, Do. Roberti Marantae Venusini Speculum aureum, & lumen aduocatorum praxisciuilis, nouissime recognitum, ac miro ordine, opulentissimisque additionibus, in suis locis , Venetiis: Bonelli, Giovanni Maria eredi, 1572
Riminaldi, Ippolito <1520-1589>, Clarissimi iuris consulti D. Hippolyti Riminaldi ... Commentaria elegantissima in secundam Codicis partem, in almo patriae suae Gymnasio per eum publice praelegendo , Episcopius, Nikolaus <2.>
Grammatico, Tommaso <1473-1556>, Thomae Grammatici, Neapolitani ... Consilia, vota seu iuris responsa, summa nunc demum fide castigata & excusa. Accessit in totum corpus. Nouus index uagus & bipartius, , VenetiisVenetiis: Giglio, Domenico, 1557
Ziletti, Giovanni Battista <16.sec.>, Responsorum quae vulgo consilia vocantur ad causas vltimarum voluntatum, successionum dotium et legitimationum. Nunc primum publicae commoditati editorum, ex praest , VenetiisVenetiis: Ziletti, Bernardino & fratelli, 1568
Tiraqueau, Andre <1488-1558>, D. Andreae Tiraquelli ... De iure constituti possessorij tractatus, primum editus anno. 1549. nunc autem ab ipso authore castigatus & auctus. Cum summariis et amplissim , Venetiis: Turrato, Bartolomeo, 1555
Tract. de iure prothomiseos excellentissimi iureconsul. Matthaei De Affl. et Baldi de Perusio, Venetiis: Zanetti, Cristoforo, 1573
Tiraqueau, Andre <1488-1558>, Andreae Tiraquelli ... Commentarii in. l. si unquam. C. de reuocan. donatio. Ab eo ad tertiam partem totius operis aucti, ut his notis patet [ ] in quibus praeter propr , Venetiis: Lorenzini, Francesco, 1560
Bianchi, Marcantonio <1498-1548>, Practica criminalis Marci Antonii Blanci Patauini I.V.D. clarissimi aurea & perutilis, cum singularibus cautelis pro reorum defensionibus, nunc primum in lucem panditur , Venetiis: Ziletti, Giordano, 1555
Bianchi, Marcantonio <1498-1548>, Practica criminalis M. Antonii Blanci Patauini I.V.D. clariss. Aurea etperutilis cum singularibus cautelis pro reorum defensionibus, nunc primum inlucem panditur..., Venetiis: Comin da Trino, 1567
Decio, Filippo <1454-1535>, Dn. Philippus Decius In titul. ff. de regulis iuris. Cum additionibus d. Hieronymi Cuchalon Hispani, & Ioann. Baptistae Ziletti ... Recens autem analyticis adnotationib , Venetiis: Bertano, Pietro Maria, 1608
Follerio, Pietro <1580fl.>, Eccellent. D. Petri Follerij de S. Seuerino originarij Partenopei, Praxis censualis super Pragma. de censibus, In qua censuum materia abundantissime describitur, et mir , VenetijsVenetiis: De_Maria, MarcoComin da Trino, 1569
Goffredo : da Trani <1245m.>, Summa D. Goffredi Tranensis, I.C. clariss. in tit. Decretalium omnibus vtilis & necessaria. A D. Io. Baptista Ziletto Veneto erroribus summa diligentia emendata... , Venetiis ][Al segno della Salamandra: Al segno della Salamandra <1539-1570>, 1564
Tractatus de testibus probandis vel reprobandis variorum authorum, et quidem omnium, qui his de rebus, quicquam memorabile hactenus commentati sunt. ... Multo repurgati , VenetiisVenetijs apud Iacobum Vitalem: Vidali, GiacomoComin da Trino, 1574
Tractatus quam plures criminales, nonnullorum illustrium iurisconsultorum cum summarijs sane non vulgaribus, ac indice locupletissimo nunc recens summo studio curaque , VenetijsVenetiis: Giunta, Lucantonio <2.>, 1567.
Stato pontificio, Rota Bononiensis, Decisiones causarum Rotae Bononiensis, per excell. I.C.D. Petrum de Benintendis Caesenatem, ... sub annis 1540. 1541. 1542. 1543. 1544. & 1545. recollectae, Venetiis: Raverio, BartolomeoRubini, Bartolomeo eredi, 1583
Del Pozzo, Paride<1413ca.-1493>, Paridis de Pvteo Neapolitani iureconsulti clariss. Tractatus super reassumptione instrumentorum, Venetiis: Valvassori, Giovanni Andrea, 1572
"La Dogana
L’esistenza di una Dogana ad Avellino risale al X-XI secolo: una lettera del 1070 inviata dal duca di Napoli e dai consoli della stessa città al Vescovo di Benevento costituisce a tale proposito un valido documento. E anche se non si può stabilire con certezza che il palazzo della Dogana fosse collocato dove è attualmente situato, senza dubbio esso fu uno dei primi edifici della città di Avellino sviluppatasi intorno al castrum longobardo a seguito della distruzione della vecchia Abellinum.
La Dogana nacque, come le altre dello stesso periodo, per motivi prettamente fiscali e protezionistici rivelando presto la propria superiorità anche rispetto alle vicine dogane di Atripalda e di Serino. Tale superiorità derivava soprattutto dalla posizione strategica che essa occupava, trovandosi sulla strada che il grano proveniente dalla Puglia percorreva per arrivare a Napoli.
