cultura barocca
CENNI

CENNI DI STORIA AGRONOMICO-ALIMENTARE
(CON CENNI ALLE ATTIVITA' MERCANTILI ED ALLA TIPOLOGIA DI ALCUNE AZIENDE)

Per comodità di lettura si consultino le voci:

-GLI AREALI: PREISTORIA - STORIA = L'EPOCA PREROMANA
-ECONOMIA ED AGRONOMIA ARCAICA
-L'INFLUSSO DI ROMA: "L'ARTE DEL PRANZARE" NEL MERCATO ECONOMICO-COMMERCIALE APERTO E NELLA SOCIETA' DEI CONSUMI
L'IMPERO DI ROMA = VEDI LA RETE VIARIA E LA CARTOGRAFIA MULTIMEDIALE DEI COMMERCI STRADALI E MARITTIMI
-STRUMENTI AGRICOLI: IN PARTICOLARE L'ARATRO
-DUE STRAORDINARIE TESTIMONIANZE DELLA RAFFINATEZZA NELL'ARTE DEL PRANZARE DEI ROMANI DI ALBINTIMILIUM:
* - 1 - LA PATERA VITREA
* - 2 - IL SERVIZIO DA VIAGGIO MULTIUSO CON FORCHETTA
-TRAFFICO MERCANTILE E NON NELLA ROMANITA'
-ALBERGHI, CAUPONAE E LUOGHI DI RICOVERO NELLA ROMANITA': I MENU' DEI RISTORANTI
-REGOLAMENTAZIONE DEL TRAFFICO COMMERCIALE ROMANO
-LA CIVILTA' DEL LEGNAME NELLA CIVILTA' ROMANA: SFRUTTAMENTI VARI E PARTICOLARMENTE PER L'EDILIZIA
-TIPOLOGIA DI AZIENDA RUSTICA ROMANA.
-ANIMALI DOMESTICI E LORO ALLEVAMENTO NELLA ROMANITA'
-L'AVVENTO DI GRANO E FRUMENTO
-INTRODUZIONE DEL PANE IN ITALIA E LIGURIA
-LA SUA DIFFUSIONE CAPILLARE IN ITALIA E LIGURIA
-PANE E PANIFICAZIONE NELL'ETA' DI MEZZO
-I TEMPI DEI BARBARI

-LA DIFFICILE ECONOMIA ALIMENTARE DEL MEDIOEVO
-...E DEI TEMPI DEI SARACENI

-L'ECONOMIA CHIUSA E CURTENSE
- ANTROPOLOGIA CULTURALE - SOCIETA' - VITA DI RELAZIONE = IN DETTAGLIO MEDICINA UFFICIALE - MEDICINE ALTERNATIVE - MEDICINA POPOLARE - ERBORISTERIA - CHIRURGIA - ALCHIMIA = PERSISTENZE DI CULTURE E RELIGIONI PRECRISTIANE E DI PAGANESIMO NELL'AREALE
- PIANTE - FUNGHI: RACCOLTA DI PIANTE SPONTANEE
-UNA DIETA MEDIEVALE PER RICCHI, FRATI E POPOLANI
-FICHI/ FICHETI: UNA COLTURA DEL PONENTE LIGURE ALLA BASE STORICA DELL'ALIMENTAZIONE
-BOSCO/BOSCHI : LA CULTURA LIGURE DEI BOSCHI
-LA CASTANICOLTURA (CASTAGNO - CASTAGNI) - LA CIVILTA' LIGURE DEL CASTAGNO: UNA STORICA "CAPITALE DELLA CASTANICOLTURA", IL BORGO DI CASTELVITTORIO IN ALTA VALLE DEL NERVIA
[Scarellare - Scarello, voce arcaica, disusata = "casa dello scarello": luogo ove si "sacrellano" cioè si tolgono le castagne dal canniccio, costituito da bastoni detti carelle, su cui si mettono a essiccare = vedi BATTAGLIA sotto voce "scarellare"]
-FUNGO - FUNGHI: RACCOLTA DEI FUNGHI
-LA RIPRESA DAL XII SEC.
-DATI, DAGLI STATUTI DI UN BORGO, SULL'ECONOMIA RURALE DEL XII SECOLO: IL CASO DI APRICALE IN VALLE DEL NERVIA

-ALLEVAMENTO E ZOOTECNIA NELLA VALLI DELL'AGRO INTEMELIO.
-ALLEVAMENTO E ZOOTECNIA: COMMERCIALIZZAZIONE NEL TERRITORIO DI VENTIMIGLIA E VILLE.
-ALLEVAMENTO E ZOOTECNIA: BANDITE, NORME, PENE, RAPPORTI TRA ALLEVATORI E COMUNITA'.
-ANIMALI DI UTILITA' STORICA: IL CAVALLO ED IL MULO
-L'ALLEVAMENTO E I PRODOTTI DERIVATI
-I FORAGGI DELL'EPOCA: BLAVA - BLAVAE
-L'ALTA VALLE ARGENTINA E LA VAL VERDEGGIA COME "TESTIMONI STORICO-DOCUMENTARI" DELL'EDILIZIA SEMIPERMANENTE PASTORALE
-CANAPA - CANAPICOLTURA

-DOLCIFICAZIONE 1 (FICHI)
-DOLCIFICAZIONE 2 (MIELE)
-DOLCIFICAZIONE 3 (CANNA DA ZUCCHERO)

-AROMATIZZAZIONE DEGLI ALIMENTI: SPEZIE - LE SPEZIE - VIA DELLE SPEZIE

-LATTICINI E FORMAGGI

-LINO - COLTURA DEL LINO
-MACELLAZIONE E CARNI

-AGRUMI E AGRUMICOLTURA: UNA COLTURA ESSENZIALE IN ALIMENTAZIONE E MEDICINA.

L'OLIVICOLTURA LIGURE-PONENTINA:
-OLIVICOLTURA INTRODOTTA DAI GRECI?: UN INTERESSANTE QUESITO!
-
OLIVICOLTURA AL TEMPO DEI ROMANI?
-OLIVICOLTURA: NUOVE IPOTESI SULLO SVILUPPO IN LIGURIA OCCIDENTALE DELLA COLTURA DEGLI OLIVI
-OLIVICOLTURA E MONACI BENEDETTINI
-IL FATICOSO AFFERMARSI DELL' OLIVICOLTURA "PRIVATA"
-LA MODERNA OLIVICOLTURA E LA CULTURA DEL FRANTOIO ("U DEFISIU")
[CRISI DELL'OLIVICOLTURA: DANNI CLIMATICI, MALATTIE, CARESTIA, TRACOLLO ECONOMICO]
-IL MUSEO DELL'OLIVO: STRAORDINARIA INIZIATIVA DELLA "FAMIGLIA CARLI" E DELL'AZIENDA "FRATELLI CARLI"
-USO ALTERNATIVO DELL'OLIO DELL'OLIVA NELL'ANTICHITA': LA COSMESI.

-SALE: SUA IMPORTANZA ALIMENTARE E SOCIO/ECONOMICA
-SALE (LE VIE DEL SALE/ IMPORTANZA COMMERCIALE)
-SPELTA (GRAMINACEA MINORE)

- VINO E VINIFICAZIONE
-VINI E VITICOLTURA: LA LUNGA STORIA DEL VINO IN LIGURIA OCCIDENTALE
-(I) VINI OGGI NEL PONENTE LIGURE

-PANIFICAZIONE NELL'ETA' INTERMEDIA

-PASTA ALIMENTARE: INTRODUZIONE IN LIGURIA DELL'USO DELLA PASTA

-(IL) MAIS : L'ARRIVO DEL MAIS IN EUROPA

UNA COLTURA PARTICOLARE DELLA LIGURIA OCCIDENTALE
-PALMA - PALME - PALMIZI: LA LAVORAZIONE DELLE PALME - I "PARMURELI"

PRODOTTI "INCOMPRESI" E "ALIMENTAZIONE DI GUERRA":

-[POMODORI E PATATE PER UN POPOLO DAI MILLE PROBLEMI].
- [ L'ABILITA' DEL CIBO DI REIMPIEGO: MINESTRE E FARINATE].






La storia della Liguria affonda in tempi remoti; nel corso dei secoli vi succedono culture e dominazioni diverse.
Poichè nelle vicende umane nulla scompare del tutto, la civiltà ligure si può definire come interazioni tra vari popoli alternatisi per il possesso di questo strategico lembo costiero. Trascurando le effimere presenze bizantine ed ostrogote, sono Greci, Romani e Longobardi, in epoca più recente Francesi, Spagnoli e Savoiardi i popoli che maggiormente influenzarono i Liguri.

La storia parla poco del popolo ligure prima della penetrazione romana; di saldi costumi morali (DIOD.,IV,30 e V, 39), sempre dignitosi di fronte alle avversità (STRAB.,III,4, 17 e IV,63), da epoca lontana i Liguri risultano ben adattati alla loro terra asprigna, traendone, con meraviglia del filosofo greco Panezio, quanto necessario alla loro esistenza (STRAB., cit.).
Nonostante i classici si interessassero soprattutto della tradizione guerriera dei Liguri (LIV., XL, 28 e XL, 34) e della loro attività di pirati e mercenari al servizio di Annibale (POLIB., I, 67, 2; DIOD., XXV, 2, 2), scrittori più attenti, come Cicerone e Strabone, non tralasciarono di ricordare alcuni aspetti della loro vita di relazione.
Cicerone, quando nel De Lege Agraria, II,35 scrisse Ligures Montani duri atque agrestes: docuit ager ipse, nihil ferendo nisi multa cultura et magno labore quaesitum, alluse al duro lavoro necessario per far fruttare una terra tanto aspra
Strabone annotò che in epoca preromana erano già comparse le coltivazioni dell'olivo e della vite, che alla sua epoca (I sec. a.C. - I sec. d.C.) non paiono però particolarmente diffuse, poiché non bastavano ai bisogni locali, rendendo necessaria l'IMPORTAZIONE di olio, vino e grano dal mercato di Genova (ma poi, soprattutto, dalla Spagna e dall'Africa regioni in cui l'OLIVICOLTURA era straordinariamente diffusa) in cambio di legnami, pelli e miele (STRAB.,III ,4, 17 e IV, 63) secondo quelli che sarebbero stati per secoli i principi del MERCATO APERTO tipico dell'economia dell'IMPERO DI ROMA nei secoli del suo fulgore.
Gli STATUTI del borgo di Apricale in Val Nervia e vari rogiti del notaio di Amandolesio dimostrano che la coltivazione degli olivi era abbastanza diffusa nella Liguria ponentina del XIII sec. anche se molti elementi inducono a far credere che la diffusione dell'olivicoltura nel Ponente ligure (nella romanità verisimilmente si produceva solo un OLIO DA COMBUSTIONE (usato in particolare per lucerne e lampade) e si importava dalla Spagna, soprattutto, quello alimentare almeno fin a metà III sec. per poi previlegiare il prodotto africano: così almeno secondo l'interpretazione della Pallarés) sia in gran parte da ascrivere, verso la fine del I millennio cristiano, all'opera agronomica dei Benedettini (che ne fecero dapprima una sorta di monopolio all'interno del sistema della grangia o fattoria monastica con lo sfruttamento di terreno secondo la coltura su terreni a fasce ottenuti con la tecnica dei muri a secco) di Pedona prima e di Novalesa poi ( Albintimilium...cit., p. 221 e nota ) L'olivicoltura divenne comunque già a metà del '200 attività agricola "aperta" in Val Nervia per assumere rapidamente una rilevanza storica in tutto il ponente, sin a diventare una monocoltura da esportazione col conseguente rischio che, per carestie o cattivi raccolti o malattie delle piante, le comunità, senza altre fonti di guadagno si dovessero impoverire con indebitamenti gravi.
Attorno all'olivicoltura fiorì un'attività manifatturiera complessa in cui tutto era sfruttato, fin alle sanse ed ai residui, con una regolamentazione capillare che spesso coinvolgeva gli operatori di mulini e frantoi, che potevano essere "ad acqua" (sfruttando la forza idrica incanalata nei "gombi") od "a sangue", secondo la prevalente tecnica romana, sfruttando la fatica di animali adattati a far ruotare i meccanismi delle macine con la loro forza muscolare: un pò in tutti i paesi delle valli sorgono enormi testimonianze della "civiltà e della cultura dell'olio" di cui Dolceacqua costituisce certo un esempio storico di primaria importanza (ma non si dimentichi la tradizione storica di tanti altri siti di rilevante attività molitorio in queste ed altre contrade, come in valle Argentina [area di Taggia]: da Pompeiana a Castellaro a Molini di Triora).

Secondo il MOLLE si può pensare (ma non tutti CONCORDANO su tale ideazione) che i Massalioti abbiano introdotto, verso il IV sec. a.C., la coltura della vite e dell'olivo in Liguria occidentale: anche se non è da prendere del tutto alla lettera quanto in merito, anche troppo entusiasta d'ogni iniziativa dei Greci antichi, scrisse Pompeo Trogo (nelle Historiae Philippicae pervenuteci nel compendio di JUSTINUM, XLIII, 4): et unum vitae cultiores, deposita et manufacta barbarie et urbes moenibus cingere didicerunt. Tunc et legibus nove annis vivere, tunc et vitem putare tunc olivam serere consueverunt.
Strabone parlò pure del vino ligure e lo ritenne scadente per l'aridità della terra che non nutriva a sufficienza i vitigni (ed in realtà non doveva essere davvero buono se, come egli disse, gli stessi liguri gli preferivano ancora la birra!). Il geografo greco elogiò invece il miele ligure, ricordando poi, oltre a varie qualità di ortaggi, la coltura della segala, del miglio e dell'orzo.
A suo dire era diffusa la pastorizia, specie nelle valli e sulle montagne: ne possiamo dedurre l'importanza del latte e dai suoi derivati per le antiche genti di Liguria.

Un' interpretazione alternativa a quelle "storiche" sviluppate sulla coltura dell'olivo in Liguria occidentale è in qualche modo "figlia" di un saggio di P. Garibaldi e P. Sacco (Olivicoltura e commercio oleario antico tra Ponente ligure e Francia meridionale in "Rivista Ingauna Intemelia", LI, 1996 - 1998).
Gli autori vi citano la vicenda di un commercio oleario molto antico tra Ponente di Liguria e la Provenza: un interscambio storico che alla fine avrebbe favorito la coltura dell'olivo nel Ponente ligustico.
La loro ipotesi è stata in tempi recentissimi ripresa abilmente da C. Eluère in un dotto saggio (su "Intemelion - cultura e territorio", n.5, 1999, pp.151 - 163) dal titolo Le "pietre olearie" di Pigna: un incontro tra l'antichità e la tradizione?.
Quest'ultimo studioso, integrando le osservazioni di quanti l'hanno preceduto, si sofferma su alcune riflessioni tanto intelligenti quanto sostanziali: tenendo conto a suo dire dei rilevamenti di stabilimenti oleari in Provenza (J.P. Brun, L'oléiculture antique en Provence, in "Revue Archéologique de Narbonnaise", aupplément 15, 1986) e nella Ligura levantina (A.Bertino, Villa romana del Varignano (La Spezia): un oleificio di 2000 anni fa, costruito nell'età imperiale, il più antico della Liguria, in "Archeologia in Liguria", 1976, 1984, 1990) l'autore ipotizza che la liguria ponentina non abbia costituito una sorta di isola, cui era estranea l'olivicoltura, ma potesse costituire parte di un unicum colturale proprio dell'intiero arco ligure storico.
Le affermazioni dello studioso sono condivisibili in linea di principio, tenendo conto dell'impressionante succedersi di rilevamenti di aziende rustiche di epoca romana soprattutto imperiale ridisegnato, tramite vari contributi, per l'occidente ligure e specificatamente per l'importante area rurale della VALLE DEL NERVIA.
Anche per C. Eluère la Valle nervina ha finito per costituire un punto di riferimento per l'evoluzione dei suoi studi: in particolare egli si è soffermato a studiare una porzione valliva, quella identificabile come ALTA VALLE DEL NERVIA peraltro ricca di insediamenti rurali romani a suo tempo variamente segnalati: vedi qui Guida di Dolceacqua e della Val Nervia.
Le osservazioni di C. Eluère sono però fondate su una serie di interessanti ritrovamenti e per questo acquisiscono una valenza culturale significativa.
Un punto chiave delle riflessioni è comunque costituito da una sorta di tavola cronologica e tematica (preparata con una dovizia di riferimenti documenti e bibibliografici per i quali si rimanda doverosamente alla citata pubblicazione) cui è opportuno fare riferimento prima di entrare nel vivo delle scoperte fatte dallo studioso nella valle del Nervia (pp.158 e 159 del saggio qui citato e parzialmente ripreso da "Intemelion"):
"Il rinvenimento di queste diverse fonti [in precedenza il ricercatore ha analizzato meticolosamente: 1 - i testi antichi; 2 - gli studi derivanti da ricerche di laboratorio; 3 - le scoperte di anfore> pp.156-158] ci ha portato a conoscere che:
- l'olivo selvatico è presente nel bacino mediterraneo già dal paleolitico, dalla fine dell'ultima glaciazione;
- già dal neolitico gli olivi selvatici venivano utilizzati (si faceva l'olio nei paesi del Levante e nel bacino dell'Egeo, oltre ad un nuovo esempio in Corsica);
- dal calcolitico all'età del bronzo, l'olivo è coltivato (per es. giare con noccioli ritrovati nei palazzi minoici);
- nel bronzo finale si nota generalmente un grande impulso per l'olivicoltura: a Creta, a Cipro, in Spagna;
- un impulso sarà dato con le colonie create in Spagna dai Fenici e nel Sud della Francia, a Marsiglia nel 600 dai Focei (Greci di Focea). Questi ultimi diffusero le tecniche di coltivazione e di produzione non solo dell'olio ma anche del vino;
- l'olivicoltura su larga scala sarà poi un effetto della romanizzazione, durante i primi secoli dopo Cristo (gran produttori d'olio saranno la Betica e l'Africa del Nord).

