GIUNCHEO (IL GIONCO/ S. GIUSTINA [S. GIUSTA (SIC)])-NEGI-SUSENEO
IPOTESI DI UNA BASE RELIGIOSA PRECRISTIANA
E DI UN ANTICO TRAGITTO MARE-MONTI

G. Rossi, studiando il Marchesato di Dolceacqua, riconobbe in un' area prossima a Perinaldo i miseri avanzi di piccoli centri che, secondo lui, avrebbero goduto di una certa vita pubblica, almeno sin al Duecento: erano SUSENEO (m. 394), NEGI (dove persiste una minima attività agricola e dove sussiste una CHIESA DI S. BARTOLOMEO) e il GIONCO" (m. 468, oggi S. GIUSTA - S. GIUSTINA).
Questo nell' antichità era un punto nevralgico per i passaggi tra val Nervia, Crosa e Vallebona, in quanto verso oriente vi passa la linea di crinali che, per Sud-Nord-Ovest, conduce a Banchi (m. 40), Costa di S. Bartolomeo, monte Peiga ( m. 782) e Caggio (m. 1090).

Rifacendosi ad uno scritto di un parroco di Soldano, tal Pietro Rossi, lo storico aveva ridisegnato l' antichità del "Gionco", ai suoi tempi ricordata ormai solo dall'ancona lignea della Patrona locale nella Sacrestia della chiesa da lei detta di S. GIUSTINA.
Indagando sui documenti rimasti G. Rossi aveva scoperta che la villa Junchi cum toto districtu ipsius castri venne comprata dalla Signoria di Dolceacqua l'11 settembre 1288, assieme al castello di Perinaldo, già possessi dei Conti intemeli.
Lo studioso non era invece al corrente che Simeone (figlio di Zaccaria de Castro, i cui eredi cedettero Perinaldo ed il Giunco ad Oberto Doria) in qualità di procuratore e Sindaco dell'università di Perinaldo aveva ottenuto il 9-V-1264, come detta un rogito del di Amandolesio, tutti i diritti ch'eran stati di Oberto Giudice sul territorio del GIONCO dove stavano pascoli, boschi, bandite, acquedotti e ruderi antichi (la località ebbe rilievo dal preromano pei collegamenti trasversali tra valli, cui si è fatta menzione, per alcune proprietà agronomiche e soprattutto per la tradizione locale di sfruttamento boschivo).

Il toponimo Giuncheo rimanda al latino iuncus cioè "giunco" , forse ad un'azienda rustica della coltura, per la manifattura di canestri, cordami, intrecci, sostegni di mobili; tutta l'area cui presiede tal nome fu nominata con fitonimi sacri della romanità, dal nome vallivo Vervone o Verbone, che riporta alla pianta sacra per i romani della VERBENA, fin all'epicentro vallecrosino delle VIGNASSE (detto anche Terra dei Frati, ove esisteva una "torre" od una "casa fortificata" eretta su un antico complesso monastico di cui si son rintracciati vaghi reperti e, cosa da non escludere, secondo i criteri del cristianesimo gregoriano e benedettino, realizzato per riconsacrare/ sconsacrare un LUCUS o Bosco Sacro frequentemente citato nella nella toponomastica dialettale locale): sulla linea di questi parametri qualche studioso ha, allora, suggerito che pure la chiesa di S.Giustina, come accadeva nel Medioevo, si fosse sovrapposta ad un santuario di una Diva imperiale o ad un culto druidico delle acque, connesso alle polle o pseudosorgenti che ai primi del '700 scaturivano nella palude di giunchi a Sud del luogo presso la cappella di S.Rocco = I " graffiti" della Storia...cit., cap. II).

