoltre, Angelico chiese ed ottenne dal comune amico, l'erudito di Piacenza Lorenzo Legati, la stesura di un elogio funebre, tuttora conservato nella parte rimasta inedita della Biblioteca Aprosiana (II- Raccolta Durazzo, Ms.A.III.5, p.341) cioè la Threnodia, horti Musarum cultorum, in obitu Johannis Nicolai Cavana, patricii Genuensis, collectore domino Laurentio Legato dall’ incipit: “...Tyndarides fratres proles...”.


CINELLI CALVOLI, GIOVANNI (Firenze 1625 - Loreto [Ancona] 1706). Laureatosi in medicina a Pisa nel 1650, esercitò la professione medica in varie località. Stabilitosi a Firenze si legò in stretta amicizia con Antonio Magliabechi, con primi interessi di ordine storico, specie in merito alla Toscana: scrisse così l’Istoria degli scrittori toscani (proseguita da Anton Maria Biscioni ed ora custodita presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, in “Fondo Magliabechiano IX, 69-86”). Ebbe quindi uno scontro con Giovanni Andrea Moniglia (Firenze 1624-ivi 1700: medico e docente all’Università di Pisa, membro dell’Accademia della Crusca, autore di drammi civili e musicali) e per questo fu arrestato e condannato al carcere: quindi venne obbligato a lasciare Firenze in modo definitivo nel 1683. Tra i suoi tanti corrispondenti ed amici ascrisse Aprosio anche se fra i due i rapporti col tempo si raffreddarono, specie perché Cinelli Calvoli non mantenne fede (o non potè mantener fede) alla sua promessa, forse un pò azzardata, di far pubblicare quanto prima la Maschera Scoperta : le querele finali di Aprosio per una certa indifferenza di Cinelli Calvoli si riassumono in una lettera al Magliabechi (in “Biblioteca Nazionale di Firenze, Ms.141” del gennaio 1681, solo un mese quindi prima di morire) ove si legge “...E la Maschera Scoperta quanti anni sono che me la cavò [il Cinelli] dalle mani? V.S. Illustrissima ben lo sa...” (ma per onestà verso il Cinelli Calvoli v’è da precisare che il Magliabechi il quale custodiva il manoscritto aprosiano -per esempio già in una lettera del 5 marzo 1674 in “Fondo Aprosiano della Biblioteca Universitaria di Genova”- informava spesso Aprosio che Cinelli Calvoli non riusciva a pubblicare per malavoglia ma “per mancanza di danaro”). A Cinelli Calvoli spetta inoltre il merito d’aver tentato per primo la realizzazione di un periodico bibliografico (La Biblioteca Volante) di cui nel 1677 furono pubblicate le prime due “Scanzie”: Cinelli Calvoli seguì questo suo lavoro per ben 18 volumi (l’opera fu poi continuata da A.Dionigi Sancassani e Mariano Ruele) entrando in dimestichezza (per ragioni bibliografico-documentarie) pure con Domenico Antonio Gandolfo, succeduto ad Angelico nel 1681 quale bibliotecario della “Libraria” ventimigliese: come s’evince da una lettera del Cinelli Calvoli conservata all’Aprosiana nel Ms.40.


EPISTOLARIO
In “Fondo Aprosio”, in Biblioteca Universitaria di Genova: raccolta di volumi delle migliaia di lettere ricevute da
Aprosio dalle maggiori celebrità letterarie del suo tempo, italiane e non, opera sondata solo in parte e di straordinaria importanza per una più esauriente conoscenza della cultura del XVII secolo (la raccolta fu trasferita in Genova a fine ‘700 su delibera napoleonica da Prospero Semino/-i nell’ipotesi d’un’istituenda biblioteca centrale ligure).
Vedi alla Biblioteca Univ. di Genova i Ms.E.II.38; E.II.4 bis; E.V.25; E.V.26; E.V.27; E.V.28; E.VI.4; E.VI.5; E.VI.6; E.VI.7; E.VI.8; E.VI.9; E.VI.10; E.VI.11; E.VI.11 bis; E.VI.16; E.VI.17; E.VI.18; E.VI.19; E.VI.20; E.VI.22.
Si consulti qui l'
ELENCO ALFABETICO CON INDICAZIONI CRONOLOGICHE E SUCCINTE NOTE DEI CORRISPONDENTI D'APROSIO.
Per orientarsi in siffatta congerie di nomi e di documenti è basilare il regesto di A.I.FONTANA, Epistolario e indice dei corrispondenti del Padre A. Aprosio, in "Accademie e Biblioteche d’Italia", XLII (1974), n.45.
Di straordinaria utilità per il ricercatore sono soprattutto gli ordinati e curatissimi indici.
Alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze si conservano nel fondo Magliabechi-diverse scritture” diverse lettere dell’Aprosio al bibliotecario mediceo.
Purtroppo pochi contemporanei d’Angelico avevano la sua abitudine di catalogazione e conservazione, così che la massima parte delle sue numerosissime lettere o è sparsa in vari archivi senza particolari segnalazioni o soprattutto è andata distrutta.
Si veda comunque per un’ipotesi di ricerca: A.I.FONTANA, L’epistolario di Angelico Aprosio con Antonio Magliabechi, Università degli Studi di Genova-Facoltà di Lettere e Filosofia, Tesi di Laurea, dattiloscritto, anno accademico 1972-’73.
Una copia già in Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia.


FORMAZIONE> La formazione culturale aprosiana ha seguito un percorso variegato, traendo energia in funzione della straordinaria capacità del frate di assimilare ogni esperienza culturale, pur restando ancorato, sostanzialmente, ad una visione marinista e controriformista di esistenza, cultura ed ideologia (con atteggiamenti di estremismo nel periodo iniziale, specie in merito alla sua postazione polemica avverso lo Stigliani critico nei riguardi delle stanze dell’Adone del suo prediletto Marino). I contributi critico-letterari e divulgativi sul personaggio vanno aumentando in maniera considerevole, sì che proporre qui una bibliografia da ritenere del tutto completa può essere azzardato. Ferma restando la citazione, nel testo vero e proprio di questo ultimo “Quaderno dell’Aprosiana”, di contributi settoriali o scientificamente utili volta per volta, qui si forniscono i dati bibliografici generali utili, se non essenziali, per un approccio di base all’erudito intemelio. Per un inquadramento della vita di Ludovico (nome al secolo di Angelico, che poi scrisse le sue opere quasi sempre sotto svariati pseudonimi) Aprosio detto ora il Ventimiglia ora il Vintimiglia (per soprannome coniato dalla città d’origine: ma spesso anche nominato con caduta della -g- il Ventimilia/ Vintimilia), a parte naturalmente le pagine autobiografiche che corrono per molte pagine iniziali della Biblioteca Aprosiana edita, vedasi: B.DURANTE, Vita e avventure letterarie di Angelico Aprosio in AA.VV., Il Gran Secolo di A. Aprosio, Sanremo, 1981, pp. 9-28 (con appendice sulla produzione letteraria). Per quanto concerne la sua vera e propria formazione culturale e quindi le sue attività di polemista barocco ortodosso e di moralista vedasi: B.DURANTE, Aprosio Critico e Morale, in “II Quaderno dell’Aprosiana”, Vecchia Serie, Ventimiglia-Pinerolo, 1985. Per un inquadramento bibliografico assolutamente esauriente fino al 1981, con una suddivisione delle opere per secoli e per tematiche, vedasi sempre di B.DURANTE, Bibliografia Aprosiana, in AA.VV., Una Biblioteca Pubblica del seicento: l’Aprosiana di Ventimiglia, Ventimiglia-Pinerolo, 1984, pp.93-101. Sul suo ruolo di agitatore culturale, specie nel Ponente di Liguria, e sulla sua opera di bibliotecario della “Libraria” intemelia vedi B.DURANTE, Vita e opere di Domenico Antonio Gandolfo l”Epigono” (per un riconoscimento del secondo bibliotecario dell’Aprosiana) in “Il Quaderno dell’Aprosiana-Miscellanea di Studi”, Ventimiglia-Pinerolo, 1984, pp.63-90. Per un inquadramento globale è ora utile consultare (oltre le grandi sillogi e in particolare la vasta Letteratura Italiana diretta da A.Asor Rosa edita da Einaudi e in fine di stampa) AA.VV., La letteratura ligure. La Repubblica aristocratica, 1528-1797, 2 voll., Genova, Costa & Nolan, 1994> al fine di destreggiarsi fra i molti nomi di personaggi liguri illustri del ‘600, oltre che per dati sullo stesso erudito, può convenire l’analisi del Dizionario biografico dei liguri dalle origini al 1990, a cura di W.Piastra, I [Abate-Blancardi], II [Bo-Carpaneto], Genova, Consulta Ligure, 1992, 1994 (il terzo volume è in via di pubblicazione).


Grillaia> per comodità distinta qui in:
Grillaia I> opera edita dopo l’espurgazione di “Grilli” o “Capitoli” condannati dalla censura ecclesiastica> è composta di XX “Grilli” di vario argomento moralistico, di matrice quasi sempre controriformista e ogni volta dedicati a personaggi diversi cui Aprosio si rivolge sotto forma di monologo epistolare. L’opera è stata ritenuta a lungo un manifesto della misoginia e dell’antifemminismo che effettivamente vi hanno notevole spazio. Nel polittico dedicato al tema dell’adulterio (Grilli XIX, XX, XXI, XXII) Aprosio, pur non negando colpe e responsabilità gravi agli uomini libidinosi, s’uniforma alla morale egemonica sul lusso e sulla vanità donnesche che interagiscono con quella loro naturale cedevolezza alle lusinghe ed ai piaceri sessuali che rimanda sin ad Eva, la causa d’ogni sventura per il genere umano. La postazione antidonnesca è però più contenuta che nello Scudo di Rinaldo I e in altri “Grilli” si trattano temi di diverso interesse: dal moderatissimo biasimo per la consuetudine d’evirare fanciulli per le cantorie ecclesiastiche onde evitar l’uso di donne tentatrici (Grillo XXIV: “Della barbarie di castrar gli uomini”), ad una certa riprovazione per gli eccessi nelle vanità mondane degli uomini (Grillo IV: “Dei Titoli e della loro esorbitanza”), alla lotta contro gli autori di plagi letterari ed artistici (Grillo VII: “Dei plagiari ossia degli usurpatori degli altrui componimenti”), ad intrusioni nel mondo della scienza, specie entro il dibattito dei “Massimi Sistemi cosmologici” naturalmente (seppur senza le esasperazioni di tanti altri) nel rispetto dell’ottica cattolica, geocentrica ed aristotelico-tolemaica (Grillo XLV: “Se la terra sia mobile o stabile”), a stizzose ma anche coraggiose accuse mosse all’avidità ed alla vuota arte oratoria di tanti predicatori sacri del tempo (Grillo L: “Dei predicatori. Onde procede che essendo questi in maggior numero che non sono i pulpiti il mondo vada di male in peggio”
Grillaia II>Ms.E.VIII.15: redazione originale ed autografa, con varianti rispetto a quella edita e censurata. Quattro Grilli o Capitoli, già inediti e tra le cause prime della censura ecclesiastica, sono stati poi editi da Antonia Ida Fontana in “Quaderni dell’Aprosiana”, Vecchia Serie, n.1, Miscellanea di Studi sotto titolo de Il P.Aprosio e la morale del ‘600 - note in margine a 4 grilli inediti: i titoli dei “Grilli” (poi surrogati, sostituiti o modificati) possono già di per sè offrire una motivazione per la censura dell’Ufficio inquisitoriale:
-GRILLO XVIII (Se sia più libidinoso il Maschile o 'l sesso Donnesco?)
-GRILLO XIX (Se dalle vergini, o dalle vedove gli abbracciamenti virili...)
-GRILLO XXVII (Se alcuno iscritto nel rolo degli Agami inciampasse (il che Dio non voglia) in qualche errore intorno al sesto precetto del Decalogo, qual rimedio per ovviare a gli scandali, e per salvare la riputatione)
-GRILLO XXX (Del nome BECCO, e CORNUTO, che si suole attribuire a coloro, che hanno le mogli adultere, e del rimedio per non esserlo).


LANTERI, GIOVANNI GIROLAMO ventimigliese, contemporaneo d’Aprosio, religioso regolare (nella Sezione ventimigliese dell'Archivio di Stato si conserva tuttora il suo testamento: "Ventimiglia, 8 agosto 1670 - Testamento di Giovanni Gerolamo Lanteri - Archivio notarile, filza 751").
Di lui scrisse il Soprani (Li scrittori della Liguria..., Genova, per Pietro Calenzani, 1667, p,163) e in tale sua opera qui digitalizzata e di cui si propone un indice moderno in ordine alfabetico ne diede una breve ma positiva descrizione (vedi qui a fine pagina 163) menzionando due sue volumi manoscritti custoditi presso la Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia vale a dire Relationi della Città di Ventimiglia e Sonetti nell'Idioma della Patria.
Il Lanteri fu citato anche da Michele Giustiniani (Gli Scrittori liguri, Roma, per il Tinassi, 1667, p.384) e da Agostino Oldoini (Ateneum ligusticum, Perusiae, ex typographia episcopali, 1680, p.351): il Giustiniani affermò che nel 1667 Lanteri aveva circa 72 anni (di 12 quindi più anziano d’Aprosio), che molto aveva viaggiato e corrisposto con numerosi eruditi italiani, che soprattutto era gran conoscitore dello spagnolo, del portoghese e del francese. Sempre il Giustiniani tuttavia aggiunse di seguito sul Lanteri: “...Egli insomma è un uomo raro, ma freddo non meno delle nevi del Caucaso e più che irresoluto nelle proprie operazioni. E se col mezzo della sua penna averebbe potuto rischiarare le tenebre oscurissime delle antichità della patria segno non è stato poco il poterne cavare un Discorso dell’Antichità di Ventimiglia (Discorso o Relazione delle patrie antichità secondo l’Oldoini). L’operetta godette d’eccellente divulgazione sotto forma di copie manoscritte e anche d’una certa rinomanza pur se in seguito Aprosio ne corresse la ricostruzione topografica della Ventimiglia Romana a p.74 della sua Biblioteca Aprosiana edita. Del lavoro del Lanteri (che fu referente ed informatore per il Ponente ligure dell’Ughelli a pro della stesura della sua monumentale Italia Sacra) B.Durante ha individuato una copia nella “Biblioteca Girolamo Rossi VI, Miscellanea storica ligure, 84, a” ove si legge sul fronte di un confusionario ma non inutile resoconto storico su Ventimiglia dalle origini a gran parte del ‘600: ...sono le memorie copiate da Geronimo Lanteri nel XVII secolo... = mano del Rossi; testo secentesco senza utili testimoni ed indicatori [
( per quanto si legge ne il Beneficato Beneficante... di Domenico Antonio Gandolfo l'opera sulla "Storia di Ventimiglia" del Lanteri, ai suoi tempi, era conservata tra i manoscritti della Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia = vedi riga 6 della pagina digitalizzata) consulta ancora questa ulteriore precisazione atteso che all'epoca, chi non stampava, fruiva ancora come il Lanteri dell'uso di amanuensi per far copie varie dei propri lavori da esporre nei siti culturali o donare a persone di prestigio intellettuale ] .
Del LANTERI "STORICO UFFICIALE DI VENTIMIGLIA" ED "AUTORE DI UN VOLUME DI POESIE IN DIALETTO VENTIMIGLIESE, dei suoi rapporti inizialmente abbastanza difficili con l’Aprosio, del suo carisma culturale nella Ventimiglia del ‘600 B.Durante parlò dettagliatamente in una conferenza a Ventimiglia (aula magna, Scuola Media Biancheri) 19/II/1984 nel quadro delle iniziative culturali promosse dalla “Cumpagnia d’i Ventimigliusi” (associazione culturale locale in relazione con la “Consulta Ligure”)> della conferenza fu pubblicata ampia sintesi, sotto titolo di Fermenti letterari nella Ventimiglia barocca di fine diciassettesimo secolo, nel periodico della “Cumpagnia”, “La Voce Intemelia”, 1984, 23/II/1984.
Aprosio, con ragione, riteneva d'aver individuato il sito di Ventimiglia romana ma, stranamente, non si era mai sbilanciato in una polemica che contrastasse l'opinione corrente ai suoi tempi che l'antico centro romano sorgesse sotto l'area della città medievale: cosa che sembrava suffragata da alcuni ritrovamenti.
Questa zona aveva sì avuto degli insediamenti ma come un tratto del suburbio occidentale che, in un succedersi di ville e complessi prediali sempre più fitti procedeva in direzione del sito della Turbia: il complesso demico principale stava proprio dove lo aveva supposto Aprosio confortato per sua stessa ammissione da ritrovamenti significativi.
L'agostiniano aveva assunto un certo atteggiamento di indifferenza verso queste indagini archeologiche e topografiche:
il suo, verisimilmente, era attegiamento più apatistico e decettivo che sostanziale, quasi certamente dipendeva dal fatto che, dopo aver affrontato tante polemiche per l'erezione della sua biblioteca osteggiata pure da alcuni confratelli, giammai voleva inimicarsi un personaggio come Giovanni Girolamo Lanteri che, oltre ad aver la fama di storico ufficiale di Ventimiglia, era in istretti rapporti con il gesuita di Sospeil Teofilo Rainaldi il quale non di Aprosio ( che pure lo citò più volte nella sua Biblioteca Aprosiana... ) si avvaleva come informatore storiografico sul ponente ligustico ma del Lanteri (ritenuto forse più credibile perché da sempre residente in Ventimiglia ed in teoria più esperto) per il monumentale lavoro dell'Italia Sacra dell' Ughelli di cui il Rainaudi era referente ufficiale per una vasta area dell'occidente italiano.
I veri sentimenti di Aprosio, però, quelli come al solito mascherati, e che denunciano un sostanziale giudizio negativo sia sull' interpretazione topografica del Lanteri che sull' arrendevolezza critica del Rainaudi li scopriamo in maniera diversa, cioè integrando le conoscenze acquisite al punto di decrittare una pagina in cui l'Ughelli, troppo importante per non esser salvagauardato qual "buono Scrittore" (anche se a volte in "buono" mal si cela la demotivazione in "credulo"), finisce per esser ingannato da un non corretto informatore (cioè il Rainaudi) a sua volta però vittima relativamente colpevole di un documentarista locale (il Lanteri, nemmeno citato per via d'allusione, ma individuabile dagli addetti ai lavori) in merito ad un grossolano errore storico archeologico: ed in questo ancora una volta è basilare la lettura attenta e critica de la Biblioteca Aprosiana e precisamente alle pagine 60 - 61 anche se in vero la questione proposta da Aprosio sulla topografia di Ventimiglia Romana e sui primi rperti di lapidi e miliari della Iulia Augusta li possiamo meglio leggere qui.
Erano bizze da intellettuali (come tuttora accade) .... Aprosio mirava costantemente a qualificare le proprie intenzioni quasi a scapito di chiunque non fosse del suo parere ma un vero scontro giammai dovette esservi anche tenendo conto che ascrisse (cosa ad altri negata) il Lanteri qual "Fautore" della "Libraria Ventimigliese" come qui si vede nell'elenco e che questo capitolo della Grillaia fu dedicato al Lanteri: e se Aprosio magari non eccedeva in simpatia per il sacerdote è certo che ciò non aveva travalicato il segno o che comunque da Aprosio non voleva inimicarsi un uomo forte del clero intemelio che avrebbe sempre potuto trasformarsi in un nemico da evitare per lui e la sua biblioteca: sempre che -tra tante ripicche di intellettuali e eruditi, cui il '600 ci ha abituato- non sopravvivesse una ben mascherata ammirazione per il fatto che il Lanteri aveva inaugurata su un piano davvero importante una sequela di rapporti costruttivi di ambito culturale con l'ambiente sabaudo, nizzardo e piemontese in genere cosa che non poteva non giungere gradita ad Aprosio sulla cui direttrice innestò prepotentemente e con successo i suoi sforzi sì da fare dell'ambiente nizzardo, piemontese e sabaudo un referente basilare per la sua "Libraria" per ottener "Fautori" e soprattutto - come qui ben si legge - per esser gratificato con il dono di libri nuovi e pubblicazioni rare
LEGATI, LORENZO> originario di Cremona fu lettore di greco nello Studio di Bologna, città in cui risiedette prima di trasferirsi a Novellara. Fu curatore della Biblioteca Aprosiana edita come si evince dalla corrispondenza aprosiana (lettere del Legati in Biblioteca Universitaria di Genova, “Fondo Aprosio”, Ms.E.VI.9>edite in B.DURANTE, “Il Quaderno dell’Aprosiana - Nuova Serie”, pp.103-111. Sul Legati vedi: F.ARISI, Cremona Literata..., Cremona, Ricchini, 1741, tomo III, pp.213-215> assurse ad una certa fama per una sua opera in latino (Agriomeleis, aut in silvestre pomorum genus methamorphoses, Bologna, Monti, 1667) sin al punto che l’Accademico Gelato Pietro Andrea Trichieri o Trincheri, originario di Nizza ma residente a Monaco e frequentatore dell’Aprosiana, gli dedicò un carme latino encomiastico che Aprosio registrò a p.2 della parte inedita della sua Biblioteca Aprosiana, parimenti affidata, seppur con molta minor fortuna, alle cure editoriali, per una pronta stampa, sempre dell’erudito di Cremona. Dall’analisi delle lettere del Magliabechi e di Agostino Coltellini all’Aprosio si apprende che il Legati tra il 1670 ed il 1672 fu ospite dell’Aprosio e frequentatore della “Libraria” intemelia per più volte e per periodi oscillanti da un minimo di due giorni (trovandosi “di passo per il Delfinato”) ad un massimo di 14 o 15 recandovisi “per l’Aprosiana e intratenersi con gli amici di Ventimiglia (DURANTE, cit. p.22>Idem, Ventimiglia nel ‘600, in “Riviera dei Fiori”, XLV, 1991, n.6, p.27)> in tali circostanze portò a mano propria in dono all’Aprosio due suoi rari volumi (quasi tutta la sua smisurata produzione è tuttora reperibile alla biblioteca di Ventimiglia) conservati ora nella Miscellanea segnata M.6.39.30 dell’Aprosiana.