L’edificio della Dogana era molto probabilmente diviso in due zone, delle quali una era adibita a deposito delle merci e l’altra, che conferiva all’edificio anche il ruolo di forum, era destinata alla vita della cittadinanza.
Durante la tragica pestilenza del 1656, l’edificio della Dogana di Avellino (come scrive in questo suo bel saggio "on line" Barbara Matetich)
era caduto in uno stato di abbandono tale da richiamare la sensibilità del principe Francesco Marino Caracciolo [non letterato militante, ma certo uomo di gusto ed amante dell'arte con le caratteristiche di mecenatismo proprie di quei potenti che piacevano ad Angelico Aprosio] il quale ne commissionò il restauro al Fanzago
.
Con i lavori di restauro iniziati nel 1668 liberando lo stabile da vecchie costruzioni che si addossavano ad esso, il Fanzago apportò un contributo straordinariamente attento e studiato alla disadorna facciata dell’immobile trasformandola in un elegante brano architettonico ornato di statue e di fregi, servendosi di una impaginazione sul piano a due dimensioni e utilizzando spregiudicatamente statue classiche e statue d’epoca.
Al piano inferiore l’artista collocò cinque lunette, ai lati dell’arco centrale due statue su alte mensole: una Diana a sinistra , un Efebo a destra.
Il piano superiore si componeva di cinque riquadri, simmetrici agli archi del piano sottostante: quello centrale, più profondo e più disadorno, conteneva una lastra di marmo con un’iscrizione in latino ancora in sito, che svolgeva la funzione di tramandare il restauro compiuto dal Fanzago. Gli altri riquadri erano, invece, più lavorati e ospitavano in nicchie circolari dei busti rappresentanti Augusto , Adriano, Pericle e Antonino Pio. Nei riquadri laterali, contenute nelle loro nicchie, vi erano a sinistra una statua acefala di Venere Anadiomene e a destra la statua di Francesco Marino Caracciolo in armatura cinquecentesca, probabile opera del Fanzago stesso.
Il piano superiore si completava apponendo alle estremità laterali dei riquadri due scudi araldici con le insegne delle famiglia Caracciolo-Rossi.
Infine l’attico presentava altri brani decorativi, disposti sempre in modo rigorosamente simmetrico tra cui emergevano soprattutto due statue: un Apollo e una Niobide provenienti dall’antica Abellinum.
Il disegno della facciata puntualissimo nei particolari, non è però minuzioso e si mantiene su larghe campiture che si accentuano solo negli episodi a tutto tondo: le statue nelle nicchie. E proprio nel posizionare tali statue, sia che fossero pezzi di spoglio oppure realizzate appositamente o ancora "trafugate" da altre committenze, il Fanzago rivela una grande capacità di controllare l’insieme sistemando in modo originalissimo avanzi di bottega accanto ad accurati dettagli come gli inattesi e straordinari anelli di ferro alla base dell’edificio trattenuti da quattro cilindri di pietra confluenti in grosse sfere dai quali si scioglieva una robusta catena che incorniciava l’edificio.
Infine, con un decorativismo tardo-manierista, l’architetto evita gli accentuati chiaro-scuri della plastica barocca e stende piani ricavati con delicata bicromia in un’ampia scala che si raccorda con il rimanente spazio urbano.
Dopo il terribile terremoto del 23 novembre 1980 ben poco è rimasto dell’arredo architettonico del Fanzago. Molti pezzi sono andati distrutti, altri grottescamente dispersi o vandalicamente trafugati.
Successivamente la struttura è stata segnata da un altro duro colpo: un violento incendio che ha risparmiato solo la facciata dell’edificio.
A testimoniare l’antico splendore restano soltanto i due leoni collocati ai lati dell’edificio, che sembrano malinconicamente rivendicare la singolarità di un edificio che stiamo perdendo insieme ad un pezzo fondamentale della storia della città".
Jacopo Sannazzaro
nacque a Napoli nel 1456 e, tranne una breve parentesi in cui seguì nell'esilio l'amico Federico III d'Aragona, lì visse fino alla morte, avvenuta nei 1530.
Discendente da una nobile famiglia oriunda della Lomellina, trascorse la fanciullezza e l’adolescenza a San Cipriano Piacentino, portando poi a lungo in sé la suggestione di quell’ambiente. Entrato nell’Accademia pontaniana, dove assunse lo pseudonimo di ACTIUS SYNCERUS, si legò d’amicizia col Pontano, che a lui intitolò il dialogo Actius, sulla poesia.
Fu colto umanista e poeta raffinato. Ci ha lasciato numerose opere in lingua latina ed in volgare. Fra le prime ricordiamo le "Bucoliche", di ispirazione virgiliane, le "Eclogae piscatoriae" (5 composizioni che descrivono il golfo di Napoli), le "Elegie" in tre libri, il poema sacro "De partu Virginis"; fra quelle in volgare citiamo i "Gliommeri" (= "gomitoli", filastrocche di proverbi napoletani), le "Farse" e le "Rime" (ad imitazione del Petrarca).
Ma il suo capolavoro, in volgare, è l' "Arcadia", una delle opere più rappresentative della civiltà e del gusto umanistici.
E' un romanzo composto da 12 ecloghe precedute da altrettante prone, di ispirazione pastorale: narra le vicende del giovane Sincero (il poeta stesso), il quale, a seguito di una delusione d'amore, lascia Napoli e si trasferisce nell'Arcadia, ove trova una certa serenità d'animo condividendo la semplice vita dei pastori-poeti di quella regione. Ma un sogno terribile lo induce a tornare a Napoli, ove apprende della morte della sua amata. In effetti l'opera è alquanto frammentaria ed eccessivamente infarcita di immagini tratte da opere classiche, ma contiene anche bellissime descrizioni di paesaggi ed esprime sinceramente il desiderio profondo del Poeta di pace e tranquillità e la sua aspirazione (comune a tutti gli umanisti) verso un mondo lontano ormai scomparso per sempre.
