Nella qui
integralmente digitalizzata Grillaia del 1668 (vedine il FRONTESPIZIO) il GRILLO (o capitolo) XIII il cui titolo detta "Della poca stima che si fa della buone lettere e de' letterati, e della cagion" . "Che mi giova di Lira armar la mano, Io la bella armonia negletta sento, A questa chiara quanto esemplare esternazione Aprosio fa quindi seguire quelle di Girolamo Preti e Claudio Achillini quindi quelle di Giuseppe Battista e di Francesco della Valle anche se sottolinea un'esternazione lirica assai pertinente di Francesco Baldacci che giudica "...degno di miglior fortuna per il suo letterario valore..." e che scrisse sul tema discusso "Che val penna d'ingegno alzarsi a volo/ Fin sovra il Ciel, se quindi avaro Nume/ Tarpata e vil la risospinge al suolo ? ". Sia pur pianta infeconda hoggi l'Alloro, Io pur, Sersale, infra l'Aonio Choro Qual più degna esser puote opra, e quiete, Altri gli heroi servir colmo di speme Sembra la vita, che da noi sen'fugge, Lieve vapor, ch'avidamente fugge Ma sol pagine verghi, e sparga inchiostro More colui, che le lusinghe infide La passo in Roma à spasso passeggiando Urto in Parnaso, e do di naso in Pindo, Lodo Dio: content'io contento il Mondo, In effetti Aprosio aveva già discusso con il Minozzi il tema della Fortuna e della mutevolezza dei destini umani in senso esteso e quindi nel contesto di queste riflessioni, poi autonomamente meditate e ripensate, un ruolo epocale e simbolico aveva per lui finito per raggiungere - anche nel complesso di quelle riflessioni aprosiane maturate abbastanza perigliosamente in merito all'astrologia, disciplina vista con crescente sospetto dalla Chiesa, specie in merito alla preconizione del futuro -
Jacopo Gaufrido, un letterato francese di poco conto verosimilmente al servizio del cardinale Richelieu, che si infiltrò alla corte dell'ambizioso Odoardo Farnese duca di Parma e Piacenza ottenendo vari favori sin al punto di rivestire la carica di "segretario ducale", cosa che gli permise in un primo momento di avere una parte di rilievo nelle scelte militari e diplomatiche del ducato =
celebrando nella sua Biblioteca Aprosiana
Fra tante citazioni biblioteconomiche che da sole potrebbero costituire una spaccato
nuovo della cultura barocca merita un cenno particolare la rarissima satira NOS CANIMUS SURDIS atta ad indicare il lavoro improbo quanto spesso inascoltato dalla vacuità umana di letterati, poeti e filosofi = citando l'amico Pier Francesco Minozzi a p. 175 del Grillo Aprosio emblematicamente ne riporta un'esternazione poetica sui "vizi regnanti" nel loro tempo = "...con vili oggetti/ son bassi i Grandi, e'l Principato è Plebe;/ E sol volgono gli affetti/ Ai biondi rai [l'oro] di Messicane glebe;/ E sprezzano, devoti a i lor Tesori,/ con sacrilego core i Sacri Allori./...": in effetti però la "chiave di volta" della lunghissima dissertazione aprosiana non è il Minozzi, dalla cui poesia, emerge solo una verità valifa per ogni Stato e Contrada ma piuttosto l'enigmatica e latina Satira NOS CANIMUS SURDIS. Aprosio ne fa in effetti il "motore concettuale" intorno al quale ruotano tutte le sue asserzioni, sia concordanti che discordanti con la "Satira" stessa. A giudizio del suo autore il poco vantaggio che proviene dal sapere e in particolare dalle Lettere e dalla pratica della Poesia avrebbe il suo acme in Italia. Fatta una celere premessa con la registrazione di detti d'autori classici greci e latini (Aristofane, Partenio, Petronio, Marziale, Caio Plinio il Giovane (da p. 154 a pag. 155) Aprosio analizza però quasi subito la greve situazione dei letterati in Italia prendendo come primo testimone un autore celebre come Girolamo Fontanella di cui emblematicamente propone e riproduce un'Elegia (pag. 154, par. 3) di cui qui, per la significanza, vengono trascritte due strofe rimandando il lettore alla lettura integrale nel testo antico digitalizzato =
E con musico stral ferir la morte,
Se de l'orba tiranna esposto in mano,
Di me trionfa ingiuriosa sorte?
Il poetico honore miro schernito,
Veggio, ch'avido il Mondo a l'oro intento
A la cetera mia chiude l'udito".