Lezioni Sacre sopra Giona> impegni di prediche quaresimali tenute da Aprosio nella Diocesi di Genova a metà secolo circa: costituirebbero uno dei rari attestati della sua qualità oratoria> un punto di contatto può sussistere col brogliaccio d’appunti per oratoria Opistographa .


MAGLIABECHI, ANTONIO
Antonio Magliabechi (Firenze 1633-ivi 1714) inizialmente dedicatosi all’attività di orefice dopo la morte del padre nel 1640, riprese gli studi interrotti sotto il magistero di Michele Ermini, bibliotecario di Leopoldo de’ Medici.
Acquisì presto grande competenza nel greco, nel latino e nell’ebraico, anche in virtù della sua straordinaria memoria: in forza d’una fama crescente fu alla fine chiamato da Cosimo III a reggere quale bibliotecario la Palatina.
La poliedricità delle sue investigazioni, sostenute da una potente cultura erudita, gli suscitarono contro i sospetti dell’Inquisizione che lo chiamò a scagionarsi di sospetti d’interessi ereticali o comunque di ingiustificata predisposizione a raccogliere e leggere libri proibiti.
Verso la fine della vita si ritirò fra i Domenicani di S.Maria Novella, dove morì e fu sepolto.
La sua grande biblioteca, resa pubblica nel 1747, rappresentò il nucleo primigenio dell’odierna Biblioteca Nazionale di Firenze.
Sì acuto e grande bibliotecario non godette invece pari fama come scrittore: anzi è difficile individuare con certezza libri od opuscoli da attribuirgli.
La critica propende a riconoscergli, in collaborazione con A.F.Marmi, le Notizie letterarie ed istoriche intorno agli uomini illustri dell’Accademia fiorentina (Firenze, per il Matini, 1700).
Aprosio, come s'evince dalla manoscritta raccolta dei suoi corrispondenti, fu in assiduo rapporto epistolare con il Magliabechi e del bibliotecario fiorentino parlò più volte anche nel repertorio bibliografico La Biblioteca Aprosiana... del 1673.


MARINO, GIOVANBATTISTA (Napoli 1659-ivi 1625). A lungo ritenuto massimo lirico del ‘600, fu poeta girovago, dai molti soggiorni presso corti spesso prestigiose. Resta celebre il caso dei difficili soggiorni presso quella sabauda dove era amato per il genio poetico e temuto per la lingua mordace; giunse qui ad autentici scontri col Murtola, segretario del duca di Savoia Carlo Emanuele I ma anche poeta colla sua Creazione del mondo: le simpatie del duca, alcuni giudizi invero pesanti sul poema del Murtola, la stesura d’una presa in giro letteraria di quest’ultimo (le “fischiate” della Murtoleide) scatenarono gelosie ed odio del segretario-poeta che, non soddisfatto delle “risate” della sua Marineide, tentò d’uccidere il rivale in un agguato.
Dopo un soggiorno a Ravenna, Marino rientrò al servizio del duca di Savoia ma, questa volta, i guai gli derivarono dallo stesso Signore forse per la sua condotta troppo disinvolta a corte sì che finì in carcere donde potè uscire grazie all’intercessione di potenti amici tra cui il cardinale F.Gonzaga: non lasciò però il ducato, continuando il suo “lavoro” di poeta cortigiano ma se ne staccò, per libera scelta e col consenso ducale, nel 1615 per andare alla corte di Parigi ove era stato chiamato dalla regina madre (di Luigi XIII) sua ammiratrice e mecenate che gli concesse un proficuo periodo di produttività artistica].
Godette sempre di grandissima fama e di numerosissimi “Fautori” risultando un vero e proprio caso letterario (tanto da suscitare annose e violente polemiche cui non mancò di partecipare Aprosio per quanto dispiaciuto dall’esser nato troppo tardi onde conoscere di persona il Marino) per la rivoluzione estetica (la poesia che -per contenuti ed iridescenze espressive garantite da un uso sapiente del gioco metaforico- suscita la meraviglia e fa inarcar le ciglia dello stupefatto lettore) ed anche contenutistica (l’uomo -Adone- passivo di fronte ad una femmina dominante -Venere- che è dea sì ma soprattutto donna nuova, “dea-regina” per sensualità e lascivia) del suo smisurato e controverso poema Adone. Comunque tutta la sua produzione (come la sua influenza sulla cultura contemporanea) fu enorme: non si dimentichino -tra tante opere- La Lira (Venezia, per il Ciotti, 1614), le Dicerie Sacre (Torino, per il Pizzamiglio, 1614), La Sampogna (Parigi, per il Pacardo, 1620) La Galeria (Ciotti, Venezia, 1619 ediz. scorrettissima di cui l’autore pretese e ottenne una ristampa nel 1620), il poema religioso La strage degli innocenti che, per quanto concepito sin dai primi anni del ‘600, fu editato solo dopo la morte del Marino con partizioni diverse a seconda delle scelte di tipografi e stampatori (in 2 libri a Napoli, per il Beltrano, 1632; in 6 canti a Roma, per il Mascardi, 1633; in 4 libri a Venezia per lo Scaglia, l’edizione forse migliore e comunque accolta dagli editori moderni)


BERTELLI MARTINI, CAMILLA> Aprosio, in varie occasioni fu tacciato di antifemminismo e misoginia, ma in effetti la sua postazione antidonnesca, specie negli ultimi anni, risultò piuttosto mitigata. Negli ultimi anni della sua vita trovò anzi conforto proprio in una donna letterata, la poetessa Camilla Bertelli Martini che, nata a Roma, aveva poi sposato un Martini appartenente ad una fra le più nobili famiglie di Nizza, città in cui prese a risiedere, recandosi poi frequentemente a visitare la biblioteca Aprosiana sia per consultarne i rari volumi sia per contattare direttamente Angelico da lei ammirato come nome illustre della cultura italiana del tempo. Peraltro la casata Martini di Nizza aveva parecchi interessi economici in Ventimiglia: la Bertelli Martini, dapprima da sola e poi insieme al dotto figlio Giovanni Francesco Martini, ebbe occasione di conoscere la “Libraria intemelia” ed il suo prestigioso custode in occasione dei soggiorni estive che faceva nella sua “villeggiatura di Latte”, dove cioè la sua nobile famiglia possedeva una residenza agreste idonea per le vacanze e per sfruttare la quiete e l’ottimo clima del luogo. Proprio nella prebenda o proprietà episcopale di Latte la colta signora ebbe occasione di contattare l’Aprosio, ivi convocato (forse su sua richiesta) dal vescovo di Ventimiglia Mauro Promontorio (1654-1685). Non è però da escludere che lo stesso Aprosio abbia caldeggiato l’incontro indotto dalla fama di letterata della donna citata in modo lodevole da Prospero Mandosio nella sua Biblioteca Romana (p.139) in cui viene definita autrice di una raccolta di poesie dal titolo Italicorum Carminum Volumen, posseduto e letto da Angelico.
Aprosio, col tempo, acquisì tanta stima per la Camilla Bertelli che in una lettera ufficialmente senza data (ma in realtà del 29 marzo 1672), rispondendo ad una missiva del 29-III-1672, scrisse ad Antonio Magliabechi : "...A proposito della Maschera Scoperta, supplico V.S. di farmi gratia di levare la Schurmans e di mettere in suo luogo Camilla Bretelli (sic! per Bertelli) nè Martini di Nizza” (in Biblioteca Nazionale di Firenze. Ms. VIII 141): era certamente un elogio notevole per la letterata romana, residente a Nizza, essere sostituita nel catalogo aprosiano delle donne letterate ad Anna Maria Schurmans da Utrecht (1606-1678), dottissima in arabo, ebraico, greco, latino, francese ed italiano “...li cui caratteri veduti da me nella Filoteca di Gio. Friderico Gronovio (già professore nell’Accademia di Daventria, ed al presente di Leyda) fanno vergogna alle stampe de’ Plantini, de Blaew, degli Haelij, e degli Elzeviri...”(MS VI 29, in Biblioteca Nazionale di Firenze in Maschera Scoperta > la soppressione del nominativo dal manoscritto fiorentino, gestito per la stampa dal Cinelli Calvoli ma in consegna presso Antonio Magliabechi , oltre che ad un’effettiva ammirazione da parte dell’Aprosio per la Bertelli Martini poteva però esser stato pesantemente suggerito dallo stesso Magliabechi irritato ufficialmente dal fatto che la Schurmans, definita la “Saffo di Colonia” , si era nel frattempo fatta seguace di Jean Labadie che aveva fondata una setta ereticale di “quietisti”,, detti anche “labadisti” (Magliabechi -Biblioteca Naz. di Firenze, lettera del 23 marzo 1672- aveva scritto ad Angelico “....Nelle altre cose mi rimetto alla prudenza di Vostra Paternità Reverendissima, poiché poco importa che la Schurmans fosse tale quando ella scrisse poiché...si ha da presupporre [cioè adattare le proprie poesie all’evoluzione delle sue idee religiose] che corregga l’opere nel tempo che le stampa, secondo lo stato...”. Aprosio nonostante una sincera ammirazione per la Schurmans -non sarebbe stato impossibile mantenere il suo nome nel catalogo anziché cancellarlo ed accostarvi quello della Bertelli Martini?- nella lettera sopra citata -di poco posteriore a questa ambigua richiesta del Magliabechi- dà in effetti l’impressione (nulla aveva lasciato trapelare, dalle sue lettere, una qualsiasi sua damnatio memoriae della Schurmans) d’essersi piuttosto piegato per convenienza (da Antonio Magliabechi lui e Cinelli Calvoli, in defintiva, si attendevano l’aiuto essenziale per la stampa della Maschera Scoperta) alla preghiera del grande bibliotecario mediceo la cui richiesta, data anche l’importanza del personaggio, aveva in fondo i toni di un ordine: valutando tali opportunità e siffatto “consiglio” forse Aprosio -ed è difficile dire quanto volentieri- accettò di inserire al posto di quello della letterata straniera il nome della Bertelli Martini> nell’edizione genovese del 1644 della Maschera Scoperta non compare comunque menzione di “Camilla Bertelli né Martini” che invece risulta citata ben due volte nell’edizione fiorentina del 1671 della Maschera Scoperta e sempre in termini elogiativi che lasciano intendere una conoscenza profonda ed una buona stima da parte dell’erudito bibliotecario di Ventimiglia).
Non è peraltro da sottacere come la Camilla Bertelli Martini (in due sue lettere ad Angelico conservate in Biblioteca Universitaria di Genova, “Fondo Aprosio”, Ms. E.V.27, una del 1676 ed una senza data ma posteriore alla precedente dagli indicatori del contesto) avesse espresso il desiderio d’esser menzionata nelle sue raccolte bibliografiche da Angelico. Quest’ultimo, del resto, in una lettera al Magliabechi (Bibl.Naz. di Firenze, Ms. VII 141), datata “Ventimiglia 27-VI-1678”) dimostrò notevole apprezzamento “per un di Lei galantissimo capitolo in terza rima” e sottolineò come Giacomo Maria di Sanremo, autore molto stimato dalla “Signora”, fosse stato dalla medesima pregato di recarsi all’Aprosiana, in particolare per la fama raggiunta in quanto autore dell’Oceano imboschito, libro in cui si narrava del naufragio del portoghese Emanuele Sosa e che era stato pubblicato a Milano nel 1672 presso la Stamperia Archiepiscopoale. L’antifemminismo aprosiano, a rigor dell’esattezza scientifica, fu più umorale che istituzionale e certamente assai collegato all’umiliazione in qualche modo patita dalla Tarabotti: in effetti gli interessi per le “donne colte” non gli mancarono, pur sempre a patto -ben s’intende- che operassero nel campo ristretto della cultura donnesca e religiosa, delle istruzioni della buona madre e della spiritualità in auge (limiti certo ma che, in qualche modo -ad onta di limiti strutturali connaturati e connessi alla temperie socio culturale di appartenenza- dimensionano in termini più moderati -a fronte d’altre, ben più intransigenti postazioni- la misoginia e l’antifemminismo di Angelico). Aprosio, peraltro non mancando di far cenno a quelle “pie donne” che fecero lasciti -secondo l’uso del tempo- per i bene della collettività ed il potenziamento delle pubbliche scuole, si impegnò sempre molto nell’identificare le “donne letterate” antiche della sua Ventimiglia o diversamente legate in qualche maniera al casato dei Conti di Ventimiglia: grazie ad una lettera del Legati ricca di riferimenti bibliografici riuscì ad individuare in particolare questi versi di una certa “Signora Silvia Ventimiglia” a cui proposito il Legati (lettera ad Angelico del 1676 in Ms.E.VI.9 della Biblioteca Universitaria di Genova) annotò: "...della Signora Silvia Ventimiglia di cui sono questi versi stampati in Roma della gloriosa Vergine del Rosario...Tu sola sei la via del ben commune/ Per i nostri affanni sei giusto consiglio/ Tanto si levi il sol, quante si pone/ S’io dormo te contemplo...s’io veglio/ Con questo contemplar l’intenzione/ Teco mi salverà dal gran periglio..., Per lo qual stile mi pare assai antica. la seconda parte delle di Lei Rime sciolte vien citata nell’Indice del Rosario di 500 Poeti...”.


La Maschera Scoperta> MS. E.II.39, redazione del 1644, appartiene alla celebre disputa su femminismo ed antifemminismo con ARCANGELA TARABOTTI (una copia microfilmata in "Cultura-Barocca" di Seborga grazie all'opera di “Michelangelo Durante” che in sinergia con il Prof. Mario Damonte si occupò delle ricchieste di microfilmatura presso la Biblioteca Universitaria di Genova dell'intiero manoscritto ).
Una redazione modificata rispetto all'originale, del 1671, si trova alla Biblioteca Nazionale di Firenze in Codice VI 29, già affidata da Aprosio (per una stampa mai avvenuta) all’erudito Giovanni Cinelli Calvoli (in stretto rapporto col potentissimo bibliotecario fiorentino Antonio Magliabechi : figura intransigente ed autoraria la cui risolutezza induce a credere che entro la corrispondenza intercorsa con Aprosio certe scelte culturali di cui con affettazione parla l'agostiniano intemelio sembrano piuttosto non una scelta autonoma ma una quasi servile seppur manierosa adesione a pregresse quanto decise richieste del bibliotecario mediceo per mutazioni da apporre rispetto al manoscritto del 1644. esemplare, ma non unica, la richiesta di togliere dalla nuova Maschera gli elogi aprosiani del I manoscritto alla grande poetessa Schurmans per le ragioni qui esposte, surrogandola con altra letterata = Emilia (Emily) Biga, che ha individuato questa II redazione, l’ha quindi trascritta ed editata criticamente nel IV (1989) dei “Quaderni dell’Aprosiana”, Vecchia Serie, sotto titolo di: Una polemica antifemminista del ‘600.
L’esemplare genovese era stato dedicato all’erudito bolognese Andrea Barbazza (1582-1656) mentre quello fiorentino, cui Aprosio apportò migliorie e qualche modifica, venne dedicato a Gio.Nicolò Cavana, patrizio genovese, gran amico e mecenate d’Aprosio che gli dedicò molte pagine apologetiche in fine della sua Biblioteca Aprosiana.
Per intendere le ragioni della mancata stampa della parte rivisitata dall'Aprosio nel 1671 della MASCHERA SCOPERTA (in una sorta di curiosa sinergia con la tentata e parimenti fallita stampa della II parte del repertorio La Biblioteca Aprosiana) bisogna percorrere un cammino nella storia dell'editoria seicentesca, valendosi dell'opera di Emilia Biga, Una polemica antifemminista del 600, La Maschera Scoperta di Angelico Aprosio, in "Quaderni dell'Aprosiana", V.S., IV, 1989 integrata da altri dati contenuti in Ventimiglia nel '600: "Madre dei Saggi"..., di Bartolomeo Durante in "Riviera dei Fiori", 1992, 1 [ultimo di tre articoli (i primi due dell'anno 1991, nn. 5 e 6)] che qui viene parzialmente PROPOSTO DIGITALIZZATO (talora debitore nei riguardidelle brillanti intuizioni critiche di E. Biga) ove però le voci sottolineate non sono attive ma solo utili ad indicare personaggi e/o fatti vari di rilievo come già indicato a fondo della pagina iniziale
Si potrà notare che l' avversione maturata da Aprosio verso la Tarabotti non era venuta meno (basta scorrere il repertorio bibliografico edito ed integrato da emergenze multimediali partendo da pagina 168: l'astio dell'erudito intemelio si era certo nascosto nelle piege del suo animo, ma era pronto a riemergere se l'occasione glielo permetteva.
Ma l'occasione era anche coniugata con un'altra e ben più ambita proposizione di stampa quella della PARTE II DELLA BIBLIOTECA APROSIANA.
I progetti decaddero parimenti, il primo forse perchè superato e la pubblicazione della parte inedita dell'Aprosiana, verisimilmente, perché onerosa ormai per chiunque, date anche certe contingenze storiche: fatto sta che queste due delusioni, maturate ed alimentatesi contestualmente fra il 1671 e la fine del decennio, dovettero inasprire gli ultimi anni dell'esperienza terrena e culturale d'Aprosio: anche se andava consolandosi per la Maschera affermando (cosa vera) d'averne riprodotte "parti" (ma certo non quasi "tutta"!) nello Scudo di Rinaldo edito (ma anche questo in fondo era un autoilludersi: si trattava delle parti meno pungenti, quelle che in fondo non "stuzzicavano" affatto l'"arguzia"!).


MISOGINIA> “chi odia le donne”, alla luce dell’indagine psicologica e psichiatrica con cenni a una possibilità di avversione patologica, con toni di diprezzo, ripugnanza, avversione fisica: nel contesto del presente “Quaderno” il termine è però usato in senso non medico ma comportamentale e sociale come positura, a scapito delle donne, del gruppo egemone maschile e maschilista derivato dalla storica organizzazione della famiglia piramidale e patriarcale: così l’erudito del ‘600 Angelico Aprosio (nello Scudo di Rinaldo, nella Maschera Scoperta e nella Grillaia) nei presenti studi è definito “misogino” (nel senso di seguace di misoginia quale antifemminismo ) senza coimplicazioni mediche o psichiatriche ma semplicemente quale esponente di punta di una cultura e d’un sistema sociale strutturati per la conservazioni dei previlegi maschili>. Forse la misoginia aprosiana è stata anche amplificata, un pò dalla sua scrittura, molto dalla congerie culturale di appartenenza, senza dubbio dallo scontro polemico con Arcangela Tarabotti : negli ultimi decenni della sua vita il frate intemelio andò mitigando la propria misogina, più formale che in definitiva sostanziale, in particolare visti i suoi ottimi rapporti con la colta letterata d’origine romana Camilla Bertelli Martini di Nizza.


ANTONIO MUSCETTOLA> (Napoli 1628-ivi 1679). Membro della potente famiglia dei duchi di Spezzano fu amantissimo delle lettere ispirandosi sia al modello erotico-encomiastico sia alla produzione chiabreresca: la sua passione per le lettere influenzò profondamente il figlio FRANCESCO MUSCETTOLA che divenne stimato "pastore Arcade". Editò un volume di Prose (Piacenza, per il Bazachi, 1665), diverse tragedie tra cui La Belisa [cui più o meno direttamente collaborarono i liguri Aprosio (di cui fu corrispondente e “Fautore”), Piola e Striglioni), La Rosmunda, La Rosalinda, La Rosaura .
Merita soprattutto di esser ricordato per le Poesie edite in tre parti (Napoli, Eredi del Cavallo, 1659: Venezia, Baba, 1661; Venezia, Conzatti, 1669> una quarta parte vide la luce postuma a Napoli a cura del figlio Francesco presso lo stampatore Raillard nel 1691.