L' Arcadia inaugurò il genere pastorale nella letteratura moderna italiana e straniera e fu considerato un modello esemplare di prosa poetica.
Lucio Anneo Seneca:
La filosofia dominante nella Roma imperiale del primo secolo d.C. fu lo stoicismo . Con i successori di Augusto i rapporti tra i filosofi e il potere si fecero problematici , sfociando talvolta in aperto conflitto . Ciò coincideva con il crescente contrasto tra l' imperatore e l' aristocrazia senatoria , che in alcuni dei suoi esponenti più significativi si avvicinò allo stoicismo . Di per sè la filosofia può essere mobilitata per giustificare sia l' abbandono al corso provvidenziale del mondo , sia lo sforzo morale dell' individuo , il ritiro dalla vita politica o l' impegno in essa . Emblematica di questa ambivalenza é la vita e l' opera di Seneca . Nato a Cordova in Spagna nel 4 d.C. , visse a Roma aderendo da giovane al pitagorismo , da cui fu poi distolto dal padre , celebre retore , e in seguito abbracciando lo stoicismo . Si dedicò dapprima con successo alla vita forense , ma nel 41 d.C. fu esiliato in Corsica dall' imperatore Claudio per un sospetto adulterio . Ivi rimase otto anni , dedicandosi agli studi filosofici e componendo una serie di scritti consolatori , nonchè alcuni dialoghi . Rientrato a Roma nel 49 d.C. diventò precettore di Nerone , che però mostrò sempre maggiore predilizione per le arti , che per la filosofia . In seguito all' ascesa al potere del suo discepolo , nel 54 d.C. , Seneca scrive il De clementia , nel quale egli si candida come consigliere del principe . Ivi sostiene la tesi che la clemenza é tanto più ammirevole , quanto maggiore é il potere di chi la manifesta . La clemenza é agli antipodi dell' ira , la malattia del tiranno , di cui Seneca descrive le cause e suggerisce la terapia in un altro scritto , il De ira : se vogliamo avere la meglio sull' ira , non deve essere lei ad avere la meglio su di noi ; cominceremo a vincere solo quando la nasconderemo e le impediremo di prorompere all' esterno ; infatti , dice Seneca , se le consentiamo di fuoriuscire , ci domina : dobbiamo nasconderla nel più profondo remoto del nostro petto , essa va trascinata perchè non trascini noi ; bisogna combattere tutti i suoi indizi e le sue manifestazioni : é opportuno raddolcire la voce , allentare il passo , contenere il volto e a poco a poco l'interno si conformerà all' esterno . Il filosofo consigliere può contribuire alla formazione nel principe di quell'autodominio , che é garanzia del corretto dominio sugli altri . La monarchia é la forma naturale di costituzione : come il cosmo é tenuto insieme , secondo una tesi tipicamente , da un soffio vitale , da una mente divina che lo pervade , così il corpo dell' impero é tenuto saldamente in piedi dal principe . La collaborazione con Nerone durò fino al 62 , quando con l' uccisione di Burro , che aveva affiancato Seneca nella posizione di consigliere , la clemenza del principe si dissolse . A Seneca si pose l' alternativa tra la lotta contro il potere o il ripiegamento in se stesso . Non sappiamo sino a che punto la prima via fu imboccata e se la congiura dei Pisoni , scoperta nel 65 , ne fu l' esito , soprattutto non sappiamo se Seneca ne fosse al corrente ; di fatto fu accusato di farne parte e fu costretto al suicidio ma nei suoi scritti non compare mai un' esplicita giustificazione del tirannicidio . Da buon stoico quale era , Seneca non condanna il suicidio : quando non si può più applicare la virtù , quando l' uomo non é più libero esso é concesso : " non sempre bisogna cercare di tenere la vita , perchè vivere non é un bene , ma é un bene vivere bene . Così il saggio vivrà quanto deve , non quanto può ; esaminerà dove gli converrà vivere , con quali persone , in quali condizioni , con quali occupazioni . Egli si preoccupa sempre del tipo di vita che conduce , non della sua durata : se gli si presentano molte avversità che turbano la sua tranquillità , esce dal carcere ... Quel che importa non é morire più presto o più tardi , ma importa morire bene o male , ma morire bene é fuggire il pericolo di vivere male " ( ep. 70 ) . Una teoria sul suicidio , evidentemente , presuppone una teoria sul valore della vita , perchè quello é negazione o almeno rinuncia di questa . Che cosa é la vita per un uomo saggio ? " Vivit is qui multis usui est , vivit is qui se utitur " ( vive colui che é di utilità a molti , vive colui che può usare se stesso ) : per essere di utilità a qualcuno in modo consapevole , bisogna poter disporre di sè , della parte migliore di sè , cioè della propria ragione . Altre vittime illustri della reazione di Nerone furono il nipote di Seneca , Lucano , e Trasea Peto . In una situazione di dominio tirannico , quale appariva ai senatori ostili al principe , lo stoicismo , più che fornire programmi di azione , poteva insegnare che cosa non si deve fare nè temere . Anche per Seneca , costretto all' impotenza politica , la filosofia diventa , come già per Cicerone , la via di ripiego . La perdita di spazio politico appare compensata dall' estensione nel tempo dell' efficacia della propria azione , anche per le generazioni future , esercitata con la scrittura . E' in questo periodo che Seneca compone i suoi scritti filosofici più importanti , in particolare