Dopo il V-VI secolo regredisce l'olivicoltura per parecchi secoli. Si deve aspettare il XII, ma soprattutto tra il secolo XVI e XVII ci sarà una "febbre" dell'olio, con uno sviluppo commerciale notevole.

Non si deve fare confusione tra le diverse problematiche che riguardano l'olivo e l'olio nell'antichità:
- la coltivazione degli olivi: la presenza su un territorio di alberi coltivati, non esclude la presenza di specie selvatiche, ugualmente utilizzate. Questo punto lascia aperti i problemi inerenti la domesticazione degli alberi e l'introduzione di specie domesticate;
- la produzione d'olio: l'origine e lo sviluppo possono essere indipendenti dai sistemi di coltivazione, come su indicato;
- le tecniche di produzione dell'olio: si dividono in tre grandi fasi: la macinazione, la torchiatura, la decantazione o la filtrazione. Le diverse tecniche collegate a queste tre fasi non si sviluppano in modo nè sincrono, nè lineare. Dipendono dell'ambiente tecnologico, dai bisogni del consumo e dal tipo di produzione (famigliare, locale, a grande scala, ecc.). I dispositivi tecnici non sono da classificare secondo una cronologia fissa. Così, recentemente hanno osservato in Corsica che nell'Ottocento la spremitura si faceva contemporaneamente con il processo a mano, con il torchio a leva e con il torchio a vite.
"

Queste riflessioni sono sviluppate dallo studioso in chiusa di una sua indagine sul campo, in merito al ritrovamento di "pietra olearie" nell'agro di PIGNA in alta valle del Nervia.

L'autore ha analizzato tutte le PIETRE OLEARIE (sostanzialmente pietre di torchio arcaico) in alcuni siti nei quali, diversamente, si sono avuti altri ritrovamenti di insediamento umano, rurale e specificatamente di ambiente culturale romano.
Precisamente si tratta di 2 pietre scoperte nella località OURI, di 1 verisimilmente proveniente dalla località VERDUNO e di 2 pietre ancora nel sito rurale che prende il nome di CARNE dal rio che l'attraversa.






In seguito alla conquista della Liguria ad opera degli eserciti di Roma fu conferita una più sofisticata organizzazione sociale ai Liguri Intemeli e Ingauni ormai sul punto di abbandonare la civiltà pagense dei liguri originari (in cui si viveva divisi per tribù ed organizzati sul sistema dei fortilizi-ricetto di tipo megalitico come i castellari) per sostituirvi una ordinata struttura socio-politica (JUSTINUM, XLIII, 5): a questa evoluzione corrispose presto, come si legge qui di seguito, una superiore quantità e qualità dell'alimentazione [che giumge assai interessante studiare attraverso l'indagine, oltre che delle fonti scritte, dei reperti archeologici di taverne, ristoranti, luoghi di ricovero, alberghi e ristoranti: oltre alle migliorie alimentari, ben s'intende, l'influsso di Roma portò ovunque in Italia ad una superiore cura di sè e conseguentemente ad un gusto crescente per gli abbigliamenti alla moda].






L'influenza di Roma risultò evidente nelle strutture urbane e monumentali delle città liguri dal II sec. a.C. al VII sec. d.C.; questa influenza si espresse ad ogni livello, pubblico e privato, portando ad un processo di totale romanizzazione.
Anche i gusti alimentari e la gastronomia dei Liguri risentirono della tradizione romana: "Per i ROMANI devonsi tenere distinti i vari tempi, poiché le abitudini di parsimonia e di semplicità si mutarono a poco a poco, particolarmente verso la fine della repubblica, allorché le guerre in Grecia e nell'Asia ebbero in modo straordinario accresciute le ricchezze e la mollezza dei costumi, e resa nota e gradita la moda del cuoco e del fornaio... si mutarono, ripetiamo, nelle raffinatezze e nelle dissipazioni del lusso".
Nei tempi più antichi il cibo generale era una farinata (puls) di farro o spelta (far, ador. Cfr. Juv. 14, 170 seg.), e tale rimase anche in seguito per la povera gente: sarebbe stato difficile ipotizzare che la frugalità dei conquistatori si sarebbe evoluta in una gastronomia estremente raffinata che avrebbe avuto degli autentici cultori (che avrebbero influenzato le costumanze alimentari della società imperiale) come APICIO (vedine qui ALCUNE RICETTE tratte dal de re coquinaria) lo scrittore gastronomo per certi aspetti alla base culturale delle esasperazioni culinarie della celebre e letteraria Cena di Trimalcione.
br> Dal I secolo a.C. si diffuse in Italia l'USO ALIMENTARE DEL PANE venduto in NEGOZI SPECIFICI (tabernae od addirittura banchi commerciali annessi alle panetterie vere e proprie ed aperti al pubblico) come quello dell'immagine ricavata da un affresco scoperto a Pompei.
Contemporaneamente la tecnologia cominciò a produrre un numero crescente di MULINI PER GRAMINACEE E FRUMENTO anche se la produzione e la commercializzazione di frumento e farina avvenne sfruttando la grande produzione delle Gallie e delle Spagne: un'area particolare di produzione era quella in PROVENZA, specie ad ARLES dove, dai rinvenimenti archeologici, si è potuta riscostruire una grande azienda in cui, secondo la tecnica del mulino a caduta d'acqua, operava unaA GRANDE AZIENDA PARAINDUSTRIALE per la macinazione GRANO e la produzione di FARINA sfruttando un gigantesco complesso di OTTO MULINI OPERANTI IN SEQUENZA.
La crisi italica della ceralicoltura durante l'avanzato Impero indusse a previlegiare l'IMPORTAZIONE del prodotto specie per VIA MARITTIMA SU NAVI DA TRASPORTO che si rifornivano del prodotto preferibilmente, per quanto riguarda la Liguria nelle Gallie e in Spagna: non bisogna però dimenticare mai che, data la vastità dell'Impero, l'approvvigionamento di grano, per le varie provincie che non ne fossero dirette produttrici, avveniva su un grande piano mercantile reso possibile dal MERCATO APERTO ROMANO IMPERIALE.
LA SEMPLICE CONSULTAZIONE DI UNA CARTA DEI TRAFFICI IMPERIALI PERMETTE DI EVIDENZIARE L'ENORME SFORZO COMMERCIALE, PER LO PIU' GESTITO DA AZIENDE PRIVATE, CHE, PER IL GRANO COME PER TANTI ALTRI PRODOTTI, SI SERVIVA SOPRATTUTTO DELLE VIE DI MARE FREQUENTATE DA UNA MIRIADE DI NAVI DA TRASPORTO, OD "ONERARIE", VARIAMENTE ATTREZZATE A SECONDA DEL TIPO DI MERCE TRASPORTATA.

Ve ne erano di tre qualità: il pane nero di farina stracciata rada (panis plebeius), il panis secundarius più bianco ma non finissimo e quello di lusso (panis candidus), tale alimento veniva cotto in forno o in appositi recipienti quali il clibanus (panis clibanicus).

I Liguri nella panificazione si servivano anticamente di una pianta annuale delle Graminacee il Panicum italicum, simile al miglio.
Oltre a ciò si mangiavano ortaggi (olera) e legumi (legumina), ma assai poca carne.
Quanto al tempo seguente conviene distinguere i diversi pasti della giornata.
Jentaculum si chiamava il primo pasto della mattina, per il quale non v'era un'ora fissa, essendo variato a seconda dei bisogni o dei desideri di ciascuno [ma in genere fra le 8 e le 9]; esso consisteva quasi sempre in pane condito con sale od altro, in uva secca, olive, formaggio e simili, ovvero in latte e uova.
II prandium era la colazione, o piuttosto il vero desinare, che solo in riguardo al pasto che poi si usò più abbondante, cioé la coena, venne limitato a minor quantità di cibo; di regola si faceva alla sesta ora, cioé al mezzogiorno, talvolta con cibi caldi, e talvolta con pietanze rifredde, sopravvanzate dalla coena antecedente.
Allorché si cominciò ad amare troppo i piaceri del ventre, si aggiunsero gli olera, i crostacei, i pesci, le uova, ecc., e si beveva l'idromele, il vino e particolarmente la prediletta calda [bevanda calda, forse condita di aromi, fatta di vino e d'acqua. Per preparare e mantenere il calore di questa bevanda si usavano particolari vasi a doppio fondo nel cui interno si mettevano carboni accesi od acqua calda].
Del resto pare che la parola merenda, più di raro usata, significhi lo stesso che prandium.
II pasto principale, ed ultimo, dopo finite le occupazioni della giornata, era la coena, tra il pomeriggio ed il tramonto del sole, quindi in ora diversa secondo le varie stagioni dell' anno, d'estate presso a poco nella nona ora, d'inverno nella decima [mediamente comunque dopo le 16 e nella stagione fredda più tardi ancora].
Le coenae cominciate più per tempo o protratte sino alla notte si dicevano tempestivae.
Nell'inverno si differivano ad un' ora più tarda, perché si voleva dar prima termine a tutti gli affari.
La coena durava piuttosto a lungo, cercandosi in essa, oltre al ristoro del corpo, anche il sollievo dello spirito; al qual fine s' intavolavano varie e geniali conversazioni, onde perfino le persone più frugali solevano stare di spesso sedute a mensa per tre ore consecutive.
Il pasto constava di tre parti: gustus o gustatio , detta pure promulsis , fercula , consistente in parecchie portate, e secundae mensae o tertiae , le frutta.
L'antipasto ( gustus ) serviva a stuzzicare l'appetito ed a promuovere la digestione, onde si mangiavano lactuca , crostacei, pesci facilmente digeribili con salse piccanti, e prima di tutto uova, onde la frase divenuta proverbiale: ab ovo usque ad mala (Cic., Ad Fam. 9, 20; Schol. ad Hor., Sat. 1, 3, 6).
Con questi cibi si beveva il mulsum , una specie di idromele fatto di mosto e di vino con miele, onde anche tutto l'antipasto era detto promulsis .
Le portate della coena vera e propria si dividevano in prima, altera, tertia coena ; in antico però soltanto in due.
Il pospasto, che non mancava mai, consisteva in biscotterie ( bellaria ), in frutta fresche e secche, ed in piatti finali ( epiditnides ) artisticamente preparati.
In origine i Romani sedevano a mensa, ma poi anche fra essi divenne generale il costume di stare coricati" ( Triclinium : il brano è tratto da F. LUBKER, Lessico Ragionato dell'Antichità Classica , Roma, 1898, sotto voce Banchetti e pasti).






Nel VII secolo, negli anni posteriori al 643, anno dell'invasione del longobardo Rotari, la storia ligure subi una involuzione. E' noto che negli ultimi secoli dell'instabile dominio di Roma la vita di relazione divenne difficile in terra ligure e che per le difficoltà di approvvigionamento, era ormai impossibile per i ricchi fruire delle vivande care ai loro più fortunati avi: l'alimentazione tornò ad essere frugale.
Le dominazioni dei Longobardi prima e poi dei Franchi condizionarono la civilta ligure sotto vari aspetti e pure sotto quello gastronomico.

Rispetto alla realtà socio-economica dei Romani, di tipo agricolo-commerciale, tali popoli instaurarono una civiltà agrario-curtense, sostanzialmente chiusa e limitata negli scambi se non entro aree ristrette (il tipo agrario esemplare fu quello della domusculta).
Ciò non equivale, in teoria, ad un mangiar di meno ma certo ad una alimentazione caratterizzata solo da prodotti locali e non integrata da vivande di regioni lontane, essendo morto il commercio su vasta scala.

I notabili godevano di una mensa assai più ricca di quella dei servi e delle classi inferiori; tuttavia, rispetto ai 3 pasti dei loro pari grado d'epoca romana i nuovi potenti fruivano essenzialmente di un unico pasto principale, composto grossomodo da 4 portate (EGINARDO, Vita Karoli Magni, XXIV).
L'alimentazione popolare e in parte decifrabile studiando la mensa monastica, più austera e povera rispetto a quella dei ricchi.
La regola dei Benedettini concedeva ai monaci, ogni giorno, duo palmantaria, cioe 2 vivande cotte, una cruda di frutta e verdura, una libbra di pane (quella benedettina era di 1.150 grammi), una hemina di vino (circa 1/4 di litro).
La carne era proibita salvo che l'abate, in occasione di lavori pesanti, non decidesse di somministrare ai confratelli una dieta più sostanziosa, comprendente anche quella.
Il popolo, nel suo "standard" alimentare, era abbastanza prossimo al regime monastico, anche se più esposto dei benedettini ai periodi delle carestie.
La qualità dei cibi risultava identica per frati e populares, ma per questi ultimi la quantità era sempre inferiore e solo i più fortunati fruivano di un consumo di carne quasi accettabile.

Il PANE [che sarebbe stato a lungo confezionato nel contesto dell'attività domestica, come si ricava da alcuni CODICI MINIATI DELL'ETA' INTERMEDIA, e non più prioritariamente, come nella romanità, nel contesto di vere e proprie IMPRESE PRODUTTIVE E COMMERCIALI] fu spesso spesso usato come moneta di scambio (panis de cambio) nel contesto di quell'economia chiusa e curtense in cui scambio e baratto avevano finito per surrogare la scarsa moneta circolante.
Tale PANE non era di puro frumento ed il popolo si nutriva di una qualità scadente, realizzata con la mistura di più cereali.
Per confezionare il prodotto, più del grano, si utilizzarono l'ORZO, l'AVENA [Plinio nella sua Storia Naturale cita il panis avenaceus il MIGLIO e la SEGALA; si ricorreva inoltre con discreta frequenza al PANICO e, seppur raramente, persino alla mortina, detta anche MIRTO o mortella (mirtus communis), una pianta cespugliosa della macchia mediterranea con frutti piccoli e carnosi i cui molteplici usi sono rientrati per secoli nella gastronomia, nella medicina e nella cosmesi dell'habitat mediterraneo (era altresì usato anche il GRANO SARACENO mentre più graduale risultò l'affermazione del RISO).
Il PANICO è un'erba annua delle graminacee (Setaria italica) con culmi gracili alla cui estremità sta una spiga cilindrica, eretta o pendula, formata da spighette contenenti i frutti a cariosside, generalmente gialli.
Da essa è forse derivato il nome "Panigai" con cui si nominano alcune campagne o località liguri: infatti nell'Italia settentrionale la K (= C) intervocalica latina (panicum-focus) dà normalmente il risultato di G (panigu - fogu): per conseguenza, di fronte ad un simile toponimo, si può supporre nell'area in questione un'antica coltivazione della graminacea.
In relazione alla confezione del PANE non si può trascurare l'importanza verisimilmente attribuita all'AVENA: si tratta di una pianta delle Graminacee, dell'ordine delle Glumiflore, con fusto vuoto e nodoso a cannello, alto un metro e più, ramificato, con foglie lineari, acute, scabre all'estremità, che abbracciano il fusto mediante la guaina inferiore. Caratterizzata dall'infiorescenza a pannocchia terminale (eretta e rada) la pianta presenta fiori riuniti a coppia e disposti in spighette pendule: essi sono racchiusi entro due glume (quella esterna porta sul dorso un'arista robusta nelle avene aristate, che si distinguono da quelle mancanti: le avene mutiche.
Ciascun fiore è formato di tre stami, con sottili filamenti e con antere gialle, intorno a un ovario con due stimmi lunghi e barbuti: il frutto (la cariosside) ha forma cilindrica allungata e leggermente appuntita, ricoperto di glume e glumelle (le ultime rimangono anche dopo la trebbiatura, come involucro aderente, nelle avene vestite, oppure cadono nelle avene nude).
La varietà fondamentale è l' AVENA COMUNE (AVENA SATIVA) che si differenzia in base al colore: grigia, gialla, nera, rossastra ecc.).
L'AVENA MAGGIORE (ARRHENATHERUM ELTIUS) ha fusto più alto (un metro e mezzo), foglie larghe e piatte, fiori verdastri e a volte violacei in una pannocchia molto allargata: è pianta perenne, assai diffusa nei prati e nei boschi.
Dall'AVENA si ottiene, oltre alla biada per il foraggio dei cavalli, la farina d'avena, i fiocchi d'avena, la pappa d'avena: SODERINI III, 56 in BATTAGLIA scrisse: Gli antichi della domestica fecero pane e massimamente in Germania dice Plinio...E' buon cibo per i cavalli l'estate, perché gli rinfresca dentro...Brillano alcuni l'avena e brillata la cuocono con il brodo delle carni grasse e fa buon gusto.
RISO: Insieme al frumento rappresenta il cereale più importante nell'alimentazione umana.
Originario dell'Asia , si diffuse in Italia nel medioevo, coltivato dapprima in Sicilia dagli arabi, e quindi, introdotto in Lombardia dagli aragonesi nel 1400.
In Italia la pianura padana presenta le condizioni ambientali più favorevoli alla coltivazione del riso che si effettua sott'acqua a temperatura elevata ed alta umidita' durante tutto il periodo di crescita.
Per renderlo adatto all'alimentazione umana, nell'industria risiera, il risone viene sottoposto ad una serie di trattamenti (pulitura, sbramatura, sbiancatura, spazzolatura, lucidatura e brillatura) ottenendo così il riso brillato.
Il riso e' un alimento quasi completo, e fra tutti il più digeribile, alimento adatto per le persone deboli, in gravidanza e per gli atleti che richiedono immediata energia per una intensa attivita' muscolare.
MIGLIO: In Italia il suo impiego è completamente destinato alla nutrizione di volatili, anche se da qualche tempo è possibile trovarlo, intero o come farina.
Sotto forma di farina viene usato nella preparazione di torte, biscotti e pane, a parziale sostituzione della farina di frumento.
Il contenuto di proteine del miglio è simile a quello del frumento.
SEGALE: La segale è un cereale importantissimo per l'alimentazione umana.
In Europa, e principalmente in quei Paesi in cui il frumento non dà buoni risultati per la povertà e l'aridità del suolo e per la temperatura rigida, viene coltivata la segale poiché ha una maggiore resistenza al freddo ed alle erbe infestanti e presenta una maturazione precoce.
La farina di segale è più scura di quella del grano; inoltre a causa dello scarsissimo contenuto di glutine, non è panificabile da sola; miscelata con farina di frumento dà però un pane di ottima qualità.
Il pane di segale, consumato soprattutto in Germania, ma anche in alcune zone dell'Italia settentrionale, si presenta di colore scuro, ed è meno digeribile del pane di frumento.
Inoltre in conseguenza della sua acidità, si conserva per lungo tempo. GRANO SARACENO. Lo si usava prima dell'avvento del mais, ed anche dopo, per confezionare le polente grigie.
Lo si coltiva ancora in certe zone montane dell'Italia settentrionale.
La pianta non richiede molte cure ed è di rapida maturazione.
I chicchi di grano saraceno si usano particolarmente per l'alimentazione dei fagiani.
La farina che se ne ricava viene mescolata a farina di grano per confezionare focacce, polente ed altri piatti caratteristici, quali i "canederli neri", la "polenta taragna".
ORZO. Pare certo che il primo pane dell'uomo sia stato confezionato con farina d'orzo, la cui coltivazione risale a 5000 anni a. C. in Egitto e che mescolando farina d'orzo ed olio facessero delle paste frolle che, infilate sulla punta di un bastoncino di legno, venivano arrostite sulla fiamma.
Poi l'orzo decadde diventando specialmente cibo per animali, e particolarmente per il loro ingrassamento.
E' stato riabilitato nelle regioni del nord, e specialmente in Irlanda, per la preparazione del whisky e della birra.
Con i fiocchi d'orzo gli irlandesi e gli inglesi in genere preparano con il latte una pappetta mattutina: il porridge.
In Italia si usa l'orzo perlato per la confezione di minestre di verdura, con ruolo analogo a quello del riso, ma con tempi di cottura un poco più lunghi.