Note varie per le Athenae Italicae> brogliaccio (Ms.VIII.15) non predisposto per la stampa ma preparato in funzione di un’opera molto ambiziosa sulle glorie letterarie italiane, corredata da annotazioni storico-antiquarie, appunto le Athenae Italicae: per studiosi di storia locale (ed anche per qualche informazione bibliografica di più ampio respiro) sono interessanti gli appunti su Gubbio, Piacenza, Cremona, Bologna, Lodi, Viterbo> questo interesse per la stesura di una geografia letteraria d’Italia -opera immane ma apprezzabile nell’ideazione- fu ripreso dal discepolo d’Aprosio Domenico Antonio Gandolfo che, per esempio, raccolse da Francesco Baldelli molte notizie letterarie e storiche sulla città di Cortona e cercò da Carlo Maria Sartorio dati sull’antichità di Fermo, città e borghi d’appartenenza dei due menzionati eruditi: come si legge nel Ms.40 dell’Aprosiana> v. B.DURANTE, Domenico Antonio Gandolfo..., in Miscellanea di Studi in “Quaderni dell’Aprosiana - Vecchia Serie”, Numeri 1, p.74 e 90, nota 37.


L’Occhiale Stritolato> Aprosio , riprende il tema ormai piuttosto comune dello STRUMENTO NECESSARIO PER RIDARE LA VISTA E QUINDI PER FAR RIORDINARE LE IDEE A CHI AVENDO PROBLEMI VISIVI MAL INTENDE LE COSE.
Il frate cerca con tal suo lavoro di demolire criticamente l’opera quasi omonima dello Stigliani (Dell’occhiale...,Venezia, Carampello, 1627) scritta appunto contro l’Adone del Marino: in questo lavoro, provocatorio ma prolisso e privo di spessore, Angelico sostanzialmente vuole teorizzare il principio per cui come poeta (nei versi del suo Mondo Nuovo) lo Stigliani sarebbe incapace di dare competenza alle sue ideazioni di critico (quelle dell’Occhiale soprattutto ma anche d’altri contributi avverso il Marino)> sistema fin troppo elementare per negare allo Stigliani tanto la qualità letteraria di sostanziare nei suoi lavori poetici il proprio “credo” estetico sia la valenza di critico onesto nei confronti d’altrui opere. Interessante, in pratica, risulta solo l’Introduzione in cui compare una disanima su varie polemiche letterarie e soprattutto l’asserzione ben motivata che proprio dalle discussioni e dal dibattito culturale si generi spesso occasione di buona poesia: “Le opposizioni sono quelle che danno vita ai componimenti”(p.162).


Opistographa> Fogli legati e scritti su recto e verso (mm.220 X 155) numerati sino al 16, prima facciata segnata con lettera “A”. A destra del titolo leggesi “Genova 1649”. Testo ordinato graficamente, a lettere minutissime, con glosse ai margini: 31 righe per foglio con una costante di 8 lessemi per riga. Stato di discreta conservazione: già in Ms.40 ora provvisoriamente Ms.40 EX. Trattasi di un elenco di citazioni erudite, perlopù di argomento religioso, che sembrerebbe da collegarsi alle Lezioni Sacre sopra Giona . Non sottoscritta dall’Aprosio presenta però indicatori calligrafici che, per comparazione con altri autografi aprosiani, la fanno giudicare di mano del frate.


Le Ore Pomeridiane> già scritta prima del 1664 come s’evince dal frontespizio del Della Patria di Aulo Persio Flacco che risulta “opera cavata dal Libro I delle Hore Pomeridiane” che si sarebbero dovute pubblicare -caso raro- sotto il nome di Ludovico Aprosio.


Gli Ozi estivi> in effetti la p.136 del manoscritto, conservata alla Biblioteca di Ventimiglia ed ora perduta, a firma di “Ludovico Aprosio Ventimiglia” compare trascritta alle pp.551-553 della Biblioteca Aprosiana edita.


Della patria di Aulo Persio Flacco> è operetta fragile, di erudizione filologica mirante ad ipotizzare, su sottili linee pseudostoriche e linguistiche, una lontana origine ligure di Persio il poeta latino nativo di Volterra (34 d.C.) morto a Roma nel 62 d.C. ed autore di Satire destinate a grande fortuna, specie in epoca barocca o comunque in ogni periodo di sperimentalismi linguistici, visto il suo continuo sforzo d’originalità ottenuto per via d’accostamenti sorprendenti fra parole diverse, col gioco di frasi ed antifrasi, colla restituzione del significato letterale delle metafore, con la compresenza di livelli linguistici eterogenei.


PINACOTECA: la pinacoteca della Biblioteca Aprosiana fu l'espressione dei tanti contatti culturali che Angelico Aprosio ebbe con artisti e letterati di vario ambiente, LIGURE in particolare ma non soltanto come si evince, a titolo d'esempio, dagli stretti rapporti del frate agostiniano col vicentino Cesare Ridolfi ed il bolognese Negri (per un approfondimento critico sulla Pinacoteca aprosiana vedi comunque questo ARTICOLO).
Al riguardo del CONTESTO ARTISTICO FIGURATIVO LIGURE si possono poi menzionare quei

PITTORI ED INCISORI GENOVESI

con cui il frate ebbe corrispondenza letteraria ed anche RAPPORTI DI LAVORO [ricordando altresì le curiosità del frate per i FERMENTI ARTISTICI in atto nel Ponente ligure].
Della RACCOLTA DI RITRATTI [in ciò soprattutto consisteva la PINACOTECA dell’Aprosiana] imponente nel ‘600 e ai primi del ‘700 (varie diecine di esemplari di ritratti dei “Fautori” dell’Aprosiana - in gran parte distrutti dai mercenari austriaci di quartiere al convento agostiniano a metà XVIII sec. durante la “guerra di successione al Trono imperiale austriaco"” fra Anglo-Franco-Spagnoli e Austro-Piemontesi di metà '700)], si conserva ormai ben poco: oltre al grande dipinto centrale nella SALA I del “Fondo storico” detto quadro dell’Aprosio che fu opera del pittore vicentino Carlo Ridolfi esistono oggi alla Biblioteca di Ventimiglia altri 9 ritratti, in parte restaurati, non del tutto identificati:
n.1 “Ritratto di Placido Reina (che fu esponente di spicco dell'Accademismo Meridionale = quadro di autore imprecisabile del XVII sec.);
n.2 “Ritratto di Gio.Nicolò Cavana all’età di 47 anni”;
n.3 “Ritratto del conte Bernardo Morando;
n.4 “Ritratto del patrizio genovese Tommaso Spinola figlio di Giuliano Spinola” (di autore non identificabile);
n.5 “Ritratto di Giovanni Ventimiglia all’età di anni 38" (autore non identificato ma di scuola siciliana del ‘600, prima metà del secolo);
n.6 “Padre Fabiano Fiorato (agostiniano, architetto, ideatore dell’ampliamento della “Libraria intemelia ” opera di anonimo, di bottega locale verisimilmente);
n.7 “ritratto di Anonimo” (opera di autore non identificato);
n.8 “Ritratto di Gian Domenico Cassini (astronomo massimo dopo Galileo, definito anche “Astronomo dei Re” perchè chiamato espressamente all’osservatorio di Parigi da Luigi XIV>autore ignoto);
n. 9 “Ritratto di Padre Paoletti" (Agostino Paoletti di Montalcino, erudito e predicatore agostiniano> per un approfondimento si veda “II Quaderno dell’Aprosiana-Miscellanea di Studi”> B.DURANTE, Il ritratto aprosiano di Carlo Ridolfi conservato nella Biblioteca intemelia...., passim.



RIDOLFI, CARLO (anche scritto RIDOLFO nei repertori del ‘600: Lonigo-Vicenza 1595/ Venezia 1658)
Pittore, letterato ed incisore venne spesso citato dall’
Aprosio nelle sue opere. Per 18 anni allievo a Venezia dell’Aliense fu un continuatore della tradizione veneta di imitazione veronesiana e tintorettiana, dipingendo molti quadri di argomento religioso di cui però rimangono solo le due “Adorazioni dei Magi” (in S.Giacomo di Rialto e in S.Giovanni Elemosinario) e la “Visitazione di Ognissanti” tutti nella città lagunare (ove pure si conservano uan “Sacra Famiglia” e “Venere e Amore”). Aprosio lo conobbe a Venezia verso gli anni ’40 del XVII sec.ed oltre che i risultati pittorici ne apprezzò (come si legge ne La Biblioteca Aprosiana , Bologna, pei Manolessi, 1673, pp.583-589) la qualità di storico d’arte espletata nell’opera Le Meraviglie dell’Arte overo gl’Illustri Pittori Veneti e dello stato, ove sono raccolte le opere insigni, i Costumi, ed i Ritratti loro. Con la narrazione della Historie, delle Favole e delle Moralità da quelli dipinte (edizione in II volumi, stampati rispettivamente nel 1646 e nel 1648: Aprosio ricevette in dono il tomo II, pubblicato in 4° in Venezia ad opera di G.B.Sgava). Sempre dal “Catalogo” aprosiano del 1673 (p. 586) si apprende che Carlo Ridolfi avrebbe fatto il
RITRATTO
d’Aprosio tra gennaio e marzo del 1648 per celebrare la loro amicizia in previsione della partenza d’Angelico da Venezia per la Liguria. Stando però all’iscrizione in alto nel dipinto, sul lato sinistro del frate il quadro sarebbe però stato terminato nel 1647 (non si tratta di una svista: il quadro era stato concepito per commemorare Aprosio ai suoi 40 anni -forse in realtà un dono di compleanno?- come detta un’altra scritta: la conclusione tardiva dell’opera nel 1648 avrebbe stonato con l’evento e con la datazione della scritta). L’allusione iconografica dell’insieme (con il cartiglio “nec non mors”) vorrebbe alludere alla sopravvivenza dell’Aprosio nel dipinto e quindi nella grande opera della sua “Libraria”, capace per la sua importanza di astrarre il suo creatore dall’oblio del tempo. (Del Ridolfi, oltre a questo lavoro, Aprosio deteneva anche due altre tele [una “Crucifissione” ed un “Cristo coronato di spine e la Vergine dolente”, poi conservate nella “Sagrestia” del convento e quindi giudicate perdute]: La Biblioteca Aprosiana, cit. p.587-588> B.DURANTE , Il ritratto aprosiano di Carlo Ridolfi cit. (qui integralmente proposto digitalizzato) dove si parla di quel ritratto aprosiano che qualitativamente supera tutte le altre
raffigurazioni
pervenuteci del frate intemelio.


Scudo di Rinaldo> per comodità qui distinto in:
Lo Scudo di Rinaldo I> (alla “Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze”, con segnatura “Magli.3.8.591, si conserva una ristampa di questa prima parte dell’opera, sempre editata dallo Hertz nel 1654): Come il “terso adamantino scudo” che il paladino Ubaldo pone davanti a Rinaldo rivela all’amante disertore del Tasso, sedotto dalla maga Armida, amante (Gerusalemme Liberata, XX, st.29-30) la sua miserrima e colpevole condizione così lo Scudo aprosiano dovrebbe provare ai contemporanei la loro decadenza morale. E’un’operetta vispa e pungente con forti toni di misoginia ed antifemminismo oltre che dai guzzi lubrichi in cui, molto parzialmente, si colloca qualche passo dell’antidonnesca Maschera Scoperta di Filofilo Misoponero. All’antifemminismo è senza dubbio riservata una bella sequela di capitoli (tutti variamente dedicati a diversi amici e corrispondenti dell’Aprosio): sunteggiando la massa delle osservazioni antidonnesche si può evidenziare che per l’Aprosio giovane (ed ancora non disilluso da certe prepotenze maschili, travestite di giustificazioni politiche, estetiche od ideologiche) la donna è vanitosa (cap.II, IV, VII, XIX, XXIV, XXV), peccaminosa (cap. VI, XXIX), avida (cap.IX, X), crudele verso gli uomini (cap.XXIX, XL, XLI) e per conformazione naturale adultera e traditrice (cap.XLIV): per questo Aprosio -ma poi si ricrederà, almeno in parte!- la volubile donna sostanzialmente è definibile dal titolo del cap. XXXVII (“Che cosa siano le donne. Un mazzo di Carte”).
Lo Scudo di Rinaldo II, qui registrato tra i manoscritti della Biblioteca Universitaria di Genova (Ms.E.II.37), non fu pubblicato, ufficialmente per gli eccessi di argomenti erotici: a rigor del vero si direbbe invece che la censura ecclesiastica abbia condizionato la stampa del lavoro (sempre che, data la vastità, ogni ipotesi di stampa fosse già caduta per ragioni economiche) per il sorprendente emergere di toni anticlericali, specie avverso le monacazioni forzate e l’avarizia di tanti religiosi nei cap. XIV e cap.XV per esempio: questo lavoro, adesso, è in gran parte edito ne Il “Quaderno” N.S.(1993) dell’Aprosiana.


La Sferza poetica: opera complessa, polipotente, distinta in 27 capitoli dedicati ad altrettanti personaggi, dalla FINALIZZAZIONE A STAMPA ALQUANTO LABORIOSA
.
Ha finalità “difensive” dell’Adone e mira, con una certa spregiudicatezza, a codificarlo quale opera rispettosa del regolismo aristotelico e tardocinquecentesco, contro le ipotesi dello Stigliani, abbastanza frainteso da Aprosio (si veda anche sulla questione: F.CROCE, Tre momenti del Barocco Letterario Italiano, Firenze, 1966, p.96, 99, 112, 116, 195): I capitolo I (dedicato al Michièl) è metodologico: nei cap. III (al conte bolognese Andrea Barbazza/-i, p.13-18), IV (al marinista messinese Scipione Errico, p.19-44), XII (a Severino di Giovanni Benizonio, p.95-100) collazionando, rivisitando poemi e, con un’occhiata distratta alla Poetica aristotelica, sfruttando i lampi d’un’ostentata erudizione, Aprosio intende teorizzare che la favola d’Adone è “una, compiuta, linguisticamente corretta”. Gli altri capitoli ruotano attorno a questi nuclei ideologici e svolgono funzione completiva.


La Spugna> Ms.E.II.32- Opera tarda, mai editata forse perché sostanziale doppione della Sferza Poetica e comunque testo di critica letteraria o meglio di intervento polemico ormai superfluo sulla spenta diatriba Marino-Stigliani.


STIGLIANI, TOMMASO (Matera 1573-Roma 1651). Di nobile famiglia Stigliani (di cui si può qui vedere sia il ritratto che la firma autografa) si recò presto a Napoli, conoscendovi certo il Marino e forse anche T.Tasso. Ancora giovane editò il Polifemo (Milano, per il Ciotti, 1600), un poemetto pastorale, ed appena un anno dopo (sempre per lo stesso stampatore ma nella tipografia di Venezia) la raccolta poetica Delle rime. Per breve tempo cortigiano di Carlo Emanuele I di Savoia, si sistemò quindi (1603) presso Ranuccio Farnese duca di Parma come gentiluomo di corte e segretario. Fece allora pubblicare il suo Canzoniere (ancora a Venezia, per il Ciotti, 1606), raccolta che, per alcuni Indovinelli erotici ma secondo Tommaso soprattutto per colpa del Davila (che sfidò a duello rimanendone però ferito) fu messa all'Indice dei libri proibiti”.
Riparato a Napoli lo Stigliani potè rientrare a Parma solo per intercessione del cardinale Cinzio Aldobrandini: di nuovo al sicuro ed eletto principe dell’Accademia degli Innominati si diede alla stesura dei primi 20 canti del suo poema
Il mondo nuovo(Piacenza, per il Bazachi, 1617)
un poema che, sulla scorta d'una tradizione letteraria coeva, andava celebrando tanto l'impresa di Colombo quanto la conquista delle nuove terre transoceaniche.
Nel poema si lasciò andare ad alcune allusioni pesantemente critiche contro l’allora trionfante G.B.Marino, sì che finì per accendersi contro l’ira dei suoi tanti partigiani ascritti all’Accademia degli Invidiosi.
[Trattando per inciso, il suo non disprezzabile poema non si può far a meno di notare quanto per gli intellettuali italiani e, seppur in minor misura europei, il Mondo Nuovo scoperto da Colombo e poi saccheggiato dai conquistatori (era già trascorso oltre un secolo e non mancavano le prime ampie relazioni scritte) fosse ancora sostanzialmente un luogo estraneo, ancora ben arginato dalle Colonne d'Ercole, un sito retorico, metastorico, su cui indulgere in celebrazioni epiche ma senza alcun discernimento critico: proprio mentre quelle terre ormai insanguinate, con la folle carneficina degli Amerindi, se veramente fosse esistito un autentico genio poetico, avrebbero facilmente offerto argomenti poetica e non solo polemica o morale come qualche coraggioso pur fece: vera tristezza della pedanteria umana sublimata dall'ossequiosità formale del peggior barocco, del tutto nemmeno oggi obliato!].
Stigliani fuggì poi da Parma nel 1621 e prese dimora a Roma, ove, sotto la protezione di Virginio Cesarini, riuscì nell’intento d’entrare al servigio prima del cardinale Scipione Borghese e quindi di Pompeo Colonna. La sua attività letteraria crebbe di intensità: curò (a Roma, per il Mascardi, 1623) l’edizione del Saggiatore, fece quindi stampare una nuova edizione del Canzoniere che, privata dei carmi “osceni”, superò l’investigazione del Santo Ufficio (Roma, Manelfi, 1623) e poi ancora editò l’opera critica (Dell’occhiale, Venezia, per il Carampello, 1627) che da un lato lo rese celebre ma dall’altro gli suscitò addirittura l’odio dei più fanatici seguaci del Marino contro il quale mosse severe osservazioni in nome di un più controllato modo di poetare, per cui l’esperienza barocca, rifuggendo dagli sperimentalismi più estremi, si inquadrasse entro gli schematismi della tradizione tardorinascimentale e della grande esperienza tassesca: a conclusione di questa fervida attività realizzò l’edizione definitiva del Mondo Nuovo per il Manelfi, a Roma, nel 1651 (il rimario Arte del verso italiano, opera cui si dedicò con grande cura, vide al contrario, la luce dopo la sua morte nel 1658).


VAGABONDI, ACCADEMIA DEI V. di TAGGIA (TABIA)> A Taggia, quindi nell’Imperiese, il 19 agosto 1668 nell’abitazione del facoltoso Giovanni Stefano Asdente (in cui si tennero mediamente le adunanze degli ascritti) fu istituita l'Accademia dei Vagabondi il cui stemma era un sole raggiante: Angelico Aprosio vi venne ascritto col nome de “L’Accademico Aggirato”. Dell’eventuale produzione letteraria non sono sopravvissute tracce significative. Qualche cosa, a livello manoscritto come alcuni sonetti raccolti nel secolo scorso dall’erudito locale canonico Lotti, è rimasta soltanto del “Principe” dell’Accademia, poligrafo instancabile ma solo d’interesse locale, tal avvocato Giovanni Lombardi.


Il Vaglio Critico> Aprosio si nasconde sotto lo pseudonimo di “Masoto Galistoni da Terama”, che è anagramma di “Tommaso Stigliani da Teramo”, e si vuol presentare come l’anti-Stigliani, lo Stigliani rovesciato. E’ un commento programmaticamente scientifico, ma in vero carico di faziosità, al poema il Mondo Nuovo di T. Stigliani, poeta e teorico notoriamente antimarinista in nome soprattutto di un certo rigore formale ispirato alla potente tradizione classica di derivazione tardo rinascimentale: le accuse aprosiane all’opera stiglianea mancano ancora dell’affettazione delle opere più tarde, sono spesso grevi e non di rado “volgarotte” e “personali”, in più d’un caso risultano speciose e poche volte, al contrario, ben strutturate (incongruenze concettuali e formali, cacofonie, aggettivazione incoerente od estranea all’uso sarebbero i principali limiti del Mondo Nuovo). La genesi tipografica del lavoretto risulta curiosa: ritenendo Treviso piazza culturale mediocre e Righettini uno stampatore di “cartacce da vendersi a risma”, Aprosio falsifica indicatori e testimoni bibliografici allo scopo di conferire sia intrigante esotismo che maggior prestigio formale alla sua fatica critico-letteraria: anche la tiratura è limitata (di 500 copie) però il libro, spedito in gran parte in omaggio ad illustri personalità sostenitrici del Marino contro lo Stigliani, acquista ad Angelico molte amicizie in Venezia, tra cui quelle del Loredano e del Michiele che gli “spalancano” le porte dell’Accademia degli Incogniti (v. Biblioteca Aprosiana, p.113).