alcuni dialoghi sull' otium , sulla tranquillità dell' animo , sulla provvidenza e soprattutto le Questioni naturali e le 124 Lettere a Lucilio . Ridiventando filosofo , Seneca trova davanti a sè la natura da contemplare nelle sue manifestazioni e nel suo ordine ; all' indagine sulle cause dei fenomeni metereologici egli dedica le Questioni naturali , in sette libri . Ma ciò che Seneca ritrova é soprattutto la sua interiorità : in questa nuova circostanza la filosofia diventa in primo luogo una barriera di protezione contro un mondo minaccioso . Il punto di partenza consiste nel riconoscere che contro la sorte é impossibile lottare e che l' errore fondamentale é di attribuire valore a ciò che dipende da essa : " siamo tutti schiavi del destino : qualcuno é legato con una lunga catena d' oro , altri con una catena corta e di vile metallo . Ma che importanza ha ? La medesima prigione rinchiude tutti e sono incatenati anche coloro che tengono incatenati gli altri ... Tutta la vita é una schiavitù . Bisogna quindi abituarsi alla propria condizione , lamentandosi il meno possibile e cogliendo tutti i vantaggi che essa può offrire " ( La tranquillità dell' anima ) . Il dominio dei valori si trova così spostato dall' esterno all' interno , nella ragione , da cui dipende la valutazione delle cose . L' interiorità , a cui fa appello Seneca , é il luogo in cui si combatte contro gli assalti di tutto ciò che é esterno per la salvaguardia dela propria libertà . La virtù non é preclusa a nessuno e per questo aspetto anche gli schiavi sono uomini , ma Seneca non ne trae la conclusione che uno schiavo virtuoso dovrebbe anche essere liberato dalla schiavitù sul piano giuridico , poichè questa condizione giuridica riguarda solo il corpo dello schiavo , che , consegnato dalla sorte a un padrone , non può mutare il suo stato perchè con la sorte non si interferisce . La vera schiavitù per Seneca é quella volontaria , l' assoggettamento al vizio . Discorso analogo può valere per quelli che gli stoici avevano chiamato indifferenti : per esempio , nei confronti delle ricchezze , Seneca sottolinea la netta differenza nel disprezzare le ricchezze avendole o non avendole . Il modello militare di virtù e l' etica agonistica dello sforzo contro gli ostacoli , proprie dello stoicismo con una più forte impronta cinica , si confermano particolarmente consoni al ceto aristocratico di Roma . << Senza un avversario la virtù marcisce >> diceva Seneca . Paradossalmente proprio la tirannide diventa occasione per ritrovare la vera libertà , che ha il suo modello nell' autosufficienza del sapiente . La costruzione e l' affermazione di sé , attraverso il combattimento , é dunque una vicenda interna all' anima . Il ritiro in se stessi , nel seno protettivo della filosofia , é anche fuga dalla folla e da forme ostentate e volgari di filosofia , come quella dei cinici , stravaganti anche nell' aspetto e nel comportamento esteriori . seneca non esita invece ad avvicinarsi al precetto epicureo del vivere nascostamente : questo recupero positivo di Epicuro da parte di un filosofo non epicureo é abbastanza eccezionale nell' antichità . La stessa forma epistolare a cui Seneca ricorre é un richiamo al modo di filosofare epicureo . Le prime 30 lettere indirizzate a Lucilio si concludono tutte con una massima tratta dagli scritti di Epicuro e offerta alla meditazione : una massima utile , infatti , anche se enunciata da Epicureo , é proprietà comune . Seneca , che pure si professa stoico , rivendica quindi la libertà di filosofare in nome proprio di fronte a una presunta ortodossia di scuola . I filosofi del passato , egli sostiene , "non sono i nostri padroni , ma le nostre guide ".
Ben poche fra le opere senecane rimaste sono databili con sicurezza, sicché è difficile cercare di seguire un eventuale sviluppo del suo pensiero. Il genere della consolatio si costituisce attorno a un repertorio di temi morali che fondano gran parte della riflessione filosofica di Seneca: la fugacità del tempo, la precarietà della vita e la morte come destino ineluttabile dell'uomo. Molte opere filosofiche di S. sono state raccolte, dopo la sua morte, in 12 libri di "Dialoghi" su questioni etiche e filosofiche: insomma, scritti morali, confidenze e dichiarazioni dello scrittore al personaggio a cui ogni scritto è dedicato. Le singole opere costituiscono, così, piuttosto che dialoghi in senso stretto, vere e proprie trattazioni autonome di aspetti o problemi particolari di etica, in un quadro generale ch'è quello essenzialmente di un eclettismo di propensione stoica (scuola di mezzo"):
" De providentia " (62 d.C.?): vi si espone la tesi (opposta a quella epicurea), che tende a giustificare la constatazione di una sorte che sembra spesso premiare i malvagi e punire gli onesti: ma è solo la volontà divina che vuole mettere alla prova i buoni ed attestarne la virtù. Il sapiens stoico realizza la sua natura razionale nel riconoscere il posto che il logos gli ha assegnato nell'ordine cosmico, accettandolo serenamente.
" De brevitate vitae ": vi sono trattati i temi del tempo, della sua fugacità e dell'apparente brevità della vita: la condizione umana ci sembra tale solo perché noi non sappiamo afferrare l'essenza della vita, e la disperdiamo in occupazioni futili.