Nel Medioevo (colture ortili od ortive erano d'uso comune in Liguria fave, piselli, cavoli, porri, rape, cipolle, aglio, lattughe, ceci, zucche, zucchini; la regione era considerata ricchissima di legumi (PAOLO DIACONO, in Historia Longobardorum a c. di G. Wartz, Hannover, II, 15, scrive: Liguria a legendis, id est colligendis leguminibus, quorum satis ferax est nominatur = "la Liguria prende il nome dal raccogliere le leguminose di cui e assai ricca") ed Isidoro di Siviglia (R. GERARD - R. DELATOUCHE, Storia agraria del Medioevo, Milano, 1968, p. 360) citò un cavolo tipicamente ligure di odore aromatico ed acre nel gusto (odore aromatico et gustus acri).

Erano coltivati in Liguria meli, peri, fichi, sorbi, castagni e noci, fondamentali per l'alimentazione popolare. Paiono ancora rari nell'antichità medievale gli olivi ed il grasso alimentare più usato, di natura animale, veniva in genere sostituito dall'olio di noce nei quaresimali: trattando dell'agricoltura ligure non si può dimenticare, data la semplicità della gastronomia di queste genti, la ricerca spontanea di piante alimentari o medicinali, spesso camminando a lungo presso i corsi d'acqua e dedicandosi ad un'attività di ricerca che empiricamente si basava su una conoscenza della flora trasmessa di generazione in generazione.

Il vino era alla base dell'alimentazione: la salvaguardia contro frodi e sofisticazioni per esempio la troviamo citata nel DIGESTO GIUSTINIANEO nel LIBRO XVIII alla RUBRICA 5 ed ancora più dettagliatamente alla RUBRICA 6.
Tanta cura dipese, oltre che per la valenza gastronomica (e quindi commerciale) riconosciuta al vino durante tutta l'epoca romana, anche per le proprietà toniche e terapeutiche che gli erano storicamente riconosciute (vedi ad esempio: CORN. CELSO, De Arte Medica, III, 18-33).
LUCIO GIUNIO MATURO COLUMELLA, agronomo del I secolo dopo Cristo, di origine spagnola, nel suo fondamentale e ponderoso DE RE RUSTICA (cioè Sull' agricoltura: che qui è possibile leggere in VERSIONE INTEGRALE LATINA), in apertura del III libro scrisse:" da una plantula può svilupparsi un albero come l'olivo, o un cespuglio come la palma campestre, o una cosa intermedia, che non può dirsi nè albero nè arbusto, quale è la vite. Questa specie ha diritto che noi ce ne occupiamo prima di ogni altra non solo per la dolcezza del suo frutto, ma soprattutto per la facilità con cui risponde alle cure dei mortali pressoché in ogni regione e sotto ogni cielo... ".
Egli poi dedicò due interi capitoli del V libro alle VITI ALBERATE: argomento che sviluppò più semplicemente ma sempre con rigore in un'altra opera qui parimenti proposta in testo integrale latino, il DE ARBORIBUS.
Le VITI ALBERATE erano una forma promiscua di tre colture tipica delle Gallie fino a tempi recenti e, nel Ponente ligure, ancora assai diffusa per tutto il XVII secolo: quella dei cereali negli spazi tra i filari, di un foraggio recuperato dalle foglie degli alberi di sostegno, e quella dell'uva.
Questa tecnica, come scritto, sopravvisse a lungo in Liguria e, per esempio, il 3 maggio 1260 redigendo un atto in Dolceacqua il notaio genovese di Amandolesio (doc. 233) indicò, come in altri suoi atti, "terre alberate a viti, fichi ed altri alberi .
Secondo Columella questi "altri alberi" dovrebbero essere l'olmo (l'Atinia era la migliore qualità di Gallia), l'orno, il carpino, il frassino, l'acero opale e il salice.
La stessa falx vinitoria descritta da Columella, a parte la soppressione di una punta terminale o mucro, risulta identica alle roncole per la potatura ancor oggi usate nel Ponente ligure (vedi: M. Gesner, Scriptores rei rusticae, Lipsiae, 1735).
Nonostante gli scritti di Columella, le ipotesi nuove che si vanno affermando tra alcuni storici moderni, anche ma non solo sulla scia del Gesner [piuttosto, in particolare, analizzando compiutamente alcuni RELITTI LINGUISTICI
], è tuttavia ancora sostenibile come da tradizione, soprattutto in assenza di fonti e di adeguati riscontri archeologici, che in Liguria occidentale nonostante una limitata produzione locale la maggior quantità di vino da consumo fosse piuttosto oggetto di importazione tramite navi onerarie che operavano continuativamente nel contesto del MERCATO APERTO IMPERIALE: a questo proposito possono costituire una chiave di lettura i REPERTI (SPECIE ANFORE E DOLIA) di navi commerciali romane rinvenute nei fondali della costa ligure (ed una particolare serie di notizie offre lo studio del reperto dell'IMBARCAZIONE ONERARARIA scoperta, con evidente tracce del suo importante carco, nel mare antistante Diano Marina
Abbastanza protetto dalle autorità imperiali (si ricordi, uno per tutti, il provvedimento preso da Domiziano nel 92 d.C. a favore della produzione vinicola italiana) esso era però, già in quest'epoca, soggetto a sofisticazioni ed adulterazioni contro le quali venivano prese contromisure non sempre efficaci.




In Liguria tra i prodotti commestibili (di colture arborate ma anche di piantagioni ortive nelle prossimità delle abitazioni come anche di raccolta spontanea nei boschi) erano la cicoria, il cetriolo, la zucca, le bietole, le more, le ciliegie, le mele, le pere: un uso peculiare spettava poi all'aceto cui da tempo si riconoscevano proprietà rinfrescanti (CORN. CELSO, op. cit.).

A livello teorico, quelle suesposte erano le possibilità produttive ed alimentari della Liguria, in condizioni ottimali, dal VII al X secolo; a livello pratico il discorso fu diverso poiché tali fattori produttivi erano alterati di frequente da fenomeni contingenti quali guerre, carestie, epidemie, alluvioni e siccità.
Il Ponente ligustico dovette offrire, specie nei secoli VIII, IX e X, un'espressione di estrema selvatichezza, qua e la interrotta da oasi coltivate; in quest'epoca sono ancor più pertinenti alla regione i versi con cui, nel IV sec. d.C. Avenio Rufo descrisse il paesaggio ligure: "irto di rupi e paurose boscaglie (Ora maritima, v. 135).
La vita di relazione, in un periodo di sconvolgimenti politici e continue invasioni, dovette essere durissima per gli indigeni che, atterriti, si sparpagliarono per le campagne temendo soprattutto le scorrerie saracene e vivendo miseramente a causa dei raccolti e dell'allevamento soggetti a frequenti razzie (il vescovo genovese Teodolfo nel marzo 979, a proposito delle scorrerie saracene nell'area matuziana e tabiense, scrisse: Res nostrae ecclesie a paganis saracenis vastate et depulate sunt, in H.P.M., Liber Jurium, col. 7).
L'agricoltura dell'età barbarica era connotata da un elementare livello tecnologico e necessitava di vaste aree di terra coltivabile per ripristinare "naturalmente" la fertilità; si ricorreva pertanto al metodo del maggese, cioè si lasciava incolto un terreno anche per diversi anni onde renderlo fecondo, specie tramite l'accumulo di acqua piovana.
Rientrando però il maggese nel sistema comunitario dei campi aperti, cioè adibiti al pascolo delle pecore, era sempre precaria la rapida riutilizzazione delle aree coltivabili, dato l'indurimento del terreno calpestato dalle greggi e per l'assenza di vomeri e coltri tecnicamente idonei a svolgere un rapido e funzionale lavoro (cfr. G. LUZZATTO, Storia economica d'Italia. II Medioevo, Firenze, 1967).






La relativa tranquillità posteriore alla distruzione dei Saraceni di Frassineto favorì una ripresa dei lavori agricoli nel Ponente ligustico.
Nel 979 il vescovo di Genova Teodolfo concesse in enfiteusi, ad alcuni coloni, territori da coltivare nell'area matuziana e tabiense (H.P.M., Jurium, coll. 4-6): da un atto dell'agosto 1029 apprendiamo che tali Martino e Genoardo ricevettero in concessione da Eriberto, abate del monastero benedettino di S. Stefano di Genova, una terra compresa tra l'Armea e il torrente S. Lorenzo.
Essi si obbligavano a potenziare la resa del fondo curando la coltivazione della vite, del grano, dell'orzo e delle fave (cfr. N. CALVINI - A. SARCHI, Il Principato di Villaregia, Sanremo, 1977, p. 41).
Questi documenti sono prova dell'inserimento dell'area ligustica in un processo di trasformazioni di vasta portata, manifestatasi dal X sec. in poi; specie nel XII sec. si concretizzò quel fenomeno socio-economico noto come rivoluzione agraria e caratterizzato da incremento demografico, maggiore richiesta di beni, allentamento dei vincoli feudali e soprattutto da innovazioni tecniche nella produzione agricola.
Come rivela Slicher van Bath (in Storia agraria dell'Europa occidentale, 500-1850, Torino, 1972) dal sec. XII si estese il processo, già noto ma non ancora usuale, della rotazione triennale, per cui un campo era coltivato a grano, un altro a tipi diversi di cereali ed un terzo veniva lasciato a maggese.
Importanti furono le migliorie tecniche: la colonizzazione (messa a colture di zone boschive e paludose), l'aratura (grazie ad una metallurgia che produceva vomeri più robusti), la concimazione (realizzata non più, come prima dell'XI sec., con solo concime di cortile ma pure con concime organico di grandi animali, specie bovini).

E' da precisare che l'allevamento su vasta scala dei bovini, fondamentali per l'aratura e la concimazione, sarà possibile solo quando si elaboreranno foraggi invernali; in caso contrario, quale alternativa alla concimazione organica, si conservava l'abitudine di stendere sulla terra impoverita alcuni strati di terra vergine (è facile comprendere come fosse dispendioso e faticoso tale procedimento!).

Dal XII sec. la vita di relazione divenne più facile in Liguria e grazie ad atti e statuti (anche seriori), che si stendevano per regolare la vita sociale, le notizie divengono più dettagliate. La poca terra arata con i bovi produceva scarsa quantità di grano ed in maggior misura avena e segala; per il rimanente era coltivata a vineis, fructetis, blavis, canetis, et pratis.
Gli horti producevano lattughe, radicchio, sedano, piselli, fave, finocchio, cipolle, aglio, peperoni, melanzane, zucche, fagioli (si trattava del Fagiolo dell'Occhio, nome comune della Vicia sinensis, varietà melanophtalmos, originaria dell'Africa e dell'Asia; e il phaseolus dell'antichità classica, coltivato anche in Italia, con semi piccoli, rosei ed una macchietta circolare intorno all'ilo).

I frutteti erano di meli, peri, mandorli, fichi e sorbi.

E' anche opportuno ricordare l'importanza che, da sempre, ebbero i boschi per le genti del ponente ligustico: nel rispetto di eventuali norme satutarie per le terre comuni vi si coglievano funghi, castagne, nocciole, ghiande, noci.

I vigneti, abbastanza curati, producevano uva moscatella, seppur in non grande quantità.
La coltura della vite era una costante dell' agro di val Nervia (e seppur in misura minore di tutto il contado intemelio): mentre mancano dati sul vino nella romanità che probabilmente era perlopiù di importazione tramite navi onerarie non mancano precisi riferimenti sulla vinicoltura nel medioevo.
Nei documenti su Dolceacqua, XIII-XIV secolo, la viticoltura risulta menzionata in maniera frequente: lo si trova citato sia in atti che riguardano privati cittadini sia il potere ecclesiastico che la vera e propria autorità signorile.

Il vino era commercializzato sulla piazza intemelia ma purtroppo non si recupera dagli atti alcuna notazione (se del tipo bianco, rosso, rosato) ma soltanto, qualche volta, la zona agricola di provenienza o di produzione. Si trattava comunque di buon vino da tavola, esportato " a Savona, Arenzano, Voltri, Genova e Chiavari "(dopo esser stato imbarcato su navi da trasporto ai porti commerciali del Nervia e del Roia): la vendemmia era precoce ed i vini nuovi comparivano a fine luglio mentre la massa della vinificazione si teneva già a metà di settembre (non essendo ancora avvenuta l'adeguazione gregoriana del calendario esisteva una sfasatura di dieci giorni fra la stima calendariale e quella astronomica). Botti di varia dimensione e capacità, spesso di pregiato rovere, conservavano il prodotto: nel XIV sec. la commercializzazione del vino di val Nervia sul mercato locale e regionale giunse a 160.000 litri (appena un secolo prima - di Amand., cart. 56-7, annata 1258/9 - a tal quantità era giunto tutto il territorio intemelio compresa la val Nervia, mentre la cifra, dall'annata seguente - a 20.742 litri -, cominciò progressivamente ad incrementare). Solo nel '400 questo avrà la denominazione di vermiglio finché nel '500 comparirà quella di moscatellino di Dolceacqua, che nel 600 Aprosio avrebbe giudicato degno degli Dei.
Comunque solo dai primi del XIX secolo, grazie anche alle rilevazioni fatte dal Gallesio e alle sue registrazioni documentarie oggi conservate al Museo Gallesio-Piuma di Genova, si è in grado di fornire una classificazione della TIPOLOGIA DI VINI E VITI NEL VENTIMIGLIESE tra XVII e XIX secolo (e si ringrazia qui la dott. Daniela Gandolfi dell'Istituto di Studi Liguri di Bordighera per le informazioni messe a disposizione).

L'APICOLTURA era diffusa per ottenere il miele principale dolcificatore in epoca classica: e, date le qualità del MIELE, oltre che scopi alimentari era ampiamente usata nella MEDICINA CLASSICA (per esempio frequentissimo è l'uso che ne consiglia QUINTO SERENO SAMMONICO nel suo celebre LIBER MEDICINALIS: scorri qui l'elenco di tutte le ricette per le varie patologie).
e continuò a rimenare in vigore per tutto il Medioevo specialmente per i ceti medio alti: però nella stessa età di mezzo, stando ai documenti superstiti, finì per essere addirittura superata -almeno nell'ESTREMO PONENTE LIGURE- da un'altra tecnica di dolcificazione, quella ottenuta dai FICHI.
La gran quantità nel Ponente ligure, fino al '600, di coltivazioni di FICHI (spesso detti "ficheti" in coltivazioni aggregate a "vigneti") era dovuta al fatto che per l'assimilazione di zuccheri (data una certa locale contrazione dell'apicoltura e della produzione di miele) per tutta l'età intermedia i ceti rurali e meno abbienti si valsero preferibilmente del frutto della pianta (appunto ricco di zuccheri) che tra l'altro, di per sè stesso, possiede notevole valore nutritivo e, essiccato, costituisce e soprattutto costituiva un alimento facilmente trasportabile nel corso di viaggi lunghi per via di terra e soprattutto per mare.

L'allevamento era discreto specie all'interno; si avevano boves, vaccae, manzi, asini, porci, troiae, pecudes, caprae, capri, haedi, hirci.
Era pregiata la carne di montone e di vitello da latte ed in minor misura quella di pecora, capra, capretto, agnello; risultava poco quotata quella di caprone, ariete, bue e vacca.