Le Vigilie del Capricorno: operetta critico-erudita ma soprattutto apologetica delle Epistole Eroiche del colto avvocato napoletano Lorenzo Crasso: più che per il valore intrinseco il lavoro è importante come testimone critico degli straordinari contatti che Aprosio ebbe con l’ambiente culturale napoletano e meridionale in senso più generico: per un’ulteriore conferma di questo assunto si segnala la lettura di CLIZIA CARMINATI, Lettere di Federigo Meninni al Padre Angelico Aprosio in “Studi Secenteschi”, 1995, pp.185-222.


VILLANI, NICCOLO’ o NICCOLA ma spesso scritto Nicola (Pistoia 1590 - Roma 1636). Aristocratico, dagli ottimi studi umanistici, si impiegò al servizio del cardinale Tiberio Muti, soggiornando dapprima a Roma. Si spostò quindi in Grecia e poi a Venezia per tornare, molto dopo, a Roma sotto la protezione del cardinale Francesco Barberini. Compose versi satirici e scherzosi sia in italiano che in latino, redasse l’incompiuto poema eroico in ottave Della Fiorenza difesa (Roma, per il Landini, 1641), scritti di varia erudizione e commenti su opere del Mussato e del Loschi. La sua fama si deve però ascrivere alla partecipazione al dibattito sull’Adone del Marino, in cui intervenne più volte con vari pseudonimi: L’uccellatura di Vincenzo Foresi all’Occhiale del cavalier T. Stigliani (Venezia, per il Pinelli, 1630), le Considerationi di messer Fagiano sopra la seconda parte dell’Occhiale del Cavalier Stigliano (ibid. 1631), il Ragionamento dello Academico Aldeano sopra la poesia giocosa de’ Greci, de’ Latini e de’ Toscani. Con alcune poesie piacevoli del medesimo autore (ibid. 1634).


Visiera Alzata> catalogo in ordine alfabetico per “nomi disvelati” degli pseudonimi utilizzati da vari autori, ad altri critici e bibliofili sfuggiti, onde segretamente redigere opere di varia natura: si rivela un utile contributo per spiegare gli autori con pseudonimi (a volte di buon livello) d’opere altrimenti di non chiara decifrazione> fu lungo lavoro quello d’Aprosio (condotto prima che in quest’opera per via di lettere, relazioni, parziali scritti su altre sue opere) al fine di indagare tra pseudonimi ed autori di plagi, lavoro che peraltro non mancò di procurargli apprezzamenti ma anche stizzite rimostranze. L’operetta non fu pubblicata dall’Aprosio ma uscì postuma solo grazie all’intervento di Antonio Magliabechi e di D.A.Gandolfo che la editarono con qualche utile aggiustamento: ad essa, rispettando la titolatura data a queste sue opere nei manoscritti da Aprosio, fu fatta seguire nello stesso volume l’omologa Pentecoste) Segue: Pentecoste di altri scrittori che andando in maschera fuor del tempo di Carnevale son scoperti da Gio.Pietro Giacomo Villani senese, accademico Ansioso e Infecondo..., (Pentecoste> continuazione della Viziera Alzata, opera postuma curata ed aggiornata su un cannovaccio aprosiano da A. Magliabechi, bibliotecario mediceo di Firenze, quasi certamente in cooperazione con D.A.Gandolfo successore d’Aprosio alla direzione della biblioteca di Ventimiglia.


ANGELICO APROSIO "IL VENTIMIGLIA" fu amante, oltre che delle lettere, anche dell'arte in genere e specificatamente delle arti figurative e pittoriche come peraltro attestano varie sue osservazioni su artisti liguri del suo e del secolo precedente come Bernardo Strozzi, il Cambiaso, il Paggi, Bernardo Castello, G. B. Carlone, Giovanni Andrea de' Ferrari [a titolo di integrazione documentaria vedi qui = IL MECENATE DELL'APROSIANA GIO. NICOLO' CAVANA PATRIZIO GENOVESE E LA SUA VALENZA INTELLETTUALE: IL CAVANA NEL 1674 EDITA POSTUME LE VITE DEI PITTORI GENOVESI CON ANTIPORTA DEL PIOLA ED IMPRIMATUR DELL'INQUISITORE SISTO CERCHI = VISUALIZZA QUI LA PREFAZIONE DEL CAVANA, LA VITA DEL SOPRANI DA LUI SCRITTA ED ANCORA IL PROEMIO COMPOSTO DAL SOPRANI STESSO. VEDI POI QUI, ANCORA, LA DIGITALIZZAZIONE INTEGRALE CON RELATIVI INDICI DELL'OPERA DEL SOPRANI LI SCRITTORI DELLA LIGURIA E PARTICOLARMENTE DELLA MARITTIMA].
A prova di ciò, presso il Fondo Aprosio della B.U.G. (Biblioteca Universitaria di Genova) si trovano anche , nel vasto epistolario dei corrispondenti dell'erudito frate agostiniano, varie lettere dei più affermati pittori, liguri e non a lui contemporanei: in particolare non son da dimenticare i legami che strinse con artisti non liguri come il Negri od il Ridolfi).
Fra quelli di ambito genovese meritano di essere segnalati Domenico Piola, il Fiasella, detto il Sarzana (che fu corrispondente epistolare di Aprosio), Luciano Borzone (pure corrispondente epistolare di Aprosio), e Gio. Battista Casoni ed il grande quanto sventurato incisore Giovanni Striglioni di Badalucco (IM).
Ad una lettera di Gio Battista Casoni sono allegati due componimenti in dialetto genovese, con i quali l' agostiniano Fulgenzio Baldani si rivolge al Fiasella che tarda a terminare il suo ritratto:
A ro Segnò Domenego Fiaxella Ecc.mo Depentò
Me moere a fame comenzè in un dì
e puescia m noeve meixi a me finì.
Voi, quanto vorei stà
a finime, FIAXELLA, de retrà?
Sento che respondei:
In pochi meixi te finì to moere
perche' a te fa morta come to poere:
Ma mi che t 'ho da dà con l'arte mé
Vera immortalité
D'havei poco ciù tempo e ro d'havei.
Voi me di ben: ma pù haverei piaxei
De presto vaghezame in questa teira
Prima che me s'amorte ra candeira

("Al signor Domenico Fiasella eccellentissamo pittore. / Mia madre cominciò a farmi un certo giorno / ed in seguito mi compì dopo nove mesi. / Voi Fiasella, quanto tempo volete / impiegare per ritrarmi completamente? / Sento che rispondete: / Tua madre ti finì in pochi mesi / perché ti fece mortale come tuo padre. / Ma io che ho da darti con la mia arte / l'immortalità / ho ben diritto d'aver un po' più di tempo. / Voi parlate bene, ma avrei più piacere / se presto potessi contemplarmi in questa tela / prima che si spenga la candela).
Altro:
0 ti, che miri, attendi:
Questo è un quadro composto da tre grandi:
Domenego FIAXELLA è ro pittò,
Fre Fulgentio dri versi è l'inventò;
E Francesco PISAN
O ra trascritti de so propria man,
Se te digo boxia
Non me mira mae ciù, vatene via

(Fai attenzione tu che guardi: / questo è un, quadro composto da tre grandi: / Domenico Fiasella è il pittore, / Fra Fulgenzio dei versi è l'inventore: / e Francesco Pasano / li ha trascritti di sua mano. / Se ti dico una bugia / non guardarmi mai più, / vattene via).
[Le due liriche sono custodite nella parte inedita (IV) del repertorio La Biblioteca Aprosiana]



GIOVANNI FRANCESCO NEGRI (Bologna 1593 - 1659) architetto (fu autore della pianta della chiesa dei Gesuiti in Bologna) e pittore bolognese, figlio di Giovanni Battista e Caterina Cipolli, conosciuto nel secolo anche come letterato e fondatore nel 1640 dell'Accademia petroniana degli Indomiti che tenne in casa sua le prime adunanze: raggiunse discreta fama per la traduzione in dialetto bolognese della Gerusalemme Liberata, con il titolo La Gerusalemme Liberata/ del Signor Torquato Tasso/ tradotta in lingua popolare antica/ di Bologna per Gio. Francesco Negri/ pittore con l'originale a canto per comodità/ di chi legge e le annotazioni a ciaschedun/ canto di Fabritio Alodnarim./ All'Eminentissimo e Reverendissimo Signore/ Cardinale Spada, mai stampata (ma fatta circolare in copie fra gli eruditi italiani) e conservata in diversi esemplari presso la Biblioteca Comunale dell'Archiginnasio di Bologna ed in quella Universitaria (Denise ARICO’, Il Patetico grottesco - "La Gerusalemme Liberata" Bolognese di Gio. Francesco Negri in "Studi Secenteschi", XXVI - 1985: parte di pubblicazione, interrotta alle ottave del canto XIII, "in folio" avvenne per l'Orlandi a Bologna nel 1628) Allievo per due anni in Venezia del più celebre Odoardo Fialetti, autore degli inediti Annali delle Storia di Bologna e delle Crociate, il Negri fu considerato un eccellente ritrattista meritandosi il nome di Negri de' ritratti (Carlo Cesare MALVASIA, La Felsina Pittrice. Vite de' pittori bolognesi per l'edizione bolognese -1841- del Guidi all'Ancora, parte II, pp. 236 - 237 = Le Glorie de gli Incogniti o vero gli huomini Illustri de' Signori Incogniti di Venetia, in Venetia, appresso Francesco Valvasense, 1647, pp.163 - 164): per il suo "museo pittorico" fece un ritratto di Angelico Aprosio poco prima di metà XVII secolo. Come si evince dalla lettura del capitolo XXXII della Grillaia, Aprosio, cui il Negri - presso il quale il frate anche soggiornò essendo in viaggio per Roma aveva donato alcuni suoi sonetti in dialetto bolognese e suggerito nel 1651 il titolo del "Grillo" ovvero Serie degli Imperatori Romani, chiede al figlio Bianco Negri che gli spedisca come promesso dal padre il di lui ritratto e copia di un'opera in poesia, la “Guerra Sacra”, da Francesco fatta stampare poco prima della morte. Peraltro, alle sollecitazioni in merito dell'Aprosio, lo stesso Francesco Negri aveva risposto con una lettera scritta da Bologna il 10-III-1659 poco tempo prima di morire ove si legge: m'hanno fatto indugiare la dovuta risposta alla gentilissima lettera di V.S. le Chiragre [intendi “chiragra” = grecismo medico per indicare una forma di gotta che colpisce le mani], cha tutto questo Inverno m'hanno tenuto in letto, e le molte occupationi dopo cessate. Hora che posso, rispondo, rendendole infinite gratie della memoria, che tiene d'un suo servitore. E quanto alla sodisfatione di mandarle il mio ritratto, procurarò di servirla: che quando potrò levarmi di letto, dove sono dal giorno di S. Luca in qua, ne farò uno nell'età che mi trovo e gliene invierò un transunto, sì come ancora accoppiarò la Guerra Sacra che già cantai grezzamente, con la Historia di essa, che ho raccolta e fatta stampare ma non ancora publicata, e fin tanto che la Dedicatoria non sarà presentata al Papa non si publicarà [allude alla Prima Crociata, overo lega di militie christiane segnalate di Croce Liberatrice del Sacro Sepolcro di GIESU' Christo, e del regno di Terra Santa, stampata a Bologna dal 1658 dal Ferroni]. Che è quanto m'occorre dirle con angustia di tempo, mentre per fine la riverisco./ Bologna li 10 Marzo 1659/ Di V.S.& Humilissimo divotissimo e cordialissimo servitore/ Gio. Francesco Negri (B. U. G., Manoscritti Aprosiani: lettera, sotto data, di Francesco Negri): Bianco Negri, verisimilmente verso la fine del 1668, mandò poi un ritratto paterno da mettersi nella Pinacoteca aprosiana in Ventimiglia assieme al libro richiesto, appunto la Prima Crociata, overo Lega di Militie Christiane, segnalate di Croce, Liberatrice del Sacro Sepolcro di Giesù Christo e del Regno di Terrasanta. Raccolta da Gio. Francesco Negri Bolognese. In Bologna, presso G.B.Ferroni, 1658 (in folio). L'altro figlio Alessandro, Protonotaro apostolico e Canonico della Collegiata di S.Petronio in Bologna, fautore dell'Aprosiana e studioso di monumenti antichi donò inoltre al Ventimiglia Maniliani Bononionsi Monumenti Historico Mystica Lectio, Interprete Alexandro Nigro, lo. Francisci Filio l.V.D. Perinsignis Collegiatae Ecclesiae Bonon. Canonico, Protonotaro Apostolico, Bononiae, Typis HH. de Ducijs, 1661, in 4° (Alessandro aveva anche fatto fare un suo ritratto da donare alla Biblioteca dell'Aprosio per risultar effigiato a fianco del padre ma dopo la sua precoce morte nel 1661 -registrata in Bibliot.Apros., cit., p.315- la trascuratezza del fratello Bianco fece sì che l'opera, mai giungesse in mano del bibliotecario intemelio).



Il medico di Messina PLACIDO REINA fu amico e corrispondente di Aprosio (oltre che FAUTORE cioè pubblico sostenitore con donativi della "Libraria intemelia": non bisogna peraltro mai dimenticare le intime relazioni del frate agostiniano di Ventimiglia con l'ambiente culturale centro-meridionale e siciliano (in particolare con l'"Accademia della Fucina" di Messina cui apparteneva il Reina) e specificatamente con singoli letterati tra cui, oltre il citato REINA (talora scritto anche REJNA, che omaggiò il frate intemelio di un suo RITRATTO tuttora presente nella pinacoteca della biblioteca della città ligure) Scipione Errico, Giovanni Ventimiglia, Antonino Merello Mora.
Del Reina si sa che morì nel 1671 e che pubblicò soprattutto opere di contenuto storico anche se con Angelico Aprosio aveva in comune la perizia della lingua spagnola sì che si affermò anche come valido traduttore.
L'opera da cui ebbe fama fu però il Delle notizie istoriche della citta di Messina / di Placido Reina , in Messina, 1658 [che ebbe un'apprezzata ristampa nel 1743].
Utilizzò comunque anche lo pseudonimo di ANDREA POCILI (propriamente pseudonimo anagramma di PLACIDO REINA, alla maniera peraltro che CORNELIO ASPASIO ANTIVIGILMI risulta pseudonimo anagramma puro di ANGELICO APROSIO VENTIMIGLIA): su ciò si veda G. Melzi, Dizionario di opere anonime e pseudonime, Milano 1848-1859 v. II, p. 351 e British Library, Catalogue of seventeenth century Italian books, v.II, p. 693.
Sotto lo PSEUDONIMO di ANDREA POCILI egli editò la monografia Delle riuolutioni della città di Palermo auuenute l'anno 1647. Racconto d'Andrea Pocili, in Verona, per Francesco Rossi, 1648 (che ebbe una riedizione, con relative aggiunte l'anno successivo: Delle riuolutioni della città di Palermo auuenute l'anno 1647. Racconto d'Andrea Pocili. Co'l racconto delle cose successe nell'anno 1648, in Verona, per Francesco Rossi, 1649.


Il CONTE BERNARDO MORANDO (anche scritto MORANDI) è effigiato in un RITRATTO tuttora custodito alla ventimigliese Biblioteca Aprosiana: l'autore è nel suo secolo, una figura letteraria e sociale di un certo rilievo. Di origini mercantili(Sestri Ponente 1589 - Piacenza 1656) si trasferisce a Piacenza nel 1612 per sbrigare alcuni oneri commerciali della famiglia; il soggiorno diviene col tempo stabile residenza nella città che, con Parma, costituisce il ducato dei Farnese. l meriti mercantili, politici e soprattutto letterari lo rendono gradito ai duchi Odoardo (1622-1646) e Ranuccio II (1646-1694) che lo gratificano nel '49 dell'ascrizione alla nobiltà locale, investendolo nel 1652 del feudo di Montechiaro [D. BIANCHI, B. Morando prosatore. B. Morando verseggiatore, in Atti dell' Accademia Ligure di Scienze e Lettere, 1959, pp. 110-22 - E. CREMONA, Bernardo Morando, poeta lirico drammatico e romanziere del Seicento, Piacenza, 1960 - D. CONRIERI, Il romanzo ligure dell' età barocca, in Annali di Sc. Norm. Sup. di Pisa, IV, 3, 1974, pp. 1074-88 - Romanzieri del Seicento, a. c. di M. CAPUCCI Torino, 1974, pp. 44-48, 529-572].
Il RITRATTO DEL CONTE BERNARDO MORANDO non risultava comunque ingressato nella PINACOTECA dell'APROSIANA all'anno 1673: altrimenti ciò sarebbe stato menzionato da Angelico Aprosio, come fatto in tutti gli altri casi, nelle glosse a stampa riportate nell'Indice de' Fautori dell'Aprosiana che va da p.XXIX a p.L del repertorio a stampa del 1673 (Bologna, per li Manolessi) intitolato La Biblioteca Aprosiana.
Il QUADRO in questione fu fatto pervenire all'Aprosio dagli EREDI DI BERNARDO MORANDO coi quali egli tenne una certa corrispondenza (vedi alla B.U.G. le "lettere dei corrispondeti di A. Aprosio" in "fondo Aprosio"): nello Scudo di Rinaldo - parte II Aprosio rammenta i figli di Bernardo cioè il CONTE GIOVANNI FRANCESCO MORANDO ed il CONTE GIOVANNI CARLO precisando però che essi ricevettero notevole collaborazione per salvaguardare la memoria del padre dai nipoti di BERNARDO MORANDO e precisamente OTTAVIO, GIOVANNI MARIA e GIOVANNI BERNARDO (non a caso dalle sinergie intercorse tra fratelli e cugini ebbe origine la stampa dell'OPERA OMNIA del romanziere: i 4 volumi delle sue Opere edite a Piacenza per i tipi del Bazachi nel 1662).
Stando alle informazioni reperibili Angelico Aprosio ebbe in particolare eccellenti rapporti col figlio del romanziere GIOVANNI CARLO e con OTTAVIO MORANDO figlio del fratello di Bernardo di nome G. BATTISTA MORANDO: proprio ad OTTAVIO il frate ventimigliese dedicò il capitolo XVIII dello Scudo di Rinaldo - parte II (per tutte queste notizie vedi di B. Durante il numero monografico Angelico Aprosio il "Ventimiglia": le "carte parlanti d'erudite librarie" in "Quaderno dell'Aprosiana", Nuova Serie, I, 1993, pp.11-12 e p.83).
Aprosio non potè fruire a lungo dell'amicizia, comunque sincera di Bernardo Morando (che tra l'altro lo inserì come coprotagonista in un suo romanzo La Rosalinda) vista la morte nel 1662 del romanziere: egli peraltro conobbe Bernardo in modo relativamente fortuito nell'ottobre del 1643 grazie all'intermediazione del pittore LUCIANO BORZONE amico di entrambi.
Ad elogio di LUCIANO BORZONE, che gli aveva fatto un RITRATTO, il Morando pubblicò nelle sue Fantasie varie il seguente sonetto (ripubblicato da Aprosio nel suo Catalogo del 1673): "Al Sig. Luciano Borzone Pittore, e Poeta/ Borzon, che con la Penna, e col Pennello/ Agguagli la Natura, e vinci l'Arte,/ Poca lode in te sia, mentre in lodar te;/ Sol gran Poeta, e gran Pittor t'appello.// L'uno i color di questo volto, o quello/ Ritrar non può con vivi inchiostri in carte,/ L'altro non sà dell'incorporea parte/ Co' i color morti, effigiar il bello.// Mà tu, con doppio honor che pingi, e scrivi,/ L'Alma, e il sembiante altrui li manifesti,/ Ch'il Volto in tele, il Nome in carte avvivi.// D'Alessandro, e d'Achille in un potresti/ Ritrar con tinte morte, e inchiostri vivi,/ Più d'Apelle, e d'Omero, il volto, e i gesti".
LUCIANO BORZONE (nato a Genova nel 1590) potè ancor meno partecipare della triplice amicizia che aveva instaurata visto che scomparve nel 1645 mentre realizzava la sua ultima opera ovvero l'Adorazione dei pastori dell' Annziata del Vastato (morì infatti per una devastante caduta dal palco su cui lavorava alla tela, che fu condotta a termine dei figli): autore dal talento discontinuo a volte il Borzone dovette accontentarsi di "sopravvivere" realizzando ritratti come quello dedicato al MORANDO che si ritiene poi trasmesso dagli EREDI DEL ROMANZIERE alla PINACOTECA eretta da Angelico Aprosio ad ornamento della sua grande BIBLIOTECA = sul BORZONE vedi AA.VV., La Pittura in Italia, Il Seicento, tomo II, Electa, Milano, 1989, pp. 648 sgg.