" De ira libri III " (41 d.C.?): sono una sorta di fenomenologia delle passioni umane, poiché analizzano i meccanismi di origine e i modi per inibirle e controllarle: si tu vis vincere iram, non potest te illa , questo è il tema portante. Se per i Peripatetici era giusto che si potesse sfogare l'ira in manifestazioni esterne, per Seneca è l'esatto contrario: l'ira va trattenuta, va vinta, affinchè non sia essa a vincerci. Bisogna trascinarla dentro, affinchè non sia lei a trascinarci; è opportuno tenere nascoste le sue manifestazioni ( obruamus signa illius ).
" De consolatione " (posteriore al 37 d.C.).
" De clementia " : l'opera è stata composta all'incirca tra il 55 e il 56 e rappresenta la più chiara espressione della concezione senecana del potere. Il testo è opportunamente dedicato all'imperatore Nerone come traccia di un ideale programma politico ispirato ad equità e moderazione. Seneca non mette in discussione la legittimità costituzionale del principato, nè le forme ormai palesemente monarchiche che esso ha assunto: il potere unico era il più conforme alla concezione stoica di un ordine cosmico retto dal logos, dalla ragione universale, il più idoneo a rappresentare l'ideale di un universo cosmopolita, a fungere da vincolo e simbolo unificante dei tanti popoli che formano l'impero. Il problema, piuttosto, è di avere un buon sovrano: l'unico freno del sovrano, essendo il potere assoluto, sarà la sua stessa coscienza, che lo dovrà tratteenere dal governare in modo tirannico. L'ideale senecano di clemenza è una misurata commistione di indulgenza e moderazione.
" De costantia sapientis ", " De tranquillitate animi " (62 d.C.?): in questa trilogia, dedicata all'amico Sereno, Seneca cerca una mediazione tra l'otium contemplativo e l'impegno del civis romano, suggerendo una posizione intermedia tra neoteroi (Catullo) e Cicerone. Il comportamento dell'intellettuale deve essere rapportato alle condizioni politiche, ma la scelta di una vita totalmente appartata può essere resa necessaria da una grave posizione politica, che non lascia al saggio altro che rifugiarsi nella solitudine contemplativa. E Seneca polemizza con un pensatore stoico (Attenodoro), sostenendo che il filosofo stoico non deve allontanarsi dalla politica (come voleva Attenodoro, sulla scia di Epicuro).
" De otio " (62 d.C. ?): in quest'opera vi è un ribaltamento delle posizioni senechiane: il vero filosofo stoico deve stare lontano dalla politica e dedicarsi interamente alla vita contemplativa. Chi opera politicamente si accorge di non potere esercitare la virtus, come si era accorto attenodoro, e come ora si accorge Seneca, in seguito alla rottura dei rapporti con Nerone.
In effetti, più specificamente, questo è il tema del secondo dei dialoghi, mentre il primo esalta l'imperturbabilità del saggio stoico di fronte alle ingiurie e alle avversità e il terzo affronta il problema della partecipazione del saggio alla vita politica. A tutti e tre i dialoghi, però, comune è l'obiettivo da seguire: quello, cioè, della serenità d'animo capace di giovare agli altri, se non con l'impegno pubblico, almeno con l'esempio e con la parola. Sempre di filosofia trattano:
" De beneficiis " (7 libri): dedicati all'amico Ebuzio Liberale, in essi si parla della natura e delle varie modalità degli atti di beneficenza, dei legami tra benefattore e beneficiato e dei doveri che ne conseguono (si sospetta, qui, una velata allusione al comportamento di Nerone). In pratica, quest'opera è un appello ai doveri della filantropia e della liberalità, nell'intento di instaurare rapporti sociali più umani e cordiali: si configura quindi come risposta alternativa al fallimento del progetto di una monarchia illuminata. Il beneficio, per Seneca, è un atto in sè, non finalizzato ad avere un tornaconto.
Tra i dialogi abbiamo due lettere ( ad Helviam matrem e ad Polybium , un liberto di Claudio) basate sul genere della consolazione, ripreso dall'antica Grecia, che indaga su temi morali e sulla precarietà della vita o sulla morte come destino. In particolare, la lettera a Polibio si rivela un tentativo di adulare l'imperatore, e per questo S. viene accusato anche di opportunismo.
Quindi abbiamo: 124 " Epistulae morales ad Lucilium " (20 libri, composte negli ultimi anni di vita): S. vi riassume la sua filosofia e la sua esperienza, la sua saggezza e il suo dolore: vi sono insomma esposti i caratteri della filosofia stoica, spesso avvicinandosi alla tradizione diatribica. L'opera ci è giunta incompleta e si può datare al periodo del disimpegno politico (62). Lo spunto per la composizione di queste lettere sarà venuto probabilmente a S. da Platone e da Epicuro: in ogni caso, egli mostra la consapevolezza di introdurre nella cultura letteraria latina un genere nuovo, distinto dalla tradizione più illustre rappresentata da Cicerone. Il modello cui egli intende uniformarsi è Epicuro, colui che nelle lettere agli amici ha saputo arrivare ad un alto grado di formazione e di educazione spirituale. Se si tratti di un epistolario reale o fittizio è questione dibattuta; fatto sta che S. è convinto che lo scambio di lettere permetta di ottenere un'unione con l'amico che, fornendo direttamente un esempio di vita, si rivela più efficace di un insegnamento dottrinale. La lettera è maggiormente vicina alla vita reale e permette di proporre ogni volta un nuovo tema: S. utilizza la lettera come strumento ideale soprattutto per la prima fase della direzione spirituale (di curvatura profondamente aristocratica), fondata sull'acquisizione di alcuni principi basilari. Inoltre, il genere epistolare si rivela appropriato ad accogliere un tipo di filosofia, come quella dell'autore, priva di sistematicità e incline soprattutto alla trattazione di aspetti parziali o singoli temi etici (si dice, di questa forma, "parenetica"). Col tono pacato di chi non si atteggia a maestro severo ma ricerca egli stesso la sapientia, e attraverso un vero e proprio colloquium, S. propone l'ideale di una vita indirizzata al raccoglimento e alla meditazione, ad un perfezionamento interiore mediante un'attenta riflessione sulle debolezze e i vizi propri e altrui. Il distacco dal mondo e dalle passioni che lo agitano si accentua, nelle Epistole, parallelamente al fascino della vita appartata e all'assurgere dell'ozio a valore supremo: un ozio che non è inerzia, ma alacre ricerca del bene. La progressività del processo di formazione, così, non a caso si rispecchia in quella della forma: le singole lettere, man mano che l'epistolario procede, tendono ad assimilarsi al trattato filosofico.