Il macellaio, detto beccarius (potente divenne tra le CORPORAZIONI quella dei macellai), vendeva oltre la carne anche le salse.
Documenti di XIII-XIV sec. attestano l'esistenza in Ventimiglia di una CORPORAZIONE o "compagna" di macellarii.
Il 18-I-1264 Ardizzone "macellario" si dichiarò debitore di Corrado Guarachio per 100 capi di bestiame, vendutigli per 30 lire di genovini, e sancì di saldare il debito entro la festa di S.Michele (di Amandolesio, doc. 603).
La macellazione in Ventimiglia è documentata in un atto dello stesso notaio (doc.524, del 7-I-1263) quando i coniugi Giovanni Columberio e India si impegnarono a restituire 9 lire e 3 soldi genovini ricevuti in mutuo per acquistare bestie da macello. Dalla zona del Convento di Dolceacqua si raggiungeva Airole , in val Roia,per raggiungere il porto sul Roia o l' agro di Ventimiglia.
Questi percorsi trasversali, i tratti di edilizia romano-imperiale scoperti dalla Mortola a Latte (il cui toponimo sembra peraltro emblematico) sin a Bevera (luogo dall'idronimo emblematico per segnalare possibilità di abbeveraggio e dove nel XIII sec. erano insediamenti rurali, casali e stalle) inducono a credere che queste diramazioni fossero ancora più antiche, per il traffico bovino, di quanto affermino i reperti ossei scoperti.
Secondo le superstiti fonti si può dire che nel '200 il traffico di mandrie fosse principalmente innestato sulla strada Breglio-Dolceacqua, con pascoli [in genere bandite = "terre pubbliche affittate ai pastori per incamerare denaro da utilizzare a vantaggio delle comunità] e ricoveri in successione: dal sito dolceacquino donde si accedeva a Ventimiglia marciando in linea colla strada sì da aggirare a Nervia il castello di Portiloria.
Sfruttando le deviazioni per le valli del Roia o del Verbone ( valle di Vallecrosia subito dopo quella del Nervia) si giungeva ai prati del Roia (area della stazione ferroviaria, ove si individuarono tracce di un pozzo medioevale), alla piazza per il commercio locale o marittimo del Convento S. Agostino (ove in quel tempo era una cappella di S.Simeone che serviva per il nucleo abitato ai fianchi della Rocca detta di Bastia o Bastita) e poi ai recinti di Latte, sui tratti della superstite via romana di costa, fra area intemelia e frontiera (Turbita, Castellaro il Vecchio, Villafranca, Monaco e Mentone.

Erano abbastanza diffusi i formaggi [frutto dell'allevamento di medi e grandi animali, soprattutto delle CAPRE storico animale da allevamento nel Ponente ligure [per avere ulteriori dati sulle regole comunitarie imposte a pastori di CAPRE e di PECORE si possono leggere gli STATUTI CRIMINALI e il REGOLAMENTO CAMPESTRE della MAGNIFICA COMUNITA' DEGLI OTTO LUOGHI]).
Tra i formaggi prodotti dall'allevamento di OVINI e CAPRINI si può menzionare nel medioevo il "caseum sardum".
Si usava per l'alimentazione anche il latte rappreso (presinsoria): il venditore di formaggio (tabernarius) vendeva anche il vino ed il pane.
Il pane era prodotto da molteplici artigiani come il mugnaio (molinarius), il fornaio (furnarius) ed il panettiere (panatarius); il mulino per il grano e naturalmente per le restanti graminacee d'uso alimentare venne registrato in documenti seriori col termine molendinum.
Sul pane, ritenuto dono divino, i fornai incidevano frequentemente un solco cruciforme; questo spiega perché in determinate aree ligustiche ed in particolari occasioni si sia conservata tutt'oggi l'abitudine di baciarlo devotamente, specie da parte dei più anziani.






Un discorso a parte merita la medievale coltivazione dell'olivo (ulivetis), che dai documenti noti pare ancora piuttosto rara sino al sec. XIII.

G.MOLLE in un un lavoro edito a Milano nel 1971 -Oneglia nella Storia- aveva sostenuto una PACIFICA IMPORTAZIONE DELL'OLIVICOLTURA DALL'AREA GRECO-PROVENZALE ed aveva altresì dubitato di un'arcaica guerra di frontiera fra Greci e Liguri nel IV-III sec. a. C., sia perché l'archeologia ha riportato tracce di una pacifica commercializzazione di prodotti massalioti nei castellari del Ponente sia per il fatto che i grecismi " MAGAGLIO" [che deriva da un tipo di zappa greco, la MAKELLA (in latino Ligo: la nostra rara e antica riproduzione è tratta da AA.VV., Hesiodi Ascraei...[opera omnia], Amstelodami, apud G. Gallet, 1701, inter pp. 260-261) il cui nome attuale, attraverso i millenni, salva restando la tipologia dell'attrezzo, si evolse (caso isolato in Italia) nell'italiano/ ligure ponentino, di evidente connotazione dialettale, "MAGAGLIO", donde il verbo "MAGAGLIARE" sia nel significato proprio di "lavorare il campo o l'orto" sia nell'accezione proverbiale, con timbro critico" di "non far vita da fannullone e dedicarsi ad un lavoro utile quanto faticoso"] e "CARASSA" [un sistema di sostenimento pei vitigni] e la tecnica colturale marsigliese della colombara (per olio da combustione ed unguenti) paiono introdotti pacificamente nel Ponente ligure ad opera di coloni greci [peraltro, nonostante gli sforzi e le investigazioni -patrocinati soprattutto dall'Istituto di Studi Liguri di Bordighera- una pagina ancora da verificare è quella dei contatti dei Liguri ponentini col mondo greco nella sua totalità non solo con Marsiglia: ed un oggetto di studio interessante sarebbe quello delle relazioni con la potente isola greca di RODI le cui navi -nel suo periodo di massimo splendore, frequentavano per ragioni commerciali tutto il mediterraneo sui cui mercati erano sempre ben gradite le ottime MONETE nella zecca dell'isola].
Le ultime indagini sui reperti suggeriscono che dal VI sec. agricoltori greco-marsigliesi si siano insediati senza contrasti nel territorio degli Intemeli, non lungi dall'odierno confine costiero tra Francia ed Italia.
I MONACI BENEDETTINI, dal IX al X secolo, diedero impulso all'olivicoltura ligure; furono probabilmente loro che importarono da Cassino nell'area tabiense, dove esercitavano l'opera apostolica, una pianta di buona qualità, poi detta TAGGIASCA (cfr. FORNARA, I Benedettini e la Madonna di Canneto a Taggia, Chieri, 1928, pp. 49 e 97).

Il Formentini (in Studi velleiati e bobbiesi, La Spezia, 1938, p. 25) citò un diploma di Carlo Magno, datato 5 giugno 774, con cui in qualità di rex Longobardorum concedette a Guinibaldo, abate di Bobbio, un podere con oliveto sulla via del Bracco (anticamente Petra Calice).
Nella ricordata concessione del vescovo Teodolfo (X sec.) l'olivo viene menzionato accanto ad altre qualità di piante e di alberi; questo però e l'unico documento dell'epoca che ne registra sì antica presenza nel Ponente ligustico.
Infatti in un successivo atto (4-VII-1049 ma forse correggibile al 1036-1038) con cui Adelaide di Susa donò al monastero genovese di S. Stefano il fondo Porciano (S. Stefano), nonostante la quantità di elementi, piante, coltivazioni citate, l'olivo non compare.
La coltivazione intensiva dell'olivo e lo sfruttamento artigianale dell'olio (su cui, a livello generale, una fra le prime opere scientifiche fu quella settecentesca di Pietro Vittori) sono databili alcuni secoli dopo: la coltura si affermò a livello intensivo dal pieno '500 mentre tra fine XV e primi del XVI secolo non era ancora particolarmente diffusa pur se, a riguardo dell'areale della val Nervia sia negli atti del notaio di Amandolesio non mancano citazioni di terre coltivate ad olivi (in particolare quelle del caso di una vedova di Dolceacqua, certa Benvenuta -XIII secolo- che possedeva, oltre a varie altre terre a differenti specializzazioni agricole, alcune piantagioni di olivi) sia, ancora, entro gli Statuti del borgo di Apricale alla Rubrica 38 si leggono precise norme contro i furti perpetrati a danno degli olivicoltori.
Su questo argomento concorrono utilmente le rilevazioni fatte da Fausto Amalberti nel suo saggio Popolazione di Soldano nel secolo XVI ed ancor meglio quello di Beatrice Palmero nel contributo Proprietà catastale e struttura familiare (pp.161-162): entrambi i lavori sono stati editi nell'opera Il Catasto della Magnifica Comunità di Ventimiglia...(1545 - 1554).
Grazie alla sua più estesa ed organica visione dei problemi la Palmero sviluppa un esaustivo piano comparativo sulla diffusione dell'olivicoltura nel Ponente ligure, sottolineando però con cura un'anticipazione della coltura e dell'annessa civiltà dell'olio propria delle valli di Diano.
La studiosa sulla base dello strumento notarile, appunto il Catasto, arriva a segnalare una modestia tale della coltura nell'agro intemelio da giustificare sia l'importazione del prodotto dalla Provenza sia il principio che tra metà 1200 e metà XVI secolo l'incremento dell'olivicoltura, a fronte delle colture predominanti della vite e dell'olivo, non avesse fatto registrare alcun significativo incremento.
Sempre Beatrice Palmero riporta per esteso le terre dell'amministarzione intemelia che, sulla base del catasto, risultavano poste a olivicoltura: una terra ad Airole (in località Pian) di cui era titolare un certo Jancherius, una a Bordighera in località Ponte di un Gerbaldus, una a Borghetto di certo Aproxius, una a Vallebona (località Toria) di un Pallancha, una appartenente a tutta la comunità di Soldano (Universitas Soldani) in località Sagrao, una ancora a Vallebona di tal Allavena in località Savel, sempre a Vallebona un'altra di tal Guillelmus in luogo Cazetta, di nuovo a Vallebona, del Guillelmus, un'altra terra ad olivi in zona Vallon de Vi, sempre a Vallebona la terra olivata Pian de Lora di certo Arnaldus ed ancora, nello stessa villa, le terre di Iancherus in località Savel, di Leonus in zona Chiaforno, di un Pallancha in sito Fontana.
Il facile calcolo fatto dalla studiosa registra quindi un il numero di 10 oliveti e calcola successivamente un numero ancora limitato di frantoi, una ventina circa, a fronte degli oltre 30 mulini necessari alla Comunità per la macinazione del grano di autoconsumo.
Secondo l'Amalberti, e sulla base di una sua condivisibile constatazione, proprio dalla metà del '500 (periodo di stesura del catasto) l'olivicoltura registra la sua crescita: il ricercatore d'archivio ci rende edotti di alcuni dati interessanti che evince dall'Archivio di Stato di Genova (Notai Antichi, n. 1808 bis, notaio Stefano Berruto).
Tra i segnali del sempre maggior valore attribuito ai campi posti a coltura di olivi egli adduce, per esempio, un atto del 1524 col quale tal Domenico Fenoglio di Isolabona vende 35 rubbi di olio ad Antonio Orengo di Ventimiglia ed un altro ancora, del 1532, per cui Luigino Moro di Apricale che accusa un debito di 10 scudi nei confronti di certo Francesco Massa di Ventimiglia si impegna a saldare il suo debito in natura e specifatamente con una convenuta quantità di olio.

E' comunque curioso ricordare che, alla origine della sua storia moderna, la pianta serviva frequentemente da recinzione delle proprietà, per lo più lavorate a colture tradizionali (intarziato ).

La lavorazione degli olivi ha una sua chiave di lettura nell'analisi dei documenti notarili riguardanti i più antichi FRANTOI (MULINI AD OLIO/ AEDIFICIA/ U DEFISSIU) noti nel PONENTE LIGURE e destinati attraverso i secoli ad un CONSISTENTE SVILUPPO
Uno dei primi FRANTOI venne menzionato in un atto del 28-XII-1205 per cui un certo Bonaventura Marzano di Ardizzone cede all'abate di S. Stefano un fondo di Villaregia, a pagamento di un legato di 19 soldi (è anche nota l'esitenza di un processo di molitura svolto secondo la tecnica della NORIA o POZZO A SANGUE con trazione animale: in epoca romana esistevano parimenti i frantoi ma la spremitura delle olive (a differenza di quanto accadeva per il grano spesso macinato in complesse aziende di molitura: un esempio industriale si legge archeologicamente ad ARLES dove si è ricostruita un'INDUSTRIA DI MULINI OPERANTI IN SEQUENZA per realizzare -sfruttando un'EVOLUTA TECNOLOGIA un grande quantitativo prodotto da commerciare) avveniva per mezzo di TORCHI mossi dall'uomo o attivati per trazione animale, detti mulini a sangue".
Nel documento, studiato da N. Calvini - A. Sarchi (op cit., pp. 56-57 e 125) e conservato nell' Archivio di Stato di Genova (Ab. S. Stefano, 1509, m. II, fasc. perg. 161, indizione genovese), compare la frase "... usque ad Gombum per rectam lineam , dove il GOMBO veicolato sino ad oggi a livello dialettale, è sinonimo di mulino da olio: la forza motrice, con l'evolversi delle tecniche, prese ad essere fornita, sia per i mulini che per i frantoi, dall'incanalamento delle acque per via di veri e propri ACQUEDOTTI (BEODI) di cui rimangono tracce, anche monumentali, come nel caso di questo, i cui considerevoli reperti si trovano a Pompeiana in località Loghi.
Solo più tardi entro nell'uso aedificius ab oleo, che l'etimologia popolare ha poi deformato nel dialettale u defissiu.
L'uso dell'espressione edificium ab oleo (con aferesi della A iniziale) è riscontrabile in scritti del XV secolo, come quello che regolarizza la divisione confinaria tra le chiese di Pompeiana, Lingueglietta e Riva (A.S.G., Ms. Perasso, manoscritti 843, p. 270).
Per rilevare i rapporti di sinonimia tra frantoio ed i suoi equivalenti ligustici è interessante riportare un inedito documento (12-V-1692) redatto nei locali della Confraternita dello Spirito Santo (detta anche Congregazione della Carità) di Pompeiana.
Si tratta dell'enunciazione di un ricorso, accolto dalla Marchesa Teodora Spinola, contro i Gombaroli rei di trattenere, contro le norme prefissate, le sanse.
Nell'atto si legge: " ... Sig.i dovete sapere che essendo stato fatto ricorso dai nostri predecessori all'Ill.ma Sig.a Marchesa Teodora Spinola per caosa che dalli Gombaroli osij fitavoli dell'edificij d'oglio del presente luogo ci vengono usurpate le sanse delle olive che d'ogn'uno del presente luogo si mandano a frangere alli Gombi suddetti con supplicarla che dovesse ordinare a Gombaroli osij fitavoli che dovessero puntualmente restituire e consignare a ogni persona le sanse predette doppo cavarne l'oglio secondo il solito...".
Risultano qui evidenti gli interessi legati all'olivicoltura; tutto era sfruttato e gli stessi residui, come la sansa che si utilizzava quale mangime, combustibile (specie per i forni) e olio alternativo (per es. da saponi), rivestivano particolare importanza nella vita di tutti i giorni.

La ricerca di nuove frontiere commerciali e quindi di lunghi viaggi marittimi, che portarono alla scoperta dell'America, comportarono dal XV sec. il problema di un'economica conservazione dei cibi.
Ed a questo punto ebbe origine la moderna fortuna dell'olivo.
Si scoprì infatti che l'olio non acido si conservava ed aveva la proprietà di mantenere inalterati gli alimenti.
La coltura della pianta venne in breve tempo intensificata sino a ridurre la distanza tra calza e calza dell'albero (per tradizione di 10 m) a soli 5 metri.
I risultati pratici furono mediocri ma l'abitudine venne conservata ed il successo dell'olivicoltura fu ufficialmente ratificato.
Tutto ciò si rivelò, col tempo, un inconveniente, perché l'agricoltura ligure si concentrò troppo su questa monocoltura senza predisporre valide alternative (G. MOLLE, op. cit., p. 316).






Contestualmente, per l'esigenza delle interminabili navigazioni e per la lotta alle avitaminosi specie lo scorbuto e la pellagra si prese la consuetudine di rifornire le navi di frutta fresca (mele in particolare) e di agrumi di cui il Ponente ligure fu dal '500 sino al sec.XIX il maggior produttore del mondo occidentale, traendo notevole ricchezza dalla commercializzazione dei frutti e quindi dell'acido citrico.

Una curiosità, sorprendente e quindi da registrare, riguarda invece le uova, un alimento oggi ritenuto abbastanza banale. Per iungo tempo ed ancora in epoca abbastanza recente esse furono invece ritenute, in Liguria occidentale, cibo da signori.
Ciò risulta da documenti redatti in diversi periodi storici e lo reperiamo sia dal cap. 10 del VI libro degli Statuti di Oneglia (VI, Specialis Uneliae, cap. 10, De ovis non portandis extra Uneliam) sia da varie relazioni tecniche di cui fa- mosa una del 1725.
Che le uova fossero considerate, specie dagli umili, un cibo prezioso, lo si legge in un documento del Prevosto di Pompeiana G.B. Ginatta ed intitolato Memoria per i Terzorini dove è scritto: "Le donne in occasione se le da la benedizione post partum sogliono portare alcune ova... Parimenti per la benedizione delle case vengono donate dai padroni alcune ova (è evidente il pregio attribuito alle uova, anche come dono capace di non far sfigurare; la Memoria fu scritta tra il 1784 e il 1826, durata della prevostura del Ginatta e ora conservata nell'Archivio Parrocchiale di Pompeiana).