Aprosio al par. 10 di pag. 160 scrive quindi "Non mancò chi si dasse à credere, esser questo un male della nostra Italia: e tale fù l'Anonimo scrittore della Satira Nos Canimus Surdis" di cui anche riproduce una sarcina narrativa salvo poi, come da sua consuetudine e Mutatis mutandis (ma non senza motivazione nè prove documentarie) finisce con il sostenere, come suol dirsi che "...tutto il Mondo è Paese..." alla fine di pagina 161 (par. 11) esplicitamente annotando "Parmi con tutto ciò, che' l Mondo camini per una medesima strada. Gli Italiani sospirano, e gli altri non si stanno e cita in merito un verso emblematico latino (cui segue tutta la composizione) del poeta tedesco Lampert Alard che tradotto efficacemente suona "Miserevole è oggi l'onore conferito agli studi" = Aprosio fa seguire a questo autore un ( da pagina 162 a pagina 174) buon numero di letterati stranieri in ambascie varie per i loro scritti e per le risultanze mai o quasi proporziali alle aspettative: sarebbe troppo lungo citarli tutti, specie con l'aggiunta dei brani poetici loro ripresi dal frate agostiniano, ma giova forse rammentare quanto scrisse Daniel Stolcius de Stolcenberg di cui alla VI riga dal basso di pagina 174 leggesi l' epigramma 73 della III Centuria delle sue opere e qui tradotto "Raro è l'onore che si conferisce alle Muse, poco Amore/ si manifesta per l'Arte, sparsi qua e là nell'abbandono son i bei dogmi/ Febo vien spregiato e così le Grazie assieme a Pallade/ a mano Mercurio concede i suoi miseri doni ": è a questo punto che "il Ventimiglia" riporta l'acuto sonetto del Minozzi sopra proposto e quindi si lascia andare ad altre e diverse considerazioni, come, e lo si ripete, gli capita sovente non avendo più materiale su cui discutere od intendendo porre un argine al fluire delle citazioni : ma l'Aprosio ha in essere lo sviluppo di un suo giudizio personale che lo porta a Ventimiglia od almeno a quella Ventimiglia che gli garantisce i piaceri dell' otium litterarium, otium negotiosum, ozio negozioso, ozio faticoso ecc. = o più pertinentemente ancora dell'ozio intellettuale in un ambiente salubre, e di qui la rivalutazione ambientale della città contro opinioni avverse, ma in un suo sito lontano dalle congestioni del mondo e quindi anche dalle problematiche della vita quotidiana a fronte, come in tanti altri luoghi del tempo, di guerre e calamità naturali e per acclarare la scelta della residenza nella città natale, con l'erezione della sua splendida "Libraria", l'autore con la valorizzazione dell'habitat esistenziale procede in maniera consequenziale alla enfatizzazione dell'otium negotiosum proponendo tre modi diversi utilizzati da tre poeti per avvalorare la consolazione che può dare anche senza remunerazioni economiche, onori e fama la nobiltà della poesia coltivata in un ambiente ideale.
Il primo e meno famoso tra i poeti da "il Ventimiglia" menzionati risulta esser Federigo della Valle di cui egli riporta a p. 177 questo Sonetto indirizzato a Monsignor Diego Sersale Arcivescovo di Bari in cui si legge =
Sia lo stuolo de' Cigni anco negletto,
Solo perche non fassi ultimo obbietto
Con la turba volgar, la gola, e l'oro.
Ne l'otio faticoso haverò diletto,
Ne turberanno il mio tranquillo petto
Le Corti insidiose, e'l rauco Foro.
Che con sincera man, che nulla teme,
Toglier se stesso, e gli altri nomi a Lete?
Si vanti, a me saran glorie più liete,
Sciolto cantar dov'altri piange, e geme.
A questa lirica estremamente completa sia nel celebrare l'otium negotiosum quanto la sua valenza principale quella, peraltro estremamente sentita da Aprosio, di emancipare l'autore da quell'oblio che in un modo o nell'altro molti se non tutti travolge con lo scorrere del tempo Aprosio ne fa seguire una consimile di un autore certo assai più noto vale a dire il lirico marinista Giuseppe Battista ultima riga della stessa pagina; la lirica, che verrà ripresa da Aprosio anche nella II e già inedita parte dello Scudo di Rinaldo, a sua volta canta =
Onda del Nilo in su l'Egizia rena.
Sembra fiore Sabeo, che nato appena
Turbo lo schianta, o fulmine l'adugge.
Il Pianeta gentil, che'l dì rimena:
Vampa, che per lo Ciel striscia, e balena,
Nube, che sù'l Pirene Euro distrugge.