STRADA, FAMIANO <1572-1649> : dall'Aprosio è citato per il volume Famiani Stradae Romani e Societate Iesu Prolusiones academicae, Romae , apud Iacobum Mascardum, 1617 (Romae : ex typographia Iacobi Mascardi, 1617) < [12], 496, [16] p., [1] c. di tav. : front. calcogr. ; 4o. - Frontespizio inciso sottoscritto: H.G. in. e Valerianus Regnartius sculp.- La prima e l'ultima c. bianche>.



Tra le celebrità di BADALUCCO, antico borgo della MEDIA VALLE ARGENTINA (VEDI CARTA MULTIMEDIALE), ricordiamo l'oggi ingiustamente misconosciuto GIOVANNI MATTIA STRIGLIONI che ivi nacque il 25-II-1628 da Giovanni Bartolomeo e da Bianchinetta Jiugales e, dopo una fanciullezza qualsiasi, nè bella nè brutta, prese i voti religiosi, divenendo prete quasi soltanto per un voto fatto dalla madre, quando egli venne alla luce con qualche tribolamento di troppo. Finiti gli studi religiosi si diede, fra la sorpresa di tutti, a quelli della pittura e dell’incisione in Genova avendo quale maestro Giulio Benso di Pieve di Teco. Scoperta questa sua vocazione autentica, lo Striglioni si lasciò coinvolgere presto nel mondo degli artisti, spesso ai limiti della provocazione e dei sospetti inquisitoriali, anche nella Genova apparentemente quieta del suo tempo! Prese così a frequentare le botteghe ed i cenacoli d’arte, divenne amico del Fiasella e di Domenico Piola, pittori di vaglia, apprese le tecniche rare dell’incisione da artigiani eccellenti come Cesare Bassano, Luciano Borzone, Giuseppe Testana. Presto riuscì ad ottenere ottimi successi e gran reputazione in un ambiente difficile e per un lavoro tanto complesso quanto poco retribuito come quello dell’incisore, cui si dedicò per pubblicazioni di gran pregio: amico dell’Aprosio e del Piola realizzò, per esempio, su disegno di quest’ultimo la bella incisione per il frontespizio della tragedia Belisa al cui testo Aprosio fece allegare, in accordo con l’autore Antonio Muscettola, un suo elogio critico intitolato Le Bellezze della Belisa: parecchio dopo sarebbe ritornato proprio per Aprosio all'arte dell'incisione realizzando su disegno del Fiasella l'eterea antiporta del volume La Biblioteca Aprosiana.
Eppure quest’uomo, che fu anche poeta e che a giudizio di molti aveva ben più talento d’altri incisori in auge, dovette abbandonare presto Genova, riducendo di parecchio la sua attività artistica, mai però abbandonata, quasi fosse un’esigenza profonda del suo spirito.
Comunemente si dice che il ritorno dello Striglioni nel Ponente ligure sia dipeso da sopraggiunte difficoltà economiche e dalle pressioni dei parenti che lo volevano vicino: si sa che vinse per concorso la parrocchia di Riva Ligure ove si trasferì vivendo meglio col soccorso dei redditi o prebende della chiesetta. Poi nel 1666 ottenne un’altra parrocchia, quella della natia Badalucco ove si recò a visionare la bella chiesa che si stava ampliando ed abbellendo: egli stesso dispiegò il suo talento in qualche intervento pittorico all’interno dell’edificio sacro.
Così narrano i fatti e gli storici: la fuga da Genova, un pò troppo repentina, fa pensare che le cose siano andate diversamente, nella forma almeno, più che nella sostanza.
Certo lo Striglioni tornò a casa ma cosa v’era nel profondo delle cose? Non lo si potrà mai affermare con certezza ma è probabile che, alla base di tutto, vi fosse l’insofferenza della sua vita, una serie di incomprensioni inusuali per un religioso controriformista, soprattutto un tenore di vita stridente, nella voce corrente, coi dettami della “condotta normale”.
Aveva cinquantadue anni il raffinato artista quando fu accusato di Sodomia “colpa” diffusa e non criminalizzata nella tranquillità socio-economica e culturale di Umanesimo e Rinascimento ma reato terribile, per Chiesa e Stato, nel crepuscolo della Controriforma, quando si cercava di reprimere i costumi, per celare le “sporcizia di troppi errori politici e diplomatici” sotto il velame degli “Atti di Fede”, dei “Libri Proibiti”, delle “Malie e delle perversioni diaboliche”.
Ma Striglioni era pure un religioso e secondo le norme intercorrenti tra Stato e Chiesa doveva esser giudicato dal foro ecclesiastico, al limite dal foro misto, non dalla sola legge dello Stato genovese.
Venne interrogato, torturato senza riguardo, tenuto prigioniero in carceri oscure e maleodoranti: il suo stesso nome non si pronunciava più con sicurezza, quasi fosse un segreto da non svelare il fatto d’averlo conosciuto e d’esserne stato amico.
Finché tutto finì, o così parve, nel 1682: l’accusa cadde quasi di colpo, anche se il prete artista, sfinito ed innocente per Stato e Chiesa,non venne mai giustificato dall’opinione popolare, solo poco prima accesa contro di lui per via d’ una certa propaganda giudiziale alimentata soprattutto da “fama e dicerie”, i “Media” primordiali che anticipavano, di molto ma con una certa elementare efficacia, i gazzettini scandalistici.
Era grigia, quasi cupa la sera del primo settembre del 1685 quando Gio. Mattia Striglioni se ne stava solo in Badalucco, forse a meditare sul suo destino di solitudine: chissà se aveva presagito la propria morte, quell’archibugiata di “nessuno” che l’avrebbe fulminato nel silenzio del paese, dove forse molti erano al corrente ma in cui nessuno mai parlò né denunciò l’assassino.



SABBA ["riunione di streghe" ma, contrariamente ad un'opinione errata, mai privo di presenze mascili ]> dal fr. sabbat dal latino sabbatum].
Una celebre descrizione di SABBA si attribuisce comunemente a Stefano di Borbone mentre il capitolare franco, falsamente attribuito ad un Concilio di Ancira, noto come Canon Episcopi (IX sec.) al contrario ne aveva in precedenza negata la realtà, considerando il SABBA una leggenda alimentata dalla fantasia di donne superstiziose e peccaminose (vedi CORPUS IURIS CANONICI, col. 1030: secondo le investigazioni inqusitoriali laiche ed ecclesiastica la pratica del SABBA non sarebbe stata estranea neppure alle costumanze del PONENTE LIGURE ). Una fra le più discusse interpretazioni del SABBA concerne un'abitudine, peraltro non estranea ad una discutibile quanto radicata (in certe regioni centro-europee e di cultura francone), di trafiggere con un paletto di legno (frassino in genere) dei bambini morti prima del battesimo al fine di impedire loro di tornare sulla terra sotto forma di fantasmi tormentanti, una tecnica apotropaica in qualche modo connessa ad una delle figure più temibili dell'orrorifico paneuropeo cioè il tema della lotta al VAMPIRO e alla VAMPIRA o meglio la . Sul SABBA, comunque, a titolo esemplificativo si riproduce comunque di seguito una pagina storica di descrizione del SABBA tratta dalla bolla Vox in Rama del 13 giugno 1233 di Gregorio IX edita in Les régistres de Grégoire IX, ed. L. Auvray, I, Paris, 1896, n. 1391, coll. 780-781:
"Quando si accoglie un neofita e lo si introduce per la prima volta nella assemblea dei reprobi, gli appare una specie di rana; altri dicono che è un rospo. Alcuni gli danno un ignobile bacio sull'ano, altri sulla bocca leccando la lingua e la bava dell'animale. Talvolta il rospo appare a grandezza naturale, altre con le dimensioni di un'oca o di un'anitra. Naturalmente ha la grandezza della bocca di un forno. Il neofita, intanto avanza e si ferma di fronte a un uomo di un pallore spaventoso, dagli occhi neri, e talmente magro ed emaciato da sembrare senza carne e niente più che pelle e ossa. Il neofita lo bacia e si accorge che è freddo come il ghiaccio; in quello stesso istante ogni ricordo della fede cattolica scompare dalla sua mente. Poi si siedono tutti a banchettare e quando si alzano dopo aver finito, da una specie di statua che di solito si erge nel luogo di queste riunioni, emerge un gatto nero, grande come un cane di taglia media, che viene avanti camminando all'indietro e con la coda eretta. Il nuovo adepto, sempre per primo, lo bacia sulle parti posteriori , poi fanno lo stesso il capo e tutti gli altri, ognuno osservando il proprio turno: ma solo quelli che lo hanno meritato. Agli altri, cioè a quelli che non sono considerati degni di questo onore, lo stesso maestro di cerimonia augura loro la pace. Quando ritornano al loro posto rimangono in silenzio per qualche istante con la testa rivolta verso il gatto. Poi il maestro dice "Perdonaci". Lo stesso ripete quello che segue e il terzo aggiunge: "Lo sappiamo, signore". Il quarto conclude:"Dobbiamo ubbidire". Terminata questa cerimonia si spengono le luci e i presenti si abbandonano alla lussuria più sfrenata, senza distinzione di sesso. Se ci sono più uomini che donne, gli uomini soddisfano tra loro gli appetiti depravati, e le donne fanno lo stesso. Quando tutti questi orrori hanno fine, si accendono di nuovo le candele e tutti vanno al loro posto.
Poi, da un angolo scuro appare un uomo il cui corpo dai fianchi in su è brillante e luminoso come il sole, mentre nella parte inferiore è ruvido e peloso come quello di un gatto.
Il maestro taglia un pezzo dell'abito del neofita e dice rivolto al luminoso personaggio: "Padrone, costui mi si è concesso: a mia volta lo do a te". Al che l'altro risponde "Mi hai servito bene, mi servirai anche meglio, quello che mi hai dato lo pongo sotto la tua custodia". E sparisce subito dopo aver detto queste parole. Tutti gli anni, a Pasqua, essi ricevono il corpo del Signore dalle mani del sacerdote, lo portano in bocca e lo gettano tra le immondizie per recare offesa al Salvatore. Questi uomini, i più miserabili, bestemmiano contro il Re dei cieli e nella loro pazzia dicono che che il Signore dei cieli ha operato da malvagio, gettando Lucifero nell'abisso. Gli sventurati credono nel demonio, dicono che egli è creatore di tutti i corpi celesti e che, nei tempi futuri, dopo la caduta del Signore, ritornerà alla sua gloria. Per mezzo di lui e con lui, non altrimenti sperano di raggiungere la felicità eterna e invitano a non fare ciò che piace a Dio ma ciò che a Lui dispiace".
Ed ecco, invece, alcuni stralci della cronaca del processo inquisitoriale, in cui comparve per la prima volta l'accusa concreta di stregoneria a carico di due donne e la descrizione circostanziata di un SABBA e della cerimonia di MESSE NERE, svoltosi, fra il 1330 ed il 1340, a Toulouse, nella zona di Carcassonne, con la RONDA E/O DANZA DEI DEMONI IN ASPETTO DI CAPRI (v.:H.CH.LEA ):
"Anna Maria di Georgel e Caterina, entrambe di Toulouse e in età matura, hanno detto nelle loro confessioni processuali che da circa vent'anni fanno parte dell'innumerevole esercito di Satana, concedendosi a lui, sia in questa come nell'altra vita. Che molto spesso, e sempre nella notte fra venerdì e sabato ( ma la scadenza settimanale del SABBA non d'obbligo cade di sabato, giorno dedicato a Saturno, il più oscuro dei pianeti ma anche, quasi per una sorta di sfida al divino, giorno consacrato alla Vergine. In molte credenze sembra preferirsi il giovedì, giorno di mezza settimana che rientra così nella simbologia del ponte che divide due concetti antitetici e di entrambi assorbe le caratteristiche, giorno che culmina il periodo settimanale della licenza, vigilia dei futuri tre giorni di penitenza, castità e digiuno, ed anche culmine del Carnevale) hanno assistito al SABBA , che si celebrava in un luogo o nell'altro....Ognuna, interrogata separatamente, ha dato spiegazioni che ci hanno portato alla convinzione della loro colpevolezza.
Anna Maria di Georgel dice che una mattina, trovandosi da sola a lavare i panni della sua famiglia...vide venire verso di sè, sull'acqua, un uomo gigantesco, dalla carnagione molto nera, i cui occhi ardenti assomigliavano a due carboni accesi, vestito con pelli d'animali.
Il mostro le chiese se voleva concedersi a lui, e lei rispose di sì.
Allora lui le soffiò in bocca e dal sabato successivo fu portata al SABBA, per sua volontà.
Qui trovò un
CAPRONE gigantesco , che salutò ed al quale si abbandonò. Il CAPRONE, in cambio, le mostrò ogni genere di segreti malefici .
Anna Maria di Georgel ha rivelato in seguito che nel lungo periodo di tempo trascorso dalla sua possessione sino all'incarceramento, non ha cessato di praticare il male e di compiere pratiche abominevoli, senza che la fermasse il timore del Signore. Così cuoceva in caldai, su un fuoco maledetto, erbe avvelenate, sostanze estratte sia dagli animali che dai corpi umani che, per un'orribile profanazione, avrebbe fatto alzare dal riposo dalla santa terra dei cimiteri (simili deliri non sono dunque esclusivo appannaggio delle menti malate, e dei vantaggi economici conseguenti, di alcuni registi contemporanei!) per servirsene nei suoi incantesimi; girovagava durante la notte intorno alle forche patibolari, sia per sottrarre strisce ai vestiti degli impiccati, sia per rubare la corda da cui pendevano, o per impossessarsi dei loro capelli, unghie e grasso...Ha voluto pentirsi, ha chiesto di riconciliarsi con la Chiesa, il che le è stato concesso, senza che per questo possa evitare di essere consegnata al potere secolare, che valuterà le pene in cui è incorsa. Caterina, moglie di Pietro Delort, di Toulouse, è stata dichiarata colpevole: secondo le sue dichiarazioni e le testimonianze di persone affidabili dieci anni fa...si unì in criminale amicizia con un pastore che, abusando del suo ascendente su di lei, la costrinse a stringere un patto con lo spirito infernale. questa odiosa cerimonia ebbe luogo a mezzanotte, in un bosco, nel crocicchio di due strade (altro conosciutissimo topos del SABBA , legato all'idea di cerchio, figura che confonde i limiti e ottenebra i sensi con le vertigini del perpetuo moto -si pensi alla danza sabbatica, ancor più eseguita di spalle, ai girotondi ebbri delle feste di piazza, del Carnevale, a quelli instancabili dei bambini-, simbolo della Luna, di Diana cacciatrice, di Ecate dea degli Inferi, astro inciso sulla fronte delle sacerdotesse celtiche, da sempre simbolo della femminilità). Qui si fece sanguinare il braccio sinistro, lasciando scorrere il sangue su un fuoco alimentato da ossa umane, rubate nel cimitero della parrocchia, pronunciò strane parole di cui non si ricorda, e il demonio Berit le comparve sotto forma di fiamma viola. Da allora si occupa della preparazione di certi ingredienti e beveragggi nocivi, che causano la morte di uomini e greggi. Ogni sabato notte sprofondava in un sonno straordinario, durante il quale veniva trasportata al SABBA . Interrogata sul luogo in cui veniva celebrato, ha risposto che alcune volte si celebrava in un posto, altre volte in un altro... Qui [Caterina di Tolosa] adorava il CAPRONE e si concedeva a lui, come tutti i presenti in quella festa infame. Si mangiavano cadaveri di bambini appena nati, strappati alle loro balie durante la notte; si beveva ogni tipo di liquori sgradevoli e tutti gli alimenti erano privi di sale.... Caterina, vivamente incalzata dai mezzi di cui disponiamo per far dire la verità, dopo aver protestato a lungo la sua innocenza e dopo aver pronunciato numerosi giuramenti falsi, è stata giudicata colpevole di tutti i reati di cui era stata sospettata. Faceva cadere la grandine sui campi di quelli che odiava, faceva marcire il grano grazie ad una nebbia pestilenziale, e gelare le vigne. Provocava malattie mortali ai buoi e alle pecore dei suoi vicini per i benefici che ciò le dava. Per lo stesso motivo provocò la morte delle sue zie, in quanto doveva essere l'erede, esponendo a fuoco lento, moderato, delle immagini di cera vestite con qualche loro camicia, in modo che la vita di quelle donne disgraziate si consumasse man mano che le due statue fondevano nel braciere" (Arch. Inquisizione Toulouse).



ERESIA (donde ERETICO - ERETICI) nel PONENTE LIGURE: dal pieno '400 al '600 sul territorio diocesano intemelio si ebbero casi di persecuzione oltre che di streghe e di "maghi", anche di PRESUNTI ERETICI E/O COLPEVOLI DI ERESIA (cioè protestanti, riformati, luterani, in particolare riformati di fede calvinista contro i quali la Chiesa romana e cattolica reagì in forza della CONTRORIFORMA SANCITA DAL CONCILIO DI TRENTO), senza tuttavia arrivare, per quanto noto e come AVVENNE NEL XVI SECOLO (in merito ai SOSPETTI DI ERESIA), all'estremo della "pena di morte ": si ricorse almeno in un caso noto alla comminazione dell'"esilio " e del "bando " (in certi casi si ricorse alla comminazione dello stato di "infame "): pene comunque severissime, molto più di quanto oggi possa sembrar credibile. Dal punto di vista giuridico, la lotta contro gli eretici e le streghe era affidata ad un inquisitore ecclesiastico il quale era assistito da due frati, da due gentiluomini appartenenti alla classe politica, da un notaio e da un cancelliere.
L'inquisitore dipendeva direttamente dal Vescovo, ma poteva contare sull' aiuto dell'autorità civile tanto per la caccia agli eretici che alle streghe che per l'investigazione vera e propria.
Esistono casi meno noti di quelli di Triora o di Castellar ma comunque da registrare e cui fa cenno in un suo bel saggio Le Streghe in Tribunale - l'opera dell'Inquisizione nel Ponente Ligure nei secoli XVI e XVII (comparso sulla "Rivista della Provincia di Imperia", anno 2001) Rossella Masper che ha indagato sugli archivi diocesani e non del ponente ligure.
Aggiungiamo peraltro che Ventimiglia, quale sede del Vescovo, non solo era una piazza giuridica importante dell'Inquisizione ma che, sull'operato di questa nella città e nel territorio ponentino, abbiamo dati indiretti che derivano sia dagli scritti di un erudito del '600 come Angelico Aprosio, già Vicario dell'Inquisizione, che dall'esser stata inserita la città di Ventimiglia in un ROMANZO BAROCCO in cui sono descritte le pratiche su come si tenevano le ABIURE IN QUESTA LOCALITA' cioè le pubbliche e scenografiche ricusazioni a favore del cattolicesimo romano delle religioni riformate.
. L'esame di alcuni documenti, compiuta dalla Masper, fra le carte dell'Archivio della Diocesi di Ventimiglia, dell'Archivio di Stato di Imperia e della sezione di Sanremo fanno pensare che gli inquisitori ebbero una certa mole di lavoro da compiere in questa zona.
In effetti la riforma protestante ebbe "scarsi riflessi in Liguria...é però vero che essa fu motivo di non poche preoccupazioni per le autorità religiose locali. Nella seconda metà del XVI secolo, la Liguria di ponente, grazie alla sua posizione di confine con la Francia, fu [infatti] interessata dalla circolazione di idee ereticali, in particolare calviniste di cui si trova traccia in alcuni editti inviati dalla curia di Ventimiglia alle parrocchie della diocesi. Numerose sono le denunce a carico di persone che a causa delle loro idee o anche solo per certi comportamenti vengono considerati eretici".
Tra i casi registrati dalla Masper un cenno significativo merita quello del frate Antonio del Bugnato del convento degli Zoccolanti di Sanremo che nel 1588 fu denunciato in quanto sosteneva che fossero due, e non tre, le persone divine.
L'autrice ricorda poi "Francesco Pallanca di Vallebona accusato di eresia per aver affermato che Papa Urbano [Urbano VIII] divide la cristianità".
Ancora la Masper giudica "Particolarmente interessanti, in quanto dimostrano la penetrazione dell'eresia calvinista specie nella zona di confine,... le abiure pronunciate da due cittadini francesi che vivevano nella città di Ventimiglia: Isac Giorgio e Abram Sciopré i quali rispettivamente nel 1627 e nel 1639 lasciano la Francia ed appena giunti in Italia si affrettano ad abiurare quella che entrambi definiscono l' "heresia dei Calvinisti" per abbracciare la fede cattolica, anche se i loro nomi di battesimo farebbero pensare che costoro più che calvinisti fossero ebrei [timorosi dopo i recenti IRRIGIDIMENTI DELLA CHIESA ROMANA e soprattutto dopo l'OPERATO DI PAOLO IV CARAFA e del suo successore: si veda al proposito tutta la questione concernente l'ebrea colta Sara Copio Sullam, con cui per certi versi ebbe a che fare pure l'Aprosio a Venezia]; ma, considerate le persecuzioni che dovettero subire gli ebrei, che nel secolo precedente furono costretti ad abbandonare i territori cristiani [ma sarebbe più corretto dire cattolici ], é possibile che entrambi abbiano preferito dichiararsi calvinisti per sfuggire a sanzioni peggiori" .