Il regime alimentare dei populares a differenza di quello dei ricchi, non subi attraverso i secoli grosse trasformazioni, rimanendo piuttosto povero e risentendo negativamente delle carestie che si verificavano, specie per le graminacee, un anno su tre con la conseguenza di sempre nuove tasse ( o sottoscrizione di prestiti da parte delle Comunità) per acquistare altrove il prodotto (cfr. P.I. LEICHT, Operai, artigiani, agricoltori in Italia dal sec. VI al sec. X, Milano, 1946, p. 177).

Un discorso sui cibi e sulle bevande non può però prescindere dalle condizioni storiche e ambientali; a seconda delle quali si può anche non fruire di tali alimenti, specie per ragioni intrinseche (le carestie) ed estrinseche (le epidemie); le interazioni tra i due fattori generavano sempre un grave ma significante stato di tensione socio-economica.
Le epidemie (ragioni intrinseche) erano frequenti da sempre ma spaventavano meno delle epidemie perchè erano razionalmente giustificabili e quindi comprensibili, in quanto legate a fenomeni concreti: siccità, locuste, terremoti ed alluvioni.






La gastronomia di un popolo è, più di quanto si creda, la risposta razionale di una collettività, storicamente e logisticamente identificata, ad una situazione bio-ecologica anomala (appunto la carestia). In tale circostanza nessun prodotto viene gettato senza averne sfruttate tutte le proprietà nutritive e quelli che in altri tempi erano considerati scarti, sono reimpiegati in composizioni alimentari complesse come minestre composte, minestroni, povere farinate: su cui la civiltà gastronomica genovese in senso stretto e ligure in senso lato, magari con lievi ed anche gustose varianti da luogo a luogo, ha scritto pagine fondamentali e tuttora vitali della "futura arte culinaria".

E purtroppo mentre la gente di Liguria, per le malattie dell'olivo, che come monocoltura ne sosteneva gran parte dell'economia-rurale, e per l'insorgere (anche a causa delle tante guerre dal '600 in poi) di tante carestie, pativa la fame, dalle Americhe erano giunte delle colture che avrebbero risolto parecchi problemi ma che non erano state comprese, qui come in molte alte terre, sotto il profilo delle qualità nutritive.

Il pomodoro in Liguria, come in moltissime altre parti d'Italia ed Europa, fu a lungo utilizzato per scopi ornamentali, sin ad ornare splendidi giardini come il giardino rinascimentale dei Doria in Dolceacqua: per una certa resistenza culturale la sua introduzione fu anzi ritardata rispetto alla generalità della Penisola e, stando a quanto è stato scritto dal Pira, sarebbe da connettere alla constatazione pubblica che di quello che mediamente era ritenuto un adornamento vegetale si nutrivano, con gusto e profitto, i soldati di Spagna ai tempi della Guerra di successione al trono imperiale.
La STORIA DEL POMODORO è comunque complessa quanto poco nota e merita di esser riproposta.
Fu importato in Europa dalle Americhe nel XVI secolo e venne ribattezzato col nome di LICOPERSICUM CERASIFORME tenendo conto della sua somiglianza morfologica con una ciliegia straordinariamente sviluppatasi.
Il nome volgare di POMO D'ORO fu probabilmente coniato dal botanico senese Pietro Andrea Mattioli a metà del '500 per indicare una pianta, come detto, soprattutto destinata ad ornare i giardini patrizi.
Questo nome pervenne quindi nella lingua italiana ufficiale mentre a livello dialettale (in genovese per esempio ma anche nelle lingue dei paesi stranieri) si generò un nome prossimo a quello con cui la pianta era nota agli indigeni d'America, le TOMATE Il trattato che suggella la fruizione gastronomica dei POMODORI risale al '700 e si tratta di un lavoro di Francesco Gaudentio tuttora custodito alla Biblioteca Comunale di Arezzo.
Nel codice si può infatti leggere la prima ricetta relativa al "sugo di pomodoro":...Piglia detti pomi, simili alle mele, tagliali in pezzetti, mettili in tegame con olio, sale, aglio trito, mentuccia di campagna. Li farai soffriggere col rivoltarli spesso e se ci vorrai aggiungere un poco di malignane [melanzane] tenere o cocuzze bianche [zucchine] ci faranno bene".
Il successo alimentare del POMODORO si può tuttavia datare ufficialmente solo dal 1773 quando venne divulgato con gran fortuna il trattato gastronomico del napoletano Vincenzo Corrado intitolato Il cuoco galante....
Come condimento del maccheroni tuttavia anche a Napoli l'affermazione del sugo di pomodoro fu tardiva: i "maccaronari" preferirono condire infatti i maccaroni "in bianco" sin almeno al 1830 quando si prese la consuetudine di proporre al pubblico, agli angoli delle strade, "spaghetti e pomodoro".
Poco dopo, nel 1834, il duca di Buonvicino Ippolito Cavalcanti redasse e pubblicizzò una sua arguta ricetta intitolata "vermicielli co le pommadoro".
La sanzione ufficiale di questa pianta in campo alimentare relativamente alla Liguria si deve invece a G.B. Ratto che diede alle stampe, intorno al 1865, il suo volume La Cucineria Genovese... in cui erano proposte diverse ricette a base di pomodori.
Finalmente alla fine del XIX secolo Pellegrino Artusi sancì ufficialmente a livello gastronomico il trionfo del pomodoro scrivendo in uno dei suoi celebri testi di gastronomia:"Fate un battuto con un quarto di cipolla, uno spicchio d'aglio, un pezzo di sedano lungo un dito, basilico e prezzemolo. Conditelo con un poco d'olio, sale e pepe, spezzate sette o otto pomodori e mettete al fuoco ogni cosa insieme. Mescolate di quando in quando e allorché vedrete il sugo condensato come una crema liquida, passatelo al setaccio e servitevene. Questa salsa si presta a moltissimi usi: è buona con il lesso, è ottima per aggraziare le salse asciutte condite a cacio e burro, come per fare il risotto con i pomodori".

Un discorso a parte vale invece per la patata o come meglio si chiamava dai tempi della sua scoperta, forse in Perù, i Pomi di Terra.
Nel 1817 l'illustre botanico italiano dell'università di Modena FILIPPO RE (Saggio sulla coltivazione e su gli usi del Pomo di Terra..., Milano, per Giovanni Silvestri, 18817, p.5 e sgg.), datando la scoperta del prezioso tubero a poco dopo la metà del 1500 [oltre a fornire -a genti ancora inesperte- un basilare PRONTUARIO PER SERVIRSI DELLA PATATA IN ALIMENTAZIONE] mosse una serie di pesanti accuse ai ceti dirigenti italiani che relegarono, come una rarità, tale coltura negli orti botanici senza proporre un'oculata educazione degli agricoltori, in genere refrattari alle novità, anche ottimali come questa. Pregiudizi, superstizioni, timori irrazionali (che la pianta portasse malattie o fosse velenosa), avversione verso i gruppi dominanti (nella convinzione che volessero impoverire i contadini sostituendo a quella del grano la meno costosa cultura del tubero), ignoranza agronomica ed interessi particolari dei fattori fecero sì che la coltura delle patate si affermasse tardi in Italia e solo in occasione delle guerre di Napoleone quando la gente vide i genieri francesi coltivare e far mangiare il tubero alle truppe senza alcun inconveniente.
In Liguria poi la resistenza alla coltivazione del Pomo di Terra fu ancora più tenace specie perché i contadini, fin troppo esposti ai rischi delle fluttuazioni del mercato ed estremamente condizionati dalla limitatezza della terra a disposizione per colture alternative, rimanevano -come detto- tenacemente attaccati alla monocoltura dell'olivo accettando con rassegnazione, ma nella speranza di recuperi e quindi di una garantita sopravvivenza, i rischi delle malattie della pianta, delle carestie, dei saccheggi degli oliveti.
La Repubblica per convincere gli agricoltori liguri ad intraprendere questa nuova esperienza agronomica ricorse, ma senza grande efficacia, persino ad una Petizione dei Parroci, mediamente le persone più ascoltate dai contadini: in merito a ciò merita una segnalazione particolare il parroco di Roccatagliata di Neirone tale don Michele Dondero che più di tutti gli altri parroci credeva alla coltura della patata come un deterrente contro le carestie e ne esperimentava da tempo le tecniche colturali nonostante i villici ritenessero le sue investigazioni tacciabili di stregoneria.
A proposito di queste sue ricerche il parroco, nelle proprie "lettere" scrisse tra l'altro: "Allora le ho grattate [i pomi di terra] alla maniera delle zucche, e rimescolate con farina le ho impastate all'uso di tagliarelli ma anche ridotte in polenta sono ottime. E le focacce poi son perfette e di grato sapore". I suoi parrocchiani, in seguito ad una carestia, si lasciarono convincere finalmente alla colture dei preziosi tuberi sì che il Dondero poteva scrivere nel 1792: "al presente la valle di Fontanabuona vale il doppio di prima e generalmente si vive meglio".
Ma nelle altre località l'affermazione della coltivazione fu in linea di massima più laboriosa: e peraltro il fatto della peculiarità di tale coltura nell'area di Roccatagliata e Meirone è segnalata dal fatto che qui si celebra tuttora, a commemorazione dell'antico evento, la "sagra della patata".
Infatti la scelta definitiva, nell'intiero arco ligustico, della coltivazione avvenne solo in forza dell'impresa di Napoleone e del fatto d'aver visto i suoi soldati approvvigionarsi del nutriente alimento.
Molta gente prese così a coltivare, in questi periodi di guerra, il Pomo di Terra vincendo lo spettro della carestia: poi (ancora si lamenta il Re a p.9) finiti i conflitti o passate le truppe la coltura da molti era abbandonata sì che solo quanti vi credettero, persistendo in siffatta coltivazione e commercializzazione, ne trassero grande vantaggio su un mercato che rapidamente accolse le patate come uno dei nuovi, fondamentali alimenti.
Per certi aspetti stupisce che la RESISTENZA ALLA COLTURA DELLE PATATE sia stata considerevole anche in Liguria occidentale, in quella terra che, oltre ad essere più prossima alla Francia e quindi più esposta alle innovazioni agronomiche di tale nazione, possa vantare di aver dato i natali all' illustre agronomo Carlo Amoretti (Oneglia 1741 - Milano 1816) che fu un convintissimo sostenitore dell'importanza della coltura delle patate e della loro importanza alimentare ed alle quali dedicò un'opera fortunata il Della coltivazione delle Patate e loro uso (Milano 1801) di cui si giunse fin a quattro edizioni, essendone l'ultima, nota al Re, del 1811.
Annagrazia Cogno Zarbo ha scritto in un suo articolo apparso sulla "Riviera dei Fiori", II, 1990 ed intitolato significativamente La patata:
"Sempre nello stesso anno (1793) la Società Patria di Genova faceva stampare dalla tipografia Caffarelli un'istruzione agraria sui Pomi di terra, indirizzata al Parroci rurali del Dominio della Serenissima Repubblica, con lo scopo di propagandare la coltivazione della patata fra i loro parrocchiani. Venivano anche proposte maniere per ridurre la patata in farina o 'panizzarla'.
Il prezzo del tubero nel 1794 a Genova era di 36 soldi il rubbo e di 30 nelle campagne.
Nello stesso anno a Nizza veniva pubblicata una
Istruzione sopra la coltura e gli usi dei pomi di terra nella quale era evidenziato come nell'anno precedente rimarchevole per la sua siccità, il pomo di terra fu il solo che diede frutti discreti.
Anche la Società Economica di Chiavari si adoperò per far conoscere l'utilità delle patate e per diffonderne la piantagione e, grazie ai Parroci nominati Soci Coadiutori, nel 1799 erano piantate in quasi tutto quel circondario.
Tommaso Viano, compilando la storia di Montalto Ligure e Badalucco, scrive:
Le patate si son conosciute nei nostri paesi dopo il 1800, non conoscendosi prima del 1796, essendoci appunto in detto anno mandate a noi dal Sig. Governatore Spinola di San Remo, ma subito se ne faceva poco uso per i molti pregiudizi che si avevano nei confronti del tubero.
Un'osservazione molto curiosa è fatta da un coltivatore di Diano che, stampata a Genova nel 1818, cita testualmente:
gran parte degli agricoltori specialmente di montagna, della Riviera di Ponente, sono intimamente persuasi che l'irregolarità delle stagioni sia effetto della coltivazione delle patate. Ho calleggiato (?) con molti su questo proposito, né mi è riuscito di far ricredere un solo: post hoc, ergo propter hoc.
A Porto Maurizio il primo listino, o Mercuriale, che fa cenno alle patate risale al 1809 ed in uno successivo e scritto che nella seconda metà di Novembre se ne vendettero 18 ettolitri a Lire 5,96 l'ettolitro.
In una lettera del Settembre 1814 il Sindaco di Porto Maurizio scrive al Governatore di San Remo:
Le persone si sono abituate all'uso delle patate e di più si semina molto più grano di quel che si seminasse prima....
Il Pira, nella
Storia della città e Principato di Oneglia, scrive che l'inverno del 1811 era stato orrido, e che le patate che a principio della rivoluzionaria invasione vedevansi con meraviglia mangiare dai soldati francesi, erano divenute un cibo comune delle popolazioni; alla stessa maniera che cinquant'anni prima si apprese dalle truppe di Spagna a coltivare per lusso i pomi d'amore (pomodori), s'imparò da quelle di Francia a coltivare per bisogno i pomi di terra.
(bibliografia: F. Paoletti,
L'inventor delle patate e la fame in Liguria, Porto Maurizio, luglio 1902, dal Giornale "Agricoltura Italiana", Genova)






-ALLEVAMENTO IN MEDIA-ALTA VALLE
Atti, geografia, ambiente, inducono a credere che, da sempre, la medio-alta val Nervia ebbe nell'oltregiogo il referente per approvvigionamento vaccino e che le aziende piemontesi tenessero sulla costa basi commerciali.
Le indagini hanno chiarito l'espansione territoriale della razza bovino-piemontese: fra XIII e XV sec. uno dei primi approdi dei produttori pedemontani della razza era in Ventimiglia dove gli animali eran commercializzati al porto vecchio del Nervia e soprattutto a quello nuovo del Roia per raggiungere altre destinazioni o essere macellati in loco per alimenti o conservazione. Sull'asse Breglio-Dolceacqua si son rinvenuti resti fossili che rimandano, secondo l'esame al C. 14, ad un arco cronologico di 20 secoli sì da confortare l'idea d'una via delle mandrie che dai tempi romani si snodava, tra Piemonte di Sud-Ovest e Liguria occidentale, nel fondovalle nervino: l'arco dei ritrovamenti scema, XIV-XV secoli al massimo, a proposito della diramazione da Dolceacqua per Airole e risulta insignificante per media e alta val Roia. L'interesse per questo percorso della transumanza non deve far dimenticare altri itinerari come quello Pigna-Saorgio.
Nel pignasco è un gruppo di case detto Brighetta, presso cui in una carta del 1760 era indicato un La Briga (di deriv.gallica, per "altura") di Teglia (ligure medievale da tilia = tiglio) ora scomparso: forse Brighetta si connette con Briga Marittima donde, in inverno, i pastori scendevano per Buggio al mare, come risulta da pergamene del '300.
I rogiti del notaio di Amandolesio ragguagliano su pastori e mandrie pedemontane che giungevano alla costa per la strada del Nervia.
L'asse Tenda-Ventimiglia fu interessata, il 3-VI-1259, dalla commercializzazione d'una mandria di 575 capi di bestiame tra capre, immaturi e pecore, stipulata in carreria Merçarie della cittadina intemelia.
I contraenti erano Guglielmo Curlo Boveto di Ventimiglia e Guglielmo Ardizzone di Tenda (docc 61-62) ed il primo aveva soprannome di mestiere Bovetus (Boveto poi Boero = mandriano); significativo pare il toponimo Latte, alla confluenza sulla costa della trasversale dalla val Nervia pei siti del Roia e Bevera, ove si rinvennero tracce archeologiche di recinti per animali: nel '200 vi stavano diverse famiglie Vache (doc.243), più tardi evolutesi in Vacca cognome di mestiere attestato in tal luogo sin ad oggi [vedi anche sotto voce il De Felice e consulta (p.133, col. 2) il Catasto del territorio di Ventimiglia di metà XVI secolo laddove sono attestati tra i proprietari due esiti cognominali Vacha di personaggi residenti nel quartiere Ollivetto].
Il 2-V-1260 Rainaldo Bulferio Maior vendette a Raimondo Marchisio ed a Pietro Boso, pastori della Briga, 350 capi di immaturi e capre per 105 lire di genovini.
Il 16-V-1260, a Ventimiglia in carreria (doc.246) Rainaldo Bulferio ed i fratelli Oberto ed Ottone Agacie stipularono una soccida [contratto per l'allevamento del bestiame, secondo cui sorge società fra chi dispone il bestiame o soccidante ed il soccidario che lo prende per allevarlo con l' accordo di dividersi gli utili) per lo sfruttamento di due vacche brune, di proprietà di Rinaldo, a partire dal prossimo carniprivio (domenica di quinquagesima da cui i chierici iniziavano il digiuno dalle carni) e per la durata di 2 anni = è comunque interessante analizzare la partizione che l'ottocentesco Codice di Napoleone il Grande fece del contratto della locazione a soccida].
Atti duecenteschi su pastori di Breglio, Gavi, Pavia, di Briga e Saorgio ma anche Chieri, Moncalieri, Pancalieri provano spostamenti di pedemontani sulla costa ligure sia per commercializzare il bestiame sia per organizzarvi attività mercantili e aziende agricole (Albintimilium cit., cap. II, 8 passim = G.C. GHINAMO, Problemi e prospettive del settore zootecnico da carne nel cuneese: la razza bovino-piemontese, Dissertazione di laurea a.a. 1988-9, Facoltà di Economia e Commercio, Università di Genova-Istituto di Economia e Politica Agraria, 1 copia dattiloscritta).
L'alta e media Val Roia, Tenda, La Briga, Saorgio e Breglio rappresentano un unicum di tragitti su Ventimiglia (v. T. OSSIAN DE NEGRI, Il Ponente Ligustico : incrocio di civiltà, Genova, 1974, p. 39 sgg).
Una carta del '700 (Ibidem, figg. 25-6) o Carta Generale del contado di Nizza ed il piano topografico del luogo di Saorgio indica però un'importante strada da Pigna a Castelvittorio e quindi Baiardo mentre dal rio Muratone si stacca una via che, per la displuviale di monte Alto tra Nervia e Barbaira, giunge a Dolceacqua e devia per Airole - Ventimiglia.
Nella carta risalta la planimetria di Saorgio allineato sulla cresta ed in parte sul pendio a precipizio del monte : al fondo fu segnata la Strada grande da Nizza a Torino ed a levante, non lungi dalla basilica di S. Bernardino, si rappresentò la Strada di Pigna: per essa i pastori giunsero sin ai primi del '900 ai pascoli d'alta valle del Nervia e da Lago Pigo molti di loro procedevano verso l'agro sanremasco e Triora.