Di carattere scientifico sono i 7 libri delle " Naturales quaestiones ", dedicati a Lucilio: trattati scientifici nei quali Seneca analizza i fenomeni atmosferici e celesti, dai temporali ai terremoti alle comete. L'interesse dell'autore per le scienze - ritenute parte integrante della filosofia - non è "gratuito", ma è legato ad una profonda istanza morale, comune all'epicureismo: quella di liberare gli uomini da vani e superstiziosi terrori. Seneca celebra, tra l'altro, il valore etico del progresso scientifico, ma è contrario all'uso della scienza per fini esecrabili: ad esempio, è contrario all'uso illegittimo degli specchi o alla barbara usanza romana di intavolare i pesci ancora vivi.
Vi sono poi 9 tragedie cothurnatae, cioè di argomento (mitologico) greco: Hercules furens , Troades , Phoenissae , Medea , Phaedra , Oedipus , Agamemnon , Thyestes , Hercules Oetus . Molto poco si sa sulle tragedie di S.: tuttavia, sono le uniche tragedie latine a esserci pervenute in forma non frammentaria, e inoltre sono molto importanti anche come documento della ripresa del teatro latino tragico: esse, infatti, rappresentano il punto di arrivo, ai limiti dell'espressionismo verbale, della "tragedia retorica". Tuttavia, appunto la scarsità di notizie esterne sulle tragedie senecane non ci permette di sapere nulla di certo sulle modalità della loro rappresentazione: non è da escludere l'ipotesi che fossero tragedie destinate soprattutto alla lettura in pubblico, in cui quindi l'azione drammatica è sostituita dalla declamazione dei sentimenti (fine e profonda ne è la psicologia) e dalla sottigliezza del dialogo sofistico. Quelle ritenute autentiche sono, come detto, nove cothurnatae: sul modello dell'autore greco Euripide abbiamo, ad es., le Phoenissae , che narra del tragico destino di Edipo e dell'odio che divide i suoi due figli Etèocle e Polinice. Il mito tebano di Edipo è presente anche nell' Oedipus : causa inconsapevole dell'uccisione del padre, alla scoperta di ciò il protagonista si acceca. Nel Thyestes si narra della vendetta di Atreo, che animato da odio mortale per il fratello Tieste (gli ha sedotto la sposa), lo invita a un finto banchetto di riconciliazione in cui imbandisce al fratello ignaro le carni dei figli. Tuttavia, il rapporto con i modelli greci è abbastanza conflittuale: se da una parte S. sente la necessità di una ferrea autonomia, dall'altra ha sempre in mente i modelli greci. Il linguaggio poetico delle tragedie ha la sua base, poi, nella poesia augustea, dalla quale l'autore mutua anche le raffinate forme metriche, come i metri lirici oraziani usati negli intermezzi corali. Le tracce della tragedia latina arcaica si avvertono, invece, soprattutto nel gusto del pathos, e spesso l'esasperazione della tensione drammatica è ottenuta mediante l'introduzione di lunghe digressioni, che alterano i tempi dello sviluppo inserendosi nella tendenza a isolare singole scene come quadri autonomi. Sul filone delle tragedie di età giulio-claudia è infine evidente la generalizzata ispirazione antitirannica. Le tragedie sono sempre alimentate dalla filosofia e dalla dottrina stoica dell'autore, i cui tratti fondamentali sono illustrati sotto forma di exempla nelle opere: le vicende si configurano infatti come conflitti di forze contrastanti, soprattutto all'interno dell'animo, nell'opposizione tra mens bona e furor, la ragione e la passione. Questo, tuttavia, è da considerarsi più che altro come substratum delle tragedie, sia perché abbiamo ben presenti le esigenze letterarie del tempo, sia perché nella tragedia di Seneca il logos si rivela incapace di frenare le passioni e di arginare, quindi, il male. Nascono perciò toni cupi e atroci, scenarî d'orrori e di forze maligne, in una lotta tra il bene e il male che oltre ad avere dimensione individuale, all'interno della psiche umana, assume un aspetto più universale. Ad es., la figura del tiranno sanguinario è quella in cui si manifesta più spesso il male, tormentato com'è dalla paura e dall'angoscia, nel suo eterno problema del potere. A parte va considerata l' Octavia , una commedia praetexta (cioè di argomento romano, e l'unica rimastaci della letteratura latina), ove si rappresenta la sorte di Ottavia, la prima moglie di Nerone e da lui ripudiata e fatta uccidere. Il fatto però che venga preannunciata in maniera troppo corrispondente alla realtà la morte di Nerone, lascia trasparire forti dubbi sulla paternità della tragedia (S., che vi compare peraltro come protagonista, morì prima di Nerone), attribuita invece