Chi brama l'eternità. Così deride
Il velen della Morte il viver nostro.
Siegue de l'Ozio, e dell'Idalio Mostro.
Una Punta di Penna il Tempo uccide.
Questa terzina finale ed in particolare l'ultimo verso resteranno a lungo fissi nella memoria aprosiana sin a farne un motto per se stesso e per la sua Libraria, anche di fronte ad un graduale incupimento del religioso di rimpetto alle tante calamità epocali e quale unica fuga plausibile dall'oblio: quindi, dopo una lirica dell'amico Muscettola qui digitalizzata ma non trascritta, quasi a chiudere con una vena scherzosa ed ottimistica la lunga dissertazione sul "destino dei poeti" l'eruditissimo agostiniano intemelio propone di Ludovico Luporeo questo -come scrive- leggiadrissimo Leporeambo che argutamente dice =
Ne in Dataria, cosa che sia pretendo,
E non so stocchi, e i miei baiocchi spendo,
Vesto modesto, e vado vivacchiando.
E di Canzoni, non dobloni abondo
Pur bevo freso, e da tedesco brindo.
Che non ho moglie, o doglie, e sto sì lindo
Che ancor per bell'hmor fo un salto tondo.
[Aprosio tralascia la II quartina che detta: Per dar conforto ai morti vo trottando/
a S. Gregorio, il Purgatorio aprendo/
con la messa, e con essa vo schermendo/
con un pavolo il diavolo scornando./].
In ossequio al suo costume in questi trattati a sfondo moralistico Aprosio cerca spesso, con molta affettazione, di prendere una sua personale posizione ma, nel caso in oggetto, trattandosi di due amici di pari levatura non osa contraddire nessuno dei due limitandosi a sottolineare solo la distinta postazione donde hanno intrapreso a dissertare sul tema = preferisce quindi non esporsi ai favori dell'uno quanto nemmeno alle opposizioni dell'altro preferendo tirare in ballo, per così dire, un terzo personaggio vale a dire il nobile e letterato Paolo Giordano II duca di Bracciano facendolo "Padrino di questo Duello" in forza di una sua Satira indirizzata a Mario Stellanteposto che in definitiva non dando ragione nè all'uno quanto all'altro dei contendenti forse riassume un principio aprosiano che la Fortuna non il "Genio" od il "Merito" costituisce non di rado la vera chiave per il successo nelle Corti: composizione che essendo, con altre, custodita all'Aprosiana, si riproduce qui integralmente (in grafia conservativa) precisando che nel testo antico -da qui accessibile- in linea rossa si evidenziano però i collegamenti multimediali =
Vorrei di Corte uscire, o indugio à entrare
Temendo lei; pur per uscirne entrarvi,
E per finir bisogna incominciare.
Cosa lunga sarebbe il raccontarvi
L'invenzioni, e le trame ad una, ad una
Di molti per poggiare in alto, e starvi.
Ma se no vi concorre Sorte, alcuna
Non ne riesce mai di tante, e tante,
Perche qui non può altro, che Fortuna,
Non l'opre di valor, non l'opre sante,
Non la chiarezza di sangue, ò d'ingegno,
Ne'l servir più fedele, o più costante.
Non l'oro protettor d'gni disegno;
E che spesso, se vuol Sorte aiutarlo,
Ma non già senza lei, arriva al segno.
Del sangue sparso de gli avi non parlo
E' muffo (N.d.R. = amuffito, stantio, inutile): roba nuova si richiede:
Questo è ridicoloso à ricordarlo.
Poi è servizio publico. Mercede
D'hoggi pretende chi servizi rese
Privato, c'hora al publico precede.
Chi dimostrò coraggio in alto ascese.
Altri il fece, e non hebbe un gran mercè.
Impiega un'altro in van gli anni, e le spese,
Un, perche non si seppe un certo chè
Gli havria nociuto, si condusse in porto.
E un'altro poi, che non si sà perchè.
Esce altri in luce à guisa d'un'aborto.
V'è chi l'impegno altrui porta à la cima.
Potrebbe un'altro ringraziare un morto.
L'Ostinazion de' Grandi altri sublima:
Altrui non basta; la tema, e la speme
Privata, e non la publica si stima.
E l'interesse, che ben spesso insieme
Esalta turba inaspettata, e nuova,
Laonde il Vecchio, e'l Degno ondeggia e freme.
In somma fà, e rifà; prova e riprova,
Io ti rimiro grande, se tu hai
Fortuna; e se non l'hai, nulla ti giova]
INFORMATIZZAZIONE B. E. DURANTE