-COMMERCIALIZZAZIONE NEL TERRITORIO DI VENTIMIGLIA E VILLE
I doc. di XIII-XIV sec. attestano l'esistenza in Ventimiglia di una CORPORAZIONE o "compagna" di macellarii. Il 18-I-1264 Ardizzone "macellario" si dichiarò debitore di Corrado Guarachio per 100 capi di bestiame, vendutigli per 30 lire di genovini, e sancì di saldare il debito entro la festa di S.Michele (di Amandolesio cit., doc. 603). La macellazione in Ventimiglia è documentata in un atto dello stesso notaio (doc.524, del 7-I-1263) quando i coniugi Giovanni Columberio e India si impegnarono a restituire 9 lire e 3 soldi genovini ricevuti in mutuo per acquistare bestie da macello. Dalla zona del Convento di Dolceacqua si raggiungeva Airole per raggiungere il porto sul Roia o l' agro di Ventimiglia. Questi percorsi trasversali, i tratti di edilizia romano-imperiale scoperti dalla Mortola a Latte sin a Bevera (luogo dall'idronimo emblematico per segnalare possibilità di abbeveraggio e dove nel XIII sec. erano insediamenti rurali, casali e stalle) inducono a credere che queste diramazioni fossero ancora più antiche, per il traffico bovino, di quanto affermino i reperti ossei. Secondo le superstiti fonti si può dire che nel '200 il traffico di mandrie fosse principalmente innestato sulla strada Breglio-Dolceacqua, con pascoli, bandite, e ricoveri in successione: dal sito dolceacquino donde si accedeva a Ventimiglia marciando in linea colla strada sì da aggirare a Nervia il castello di Portiloria nell'agro nervino a guardia della via di valle.
Sfruttando le deviazioni per le valli del Roia o del Verbone (Vallecrosia) si giungeva ai prati del Roia (area della stazione ferroviaria, ove si individuarono tracce di un pozzo medioevale), alla piazza per il commercio locale o marittimo del Convento S. Agostino (ove in quel tempo era una cappella di S.Simeone che serviva per il nucleo abitato ai fianchi della Rocca detta di Bastia o Bastita) e poi ai recinti di Latte, sui tratti della superstite via romana di costa, fra area intemelia e frontiera (Turbita, Castellaro il Vecchio, Villafranca, Monaco e Mentone.






BANDITE, NORME, PENE, RAPPORTI TRA ALLEVATORI E COMUNITA'
Atto importante su transumanza e vantaggi economici procurati alla comunità dagli affitti per pedaggi, pascoli e bandite che i pastori pagavano a Gabellieri e Massari, risulta la convenzione stretta fra le comunità di Castrum de Doy (Castelfranco-Castelvittorio, nell'alta valle) e di Triora, del 13-VII-1280. Identificati i confini territoriali, il notaio Giovanni de Castro, coi deputati dei borghi, precisò nel rogito che "il comune di Triora e gli uomini di detto Castello debbano tenere e possedere in pace ed accordo le terre che son fuori di detti confini ed in esse possano far pascolare le bestie, lavorare, imporre tasse ai foresti, cacciare e fare qualsiasi altra azione pubblica...e che nessuna persona delle due comunità possa dar licenza ad alcun forestiero di pascolare, fermarsi o passare con bestie per tal terra senza l'autorizzazione di entrambe le comunità...".
Si legge che "i prati degli uomini di Castrum Doy che sono e saranno in Langano, quelli che sono e saranno arati, segnati e disgregati e quelli che avranno voluto tenere arati per dieci anni senza frode siano Bandite dal primo di aprile sin alla metà del mese di Luglio oppure quelli che sieno stati tenuti per fienagione e taglio, una volta che questa sia avvenuta, sino al prato di S.Quirico. E se saran state trovate bestie in detti prati il loro padrone paghi per bannalità soldi cinque di giorno e due di notte se si sarà trattato di bestie piccole (capre, pecore) di numero superiore ed inferiore a dieci, per qualunque bestia grande il padrone pagherà due denari e se saranno buoi e vacche da cinque in più pagherà per bannalità quattro denari per ogni bestia e se sarà un mulo, un giumento od un asino un soldo" ( nel doc. compaiono altre figure giuriduche: dai conciliatori di controversie, uno per comunità, ai pastori servi al titolare della mandria, con elenco delle responsabilità).
Il documento (che il Rossi ricavò da una copia del XVII sec. del comune di Castelvittorio, e che trascrisse nel doc. XV della Storia del Marchesato cit.) non è importante solo per l'indicazione delle pene, degli obblighi dei pastori foresti o per l'indicazione globale che la zootecnia era caratterizzata da caprini ed ovini, bestie piccole, bovini, le bestie grandi, da animali di fatica come asini e muli ma riferisce un dato utile sui collegamenti tra Castelvittorio e Triora per una trasversale che dalla val Nervia procedeva (Nord-Est) verso Triora donde i pastori del taggiasco e del finalese si ritrovavano per procedere verso le bandite d' alta valle nervina.
Dati zootecnici sull'alta valle si deducono poi dagli Statuti di Pigna del 18-XII-1575: alla rubrica 247 sono i Capitoli estratti dal libro vecchio dei Capitoli del XV sec.: alla 301 sotto la voce Limiti delle Alpi, vennero elencate ben 31 Montagne, destinate a bandite o pubblici pascoli a pagamento.
Si trattava dei monti Gordale, Lausegno, Canon, Pertusio, Aorno, Torraggio, Monte Maggiore, Avino, Ubago di Maria, Arvegno [per Orvegno], Ouri, Morga, Argelato, Bondone, Lonando, Monte Comune, Castagnaterca, Verduno, Veragno, Ubago, Fossarelli, Brassio, Peagne, Tanarde, Passale, Fontane, Preabeco e Giove. La sproporzione fra l'enorme area delle bandite e la popolazione, relativamente bassa, del borgo é prova che i pascoli pubblici ospitavano foresti sia per la transumanza che la commercializzazione delle "bestie" o dei prodotti sulla costa ligure. Come si evince da altri documenti del di Amandolesio l'evoluzione stradale-insediativa in vallata é databile al XII-XIII sec.: le Comunità d'alta e media valle ottennero buoni cespiti dall'affitto delle bandite e per il riparo stagionale di pastori ed animali nei ricetti coperti (terrissi) dai diritti di pedaggio, foraggio ed abbeveraggio delle mandrie.






Oggi BANDITA equivale a riserva di caccia, di pesca, di pascolo; terreno in cui è interdetta rigorosamente la caccia per proteggere la selvaggina e incrementarne la produzione; zona d'acqua (fiume, lago, palude) ove è vietata la pesxa. Anticamente si intendeva piuttosto un'area di terreno pubblico agreste in cui, dietro pagamento di gabelle e tasse, "pastori forestieri" (nel rispetto di rigorosi "Regolamenti Campestri") conducevano, nei periodi di transumanza le proprie mandrie a pascolare per determinati, lunghi periodi: lo sfruttamento delle ricche bandite costituì per le comunità di alta valle e del pignasco in particolare una notevole fonte di reddito pubblico (BANDIOTI erano detti i preposti alla gestione ed alla salvaguardia delle Bandite).






Dal I secolo a.C. si diffuse in Italia l'USO ALIMENTARE DEL PANE venduto in NEGOZI SPECIFICI (tabernae od addirittura banchi commerciali annessi alle panetterie vere e proprie ed aperti al pubblico) come quello dell'immagine ricavata da un affresco scoperto a Pompei: contemporaneamente la tecnologia cominciò a produrre un numero crescente di MULINI PER GRAMINACEE E FRUMENTO anche se la produzione e la commercializzazione di frumento e farina avvenne sfruttando la grande produzione delle Gallie e delle Spagne: un'area particolare di produzione era quella in PROVENZA, specie ad ARLES dove, dai rinvenimenti archeologici, si è potuta riscostruire una grande azienda in cui, secondo la tecnica del mulino a caduta d'acqua, operava unaA GRANDE AZIENDA PARAINDUSTRIALE per la macinazione GRANO e la produzione di FARINA sfruttando un gigantesco complesso di OTTO MULINI OPERANTI IN SEQUENZA.
La crisi italica della ceralicoltura durante l'avanzato Impero indusse a previlegiare l'IMPORTAZIONE del prodotto specie per VIA MARITTIMA SU NAVI DA TRASPORTO che si rifornivano del prodotto preferibilmente, per quanto riguarda la Liguria nelle Gallie e in Spagna: non bisogna però dimenticare mai che, data la vastità dell'impero, l'approvvigionamento di grano, per le varie provincie che non ne fossero dirette produttrici, avveniva su un grande piano mercantile reso possibile dal MERCATO APERTO ROMANO IMPERIALE.
LA SEMPLICE CONSULTAZIONE DI UNA CARTA DEI TRAFFICI IMPERIALI -PER QUANTO DI NECESSITA' INCOMPLETA- PERMETTE DI EVIDENZIARE L'ENORME SFORZO COMMERCIALE, PER LO PIU' GESTITO DA AZIENDE PRIVATE, CHE, PER IL GRANO COME PER TANTI ALTRI PRODOTTI, SI SERVIVA SOPRATTUTTO DELLE VIE DI MARE FREQUENTATISSIMA DA UNA MIRIADE DI NAVI DA TRASPORTO, OD "ONERARIE", VARIAMENTE ATTREZZATE A SECONDA DEL TIPO DI MERCE TRASPORTATA.

Il GRANO (di cui attualmente già solo in Italia si individuano numerose VARIETA')entrò prepotentemente nell'alimentazione ligure nel periodo imperiale: veniva portato dalle NAVI entro i grandi ziri o dolia [recuperati dall'archeologia subacquea da navi romane da trasporto affondate anche nel mar Ligure, per esempio a Diano ed Albenga] e verisimilmente era scaricato presso i porti con la partecipazione di una manodopera servile di facchini e di altri operatori.

Ciò fa pensare che presso i porti sorgessero degli Emporia dove accatastare la merce: purtroppo mancano prove per il territorio di Albintimilium se si esclude la presenza di una discarica tarda rinvenuta a Nervia, dove si rinvennero anfore rotte che potrebbero essere il luogo dove si gettavano avanzi e rifiuti dell'attività portuale.

La ragione induce a pensare che i ceti abbienti si servissero del grano e del buon pane, oltre che, naturalmente, degli svariati prodotti di importazione, e che un apparato complesso di produttori e negozianti provvedesse alla commercializzazione.






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AGRUMI [CEDRI, LIMONI, ARANCE : ARANCI AMARI (BIGARADIER) - ARANCI DOLCI (PORTOGALLI] ]: IMPORTANZA ALIMENTARE-TERAPEUTICA (UNO STORICO DISTILLATO: L'AGRO)
L'IMPORTANZA DEGLI "ANELLI" PER IL COMMERCIO LOCALE E INTERNAZIONALE.

Mai abbastanza vien dato peso all'AGRUMICOLTURA, ed in particolare all'AGRUMICOLTURA LIGURE (cui tra l'altro nelle Hesperides B. Ferrari dedicò un trattato basilare, da cui si è ricavata qui l'immagine del CELEBRE LIMONE LIGUSTICO).
Eppure la LIGURIA OCCIDENTALE raggiunse tanta fama per questo tipo di colture da meritare nel passato, a partire dal '500, un RUOLO PRODUTTIVO E MERCANTILE primario di cui rimangono ormai solo poche TESTIMONIANZE.
Questa attività colturale del Ponente, più di quella d'ogni altro paese dell'età delle grandi scoperte geografiche, incise sulle navigazioni oceaniche e quindi su esplorazioni e viaggi molto lunghi, altrimenti impossibili: infatti non tanto le carenze tecnologiche frenavano le grandi spedizioni navali quanto una lotta efficace contro le avitaminosi, da cui derivavano malattie come lo scorbuto .
Rilievo si è dato all'introduzione sulle navi dell'olio d'oliva quale conservante, merito è stato conferito all'intuizione di deporre, sotto l'albero di maestra, una o più botti piene di frutta colta acerba, da cui i marinai traessero vitamine ma si son sottovalutati gli agrumi che, per gli ultimi secoli della navigazione a vela, hanno costituito un antemurale contro le carenze vitaminiche.
I CEDRI furono acclimatati in Europa negli ultimi secoli dell'Impero Romano; limoni e aranci erano ancora sconosciuti nel X-XI secolo finché Siciliani, Provenzali e Genovesi trasportarono a Salerno, Sanremo, a Hyères il limone e l'arancio verso il 1096 e forse gli Arabi diffusero questa piante in Africa e Spagna.
Il clima del Ponente (quando naturalmente l'ambiente non era danneggiato da calamità varie con conseguente carestia)favorì la coltura di cedri, limoni ed aranci (fondamentali contro le carenze di vitamina C, di cui sono ricchissimi: da essi si prese presto a ricavare per scopi medicamentosi e non l'acido citrico) e da XV-XIX secc i frutti furono cespite di guadagno per coltivatori di Sanremo (mercato principale degli agrumi), Ospedaletti, Bordighera, Borghetto S.Nicolò, Ventimiglia, Porto Maurizio, Dolceacqua, Nizza, Roccabruna, Mentone, Monaco): B. Ferrari celebrò le qualità del limone ligure (Limon Ponzinus Ligusticus) cui dedicò un'incisione nel volume Hesperides sive de Malorum Aureorum Cultura et usu, Libri Quattuor, Roma, 1646.
Nella "Sez. di Sanremo dell'Arch. di Stato" (Archives Departement de Nice, Serie M. 377) si leggono alcuni Capitoli della Frutta Limoni alla Todesca, ed alla Caravana, regolamentazione su coltura, raccolta e vendita sotto sorveglianza di un Magistrato dei Limoni e trattasi precisamente del Regolamento di Borghetto S. Nicolò, del Regolamento di Bordighera e infine del Regolamento di Sanremo .
I Magistrati dei Limoni, nominati ad Aprile stabilivano le Poste (tempi e modi di raccolta) con facoltà di multare i contravventori. Alla raccolta presiedevano i Collettori, annualmente eletti, che si servivano di ANELLI DI FERRO per misurare i frutti da commerciare o no, quindi per una SELEZIONE TIPOLOGICA, COMMERCIALE, STRUMENTALE E QUINDI FARMACOLOGICA (E.MUSSA nel suo citato studio sull'agrumicoltura ha fatto rimarcare la rarità ormai di queste misure fiscali e, sulla base di una collezione prinvata incompleta, ha menzionato: Anelu grossu di mm.54, Anelu de Mentun di mm. 51, Spezin di mm.47 e Anello Minuto di mm.35: Le misurazioni non sono ancora state completate ma una serie fiscale completa di ANELLI è stata recentemente scoperta da Denise Avvantaggiati e quindi assimilata alle raccolte librarie e antiquarie della "Collezione M. e B. Durante" donde provengono le quasi introvabili immagini selezionate nel collegamento fotografico).
Collettori e Proprietari procedevano alle operazioni, portandosi una scala ogni due unità e con l'obbligo di non prender denari, bevande od altro da terzi tranne la paga.
I Sensali, presiedevano ai Collettori, riscuotevano il dovuto, versavano la quota ai proprietari, trattenendo la tassa per la "Comunità".
Gli agrumi eran divisi per qualità: quelli da commercio si dicevano "alla Tedesca o Todesca" con rosetta verde ed "brotto" ma privi di picciolo (colti acerbi, per viaggi entro casse onde giungere maturi sui mercati) mentre "alla Caravana" ("alla Baca" o "Bianchi") eran quelli per il commercio locale o comunque solo in Liguria, scelti già maturi.
I frutti minori, del tipico LIMONE LIGURE, che non passavano per gli ANELLI, erano spremuti per ottenere, tramite DISTILLAZIONE l' "AGRO" o acido citrico, venduto in Europa per bevande, tinture e come emostatico e diuretico in medicina.
Tra il 15 ed il 22 del mese ebraico di Tishri (settembre-ottobre), celebrandosi la "Festa dei tabernacoli o delle Capanne", detta "della Raccolta" per la fine dei lavori dei campi, molti Ebrei erano nel Ponente per procurarsi cedri, rami di cedro, palma e salice da portare al tempio in processione nei 7 giorni della festa: per la richiesta, i commercianti di Bordighera guadagnavano molto dalla ricorrenza (l'a. ligure decadde in pieno '800 affermandosi il prodotto di Sicilia, Africa settentrionale e Spagna).
A proposito dei CEDRI bisogna tuttavia rammentare che, essendo abbinata la loro vendita a quella delle PALME, sia la RACCOLTA che la VENDITA seguiva linee alternative rispetto a quelle degli altri AGRUMI.
Il prodotto era quasi tutto indirizzato verso la Germania, sede di fortissime comunità ebraiche, ed i frutti che avevano anche grandi dimensioni (fino a 8-10 hg. cadauno) e che erano richiesti perfetti dai commercianti ebrei tedeschi, venivano valutati uno per uno od al massimo a dozzine.