dalla tradizione manoscritta, data l'affinità stilistica con le precedenti tragedie. l' Apokolokýntosis o "Ludus de morte Claudii", una satira menippea sull'apoteosi dell'imperatore. Il componimento narra appunto la morte di Claudio e la sua ascesa all'Olimpo nella vana pretesa di essere assunto fra gli dei, i quali invece lo condannano agli inferi dove finisce schiavo del nipote Caligola e del liberto Menandro: una sorta di contrappasso dantesco per chi, durante il suo impero, ha riempito di liberti il governo romano. Si tratta, evidentemente, di una satira, che assume spesso toni parodisticamente solenni, aspetti coloriti e situazioni fortemente ironiche a scapito del poco amato imperatore Claudio (è la tipica opposizione stoica al potere arbitrario ed incontrollato), mentre con gioia viene salutato l'avvento al potere di Nerone. Apokolokýntosis è il titolo greco dell'opera e significherebbe "deificazione di una zucca", con evidente riferimento alla fama poco simpatica che si era fatto Claudio. Un'opera simile contrasta però con la laudatio funebris dell'imperatore morte presentata dallo stesso S. a Nerone, e fa nascere qualche dubbio sulla sua autenticità. Si attribuisce infine a S. una raccolta di circa 70 epigrammi, di cui tuttavia solo 3 vanno sotto il suo nome; sicuramente apocrifa è, invece, la corrispondenza con San Paolo.
Tito Flavio Clemente:
La tradizione lo voleva nato, verso la metà del sec. II, ad Atene, e ciò sembra confermato dal fatto che Clemente Alessandrino stesso, parlando dei viaggi da lui compiuti a scopo di studio nelle principali regioni del Mediterraneo, incomincia dalla Grecia.
Di qui egli passò nella Magna Grecia, poi si recò in Oriente, Siria e Palestina, e finalmente si fermò in Alessandria d'Egitto, avendo qui trovato in Panteno il maestro che cercava. Collaborò con lui nell'insegnamento e alla morte di lui, avvenuta verso il 190, gli successe nella direzione della scuola catechetica, ma pochi anni dopo, nel 202-203, la persecuzione di Settimio Severo lo costrinse ad allontanarsi per sempre da Alessandria. Si recò allora in Cappadocia, dove morì intorno al 215.
Clemente Alessandrino esercitò con la sua opera di maestro (ebbe come discepolo, tra gli altri, il grande Origene) e con i suoi scritti un influsso decisivo e rivoluzionario nella letteratura cristiana. Ci restano di lui tre opere principali: il Protreptico, il Pedagogo, gli Stromata, alcuni scritti minori e i titoli, con scarsi frammenti, di altre opere. Il Protreptico o Esortazione ai greci è evidentemente un'apologia e come tale si riallaccia alle opere dei grandi apologisti greci del sec. II. Esso mira da una parte a dimostrare la vanità del paganesimo e dall'altra a celebrare la verità e la grandezza del cristianesimo. La confutazione del paganesimo presenta analogie con quella dei predecessori, ma insiste maggiormente sui misteri e sull'iniziazione misterica. Il Pedagogo, in 3 libri, è il seguito logico dell'opera precedente. Quelli che hanno raccolto l'appello e si sono messi al seguito del Maestro Divino devono ora ascoltarne docilmente i consigli: questo è l'argomento del primo libro. Gli altri due contengono precetti minuti per regolare ogni azione e ogni parola secondo la morale cristiana. In questo modo saranno pronti per ricevere l'insegnamento superiore e per cominciare lo studio delle dottrine riservate agli iniziati. Clemente Alessandrino non predica un ideale ascetico, ma una saggia moderazione nei godimenti della vita terrena. Un magnifico inno al Cristo, fine ultimo, norma di tutte le cose che sono nel cosmo, conclude l'opera. Gli Stromata o Tappezzerie (specie di «miscellanea») sono un'opera in 8 libri (l'ottavo però è soltanto allo stato di abbozzo, quasi appunti di letture, excerpta), molto composita e difficile da classificare. Per molto tempo si volle vedere negli Stromata il materiale raccolto da Clemente Alessandrino per la composizione di quel libro, il Maestro, che a detta di Clemente Alessandrino stesso avrebbe dovuto concludere la trilogia. Ma l'esame dell'opera ha indotto la maggior parte dei critici a scartare tale ipotesi, perché negli Stromata non vi è nulla che superi il solito moralismo di Clemente Alessandrino e che quindi faccia pensare a quell'insegnamento «superiore» annunziato nel Pedagogo : si tratta piuttosto di appunti e note per ausilio della memoria. In questa opera Clemente Alessandrino si occupa soprattutto dei rapporti tra religione cristiana e scienza profana e tende a dimostrare che il cristianesimo è la vera filosofia.