STREGONERIA NEL PONENTE LIGURE NEL XVII SECOLO: Rossella Masper che ha indagato sugli archivi diocesani e non del ponente ligure ed ha riassunto le sue competenze nel lavoro Le Streghe in Tribunale - l'opera dell'Inquisizione nel Ponente Ligure nei secoli XVI e XVII (comparso sulla "Rivista della Provincia di Imperia", anno 2001) forse senza rendersene conto può aver portato un contributo utile per intendere la ragione per cui l'Aprosio si sia sgomentato, quale Vicario dell'Inquisizione, nell'indagare su fatti che ancora venivano rilevati.
Nel 1638 in particolare ricorda l'autrice che "Caterina Molinari di Camporosso fu accusata di stregoneria venne torturata affinché confessasse i suoi crimini". Gli atti processuali annota ancora la Masper nel suo utile saggio "contengono la trascrizione delle invocazioni e dei lamenti della donna diligentemente annotati dal cancelliere come imponeva la procedura". Proseguendo nella sua indagine l'autrice scrive: "Le accuse di stregoneria riguardavano soprattutto donne; numerose sono le denunce nei confronti di presunte streghe presenti un po' in tutti i paesi dell'entroterra, Bajardo, Seborga, Sasso, Latte, Pigna dove nel 1596 vennero perseguite una decina di donne che sarebbero state viste ad un sabba notturno, ma non mancano testimonianze che attestano la presenza di maghi e guaritori operanti nei piccoli villaggi a ridosso della costa". Un caso significativo fu poi quello che accadde nel 1635 a Sanremo qunado fu denunciato tal Martino Orbo originario di Mondovì, luogo da cui era stato bandito, accusato da alcuni conoscenti di aver fatto perdere il latte (segno ritenuto tipico di qualche maleficio) ad una donna che aveva partorito da poco. "Il caso più singolare sull'operato di un mago" - scrive ancora la Masper cui sono debitrici queste note " é quello che riguarda Giovanni Rodi di Montalto .
Nel 1584 ( quattro anni prima dei fatti di Triora) costui viene denunciato al Sant'Uffizio ed una lettera inviata dall'inquisitore generale Gierolamo Bernerio di Correggio di Genova ordina un'inchiesta incaricando il proprio vicario a Sanremo, Mons. Giovanni Bianco di procedere ad un'accurata perquisizione dell'abitazione di costui ed alla confisca di numerosi libri e scritti proibiti che l'uomo possiede. I documenti forniscono poi tutta una serie di testimonianze dei compaesani in cui il Rodi viene dipinto come mago , incantatore, dedito a strane pratiche ed oscure peregrinazioni notturne nei boschi del luogo. Purtroppo non vi sono indicazioni sugli interrogatori e sulla sentenza di condanna, che si può comunque evincere dal fatto che i suoi beni risultano confiscati e venduti all'incanto per il pagamento delle spese processuali. Il quadro dell'attività dei tribunali della fede nella Liguria di Ponente, assume connotazioni simili a quelle che caratterizzarono l'opera dell'inquisizione in altre parti della cristianità: l'autorità ecclesiastica comincia ad associare la lotta all'eresia che comunque nei primi decenni del XVII secolo va lentamente scemando, alla lotta contro le superstizioni per tentare di ricondurre la pratica religiosa entro i canoni dettati dal Concilio Tridentino .
La Chiesa, che da sempre svolge un ruolo determinante all'interno della società, é fortemente impegnata a ricucire le profonde lacerazioni prodotte dallo scisma di Lutero .
In tale contesto il patto tra la strega ed il demonio non viene più considerato soltanto come una grave offesa, ma piuttosto come una ribellione contro Dio, rinnegato attraverso un patto esplicito ed abbandonato anche quando viene mantenuta un'apparente diligenza nell'osservanza dei riti . E' su questo terreno di ribellione, di non accettazione, che vivono le popolazioni contadine di quell'epoca.
In un'atmosfera mentale permeata dalla presenza di una religiosità spesso intensamente vissuta, anche se superficialmente intesa, sopravvivono antiche e nuove superstizioni: la fede nei Santi e nelle reliquie a cui si sovrappone la fiducia negli amuleti e nelle formule magiche , che rischiano di radicarsi e diffondersi le idee ereticali, ecco il motivo per cui l'Inquisizione persegue sistematicamente qualsiasi pratica che non si allinea con gli insegnamenti della chiesa, persino coloro che non rispettano il riposo domenicale verranno segnalati alle autorità ecclesiastiche e minacciati di scomunica ".




TOMASINI, GIACOMO FILIPPO: (1595-1655) - Padovano, teologo e canonico a Padova e Venezia, quindi vescovo di Città Nuova d'Istria dal 1641. Fu amico e corrispondente di Aprosio che lo citò elogiativamente in parecchie parti della Biblioteca Aprosiana....
Pubblicò parecchie opere tra cui gli Elogia illustrium virorum (1629), il Petrarcha redivivus (1635), il Parnassus euganeus, sive de scriptoribus ac literatis huius aevi clarissimi (1647).
L'opera che lo rese più caro al frate ventimigliese fu però la corposa Bibliothecae Patavinae manuscriptae et privatae del 1639 zeppa di dati biblioteconomici che venne ampliata sotto forma di Bibliothecae Venetae manuscriptae publicae & priuatae ( Vtini, Typis Nicolai Schiratti, 1650) in cui citò i manoscritti in possesso di Angelico Aprosio.
Su questo letterato, parimenti iscritto all'Accademia degli Incogniti di Venezia, oltre che le consuete Glorie del Loredano (pp. 189-191) merita di essere analizzato di Carlo Frati il Dizionario bio-bibliografico dei bibliotecari e biblliofili italiani, Firenze, Olschki, p. 542.
Ferma restando la naturale predisposizione aprosiana per l'antiquariato, pur sempre tenendo nel debito conto i suoi contatti con il collezionismo italiano e con quello straniero e senza mai dimenticare sia le sue osservazioni sul sito reale di Albintimilium quanto sulla necessità civile e culturale di salvaguardare i reperti classici e in particolare le epigrafi, in ordine di tempo sembra esser stato proprio GIACOMO FILIPPO TOMASINI colui che avvicinò per primo Aprosio all'idea di investigazioni scientifiche dei manufatti classici ed alla loro conservazione e catalogazione.
In merito a ciò spicca una rilevazione fatta da Aprosio all'interno di una sua opera rientrante nella polemica letteraria antistiglianea, vale a dire l'Occhiale Stritolato del 1642.
All'interno di una narrazione volta a demistificare il principio stiglianeo che un poema di ambito cristiano non possa iniziare con una invocazione per divinità pagane, l'Aprosio compie una di quelle sue digressioni che, in quanto tali e rispetto all'assunto generale, creano dispersività intellettuale ma che, analizzate con diversa prospettiva, rivelano ad ulteriori indagini singolari curiosità documentarie.
A pagina 171 di siffatta pubblicazione l'Aprosio cita appunto un'opera emblematica di GIACOMO FILIPPO TOMASINI e precisamente il De donariis ac tabellis votiuis liber singularis. Ad eminentiss. principem Franciscum Barberinum ... , Vtini : ex typographia Nicolai Schiratti, 1639 [ 8, 226, 22 p., 5 c. di tav., 1 c. di tav. ripieg. : ill., in gran parte calcogr. ; 4o - Marca: Aurora: Micat aurea Phaebo sul front. - Segn.: a4A-2H4 - tuttora custodita nella Civica Biblioteca Aprosiana come anche in : Biblioteca comunale - Palazzo Sormani - Milano - Biblioteca Trivulziana - Archivio storico civico - Milano - Biblioteca di archeologia e storia dell'arte - Roma - Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II - Roma - Biblioteca universitaria Alessandrina - Roma - Biblioteca nazionale universitaria - Torino - Biblioteca dell'Accademia delle scienze - Torino - Biblioteca nazionale Marciana - Venezia - Biblioteca dell'Accademia di agricoltura scienze e lettere di Verona].
Proprio dal testo del De donariis ac tabellis votiuis< il frate intemelio estrapola non solo osservazioni sulla salvaguardia di reperti epigrafici ma ne riproduce direttamente nel volume dell'Occhiale Stritolato: in dettaglio alle pagine 172 - 173 come qui si può vedere, con una particolare menzione al lavoro dell'erudito veneto nel salvare dalla dimenticanza o dalla distruzione vari tesori del passato.
Consultando peraltro il fondo antico della Biblioteca di Ventimiglia, si trovano queste altre nove opere di GIACOMO FILIPPO TOMASINI:
1 - Bibliothecae venetae manuscriptae publicae et privatae quibus diversi scriptores hactenus incogniti recensentur. Opera Iacobi Philippi Tomasini .., Utini : typis Nicolai Schiratti, 1650 [28], 111 p. ; 4°
2 - Territorii Patavini inscriptiones sacrae et profanae quibus accesserunt omissae in primo volumine, ac noviter positae, in lucem productae a Iacobo philippo Tomasino .., Patavii : typis Sebastiani Sardi, 1654 [8], 152, [16] p. ; 4°
3 - Urbis Patavinae inscriptiones sacrae, et prophanae, quibus templorum et altarium exstructiones atque dedicationes ... in lucem proferuntur a Iacobo Philippo Tomasino .., Patavii : typis Sebastiani Sardi, 1649 [44], 391, [1] p. ; 4°
4 - Gymnasium Patavinum Iacobi Philippi Tomasini ... Libris 5. comprehensum .., Utini : ex typographia Nicolai Schiratti, 1654 [16], 497, [45] p., 2 c. di tav : ill. ; 4°
5 - Jacobi Philippi Tomasini patavini ... Elogia virorum literis et sapientia illustrium ad vivum expressis iconibus exornata .., Patavii : ex typographia Sebastiani Sardi, 1644 [12], 411 p., 3 c. di tav. : ill. ; 4°
6 - Bibliothecae patavinae manuscriptae publicae et privatae. Quibus diversi scriptores hactenus incogniti recensentur, ac illustrantur. Studio et opera Iacobi Philippi Tomasini .., Utini : typis Nicolai Schiratti, 1639 [15], 142, [32] p. ; 4°
7 - Iacobi Philippi Tomasini ... De donariis ac tabellis votivis liber singularis .., Utini : ex typographia Nicolai Schiratti, 1639 [8], 226, [22] p., [6] c. di tav : ill. ; 4°
8 - Parnassus euganeus, sive De scriptoribus ac literatis huius aevi claris, auctore Iacobo Philippo Tomasino .., Patavii : typis Sebastiani Sardi, 1647 [6], 46, [4] p. ; 4°
9 - Manus Aeneae, Cecropii votum referentis, dilucidatio auctore Iacobo Philippo Tomasino .., Patavii : typis Sebastianis Sardi, 1649 34 p. : ill. ; 4°
Tutte di interessante carattere calssificatorio: si noti comunque quella elencata al numero 3 che nuovamente ripropone il certosino lavoro del TOMASINI nell'investigazione sui reperti archeologici della sua area patavina e soprattutto sulla illustrazione di epigrafi classiche e non altrimenti, come nel testo può leggersi, a rischio di dispersione.



ALCHIMIA E SPAGIRIA

DALLA BIBLIOTHECA CANONICA, JURIDICA... DI L. FERRARIS LA POSIZIONE DELLA CHIESA SULL' ALCHIMIA: LEGGI IN PARTICOLARE LA COSTITUZIONE SPONDENT DI GIOVANNI XXII.

Onestamente parlando di siffatti argomenti è facile cadere, sia per gli uni che per gli altri, in banalità: l'unico espediente è offrire una precisazione, nel caso contingente, sulla questione rifacendosi ad esperti e competenti di alchimia sperando che la citazione integrale di un loro saggio sia interpretata come segno di rispetto e qualificazione:
"La nostra chimica deriva, per filiazione diretta, dalla vecchia alchimia; questo hanno dichiarato tutti gli autori che hanno scritto opere riguardanti la storia della chimica: conseguentemente, l’origine dell’una si confonde con la storia dell’altra. Per questo ragionamento la scienza attuale sarebbe debitrice, circa i fattori positivi sui quali è basata, alla paziente fatica degli antichi alchimisti. Questa ipotesi, alla quale non si sarebbe potuto accordare che un valore relativo e convenzionale, è, attualmente, ammessa come una verità dimostrata e la scienza alchemica, spogliata dei suoi propri principi, perde tutte le ragioni di motivare la sua esistenza, di giustificare la sua ragione di essere. Considerata così, a distanza, attraverso le foschie della leggenda e dei secoli, essa non appare più che sotto una forma vaga, nebulosa, senza consistenza.
Fulcanelli, il grande alchimista, nella sua meravigliosa opera Le Dimore Filosofali (Ed. Mediterranee) in proposito scrive: "Ma, quando sarebbero necessarie delle prove, quando si confermano indispensabili dei fatti, ci si accontenta, invece, d’opporre alle pretese ermetiche una petizione di principio, perentoria, la Scuola non discute, ma taglia netto! Ebbene! Noi dichiariamo, a nostra volta, proponendoci di dimostrarlo che questi scienziati che, in buona fede, hanno abbracciato e diffuso un’ipotesi, si sono sbagliati per ignoranza e per mancanza d’approfondimento. Poiché hanno compreso soltanto in parte i libri da loro studiati, hanno scambiato l’apparenza per realtà.
A questo punto diciamo chiaramente, poiché tante persone istruite e sincere sembra che l’ignorino, che la vera antenata della nostra chimica è l’antica spagiria, e non la scienza ermetica. Infatti tra la spagiria e l’alchimia esiste un profondo abisso: questo è quanto tenteremo di chiarire in questo scritto.
Sempre stando a Fulcanelli, nel medioevo e probabilmente nell’antichità greca, se ci rifacciamo alle opere di Zosime e di Ostantes, esistettero due gradi, due livelli di ricerche nella scienza chimica: la spagiria e l’alchimia.
Queste due branche d’una medesima arte essoterica, ci spiega Fulcanelli, erano diffuse nella classe operaia mediante la pratica dei laboratori.
Metallurgici, orefici, pittori, ceramisti, vetrai, tintori, smaltatori, distillatori, vasai, ecc., dovevano, allo stesso modo dei farmacisti, essere provvisti di sufficienti conoscenze spagiriche che completavano in seguito con l’esercizio del loro mestiere.
Gli archimici formavano, invece, una categoria speciale tra gli antichi chimici, una categoria più ristretta e più oscura: lo scopo che essi si prefiggevano aveva qualche analogia con quello degli alchimisti, ma i materiali ed i mezzi di cui disponevano per raggiungerlo erano unicamente dei materiali e dei mezzi chimici.
Trasmutare i metalli gli uni negli altri; produrre oro e argento partendo dai minerali volgari o da composti metallici salini: obbligare l’oro contenuto in partenza nell’argento e l’argento nello stagno, a divenire effettivi ed estraibili, era ciò che si proponeva l’archimico. In definitiva, assicura Fulcanelli, era uno spagirico arroccato nel regno minerale e che lasciava volontariamente da parte le quintessenze animali e gli alcaloidi vegetali.
Coltivavano la loro scienza in piccolo e privatamente, secondo l’espressione piuttosto sdegnosa usata dagli alchimisti per indicare questi praticanti occasionali indegni del nome di filosofi.
Nonostante i loro errori, o piuttosto a causa dei loro errori, Fulcanelli afferma che sono proprio essi, gli alchimisti, che hanno procurato agli spagiristi prima, ed alla chimica moderna poi, i fatti, i metodi, le operazioni di cui essa aveva bisogno.
I veri fondatori d’una scienza splendida e perfetta sono loro, uomini tormentati dal desiderio di ricercare e d’imparare tutto, essi dotarono questa scienza di osservazioni giuste, di reazioni esatte, di abili manipolazioni, di destrezza faticosamente acquistata.
L’alchimia, però, ripetiamo, non ha niente a che fare con queste successive acquisizioni. Solo gli scritti ermetici, incompresi dagli investigatori profani, furono la causa indiretta di scoperte che i loro autori non avevano mai previsto. In tal modo Blaise de Vigenère ottenne l’acido benzoico, per sublimazione del benzoino; Brandt riuscì ad estrarre il fosforo mentre cercava l’alkaest nell’urina; Basilio Valentino, adepto prestigioso che non disprezzava affatto gli esperimenti spagirici, ordinò tutta la serie di sali d’antimonio e realizzò il colloide d’oro rubino; Raimondo Lullo preparò l’acetone e Cassio la porpora d’oro; Glauber ottenne il solfato di sodio e Van Helmont riconobbe l’esistenza dei gas.
Ma, ad eccezione di Lullo e di Basilio Valentino, Fulcanelli dichiara che tutti questi ricercatori, classificati a torto fra gli alchimisti, furono soltanto dei semplici archimisti o dei sapienti spagirici.
Per questo un celebre adepto, autore di un’opera classica (Cosmopolita) ebbe a dire assai giustamente: "Se Ermes, Padre dei Filosofi, risuscitasse oggi insieme con il sottile Geber ed il profondo Raimondo Lullo, non sarebbero considerati dei Filosofi dai nostri volgari chimici (epiteto che l’autore usa per gli archimici e gli spagiristi che non sono gli alchimisti veri chiamati anche Adepti – da Adeptus, che ha acquisito) che quasi non si degnerebbero neanche di annoverarli tra i loro discepoli, perché essi non saprebbero come fare per eseguire tutte quelle distillazioni, circolazioni, calcinazioni, e tutte quelle operazioni innumerevoli, che i nostri volgari chimici hanno inventato perché hanno compreso male gli scritti allegorici di quei Filosofi.
I libri, con il loro testo confuso, arricchito d’espressioni cabalistiche, restano la causa efficiente e genuina del grossolano disprezzo che abbiamo segnalato. Nonostante gli avvertimenti ed i solenni rimproveri degli autori, gli studenti o discepoli ricercatori dell’aurea verità si ostinano a leggerli secondo il significato che tali libri hanno nella lingua corrente. Essi non sanno che questi testi sono riservati agli iniziati e che è indispensabile prima di capirli bene possedere la chiave segreta.
Il primo lavoro da fare è proprio quello di scoprire questa chiave.
Certo, questi vecchi trattati contengono, se non tutta la scienza, almeno la sua filosofia, i suoi principi e l’arte di applicarli conformemente alle leggi naturali.
Non dobbiamo, mai, dimenticare che l’alchimia è una scienza esoterica: di conseguenza un’intelligenza viva, una memoria eccellente, il lavoro e l’attenzione aiutati da una forte volontà non sono qualità sufficienti per sperare di diventare dotto in questa arte.
Scrive Nicolas Grosparmy: "Si sbagliano di grosso tutti coloro che credono che abbiamo scritto i nostri libri soltanto per loro; noi invece, li abbiamo scritti per buttar fuori tutti coloro che non appartengono alla nostra setta.
Un altro alchimista, più caritatevolmente, previene il lettore con queste parole: "Ogni uomo prudente, deve, per prima cosa, imparare la Scienza, se ci riesce, cioè imparare i principi ed i metodi per operare, altrimenti è meglio che non inizi neppure, in modo da non sprecare in modo dissennato il suo tempo e le sue ricchezze... Ora, io prego coloro che leggeranno questo libretto, d’aver fede nelle mie parole. Ripeto ancora una volta che non impareranno mai questa scienza sublime con l’aiuto dei libri e che essa si può imparare soltanto per mezzo della rivelazione divina, infatti, per questa ragione è chiamata Arte divina, oppure la si può imparare con l’aiuto di un maestro buono e fedele; e poiché ce ne sono pochi, ai quali Dio ha concesso questa grazia, sono pochi anche quelli che l’insegnano.
E infine non possiamo non riportare le pregnanti parole di un autore del XVIII secolo che spiega in altro modo la difficoltà di rinvenire la chiave segreta o l’enigma: "Ecco qui la prima e vera causa per cui la natura ha nascosto questo palazzo aperto e regale a tanti filosofi, anche a quelli provvisti di intelligenza assai acuta; la causa è che, già dalla loro giovinezza, costoro si sono allontanati dalla semplice strada della natura attraverso delle conclusioni di logica e di metafisica e, ingannati dalle illusioni che stanno nei libri migliori, essi s’immaginano e giurano che quest’arte sia la più profonda e la più difficile da conoscere di qualsiasi metafisica, sebbene la natura ingenua avanzi con passo diritto e assai semplice per questa strada come in ogni altra sua strada".
Queste sono le opinioni dei filosofi circa le loro opere: non meravigliamoci se tanti studiosi si sono ingannati su questa scienza della quale erano incapaci d’assimilare anche le nozioni più elementari.
Vogliamo spingere i neofiti di questa Ars Magna, l’Alchimia, a meditare su questa verità proclamata dall’Imitation: "Essi possono far ascoltare il suono delle loro parole, ma non ne indicano il significato. In essi c’è soltanto la lettera, ma è il Signore a scoprirne il significato; essi propongono dei misteri, ma è Lui a spiegarli. Essi mostrano la strada che si deve seguire, ma è Lui che dà la forza necessaria per avanzare".
Qui è bene precisare che ermeticamente per Dio o Lui si intende il nostro Io Solare, particella, questo sì, dell’Essere Infinito.
E’ il grande ostacolo contro il quale hanno cozzato i nostri chimici.
Fulcanelli afferma che se i nostri scienziati avessero capito il linguaggio dei vecchi alchimisti, conoscerebbero le leggi della pratica di Ermes e la pietra filosofale, ormai da molto tempo, avrebbe cessato d’essere considerata una chimera.
Abbiamo detto che incontrare un maestro dell’arte alchimica, buono e sincero, equivarrebbe ad un regalo divino.
Il maestro ancora c’è, ma è difficile trovarlo, e anche se lo si trova non è disposto a parlare e bisogna essere abili per rubargli ciò che si vuol sapere.
[Accademia Kremmerziana Napoletana - http://www.accademiakremmerziana.it]



UGHELLI FERDINANDO: Monaco Cistercense, Consultore Sagra Congregazione dell'Indice, nacque a Firenze nel 1595, morì a Roma nel 1670. Fu l'autore di una ponderosa opera: "Italia Sacra Sive De Episcopis Italiae Opus", stampata a Napoli dal 1642 al 1648. Nel V volume (di 465 pagine) sono descritti ed enumerati i Vescovi di Nola e le Chiese del Regno di Napoli; una ristampa, ancor oggi reperibile, fu fatta nel 1720 (VI Venetiis); l'Opera consta di 10 Volumi e 5300 pagine. Il Remondini censura ampiamente lo scrittore, quale autore di anacronismi ed inesattezze, specialmente per quel che riguarda i Vescovi di Nola; ma, d'altra parte, bisogna considerare che lo stesso Ughelli, era stato fuorviato anche dalle inesatte attestazioni del Leone, nel suo De Nola. L'Ughelli è altresì accusato (da altri scrittori), che nella catalogazione dei Vescovi Nolani, abbia solo tenuto conto della "Cattedra" Nolana dei Vescovi, volendo ostinatamente considerare solo Nola, Sede Vescovile, anche con la falsa affermazione che, per un certo periodo di tempo, la Cattedrale di Nola sia stata la Chiesa di SS. Apostoli (dei Morti).