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La CURA DEI CAPELLI ha costituito una pagina essenziale nella cosmetica romana, specialmente della tardarepubblica e dell'Impero: è per questa ragione che si è pensato di riprodurre questo profondo SAGGIO CRITICO di Emilia Nanni a suo tempo pubblicato, per la Nuova Serie dei "Quaderni dell'Aprosiana" (n.4, 1996) sotto il titolo di "Magia d'amore e vizio di sensualità nei capelli ornati o sciolti delle donne" (l'influsso di Publio Ovidio Nasone sulla cultura barocca dei "crin di femmina audace": il caso di Angelico Aprosio").
Nel campo delle ACCONCIATURE una voce rilevante era comunque conferita alla realizzazione di adeguate TINTURE DEI CAPELLI ed il maggior contributo di ricette in merito indicate dalle fonti classiche è connesso alla loro proprietà di ravvivare il nero colore della capigliatura ed è peraltro naturale che siano tanto numerose visto che le chiome della razza mediterranea sono scure, oscillanti dal castano al nero.
Plinio nella sua Storia naturale ricorda il laudano che "conserva scuri i capelli" (XXVI 48), dice che l’"iperico che è anche chiamato corisso scurisce i capelli, ed in modo analogo li scurisce l’ofride e la valeriana cotta nell’OLIO D'OLIVA" (XXVI 164): racconta poi che "le foglie del cipresso tritate e mescolate all’aceto scuriscono i capelli" (XXIV 15), che "le foglie dell’albero del lentisco tingono i capelli" (XXIV 42), che "le bacche del sambuco...tingono i capelli" (XXIV 52), che "le bacche dell’edera tingono in nero i capelli" (XXIV 79), che "le more unite al succo delle OLIVE ACERBE tingono i capelli" (XXIV 122) ed ancora che "La cenere dell’assenzio mescolata ad olio di rosa scurisce i capelli" (XXVII 52).
Lo stesso scienziato fa pure riferimento, nel caso delle tinture, a quelle ricavate da sostanze animali scrivendo nella sua famosa enciclopedia che "i capelli delle donne vengono tinti con il fiele di testuggine" (XXXII 38), che "un uovo di corvo sbattuto in un vaso di rame...tinge in nero i capelli" (XXIX 109) ed ancora che "rendono neri i capelli le sanguisughe lasciate per trenta giorni a putrefarsi nel vino nero. Alcuni prescrivono che un sestario di sanguisughe venga lasciato imputridire in due sestari di aceto dentro un vaso di piombo per altrettanti giorni e poi che venga esposto al sole. Sornazio attribuisce a ciò un così alto potere scurente da dire che, se coloro che ne fanno uso non tengono OLIO DI OLIVE in bocca, anneriscono persino i loro denti con questa tintura" (XXXII 67).






Le acconciature in voga all'inizio dell'800, sono chiaramente ispirate all'antica Grecia, aderenti sul capo sono caratterizzate da un incrocio di ciocche, ornate da perle e fiori.
Unica eccezione d'inizio secolo, era la pettinatura all'inglese, che lasciava liberi ampi riccioli, i quali ricadevano sulle guance, chiamati prima tire-bouchons (cavatappi in francese), e poi anglaises (inglesi).
Mentre in Francia le parrucche avevano un certo successo, le dame italiane preferirono sempre le acconciature di capelli veri, raccolti in trecce, che si complicavano in base alle occasioni in cui venivano sfoggiate.
Il colore dei capelli alla moda, divenne il castano scuro, e pian piano si diffuse la pettinatura detta 'alla vergine', ossia con la riga in mezzo alla testa ed i capelli raccolti all'indietro.
Nel corso di tutto il secolo, le acconciature vennero comunque adattate al tipo di cappello di moda. Dai cappellini allacciati sotto al mento, in voga con lo stile Impero, si passò alle cuffiette ornate di pizzo, per poi tornare, a fine secolo, ai grandi cappelli a falda larga, ornati di piume.
Gli uomini dell'800 portavano i capelli scapigliati, con un atteggiamento ironico, e le basette, dalle tempie, scesero fino ad unirsi sotto il mento, formando una striscia sottile di barba, che incorniciava il viso.
Questa acconciatura, rimasta famosa con il conte di Cavour, prese proprio da questi il suo nome.
Alcuni accompagnavano la striscia di barba, con dei piccoli baffi cadenti, ma era piuttosto raro.
Col tempo, i baffi divennero di gran moda e vennero impomatati, per tenerli ben dritti o rialzati, anche se in Italia, Mazzini e Garibaldi li portavano spioventi.
La barba, inoltre, si affacciò sui volti maschili, a partire dal 1840, espandendosi fino a ricoprire tutto il mento, fino alle tempie.
I cappelli, durante tutto il secolo, rimasero per lo più cilindrici, con alcune variazioni.
Come il gibus, che dotato di molle poteva essere appiattito e portato sotto il braccio, oppure il cappello 'alla Bolivar', un cilindro svasato verso l'alto.
Gli artisti portavano invece il berretto, una specie di basco alla francese drappeggiato, solitamente di stoffa morbida, come il velluto, detto anche cappello 'alla raffaella', alludendo agli autoritratti del pittore rinascimentale Raffaello Sanzio.
Tra gli accessori indispensabili del gentiluomo, c'erano i guanti: bianchi e di filo, di giorno e di sera, di pelle gialla, ma non troppo sgargianti.
I giovani eleganti portavano anche un monocolo incastrato su un occhio, oppure degli occhialini da naso, attaccati ad una catenella.
Chi ne aveva veramente bisogno utilizzava degli occhialini ovali, con lenti piuttosto piccole, come quelli del conte di Cavour.




La toilette degli uomini era piuttosto semplice: sbarbati con i capelli corti, fatta eccezione per le persone particolarmente eleganti, che, per antitesi, portavano capelli lunghi, chiamati zazzera, la cura dei capelli delle donne era particolarmente ricercata.
Nel tardo medioevo, le donne cittadine non si accontentavano più dei rozzi sistemi campagnoli, ma iniziarono ad affidarsi a raffinate cure del viso e dei capelli.
Alcuni testi del tempo riportano, ad esempio, i sistemi per "lavare ogni macchia dal viso" o per preparare "un depilatorio che cava i peli sicché mai rinascano".
Esistevano anche le professioniste della cosmesi, che, a domicilio, praticavano il peeling e si occupavano della depilazione delle sopracciglia, che dovevano essere piccole, accurate e molto alte.
I capelli, poi, erano accuratissimi.
Lavati una volta alla settimana, di solito il sabato, giorno quasi interamente dedicato alla cura del corpo, venivano acconciati con pettini d'avorio lavorati, importati dalla elegante Francia.
Ai capelli veniva dato anche un colore speciale, al tempo molto di moda: il biondo oro.
I metodi per ottenere il colore erano diversi.
Oltre all'esposizione prolungata al sole con speciali cappelli, si usavano anche degli shampoo specifici.
Il colorito della carnagione doveva essere chiarissimo, ed i capelli biondi dovevano contornare il viso, dall'alto, in un'acconciatura a piramide, a volte tempestata d'oro e arricchita da ciocche aggiuntive e da trecce bionde sovrapposte.
Le donne ricche portavano, inoltre, molti gioielli, anche se era ufficialmente vietato dalle leggi, e spesso i notai pattugliavano le strade, delle città, alla ricerca delle donne eleganti in infrazione!
Nonostante ciò, anelli, bracciali, diademi, cinture con pietre preziose e perle, meravigliosamente lavorati, continuavano ad abbellire le nobili dame.





L'abbigliamento tipico degli uomini cittadini, al tempo dei comuni, era costituito da una specie di casacca, che, partendo dal collo, arrivava fino alle caviglie.
Questa casacca, dotata di maniche lunghe ed aderenti, veniva portata liberamente o fermata in vita da una cintura.
Sopra, si portava un mantello con le maniche larghe e dei risvolti sul davanti, che era chiamato guarnacca o gamurra.
La gamurra era di seta per l'estate e di lana per l'inverno, e spesso, per i più ricchi, era anche foderata di pelliccia.
Nei momenti più rigidi dell'anno, inoltre, gli uomini benestanti portavano un mantello, il lucco, semplice o foderato di pelliccia, con un cappuccio a punta, oppure con un corto mantello fissato con una fibbia, come al tempo dei romani.
Mentre i poveri ricercavano i tessuti più a buon mercato, i ricchi facevano a gara per sfoggiare le stoffe più pregiate e raffinate, dai colori sgargianti e intarsi preziosi.
La qualità delle stoffe era un indice dello stato sociale.
I giudici ed i notai, ad esempio, portavano vesti rosse, i cavalieri invece color scarlatto.
Queste due categorie di persone, inoltre, sotto alla casacca, coprivano le gambe con delle calze a metà coscia, che avevano una suola di cuoio cucita sotto al piede, e d'inverno, portavano stivali ornati o calzari di cuoio e legno.
Queste calze, nel Rinascimento , acquisteranno un'importanza maggiore, mettendo in evidenza le parti virili del corpo.
I poveri, invece, non possedevano calzature, né portavano calze, ma indossavano degli zoccoli rudimentali a piedi nudi.
Inoltre, poiché la loro casacca era più corta, tenevano le gambe nude esposte al freddo.
I poveri non portavano neanche un copricapo, mentre i borghesi ed i nobili, oltre al cappuccio del lucco, portavano una specie di cappello frigio, con la punta su un lato, oppure un turbante con un lembo che cadeva sulla spalla, o più giù. .





La moda italiana del Rinascimento, si distinse nettamente da quella del resto d'Europa, sviluppando un proprio stile, sia per gli uomini che per le donne.
Le casacche, che portavano gli uomini nel Medioevo, si accorciarono, mostrando maggiormente le gambe, e le calzamaglie, che cominciarono a colorarsi in maniera da porre in evidenza gli attributi virili.
Sopra, veniva portata una casacca pesante, spesso rifinita con lembi di pelliccia.
Questo cappotto, aderente sul busto, si allargava in pieghe verticali fino a metà coscia.
Le maniche molto ampie fino al gomito, si stringevano verso il polso, e dalle spalle partivano due lembi di tessuto molto pesante che, gettati all'indietro, arrivavano fino alla coscia.
Il collo dei vestiti era portato in diverse maniere, ma i cappotti avevano spesso scolli a "V", dai quali si intravedeva il collo alto della casacca.
Alcuni signori portavano, al posto del cappotto, un mantello pesante, di velluto, fissato sulle spalle, che cadeva dietro in un pezzo unico, e davanti, era composto da due fasce di stoffa, che restavano aperte.
Per riparare dal freddo, all'altezza del petto, la stoffa dei mantelli si ispessiva fino a tre volte tanto, ripiegandosi su se stessa in ampi risvolti.
La tunica rimase una parte fondamentale dell'abbigliamento maschile.
Non variò molto nella forma, poteva essere più lunga o più corta, ma variò nella foggia.
I tessuti si impreziosirono moltissimo e si inspessirono.
Non veniva sempre portata una cintura, ma quando c'era, era o una cintura di cuoio spesso, portata un po' scesa su un fianco, o un cordone lavorato, o una fusciacca di seta pesante annodata su un lato.
Nei momenti dell'anno in cui il clima era particolarmente rigido, gli uomini portavano uno spesso mantello, senza maniche, appoggiato sulle spalle ed avvolto intorno al corpo, come le tuniche romane, con molti risvolti, che davano agli uomini un aspetto decisamente sofisticato.
C'era anche un altro tipo di mantello, che somigliava un po' più ad una coperta, posta sul cappotto, solo molto più grande.
Solitamente di colore scuro, con linee più chiare, questi mantelli avevano una forma semicircolare, con dei buchi per le braccia.
Uno dei lembi laterali, veniva fatto passare sulla spalla opposta, in modo da coprire il petto.
A volte questi mantelli erano sovrapposti da altri strati di stoffa, fissati al collo degli uomini, tramite una specie di collare.
I collari variavano molto da mantello a mantello.
Alcuni uomini più ricercati, portavano anche dei copricapo che potevano essere attaccati o separati dalle toghe.
Le scarpe non variarono molto.
Venne comunque alterata la forma, l'altezza e la foggia.
Tra tutti i tipi di scarpe quelle più in voga erano quelle alte fino alla caviglia.
Fatte di pelle morbida e abbellite da un laccio, di solito bianco.





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Una straordinaria iniziativa culturale nel PONENTE LIGURE, peraltro eccezionale anche nella sua unicità, è l'istituzione ad opera della FAMIGLIA CARLI e dell' AZIENDA FRATELLI CARLI del MUSEO DELL'OLIVO.
La SEDE sorge in via Garessio 13 ad Imperia-Oneglia [tel.0183-295762]: la visita è possibile tutti i giorni (eccetto il Martedì) dalle ore 9 alle 12 e dalle 15 alle 18,30.
Istituito dal maggio 1992 il MUSEO DELL'OLIVO trae però origine dall'appassionata ricerca di vari membri della FAMIGLIA CARLI che, raccogliendo un vastissimo campionario di oggettistica legata al mondo dell'olivo, hanno inteso onorare sia la loro grande azienda che quello straordinario mondo dell'olivicoltura, che affonda in epoca quasi mitiche, ed a cui ogni azienda, anche modernassima, deve riandare culturalmente per trovare le proprie origini.
Il complesso museale è stato realizzato con tecniche di avanguardia che si leggono appena entrati nelle SALE SPAZIOSE se non addirittura al primo approccio quando il visitatore "scopre" la fedele ricostruzione di un FRANTOIO A TRAZIONE ANIMALE tipico di XVII e XVIII secolo.
Il disegno strutturale del MUSEO permette di effettuare realmente un viaggio esauriente nel mondo dell'olivicoltura: ed è così possibile, solo per fare un minimo cenno ai reperti esposti, ammirare EPICHISIS, elegantissimi vasi greci destinati a contenere olio d'oliva (databili tra il 400 e il 200 a.C.) o contemplare lo splendore di "oliere moderne" come un'OLIERA FRANCESE DI PRIMI '900 od una GENOVESE DEL XVII SECOLO.
O magari, soffermandosi sugli aspetti storicamente pratici dell'olio d'olivo, iniziare un percorso sulla storia dell'illuminazione a fini residenziali che parta da lampade e lucerne di provenienza classica come UN BELLISSIMO ESEMPLARE che guida, idealmente, il curioso a scorrere col pensiero quella straordinaria civiltà romana che nel Ponente Ligure specie nel territorio di VENTIMIGLIA ha lasciato tracce straordinarie (col rinvenimento tra l'altro di lampade e LUCERNE) ma della quale si son trovate testimonianze su tutto l'arco della LIGURIA OCCIDENTALE per scoprire quindi nei fondali di DIANO MARINA l'eccezionale relitto di una di quelle NAVI ROMANE ONERARIE che trasportavano attraverso il mediterraneo varie derrate alimentari tra cui primeggiavano il vino ed appunto l'olio d'oliva.
Ma il MUSEO, una tappa che dovrebbe essere obbligata per gli studenti della provincia di Imperia e non, permette ben altri e diversificati percorsi: grazie al materiale raccolto in esso si può infatti, seguendo la storia dell'olivo, tracciare infinite altre storie alternative.
Da quella dei profumi antichi, la cui base era quasi sempre l'olio d'olivo, a quella della cultura termale romana (di cui ancora alle TERME ROMANE di Ventimiglia è possibile scoprire un mondo affascinante e rivedere gli antichi intenti a farsi massaggiare con olio d'oliva prima di impegnarsi in qualche esercizio ginnico o dopo essersi rigenerati nelle ACQUE DELLE PISCINE) all'uso -e questo è un argomento di scuro meno noto- dell'uso dell'OLIO D'OLIVA nella PREPARAZIONE DI TINTURE PER I CAPELLI attività lucrosa ed importante della cosmesi romana tra il I ed ilIV sec. d.Cristo.
Ed oltre a tutto questo il MUSEO DELL'OLIVO ci offre dati sui BENEDETTINI che rivoluzionarono la coltura dell'OLIVO anche in virtù della tecnica della GRANGIA progenitrice della cultura ligure dei muri a secco e delle fasce colturali.
E quindi si può scorrere all'infinito su molti campi il materiale del museo: da libri rari di poesia, scienza e botanica a elementi di vita spicciola scanditi attraverso il procedere dei secoli: magari per soffermarsi ad un concetto basilare, che nel PONENTE LIGURE, tra le popolazioni rurali, la buona condizione dell'OLIVICOLTURA nel passato ha persino determinato il fiorire o non delle PRIME ESPERIENZE PUBBLICHE DI SCOLARITA'.