Abbiamo ancora di Clemente Alessandrino un'omelia su Marco (10, 17-31), nota sotto il titolo Quis dives salvetur, in cui dimostra, contro un'interpretazione letterale e formalistica del passo, come anche il ricco possa salvarsi qualora faccia buon uso dei suoi beni: la chiusa contiene la narrazione della famosa leggenda del discepolo di S. Giovanni diventato capo di briganti e di nuovo convertito dall'apostolo. Gli Excerpta ex Theodoto (nome di uno gnostico valentiniano) e le Eclogae propheticae sono soltanto appunti di letture. Tra le opere perdute ricordiamo le Ipotiposi o Abbozzi, in 8 libri, che erano commenti a brani della Sacra Scrittura e di cui ci restano frammenti in citazioni di autori posteriori e una traduzione latina parziale (dal titolo Adumbrationes Clementis Alexandrini in epistulas canonicas) . Altri frammenti ci sono rimasti di opere, pure perdute, sulla Pasqua, sul canone ecclesiastico, ecc
.
Abbiamo già accennato all'importanza fondamentale della figura di Clemente Alessandrino nella storia della letteratura e del pensiero cristiano, ma dobbiamo aggiungere che è impresa quasi disperata tentare di racchiudere in una visione d'insieme la sua concezione di Dio, dell'uomo, del cosmo e della storia. Clemente Alessandrino infatti non giunse alla sintesi grandiosa di Origene, onde le varie concezioni rimangono in lui allo stadio di fermenti ideali e culturali non ancora fusi e amalgamati. Tuttavia, anche se la sintesi è mancata, si possono cogliere nella sua opera alcuni temi fondamentali, su cui Clemente Alessandrino ritorna e indugia con predilezione tutta particolare. Uno di questi è il rapporto tra la filosofia greca e il cristianesimo. Riprendendo una tesi già enunciata da Giustino, Clemente Alessandrino sostiene che la filosofia greca non soltanto non è in contrasto con il cristianesimo, ma ne è la preparazione naturale e indispensabile, sia storicamente sia per quello che riguarda la formazione spirituale di ogni uomo. Anch'egli, come Giustino, sostenne la teoria del «plagio», secondo cui i filosofi pagani avrebbero attinto le loro verità da Mosè e dagli altri scrittori sacri dell'Antico Testamento, ma andò oltre questo aspetto negativo della teoria proclamando che la filosofia, possedendo una sua intrinseca verità, è l'alleata indispensabile del cristianesimo nella lotta contro la gnosi eterodossa e lo strumento insostituibile per comprenderne le verità. Infatti per Clemente Alessandrino il cristianesimo è essenzialmente gnosi, conoscenza illuminante e illuminata, visione, e il vero cristiano è il vero «gnostico», cioè colui che si eleva dalla semplice fede e dalla semplice osservanza dei precetti morali alla contemplazione della Verità eterna. Ma con tutto ciò sarebbe inesatto accusare Clemente Alessandrino di razionalismo e di intellettualismo, perché anche per lui la fede rimane sempre il punto di partenza e la premessa insostituibile del filosofare, e la filosofia non ci dà mai le verità ma solo ci illumina su di esse; e del resto Clemente Alessandrino non ignora che la via unica per giungere alla gnosi è quella della grazia divina, che il Cristo concede a tutti, anche ai semplici e agli ignoranti.
L'altro punto, su cui la speculazione dell'Alessandrino si esercitò con maggior insistenza, iniziando quel processo di cristianizzazione del pensiero greco che durerà per molti secoli, è la cosmologia. Egli attinge qui a piene mani dalla filosofia stoica e dal platonismo, filtrato attraverso l'interpretazione posidoniana e filoniana. Sebbene Fozio rimproveri a Clemente Alessandrino di aver ammesso nelle Ipotiposi l'eternità della materia, nelle opere a noi rimaste la creazione dal nulla da parte di Dio è affermata esplicitamente e provata con riferimenti a Platone, in cui egli credeva di veder asserita questa verità. Da Platone, forse attraverso Filone, egli prende pure la distinzione tra mondo sensibile e mondo intelligibile, che rimane poi fondamentale presso i Padri della chiesa (Origene, i Cappadoci, ecc.). Anche l'antropologia assume definizioni e motivi propri dello stoicismo e del platonismo: la tricotomia platonica soprattutto ha una grande importanza per comprendere le idee morali di Clemente Alessandrino. Dopo il peccato originale le parti inferiori dell'anima, l'irascibile e la concupiscibile, si sono ribellate all'intelletto, donde il disordine della vita morale umana. La vita spirituale quindi ha per scopo di ristabilire questo ordine, soprattutto mediante la gnosi che illumina l'anima e l'ascesi che la libera dalle passioni, per condurla allo stadio finale dell'apàtheia, che è qualcosa di più dell'indifferenza e insensibilità dei cinici e degli stoici: è libertà morale, luce interiore, unione col Cristo, assimilazione a Dio.
Un'altra idea caratteristica di Clemente Alessandrino, che sarà ripresa e sviluppata da Origene e dagli altri alessandrini, è la concezione «pedagogica» della provvidenza divina: Dio opera nel cosmo e nella storia mediante il suo Logos, parlando attraverso le cose ai figli degli uomini, ebrei e gentili, ammaestrandoli e traendoli a poco a poco, per mezzo della filosofia greca e della «filosofia barbara» (cioè la Scrittura), alla fede nel Vangelo e alla vita della contemplazione e della grazia.
È stato molto discusso se la cultura di Clemente Alessandrino fosse di prima mano e se egli conoscesse direttamente tutti gli autori classici che cita. La filologia non ha mancato di mettere in luce i suoi rapporti con intermediari di vario genere: epitomi, antologie, raccolte dossografiche, ecc.; ma non è mancata neppure recentemente una tendenza a rivalutare la preparazione culturale del pensatore alessandrino.
[EUGENIO CORSINI in "NOVA 2006" - UTET]