GEORGE RIPLEY [1415? - 1490] fu uno dei più importanti alchimisti inglesi anche se oggi poco si sa di lui, è plausibile che fosse Canonico presso il Priorato di S. Agostino a Bridlington nel Yorkshire verso la fine del quindicesimo secolo: ivi approfondì lo studio sulle scienze e particolarmente sull'alchemia. Per incrementare il proprio sapere viaggiò poi in Francia, Germania ed Italia soggiornando per un certo periodo a Roma. Verso il 1478 ritornato in Inghilterra avrebbe acquisito il segreto della trasmutazione.
Autore di diverse opere, alcune rimaste manoscritte.
Tra queste vale la pena di rammentare:
. The compound of alchymy. Or the ancient hidden art of archemie: conteining the right & perfectest meanes to make the Philosophers Stone, Aurum potabile, with other excellent experiments. Divided into twelve Gates. First written by the learned and rare Philosopher of our Nation George Ripley, sometime Chanon of Bridlington in Yorkeshyre: & dedicated to K. Edward the 4. Whereunto is adioyned his Epistle to the King, his Vision, his Wheele, & other his workes, never before published: with certaine briefe Additions of other notable Writers concerning the same. Set foorth by Raph Rabbards Gentleman, studious and expert in Archemicall Artes..., London imprinted by Thomas Orwin. 1591 ove si conserva l'esplicativa EPISTOLA a Edoardo IV Re d'Inghilterra.
Questa, importante per la conoscenza dell'
ALKAEST sarebbe stata spiegata COME QUI SI LEGGE da Ireneo Filalete che fu uno dei più di­scussi alchimisti del Seicento. Sulla sua vera identità si è creata, negli ultimi tre secoli, una ridda di ipotesi e congetture. Alcuni hanno voluto vedere dietro lo pseudonimo di Filalete (l'"amante della verità" = "Filarete") lo scozzese George Starkey (1627-1665). Altri hanno creduto che il misterioso adepto fosse John Winthrop Jr., uomo politico, scienziato ed erudito delle Colonie britan­niche in Arnerica e primo governatore del Connecticut. L'edizione completa dei testi di Filalete è oggi presentata per la prima volta dalle edizioni Mediterranee per la traduzione e la cura di Paolo Luca­relli (Eireneo Filalete, Opere, pagg. 160). In an­teprima pubblichiamo uno stralcio dell'introduzione del moderno autore.
Tra le opere di . George Starkey se ne elenca comunque una che ha stretta relazione con il tema dell'ALKAEST e precisamente trattasi del Liquor alchahest, or a discourse of that immortal dissolvent of Paracelsus & Helmont. It being one of those two wonders of Art and Nature, which radically dissolves animals, vegitables, and minerals into their principles, without being in the least alter'd, either in weight or activity, after a thousand dissolutions, &c. published by J. A. Pyrophilus [J. Astell]..., London, printed by T.R. & N.T. for W. Cademan at the Popes-Head in the lower walk of the New-Exchange, 1675.
Il SERVIZIO BIBLIOTECARIO NAZIONALE a GEORGE STARKEY attribuisce queste opere, custodite in Italia nelle pubbliche biblioteche, scritte sotto lo pseudonomo dei EIRENEO FILALETE:
Introitus apertus ad occlusum regis palatium; authore anonymo Philaletha Philosopho. In gratiam artis Chymicae filiorum nunc primum publicatus, curante Joanne Langio, Amstelodami : apud Joannem Janssonium a Waesberge, & viduam ac haeredes Elizei Weyerstraet., 1667 - 16, 79, 1 p. ; 8° - Note Generali: Philaletha Philosophus è lo pseudonimo di George Starkey; cfr. VD17, Dokument Nr. 39:117191Q - Marca (Sfera armillare) sul front - Impronta - i-i- ncus e-em fapr (3) 1667 (A) - Localizzazioni: Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II - Roma
Natures explication and Helmont's vindication, or, A short and sure way to a long and found life ... By George Starkey ... London : printed by E. Cotes for Thomas Alsop ... , 1657 - 336 p. ; 8. - Impronta - ifay n-s- heor bysi (3) 1657 (A) - Localizzazioni: Biblioteca nazionale centrale - Firenze - FI - 1 esemplare.
Verborgenheit dess unsterblichen Liquoris Alcahest, oder Ignis aquae ... Franckfurt am Mayn : G.H. Dehrling, 1707 16 p. ; 16° - Localizzazioni: Biblioteca Trivulziana - Archivio storico civico - Milano
Enarratio methodica trium Gebri medicinarum, in qua continetur lapidis philosophici vera confectio. Autore Anonymo sub nomine Aeyrenaei Philalethes, natu Angli, habitatione Cosmopolitae. Amstelodami : apud Danielem Elsevirium, 1678 - 180 p. ; 8° - Marca sul front. - Cfr. Willems, Les Elzevier, n. 1552 - Segn.: A-L8 M2 - Impronta - umta aso. usm, iltu (3) 1678 (R) - Localizzazioni: TS0013 - Biblioteca civica Attilio Hortis - Trieste
Anonymi Philalethae philosophi Opera omnia, quae adhucinotuerunt cum 12. figuris aeneis, ipsius Philalethae, nunquam visis, Mutinae : typis Fortunati Rosati ... , 1695 - [12], 288 p., [4] c. di tav. : ill - Le illustrazioni sono incisioni fuori testo - *6, A-M12 - Impronta - o,um 0.0. a-ta limo (3) 1695 (R) - Localizzazioni: Biblioteca Estense Universitaria - Modena
Lettera ipercritica di Ireneo Filalete ad un cavaliere fiorentino dell'ordine di Santo Stefano suo amico ... A Cosmopoli : 56 p. ; 4° - Segn.: A-C8 D4 - Impronta - i-l- o-nt ieer t.nu (3) 1750 (Q) - Localizzazioni: VT0116 - Biblioteca consorziale di Viterbo - Viterbo
Enarratio methodica trium Gebri medicinarum, in quibus continetur lapidis philosophici vera confectio ..., [London : G. Cooper, 1678] - 222 p. ; 16° - Biblioteca Trivulziana - Archivio storico civico - Milano
Wirdig, Sebastian, Sebastiani Wirdig ... Nova medicina spirituum: curiosa scientia & doctrina, unanimiter hucusque neglecta, & a nemine merito exculta, medicis tamen & physicis utilissima: in qua primo spirituum naturalis constitutio, vita, sanitas, temperamenta ... dehinc spirituum praeternaturalis seu morbosa dispositio ... demonstrantur. Accedit ob affinitatem argumenti anonymi Philalethae tractatus nunquam antehac editus De liquore alcahest, [Amburgo] : sumptib. Viduae Gothofr. Schultzen, bibliopolae Hamburgens., 1688 2 v. ; 12° - Localizzazioni: Biblioteca nazionale Braidense - Milano
Introitus apertus ad occlusum regis palatium; autore anonymo Philaletha philosopho. In gratiam artis Chymicae filiorum nunc denuo publicatus, illustriss., & excellentiss. domino Hieronymo Michaeli Serenissimae Reipublicae Venetiarum patritio..., Venetijs : sumptibus Pontij Bernardon sub signo Temporis, 1683 - [24], 118, [2] p. ; 12° - Philalethes è lo pseudonimo di George Starkey, cfr: Library of Congress Authorities on-line, n. 84203895; NUC-pre 1956, vol. 455, p. 258 - Impronta - uii- e-us u-um furo (3) 1683 (R) - Localizzazioni: Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II - Roma
Magnalia Medico-Chymica Continuata, Oder Fortsetzung der hohen Artzney und Feuerkunstigen Geheimnussen: Darinn die ubrigen Tractaten, so viel deren der so genannte beruhmte Philosophus Philaletha heraus gegeben zum fleissigsten verhochdeutschet vorgetragen werden, Handlend von der Universal-Artzney Oder dem Stein der Weisen. Die samtliche experientz-reiche Schrifften des Englischen Philosophi, Georgii Riplaei, so bis dato noch nie verdeutscht worden: Wie auch einige Principal Schrifften des ... Philosophi Basilii Valentini, ... und anjetzo aus einem geheimen manuscript ersetzt worden. Denen Liebhabern der Spagyrischen Arcanen zu gefallen publilciret von Johanne Hiskia Cardilucio ...< /i>, Nurnberg : Zu Verlegung Wolffgang Moritz Endters und Johann Andreae Endters Seel. Erben, 1680 - [24], 818, [12] p. ; 8° - Note Generali: VD17 39:124923T - Iniz., fregi e cornicette xil. - Segn.: ):( - 2):( 8 A-3F8(-3F8) - A c. 3F7v Errata - Impronta - r-er lnyn t:r- sodi (3) 1680 (R) - Localizzazioni: Biblioteca civica Attilio Hortis - Trieste