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"Del cosa ci dice la seicentesca Biblioteca Aprosiana? [si interroga nel suo bel saggio (pp. 6 - 8) l'attento Pier delle Ville]
Un libretto dal piccolo inconsueto formato 8 x 15 rilegato in pelle bianca, ci porta dal 1600 una testimonianza un poco strana sul : 'Ambrosia Asiatica, seu de virtute et visu herbae the sive cia... Auctor Simon de Molinariis genuensis..., Typis Antoni G. Franchelli MDCLXXII'.
Dopo numerose pagine di dedica e di elogi al cardinale Lorenzo Raggio, ed una prefazione 'ad Lectorem, il Molinari ci ragguaglia sulla Cina, province di Suchuen e Pukiang, e sull'alchimista 'Hoangtro, nomine primum apud eos in hac arte (quella del ) floruisse ferunt bis mille quingentis annis ante adventus Domini... illum parentem habuisse Sem, filium Noe...'.
Bella cosa che un cinese, esperto del intorno a 2500 anni a.C., abbia avuto antenato Sem, figlio di Noè.
Dopo i ragguagli sul nome, che è per 'Sinenses et Malakiani the, Japanenses et Tonkinenses t'sia...' ci informa che '... flores sunt albicantis coloris, odore levi et fragranti nostris rosis simillimi'.
E riferisce il testo italiano di un gesuita che era stato in Oriente: 'P. Bartolus de visu chà haec habet verba: ... si bee il cia, qual è un herba colà famosissima la cui decotione conforta molto e rinvigorisce lo stomaco, e l'han in così gran conto che altro che vasa pretiosa non adoprano per stemperarlo e berlo... Volendo onorare qualche forastiere il conducono alla stanza della casa destinata a condire il beveraggio del Ciàdetto da essi Cianiù, cioè a dire acqua calda per il tè'.
Siamo dunque alla celebrata cerimonia del , legata ai riti del buddismo zen, riassunto di ideali estetici di perfezione.
Anche di un altro gesuita, Bernardino Giomaro, sono riferite analoghe informazioni.
Quanto al cianù in lingua giapponese d'oggi è chà no yu, costruzione inversa, per 'acqua calda del te'.
La bevanda poi la considerò, per esperienza personale, un infuso di fieno, al più utile a coltivar rotiferi e infusori.
Ma i giapponesi la considerano umai, deliziosa, Okakuro Kazuko, nel Libro del Tè, scritto nel 1906, dice: '... uomini nei quali non vi è tè', per indicare persone senza sensibilità,... senza sale in zucca, diciamo noi.
Il Molinari riferisce anche brani di storia cinese, come la truce vicenda dinastica accaduta appena trent'anni prima della stampa del libro: 'Latronis eiusdam sinensis Licungzio nomine de provincia Suchuè immanentem audaciam... extinctam iarn in expugnatione urbis Peking', e deposto il monarca Zungchi... 'coronatum in regale Palatio stantem, nulla spe superstite salutis,... perempta (uccisa) suis manibus unica dilecta filia ne in sui (dell'usurpatore) ludibrium duplici morti interiret, conscito sibi laqueo de viminibus ab arboris prunorum regi viridari pependit (s'impiccò) anno 1644'.
Si tratta degli inizi dell'ultima dinastia, durata fino al 1912.
Ma sono riferite anche ricette farmaceutiche, con varie droghe, assieme agli infusi di te: '... Perevium corticis, vulgo Cinna (china) tutissimum... periodicae et malignae febris flagellum... quinimo, de hoc eodem cortice prius inscriptum opus a doctissimo Sebastiano Bado, nostrae civitatis medico celeberrimo'...
Amene gratuità si intrecciano nel testo, fino a consigliar ricette come la seguente, pei casi 'calamitosis ac deplorabilibus appoplexiae ac paralisis effectis', che trarranno beneficio dal tè, purché '... addito illi scrupulum I extracti cranii humani', da prepararsi come segue: 'Recipe: pulveris aut limaturae crang humani recentis et violenta morte...'. La qual ricetta ci scoraggia a proseguire nella lettura del Molinarius.
Questo singolare autore, sulla diffusione del tè in Europa scrive: 'Huius herba notitia reduces ad nos mercatores Batavi exposuerunt sub annum 1649... potionem vero ab iisdem quidem habuimus primo Amstelodami modo'.
Veramente ben 122 anni prima il veneziano G.B. Ramusio, in Della Navigatione e Viaggi (Venezia 1550), nel capitolo Chai Katai aveva mostrato come il tè fosse ben noto a Venezia.
Anche Paolo Boccone, contemporaneo del Molinari, essendo viaggiatore cd autentico naturalista aveva stampato a Parigi (1672) Recherches et observations naturelles ed Icones et Descriptiones variorum Plantarum, con riferimenti alla pianta del tè.
Comunque entrambi il genovese Molinari ed il palermitano Boccone precedettero di un secolo l'importantissimo e metodico Linneo (1753) nella descrizione del .
Nel 1658 comparve a Londra su Mercurius Politicus una prima inserzione pubblicitaria per il tè: '... venduto alla Sultanes Head Coffee House, in Sweeting Plant...'.
L'importazione in Europa fu monopolizzata tra il 1600 cd il 1850 dalla Compagnia delle Indie.
Dopo la legge che tassava il tè (tea act, 1773) il monopolio inglese giocò un ruolo politico, in America, con l'episodio di ribellione della colonia americana, sarcasticamente detto 'Boston tea party'.
AItro celebre capitolo della storia del è quello della great tea race (1866) tra le velocissime navi a vela in gara da Foochow a Londra, doppiando India e Africa in giomi novantanove: tra gli undici clippers sono ricordati il Tae Ping, il Cutty Sark, l'Ariel.
Il contiene caffeina intorno al 3 per cento che ha effetto stimolante, e lievi delicati aromi: la droga è costituita dalle foglie della pianta di tre anni.
Sono distinte le prime, le seconde e le terze foglie, classificate in petoe (germoglio) in suchong ed in congou.
L'orange pecoe sono i germogli spezzati (broken pecoe) non ancora maturi, di color giallino.
Naturalmente da regione a regione varia la coltivazione e variano i tipi di prodotto: i tipi fondamentali sono due, la varietà sinensis, a foglia stretta e sottile, e la assamica, a foglia più larga.
Anche le maniere di preparare il prodotto sono due: la cinese per il tè verde, con torrefazione, o per il tè nero (foglie prima asciugate, poi torrefatte); e la maniera europea, che comporta una sorta di pasterizzazione, dopo l'appassimento delle foglie, con una riduzione del peso del 45 per cento circa.
Il delle carovane viaggiava dalla Cina alla Russia (onde era noto anche come te russo) entro imballaggi semiaperti, per 18 mesi, con speciale accrescimento dell'aroma.
Heinrich Schlieman (1822 - 1890) che scoprì le rovine della città di Troia (1873) e le tombe dette degli Atridi a Micene, dalla povertà era giunto alla ricchezza con il commercio dell'indaco. Destinò le sue fortune ed il suo ingegno alle appassionate ricerche archeologiche.
Con il commercio del si arricchì Thomas Lipton (1865 - 1931) dopo che, tornato dall' America dove aveva lavorato come tramviere, aprì una drogheria nella nativa Scozia. Importava tè, caffe ed altri 'coloniali', e finì con l'acquistare una piantagione a Ceylon, per avere un prodotto con marchio Lipton, che ancora esiste.
Di un altro mercante di conosciamo il celebre nome e le vicende, e specialmente ammiriamo l' opera: Sir Thomas Hanbury, il fondatore dei Giardini di Capo Mortola.
Da Londra, all'età di 23 anni, nel 1855 viaggiò per la Cina, a Shanghai.
In quel tempo l'Impero Celeste era sottoposto alla pressione degli occidentali per l'apertura dei porti e dei mercati: francesi ed inglesi avevano persino iniziato una campagna militare, raggiungendo Shanghai (1857) mentre senza soste si susseguivano le rivolte popolari.
Nel 1860, con il trattato vessatorio di Tientsin, gli occidentali ottennero concessioni e territori, come i russi, che si impadronirono della regione del fIume Ussori.
In precedenza gli inglesi avevano imposto l'oppio indiano, addirittura con una guerra (1840) che li portò ad occupare Hong Kong e Canton.
Hanbury dunque aveva raggiunto la Cina nel periodo delle grandi sollevazioni popolari e dell'espansione imperialista inglese e della repressione attuata dalla monarchia Manchu, sostenuta dagli oc cidentali.
In dodici anni Hanbury si arricchì divenendo padrone di un vasto real estate, proprietà immobiliari a Shanghai.
La sua fortuna venne favorita dalle disastrose condizioni politiche della Cina in disfacimento, ma non ebbe nulla a che fare (contro le illazioni infondate) con il vergognoso commercio dell' oppio... e degli schiavi.
Anzi, in proposito è da ricordare che, rientrato in Europa, ebbe l'iniziativa umanitaria di costituire un'associazione contro la diffusione dell'oppio.
Dopo il 1867 si stabilì a Capo Mortola sviluppando la straordinaria impresa del parco di acclimatazione botanica intorno alla Villa Orengo.
Thomas Hanbury aveva certamente lo spirito del benefattore e del mecenate, come attestano le sue opere sociali: un acquedotto, le scuole nelle frazioni di Mortola, di Latte, con fabbricati nuovi sul terreno donato, ed altre iniziative= [tra cui non si può far a meno di menzionare il grande contributo per la salvaguardia della Biblioteca Aprosiana e la realizzazione dei Giardini pubblici di Ventimiglia
Era persona di abitudini correnti, semplici, spiritoso e bonario: è raccontato un episodio del finto sdegno, umoristico, che esternò con un negoziante di Ventimiglia, il quale aveva annotato un suo acquisto di alimentari sotto il nome di Tamburi, erroneamente, invece che T. Hanbury".






Con il nome di CAFFE' [termine derivato dal turco qahvé a sua volta derivato dall'arabo qahwah] si indica propriamente un seme di circa quarante specie di piante del genere COFFEA (alberi della specie delle Rubiacee, alto sino a 6 - 9 metri, con foglie persistenti, coriacee, opposte, ovali, fiori ascellari, bianchi, odorosi, a grappoli, con frutto a drupa di color rosso cupo, simile ad una ciliegia che contiene due semi).
Il seme ha una faccia convessa ed una piana solcata da una linea mediana, di colore dal grigio al verde azzurrognolo e al verde oliva, avvolto in un sottile tegumento argenteo (e torrefatto e macinato in polvere serve per preparare la bevanda). Esso, oltre a grassi, zuccheri, cellulosa e sostanze azotate, contiene un importante alcaloide, la caffeina.
La PIANTA DEL CAFFE' è originaria dell'Etiopia (della vasta regione di Caffa per la precisione) ma ha avuto rapida e antica diffusione in altre regioni dell'Africa orientale, crescendovi allo stato spontaneo grossomodo fra i 1000 ed i 1300 metri di altitudine.
Tra il XIII ed il XIV secolo il CAFFE' venne importato in ARABIA sudoccidentale ove se ne sviluppò la COLTIVAZIONE e parallelamente l'uso della BEVANDA preparata con i SEMI TORREFATTI.
La tradizione degli ARABI ne attribuisce la scoperta ad un pio personagggio dello YEMEN che se ne sarebbe servito per prolungare le VEGLIE MISTICHE.
Successivamente i grani furono esportati in EGITTO e da qui verso COSTANTINOPOLI.
Un poco più tardi, dalla seconda metà del Cinquecento, soprattutto per iniziativa dei mercanti veneziani il CAFFE' penetrò in EUROPA ove fu accolto ora con apprezzamento ora con palese avversione.
Francesco Redi ne scrisse un giudizio tanto negativo quanto in definitiva vago:"Beverei prima il veleno / che un bicchier che fosse pieno / dell'amaro e reo caffè: / colà tra gli Arabi / e tra i Giannizzeri / liquor s' ostico / sì nero e torbido / gli schiavi ingollino. /..../ E se in Asia il Musulmanno / se lo cionca a precipizio / mostra aver poco giudizio.
All'opposto presso la Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia si trova un'opera di Antonio Fausto Naironi (edita a Roma, per i tipi di Michele Hercole nel 1671) il cui stesso titolo, al contrario, sottolinea già di per sè i pregi terapeutici della bevanda: Discorso della salutifera bevanda del Cahvé o vero café...trasportato dalla latina alla lingua italiana da fr. Fréderic Végilin....
Il contrasto fra le opinioni era dovuto alla ragione che nei primi tempi di vita in Europa il CAFFE' era considerato soprattutto per le supposte PROPRIETA' CURATIVE COME PIANTA OFFICINALE.
L'alcaloide dei semi che la bevanda contiene (appunto la menzionata CAFFEINA) poteva essere utilizzato dalla NUOVA MEDICINA del XVII secolo per esercitare un'azione eccitante sul sistema nervoso delle persone depresse o afflitte da melanconia, per stimolare la respirazione, innalzare il tono del cuore, incentivare la funzionalità diuretica.
Inoltre abbastanza presto all'azione stimolante della CAFFEINA nel campo della MEDICINA LEGALE venne riconosciuta un'effettiva qualità terapeutica contro i temuti e non affatto rari AVVELENAMENTI DA NARCOTICI.
Naturalmente i medici scienziati (come il Redi) avevano potuto intuirne od esperimentarne le risultanze negative in occasione di un uso smodato quando possono verificarsi convulsioni e depressioni dell'attività cerebrale (erano queste le prime intuizioni sul CAFFEISMO -intossicazione acuta o cronica da CAFFE'- caratterizzato da irrequietezza, dilatazione della pupilla, cardipalma, affanno, tremore, vertigini e delirio).
La sostanza di questo dibattito scientifico si coglie leggendo un saggio dell'illuminista milanese Pietro Verri ove è scritto:"...Il caffè rallegra l'animo, risveglia la mente, in alcuni è diuretico, in molti allontana il sonno, ed è particolarmente utile alle persone che fanno fanno poco moto, o che coltivano le scienze...E si raccontano de' casi ne' quali coll'uso del caffè si son guarite delle febbri, e si son liberati persino alcuni avvelenati da un veleno coagulante il sangue; ed è sicura cosa che questa bibita infonde nel sangue un sal volatile, che ne accelera il moto, e lo dirada, e lo assottiglia, e in certa guisa lo ravviva".
A prescindere da alcune inesattezze scientifiche la sostanza del discorso del Verri è esatta e conta ancora di più per informarci che lo scopo primario della DIFFUSIONE DELLA BEVANDA (un poco come fu il caso del tabacco e del ) fu di ORDINE TERAPEUTICO ancor prima che edonistico.

Secondo i dati o comunque le osservazioni dei moderni ricercatori le prime BOTTEGHE DEL CAFFE' (quindi CAFFETTERIE e poi semplicemente CAFFE') avrebbero visto la luce a LA MECCA sin dal secolo XV, per poi comparire al CAIRO e quindi a COSTANTINOPOLI.
Molti ritengono che essendo VENEZIA il primo IMPORIO EUROPEO per la commercializzazione del CAFFE' le prime (e peraltro celebrate) BOTTEGHE DEL CAFFE' (ove si poteva degustare la bevanda) siano comparse proprio nella città lagunare.
Secondo quasto scrive il Verri (ibidem) le cose in origine non sarebbero tuttavia state così: "...Nell'Oriente era in uso la bevanda del caffè sino al tempo della presa di Costantinopoli fatta da' Maomettani, cioè circa la metà del secolo decimo quinto; ma nell'Europa non è più di un secolo da che vi è nota. La più antica memoria che se abbia è del 1644, anno in cui ne fu portato a Marsiglia, dove si stabilì la prima PRIMA BOTTEGA DI CAFFE' aperta in Europa l'anno 1671...".
Pietro Verri sembra davvero informato: per quanto la VENEZIA del XVIII secolo fosse destinata ad acquisire gran fama per le sue celebri BOTTEGHE DEL CAFFE' (ricordiamo al proposito che Carlo Goldoni diede ad una delle sue commedie il titolo di La Bottega del caffà) e tra questi locali veneziani si ricordano tuttora per la fama raggiunta in ogni ambiente alcune BOTTEGHE DEL CAFFE' tra cui quelle dette Al Re di Francia, Alla Regina d'Ungheria e finalmente Quadri.
Però nessuno di questi locali, per quanto famosi, può vantare un'antichità simile a quello della BOTTEGA DEL CAFFE' DI MARSIGLIA menzionata con tanta precisione da Pietro Verri: e la cosa non pare di poco conto, è ancora una conferma che la VASTA AREA GEOGRAFICA che va dal Rodano a tutto l'attuale territorio di Imperia fu per millenni una specie di PORTA D'ACCESSO DELL'OCCIDENTE per tutta una serie di eventi, trasformazioni ed influenze interagenti da ogni angolo del MONDO CONOSCIUTO.






Nell' età intermedia l'ALLATTAMENTO costituiva un momento essenziale e nello stesso tempo periglioso della vita del neonato.
Da sempre vigeva un contenzioso intellettuale tra i sostenitori dell'ALLATTAMENTO MATERNO ed i teorici dell'ALLATTAMENTO PROFESSIONALE ad opera delle BALIE.
In un primo tempo la questione, più che sulla bontà o meno di una o dell'altra soluzione in merito sia alla tipologia del latte che dei legami affettivi instaurantisi tra donna e neonato, l'attenzione al problema era di NATURA GIURIDICA, temendosi che le BALIE o NUTRICI potessero essere in alcuni casi DONNE POCO SERIE o addirittura CRIMINALI MERCENARIE.
Nell'ambito delle FAMIGLIE MAGNATIZIE GENOVESI, nel timore che BALIE PREZZOLATE da casati nemici potessero uccidere il nonato concesso alle loro cure professionali, si presero col tempo una SERIE DI PRECAUZIONI che, da semplici precauzioni individuali e private, finirono per trovare una "NORMATIVA" di legge negli STATUTI CRIMINALI di metà XVI secolo.
Si rende oggi utile, per dissertare storicamente sulla questione, una PUBBLICAZIONE di C. Benedetto Carminati (Pavia, 1840) dal titolo Dissertatio Medica Inauguralis de Maternae Lactationis Officio atque Utilitate di cui qui sotto si fa seguire un INDICE TEMATICO:
1- MODERNA COSTUMANZA DI CRESCERE I FIGLI COMPRANDO I SERVIZI DI BALE E NUTRICI
2- NOBILTA' DELLE DONNE ANTICHE NELL'ALLEVARE I PARGOLI COL LATTE DEL PROPRIO SENO
3- QUANTO SIA PERICOLOSO NON ASCOLTARE LE VOCI DELLA LEGGE DI NATURA!