George Ripley
EPISTOLA
a Edoardo IV Re d'Inghilterra
Spiegata da Ireneo Filalete

* Questo Principe ha cominciato il suo Regno & è morto nello stesso anno di Luigi XI, Re di Francia; cioè egli ha regnato 22 anni dopo l'anno 1461 sino al 1483; da qui si può giudicare il tempo in cui ha vissuto Ripley.
I
QUESTA Epistola essendo stata scritta immediatamente a un Re ugualmente saggio & valoroso, deve contenere tutto il segreto dell'opera, sebbene descritto ermeticamente, & nascosto con molta arte, come l'Autore stesso assicura; & che in questa Lettera egli ne deve sciogliere interamente i nodi più difficili; da parte mia io posso testimoniare con lui che questa Epistola, benchè corta, contiene tuttavia, tutto ciò che si possa desiderare, sia per la teoria, che per la pratica dei nostri misteri.
I I
IO pretendo che questo scritto sia la chiave di tutte le Opere che io ho pubblicato; e perciò si può essere sicuri che io non mi servirò di nessuna parola dubbia, nè allegorica, come ho fatto nei miei altri scritti, ove sembra che io provi delle cose, che si troverebbero false, se non le si prende figuratamente; questa cosa io l'ho fatta solamente per celare questa arte, non essendo dunque mia intenzione che questa chiave divenga comune, io supplico coloro che l'avranno di tenerla segreta, & di non comunicarla che a qualche amico, di una fedeltà riconosciuta, & della cui discrezione si sia certi.
I I I
NON è senza motivo che io faccio questa preghiera, essendo sicuro che tutti i miei scritti messi insieme, non sono niente a paragone di questo, a causa delle contraddizioni che ho inframmischiato negli altri. Io mi servirò, dunque, in questa Epistola di un metodo molto differente da quello che ho impiegato altrove; io estrarrò all'inizio la sostanza Fisica, che contiene l'Epistola di Ripley & la ridurrò in parecchie conclusioni, che chiarirò in seguito.
I V
SICCOME le prime otto strofe di questa Epistola, che è in versi, non sono che segni di rispetto, io prendo la prima Conclusione alla nona Stanza: sapere che tutte le cose si moltiplicano per la loro propria specie, & che i metalli di conseguenza lo possono essere; poichè da sè stessi sono capaci di essere cambiati da imperfetti, in perfetti.
V
LA seconda Conclusione contenuta nella decima stanza, è che il fondamento più certo della possibilità della trasmutazione, è di poter ridurre tutti i metalli & minerali, che sono di principio metallico, nella loro prima materia mercuriale.
V I
LA terza Conclusione estratta dalla undicesima stanza, porta che tra tanti zolfi minerali & metallici & tanti mercurii, non ve ne sono che due che hanno rapporto con la nostra opera ai quali il Mercurio è essenzialmente unito.
V I I
LA quarta Conclusione, che si estrae dalla stessa Stanza, è che chi concepisce come bisogna questi due zolfi & questi due mercurii troverà che uno è più puro dell'oro, che è uno zolfo nella sua apparenza, & mercurio nel suo occulto, & che l'altro è il mercurio più puro & più bianco, che è in verità vero argento vivo, nel suo aspetto esteriore, & zolfo nel suo interiore; & ecco quali sono i nostri due principi.
V I I I
LA quinta Conclusione si trova nella dodicesima Stanza, & è che se i principi sui quali lavora un uomo sono veri, & le operazioni sono regolari, l'effetto deve essere certo, & non è altro che il vero mistero dei Filosofi.
***
QUESTE Conclusioni sono un piccolo numero; ma esse sono di grande importanza, in quanto la loro estensione, la loro illustrazione, & anche la loro delucidazione devono soddisfare un figlio della Scienza.
I X
PRIMA CONCLUSIONE SPIEGATA QUANTO alla Prima, poichè non è nostro disegno spingere chiunque nell'impresa di questa arte, ma di condurre soltanto i Figli della Scienza, io non mi soffermerò a provare la possibilità dell'Alchimia, (o della trasmutazione) poichè l'ho già fatto a sufficienza in un altro Trattato.
X
COLUI, dunque, che vuol essere incredulo lo sia; colui che vuol sottilizzare, sottilizzi; ma colui il cui spirito è persuaso della verità & della dignità di quest'arte, sia attento sulla delucidazione di queste cinque Conclusioni; & il suo cuore non mancherà di rallegrarsi.
X I
IN queste Conclusioni io mi fermerò principalmente a chiarire i luoghi ove si trovano i segreti dell'arte.
X I I
IN relazione alla prima Conclusione, ove egli assicura la verità dell'arte & la sua possibilità, colui che vorrà soddisfarsi più a lungo su questo argomento, legga le testimonianze dei Filosofi; ma l'incredulo resti nel suo errore, giacché per la sottigliezza di questi argomenti egli vuole eluderne le prove, & non crederà a molte persone, la maggior parte delle quali, si sono acquisite molta reputazione anche al loro tempo.
X I I I
COSI' per spiegare questa prima chiave, io mi fermerò soltanto alla testimonianza di Ripley, che nella quarta Stanza dell'Epistola, assicura il Re, che essendo a Louvain, egli vide per la prima volta l'effetto di questi grandi & ammirabili segreti dei due Elixirs; & nel verso seguente, egli protesta che ha anche lui trovato la via del segreto dell'Alchimia, di cui gli promette la scoperta, a condizione, tuttavia, di tenerla segreta; & sebbene nella ottava Stanza egli assicura che mai confiderà queste cose alla carta, offre tuttavia di far vedere al Re non solo l'Elixir bianco & rosso, ma il modo stesso di lavorarlo facilmente, con poche spese & in poco tempo.
X I V
COLUI, dunque che vorrà dubitare di questa arte, considererà questo famoso Autore come un imbecille, o un sofista insensato, per scrivere tali cose al suo Principe, se non fosse stato capace di effettuarle; ma la sua storia, i suoi scritti, la sua reputazione, la sua serietà, infine la sua professione, lo giustificano pienamente da questa calunnia.
X V
SECONDA CONCLUSIONE SPIEGATA LA seconda Conclusione contiene in sostanza che tutti i metalli & i corpi dei principi metallici possono essere ridotti nella loro prima materia mercuriale; cosa che fa il principale & più sicuro fondamento della possibilità della trasmutazione metallica; è su questo che ci soffermeremo più a lungo. Dovete credermi, & questo è il perno sul quale ruotano tutti i nostri segreti.
X V I
SAPPIATE per prima cosa che tutti i metalli & la maggior parte dei minerali hanno per materia prossima un mercurio, al quale aderisce quasi sempre uno zolfo esterno & non metallico, molto differente dalla sostanza esterna o nocciolo del mercurio.
X V I I
LO zolfo non manca neanche a questo mercurio; & è per mezzo suo che può essere precipitato in una polvere secca, da un liquore, che non ci è sconosciuto, ma che è inutile all'arte della trasmutazione. Questo mercurio può essere fissato al punto che indurirà ogni sorta di fuoco, la coppella stessa, & ciò senza alcuna aggiunta che il liquore che lo fissa; il quale in seguito ne può essere separato tutto intero, senza alterazione del suo peso, nè delle sue virtù.
X V I I I
LO zolfo è molto puro nell'oro; ma meno negli altri metalli, tanto che è fisso nell'oro & nell'argento, & è volatile negli altri. E' coagulato in tutti i metalli; ma nel mercurio o argento vivo è coagulabile. Nell'oro, l'argento & il mercurio, questo zolfo è così fortemente unito, che gli antichi hanno sempre creduto che lo zolfo & il mercurio non fossero che una stessa cosa.
X I X
MA vi è un liquore, del quale dobbiamo, in questa parte del mondo, l'invenzione a Paracelso, sebbene sia stato & sia comune tra i Mori, gli Arabi, & anche per qualcuno dei più abili Chimici; & è per mezzo di questo liquore che noi sappiamo separare in forma di olio tinto e metallico, lo zolfo esterno & coagulabile del mercurio; ma coagulato negli altri metalli. Allora il mercurio resterà spogliato del suo zolfo, eccetto quello che si può chiamare interno o centrale, che non potrebbe essere coagulato che con il nostro Elixir; perchè da solo non può mai essere fissato, nè precipitato, nè sublimato; ma dimora senza alterazione in tutte le acque corrosive & in tutte le digestioni, ove lo si può mettere.
X X
VI è dunque una via per ridurre il mercurio in olio, così bene come tutti i metalli & i minerali: E' con il liquore Alkaest, che da tutti i corpi composti da mercurio può separare un mercurio colante o argento vivo, dal quale tutto lo zolfo è allora separato, eccetto il suo zolfo interno & centrale che nessun corrosivo può toccare.
X X I
OLTRE questa via universale di riduzione, se ne trovano altre particolari per le quali si possono ridurre il piombo, lo stagno, l'antimonio & anche il ferro in mercurio colante, & questo per mezzo di sali che siccome sono corporali non saprebbero penetrare i corpi metallici così radicalmente come il liquore Alkaest; & è per questo che non spogliano interamente il mercurio del suo zolfo; ma gliene lasciano tanto come se ne trova nel mercurio comune.
X X I I
MA il mercurio dei corpi ha soltanto alcune qualità particolari a seconda della natura del metallo o del minerale dal quale è estratto; per questo è inutile alla nostra opera disciogliere in mercurio le specie dei metalli perfetti; non ha più virtù del mercurio comune. Non vi è che una sola umidità applicabile alla nostra opera, che non è certamente nè del piombo, nè del rame; essa non è estratta neanche da nessuna cosa che la natura ha formato, ma da una sostanza composta dall'arte del Filosofo.
X X I I I
SE dunque il mercurio estratto dai corpi ha una qualità così fredda & le stesse fecce & superfluità come il mercurio comune, unite a una forma distinta & specifica, cosa che lo rende ancora più lontano dal nostro mercurio, che è il mercurio volgare.
X X I V
LA nostra arte dunque è di fare un composto di due principi; nell'uno è contenuto il sale, & nell'altro si trova lo zolfo di natura; tuttavia siccome non sono, l'uno e l'altro, nè interamente perfetti, nè interamente imperfetti, & che possono essere cambiati & esaltati dalla nostra arte, se ne viene a capo con il mercurio comune; che estrae non il peso, ma la virtù celeste del composto; cosa che non si potrebbe fare se i suoi principi fossero imperfetti. Ora questa virtù che di per sè stessa è fermentativa, produce nel mercurio comune una razza ben più nobile di esso, che è il nostro vero ermafrodito, che si congela da sè stesso, & discioglie i corpi.
X X V
CONSIDERATE un grano di semenza ove il germe è appena visibile; tuttavia se voi separate questo germe dal grano, egli muore nello stesso istante; ma lasciate il grano tutto intero, si gonfia & fermenta; non è, tuttavia, che il germe che produce la pianta. E' la stessa cosa nel nostro corpo, lo spirito fermentativo, che è in esso, è la minima parte del composto, & le parti impure & corporali del corpo si separano con la lega del mercurio.
X X V I
MA oltre all'esempio del grano, che vi ho dato, si può osservare che la virtù nascosta del nostro corpo purga & purifica l'acqua, che è la sua matrice nella quale soffia, cioè, che ne caccia quantità di terra sporca, & una grande abbondanza di umidità sporca: & per averne la prova & vederne l'effetto, seguite ciò che vado a dire.
X X V I I
FATE la vostra lozione con dell'acqua di fonte molto pura; prima pesate esattamente una pinta di questa acqua, & lavate il vostro composto facendo la preparazione di otto o dieci aquile, mettendo da parte tutte le fecce; poi, avendole prima ben seccate, distillate o sublimate tutto ciò che potrà essere distillato o sublimato, & ne uscirà una piccolissima quantità di mercurio, mettete il resto della feccia dentro un crogiolo tra i carboni ardenti, & tutte le sostanze fecciose del mercurio bruceranno come del carbone, ma senza fumo.
X X V I I I
ALLORCHE' tutto sarà consumato pesate il resto, & voi non troverete che i due terzi del peso del vostro corpo; essendo l'altro terzo rimasto nel mercurio; pesate anche il mercurio che voi avete distillato o sublimato, & il mercurio che avete preparato a parte, & il peso di questi due mercurii non si avvicinerà molto al mercurio che avrete preso all'inizio; fate così bollire l'acqua che è servita alla vostra lozione, & fatela evaporare sino a una pellicola, poi mettetela al freddo, & formerà dei cristalli, che sono il sale del mercurio crudo.
X X I X
QUESTI lavori non sono, in verità, di alcuna utilità; ma danno un'estrema soddisfazione all'Artista, facendogli vedere le sostanze estranee, che sono nel mercurio, & che non si possono scoprire che col liquore di Alkaest; ma tuttavia in modo distruttivo & non degenerativo, come è la nostra preparazione, che si fa tra maschile & femminile nella propria specie ove si trova il fermento, che opera quello che tutte le altre cose non possono fare.
X X X
IO dunque vi dico che se voi prendete il vostro corpo imperfetto, & il Mercurio separatamente, & li fate fermentare, voi estrarrete, in verità, dall'uno uno zolfo purissimo, & dall'altro un Mercurio nero & impuro; tuttavia voi non farete mai niente di entrambi, perchè mancano della virtù fermentativa, che è il miracolo del mondo.
X X X I
E' questa che fa sì che l'acqua comune diventi erba, albero, pianta, frutto, carne, fango, pietra, minerale; è essa, infine, che fa tutte le cose. Cercatela dunque, solamente, & avrete la gioia di possederla; essa lo merita, poichè è un tesoro inestimabile; ma sappiate nello stesso tempo che la qualità fermentativa non opera al di fuori della sua specie, & che i sali non saprebbero far fermentare i metalli. X X X I I
VOLETE dunque sapere perchè alcuni Alkali separano il Mercurio dai minerali & dai metalli più imperfetti? Considerate che in tutti i corpi lo zolfo non è proprio così radicalmente mescolato, nè così intimamente unito come si trova nell'oro & nell'argento, & che lo zolfo si lega con alcuni Alkali, che sono straordinariamente disciolti & fusi con esso: & con questo mezzo le parti sono disgiunte, & il Mercurio è separato dal fuoco.
X X X I I I QUESTO Mercurio così separato è spogliato del suo zolfo; ma solo quanto è necessario, quando non si tratta che di una depurazione dello zolfo con una separazione del puro dall'impuro; ma questi Alkali avendo separato questo zolfo, hanno reso il Mercurio peggiore di prima, avendolo allontanato dalla natura metallica.
X X X I V
PER esempio, lo zolfo del piombo non brucerà mai, & se anche lo sublimate, & se anche lo calcinate per farne dello zucchero o del vetro, non lascerà col flusso & col fuoco, di riprendere la forma che aveva prima; ma essendo il suo zolfo, come avevamo detto, separato, se è aggiunto al nitro, prenderà fuoco così facilmente come lo zolfo comune; in quanto che i sali agenti sullo zolfo, di cui separano il Mercurio, mancano del fermento, che non si trova che nelle sostanze della stessa natura.
X X X V
PERCIO' il fermento del pane non agisce sulla pietra, nè il fermento di un animale o di un vegetale, opererà sui metalli, non più che sui minerali. E sebbene voi possiate estrarre il Mercurio dall'oro per mezzo del primo essere del sale, questo Mercurio, tuttavia, non compirà mai la nostra opera; invece una parte del Mercurio, che sarà estratto dall'oro con solo tre parti del nostro Mercurio, compirà l'opera interamente con una digestione continua.
X X X V I
NON vi stupite dunque di vedere il nostro mercurio divenire più potente, essendo preparato col mercurio comune. Perchè il fermento che sopravviene nel corpo preparato & l'acqua, causa la morte, poi la rigenerazione, & opera quello che nessuna altra cosa saprebbe fare; perchè oltre che separare dal mercurio una terrestralità che brucia come il carbone, & una umidità che si discioglie in acqua comune, gli comunica uno spirito di vita, che è il vero zolfo embrionale della nostra acqua invisibile, ma che opera visibilmente.
X X X V I I
DA ciò concludiamo che tutte le operazioni del nostro mercurio, escluso quella che si fa col mercurio comune, & col nostro corpo secondo le regole dell'arte, sono false & non condurranno mai al fine della nostra opera; perchè in qualsiasi modo questi mercurii siano lavorati, non avranno mai la virtù del nostro. E' questo che dice l'Autore della Nouvelle Lumiere Chimique, che nessuna acqua in tutta l'Isola dei Filosofi è propria, se non quella che si estrae dai raggi del Sole & della Luna.
X X X V I I I
VOLETE sapere cosa vuol dire, il mercurio nel suo peso è incombustibile; è un oro fuggitivo, il nostro corpo, che nella sua purezza è chiamato luna dei Filosofi, essendo ben più pura dei metalli imperfetti, il suo zolfo è così puro come lo zolfo dell'oro: non che questa sia la luna in effetti, poichè non può dimorare al fuoco.
X X X I X
ORA vengo alla composizione di questi tre principi; prima, sul nostro mercurio comune & sui due principi del nostro composto, interviene un fermento estratto dalla luna, fuori della quale, qualunque sia un corpo, non lascia di uscire un odore specifico, & sovente capita che perda del suo peso, se il composto è troppo lavato, dopo che è stato sufficientemente purificato.
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SE dunque il fermento del Sole & della Luna interviene nella nostra composizione, genererà una stirpe mille volte più nobile di esso; invece se voi lavorate sul nostro corpo composto con la via violenta del sale, voi avrete in verità, il mercurio; ma molto meno nobile del corpo, trovandosi separato & non esalato da una tale operazione.
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TERZA CONCLUSIONE SPIEGATA LA Terza Conclusione è: tra tutti gli zolfi minerali & metallici, non ve ne sono che due che siano propri per la nostra opera; & che siano essenzialmente uniti al loro mercurio. Tale è la verità dei nostri segreti, sebbene per ingannare gli imprudenti, sembra che noi diciamo il contrario: perciò non credeteci, allorchè noi insinuiamo due strade differenti; come testimonia Ripley, non vi è che un solo & vero principio, noi non abbiamo che una materia & una sola via lineare, cioè un modo uniforme di procedere.
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SICCOME questi due zolfi sono i principi della nostra opera, essi devono essere omogenati, o resi della stessa natura; è solo l'oro spirituale che noi cerchiamo di far diventare bianco, poi rosso, & questo oro non è altro che il volgare che si vede tutti i giorni, ma del quale non si percepisce lo spirito che è nascosto in esso. Questo principio non ha bisogno che di composizione, & questa composizione deve essere fatta col nostro zolfo bianco & crudo, che non è altra cosa che il mercurio volgare preparato con frequenti coobazioni sul nostro corpo ermafrodito, sino a che diviene un'acqua ignea o ardente.
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SAPPIATE dunque che avendo in sè, il mercurio, uno zolfo passivo, la nostra opera consiste nel moltiplicare in esso uno zolfo attivo, che esce dai reni del nostro corpo ermafrodito, il cui padre è un metallo & la cui madre un minerale.
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PRENDETE dunque la più amata dai figli di Saturno, che porta per sue armi un cerchio d'argento (1) sormontato da una croce di sabbia in campo nero, che è il marchio segnalato dal grande mondo, maritatela al più valente degli Dei, (2) che dimora nella casa di Ariès, & voi troverete il sale della natura: acuite la vostra acqua con questo sale meglio che potete, & voi avrete il bagno lunare nel quale l'oro vuole essere purificato.
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IO vi assicuro oltre ciò, che quando avrete ridotto il nostro corpo in mercurio, senza addizione di mercurio comune o il mercurio di qualche altro corpo metallico, fatto da sè, cioè senza addizione di mercurio, vi sarà totalmente inutile, perchè non vi è che il nostro solo mercurio, che ha una forma & un potere celeste, che non riceve tanto dal nostro corpo composto, o principio, quanto dalla virtù fermentativa, che procede dai due, sia dal corpo che dal mercurio. & è il mezzo col quale è prodotta una meravigliosa creatura: Applicatevi dunque a maritare lo zolfo con il mercurio. Cioè il nostro mercurio, che è impregnato di zolfo, deve essere maritato col nostro Oro. Allora voi avrete due zolfi maritati & due mercurii di una stessa radice, il cui padre è l'oro, & la cui madre la luna.
(1) Tutta questa allegoria non è che per spiegare l'antimonio che i Chimici designano con un Globo nel modo segnato.
(2) E' il marte o il ferro, dal quale si fa il metallo stellato con l'antimonio.
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QUARTA CONCLUSIONE SPIEGATA LA quarta Conclusione, chiarisce interamente tutto ciò che noi abbiamo detto sopra; principalmente che questi zolfi sono, uno il più puro dell'oro, & l'altro il più puro zolfo bianco del mercurio; questi sono i nostri due zolfi, dei quali, l'uno che sembra un corpo coagulato, porta tuttavia il suo mercurio nel suo seno; l'altro in ogni modo, vero mercurio; ma mercurio purissimo, che porta il suo zolfo dentro di sè, sebbene nascosto sotto la forma & la fluidità del mercurio.
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VI è qui il più grande imbarazzo per i Sofisti, perchè non essendo istruiti nell'amore metallico, essi lavorano su delle sostanze eterogenee, o se lavorano su dei corpi metallici, essi uniscono maschio con maschio o femmina con femmina. Talvolta lavorano su un solo corpo, o se prendono maschio & femmina, il maschio sarà impotente, & l'utero della femmina sarà viziato, in modo che per la loro sconsiderazione sono frustati nelle loro speranze, attribuiscono la colpa all'Arte, sebbene in effetti debba essere imputata solo alla loro follia, perchè essi non ascoltano i Filosofi.
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IO conosco parecchi di questi Sofisti, che sognano su parecchie pietre vegetali, minerali, & animali; alcuni aggiungono anche l'igneo, l'Angelico, & la pietra del Paradiso. E poichè lo scopo a cui tendono, è troppo alto, essi inventano dei modi convenienti per arrivarvi. Essi vogliono che vi si possa pervenire per una doppia via, una, che chiamano via umida, & l'altra, la via secca. L'ultima, a quanto pretendono è un labirinto, che non è conosciuto che da i più illustri Filosofi; & l'altra è il solo Dedalo, via agevole e di poca spesa, che i poveri possono intraprendere.
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MA io lo so, & posso renderne testimonianza, che nella nostra opera, non vi è che una sola via, che un solo Regime; & che non vi sono altri colori che i nostri: & ciò che diciamo o che scriviamo altrimenti, non è che per ingannare gli imprudenti. Perchè se ogni cosa deve avere le sue proprie cause, non vi è effetto prodotto per due vie su dei principi differenti. Così noi protestiamo & avvertiamo il Lettore, che nei nostri primi scritti abbiamo nascosto molte delle cose sotto il pretesto di due vie, che noi abbiamo insinuato, & che toccheremo in poche parole.
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UNA delle nostre opere è un gioco da ragazzi & lavoro da donne; & questo non è altro che la cottura, col fuoco. Protestiamo che il più basso grado di questa opera è che la materia sia eccitata & che possa di ora in ora circolare senza timore della rottura del vaso, che per questa ragione deve essere molto forte; ma la nostra cottura lineare o uniforme è un'opera interna, che avanza di giorno in giorno & di ora in ora, & che è molto differente da questo calore esterno; perchè è invisibile & insensibile.
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IN questa opera la nostra Diana è il nostro corpo allorchè è mescolata con l'acqua, anche se il tutto è chiamato Luna, perchè il tutto è sbiancato & la femmina governa. La nostra Diana ha un bosco, poichè nei primi giorni della pietra, che il nostro corpo è sbiancato, spinge parecchie vegetazioni: nel seguito dell'opera si trovano in questo bosco due colombe, poichè dopo tre settimane l'acqua del nostro Mercurio sale con l'anima dell'oro dissolto. Esse sono unite fortemente negli abbracci eterni di Venere; in questo tempo la composizione, si trova interamente colorata di una pura acerbità. E queste Colombe sono circolate sette volte, poichè nel numero sette si trova ogni perfezione. Esse infine muoiono, poichè non si elevano più, & non danno più alcun segno di movimento: allora il nostro corpo è nero come il becco di un corvo; & in questa operazione tutto è cambiato in una polvere più nera del nero stesso.
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NOI usiamo spesso queste Allegorie, quando parliamo della preparazione del nostro Mercurio. Quello che facciamo per ingannare i semplici & per oscurare & ingarbugliare le nostre opere, parlando dell'uno quando dovremmo parlare di un altro. Poichè se questa Arte fosse scritta tutta di seguito & nell'ordine del nostro procedimento, allora le nostre opere sarebbero disprezzate & sembrerebbero anche delle follie.
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CREDETEMI dunque, quando dico che le nostre opere sono veramente naturali, è perciò ci prendiamo la libertà di confondere il lavoro dei Filosofi & di imbrogliare con questo ciò che è l'effetto della sola natura: io lo faccio affinchè si possano lasciare gli imbecilli nell'ignoranza del nostro vero aceto, che essendo loro sconosciuto rende inutile il loro lavoro. Per finire dunque, questa conclusione, soffrite che io vi dica queste parole.
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PRENDETE il vostro corpo che è l'oro volgare, & il nostro Mercurio che è stato acuito sette volte col suo matrimonio col nostro Corpo Ermafrodito, che un Caos, & il lampo dell'anima del Dio Marte nella terra e nell'acqua di Saturno; mescolate questi due assieme nel peso che la natura domanda. In questo miscuglio voi possedete il nostro fuoco invisibile, poichè nell'acqua o Mercurio vi è uno zolfo attivo o fuoco minerale: & nell'oro vi è uno zolfo morto & passivo, ma tuttavia attuale. Quando dunque questo zolfo dell'oro è eccitato e rivivificato, si forma dal fuoco della natura, che è nell'oro & dal fuoco contro natura, che è nel Mercurio, un altro fuoco partecipe dell'uno e dell'altro; è l'unione di questi due fuochi in uno solo, che causa la corruzione, che è l'umiliazione, da cui viene in seguito la generazione, che è glorificazione & perfezione.
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SAPPIATE ora che solo l'oro governa questo fuoco interno; l'uomo ignorando interamente l'evoluzione, tutto quello che può fare è di aver cura nel tempo della sua operazione, & percepire solo il calore; egli deve notare che questo fuoco opera tutti i gradi del calore necessario alla cottura. Non vi è sublimazione in questo fuoco, perchè la sublimazione è una esaltazione, & questo fuoco è talmente esaltazione che è esso stesso la perfezione, & non si può fare alcun progresso senza esso.
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TUTTA la nostra opera non consiste in altro che nel saper moltiplicare questo fuoco, cioè far circolare il corpo sino a che la virtù dello zolfo sia aumentata. Poi questo fuoco è uno spirito invisibile, & siccome non ha alcuna dimensione, sia in alto che in basso, estende la Sfera di attività della nostra materia nel vaso, in modo che la sua sostanza sebbene materiale & visibile, si sublimi & salga per l'azione del calore elementare; questa virtù spirituale è tuttavia sempre così bene in ciò che resta in fondo al vaso, come in ciò che sale in alto, poichè è come la vita nel corpo dell'uomo, che è dappertutto nello stesso tempo, senza essere tuttavia per questo, attaccata o determinata in qualche luogo particolare.
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TALE è il fondamento dei nostri Sofismi, allorchè noi diciamo che nel vero fuoco Filosofico non vi è alcuna sublimazione. Poichè il fuoco è vita, è un'anima che si assoggetta alle dimensione del corpo, da dove deriva che l'apertura del vaso, o il raffreddamento della materia durante il lavoro, uccide questa vita, o questo fuoco che risiede nello zolfo segreto, sebbene non vi sia un solo grano che vada perduto; i ragazzi stessi sanno come si accende & governa il fuoco elementare, ma non vi è che il Filosofo, che possa discernere il vero fuoco interno; in effetti è una cosa miracolosa, che agisce nel corpo, sebbene non faccia parte del corpo; perciò diciamo che il fuoco è una parte celeste, & che è uniforme, perchè è sempre lo stesso sino a quando il Periodo della sua operazione sia giunto; allora essendo nella sua perfezione non agisce più, poichè ogni agente si separa quando il termine della sua operazione è venuto.
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RICORDATE dunque, quando parliamo del nostro fuoco, che non sublima, di non sbagliarvi, & di non credere che l'umidità della nostra composizione che è nel vaso, non deve sublimarsi. E' questo che deve fare incessantemente. Ma il fuoco che non sublima è l'amore metallico, che è in alto & in basso & in tutta l'estensione della materia.
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ORA per concludere tutto ciò che ho detto, imparate & siate attenti alla materia che prendete; poichè come dice il Proverbio: un cattivo corvo depone un cattivo uovo. Che la vostra semenza & la vostra materia sia pura, & allora vedrete una stirpe nobile. Che il fuoco esterno sia tale che in esso la nostra confezione possa giocarsi in tutti i lati nel vaso, & con questo mezzo & in pochi giorni produrrà ciò che desiderate, cioè il becco del corvo. Poi continuate la vostra cottura, & in 130 giorni vedrete la bianca Colomba. E 90 giorni dopo apparirà lo scintillante Cherubino.
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QUINTA CONCLUSIONE SPIEGATA
INFINE eccoci arrivati alla quinta conclusione, che è: se le operazioni di un uomo sono regolari, & i principi veri, la fine deve essere certa, cioè il magistero.
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OH folli & ciechi che non considerate che ogni cosa nel mondo ha la propria causa & il suo modo di agire, credete voi che un Pilota possa andare per mare ove vorrà con una carrozza, bella che possa essere? La prova che ne facesse, sarebbe senza dubbio una follia; immaginatevi con un Naviglio per ben equipaggiato che sia, andare in volata, & senza considerazione: prima di arrivare alla costa d'oro, non mancherebbe di fare naufragio contro qualche Roccia. Sono dei simili folli, coloro che cercano il nostro segreto nelle materie triviali, & che tuttavia sperano di trovare l'oro di Ophir.