E' altresì significativo che per una diramazione che parte dal castello di Dolceacqua si GIUNGE nella valle del Crosa e dalla località di SANTA GIUSTINA DEL GIUNCHEO (dal toponimo peraltro significativo) si arrivava agli insediamenti rurali del paese di S. Biagio passando per il sito, nell'Almantiqua, dei Banchi (Blancus non è un un latinismo ma la trasformazione della voce gotica *blank del colore che i Romani definivano candidus, albus, niveus).
E' rimarchevole che BANCHI compaia in una zona dalla singolare toponomastica di "GIONCHEO"/ "GIUNCHEO" e "VERBONE", nome antico del torrente Crosa che come altrove potrebbe rimandare all'idea della sacra "verbena": vi si ravvisano tracce di culti romani e l'antica CHIESA DI S. GIUSTINA [impropriamente nella dizione locale detta S. GIUSTA] (che fu eretta in una zona quasi STRATEGICA, naturalmente riparata - come si vede da una semplice osservazione PANORAMICA- e storicamente dotata -come ancora si riscontra analizzando le condotte che scorrono presso il corpo dell' EDIFICIO DI CULTO-di rifornimento idrico e di struttura geo-morfologica lavorata secondo la tecnica a GRANGIA) a giudizio di alcuni studiosi SAREBBE STATA ERETTA, come talora accadde [sulla scia della Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine e sulla scorta di una conseguente tradizione popolare] con intitolazioni a QUESTA MARTIRE CRISTIANA, per assimilare e deprimere superstiti tracce di paganesimo alla maniera già teorizzata dal pontefice GREGORIO MAGNO e per, contestualmente, dissipare le presunte energie diaboliche di un determinato areale sancendo proprio in quel luogo, sulla base di una tradizione agiografica, il TRIONFO DI UN SANTO CRISTIANO (DIVENUTO MAGO BIANCO) SU UN ADEPTO DELLA SCIENZA DIABOLICA (MAGIA NERA).
Altri moderni investigatori, analizzando anche la conformazione del territorio e soprattutto l'EDIFICIO RELIGIOSO NELLA SUA COMPLETEZZA ARCHITETTONICA, in modo apparentemente meno complicato ritengono che la struttura religiosa potrebbe invece esser stata la risultanza di un INSEDIAMENTO CENOBITICO DELLA "CONGREGAZIONE DE UNITATE DI S. GIUSTINA".
Purtroppo nonostante si sia avuta cura della CHIESA (di cui tuttavia si è da poco volonterosamente ripulita la FACCIATA senza però la necessaria attenzione per una lettura critica di quella originale) molto dell'ambiente che la circondava e per cui era stata realizzata è andato disperso.
Così l'elemento tuttora più interessante e meritevole di indagini approfondite degli specialisti è l'INTERNO DELLA CHIESA in cui si vedono affreschi degni di una migliore attenzione critica: già il Rossi, seppur di corsa e con appena una citazione nella sua Storia del marchesato di Dolceacqua....
Sotto questa prospettiva (che cioè l'AREA DI S.GIUSTA E/O GIUNCHEO costituisca da tempi remoti un sito nevralgico di transizione -viaria, cultuale e socio-economica- tra mediavalle del Nervia valle del Crosa, valle del Batallo, di Vallebona o del Borghetto ed ancora il retroterra di Bordighera sin al complesso demico e monastico benedettino di Seborga) sarebbe estremamente interessante procedere per linea comparativa ad un'analisi del territorio sia sulla direttrice di valle quanto su quella della costa [in relazione all'evoluzione di insediamenti monastici sarebbe altresì interessante valutare la relazione intercorrente tra il sito di SANTA GIUSTA, l'area costiera del SANTA CROCE ed il supposto CASTELLARO del MONTE CAGGIO nell'entroterra sanremese ove da una anonima relazione di XVII-XVIII secolo su relitti più antichi pare essersi evoluta una struttura che, tipologicamente, rimanda al concetto religioso, ascetico ed eremitico, di quell'INSEDIAMENTO BALMITICO che non risulta peraltro estraneo all'agro di Sanremo attesa anche l'esistenza di un SANTUARIO DI GROTTA [che spesso è espressione di una tradizione religiosa eremitica maturata in qualche riparo cavernoso] dedicato a S. ROMOLO (meglio detto EREMO DI SAN ROMOLO) il vescovo genovese che secondo una agiografia medievale si sarebbe qui fermato durante una visita pastorale [poco importano le varianti della leggenda per cui il Santo sarebbe poi stato sepolto nella chiesa di S. Siro presso le spoglie del Beato Ormisda sin a quando il vescovo Sabatino, temendo le razzie dei Saraceni ne avrebbe fatto portare i resti a Genova nella chiesa dei S. Apostoli: vedi per un sunto generale e i riferimenti eruditi il volume Sanremo romana ma soprattutto G. CALANDRI, La Bauma di San Romolo: cavità-santuario del sanremasco (Liguria occidentale), in "Bollettino del Gruppo speleologico imperiese CAI", XII, 18, I sem. 1982, pp.49-58).
Prioritariamente risulterebbe da sondare l'eventuale rapporto intercorrente tra una possibile struttura monastica a S.Giustina e insediamenti di matrice fratesca nell'area dei Piani di Vallecrosia laddove si sin rinvenute tracce di edifici molto antichi oltre che di un qualche tipo di APPRODO collegato ad una qualche duecentesca struttura ospedaliera se non addirittura di un organismo monastico di cui è sopravvissuto solo qualche rudere, poi variamente modificato, e qualche utile relitto di toponomastica che fanno pensare, secondo la tecnica di sovrapposizione cultuale inaugurata da papa Gregorio Magno, alla strutturazione di un edificio fratesco, verisimilmente di matrice benedettina sull'area già caratterizzata da una base sacrale pagana della tipologia del bosco sacro.

A questo proposito sarebbe altresì da evidenziare che al toponimo LUCUS nell'area vallecrosina delle VIGNASSE (fitonimo che evidentemente alludeva ad una coltura estensiva di viti) o "dei Frati", zona peraltro contraddistinta da una notevole presenza di piante da albero, segua poi in ordine geografico il variegato complesso della valle del Batallo o di Vallebona che, secondo atti notarili del '200, era caratterizzata da una PINETA tanto grande da dar al luogo il nome primigenio UBI DICITUR PINETA documentato in vari atti del notaio del XIII secolo G.Di Amandolesio in Albintimilium antico municipio romano..., cit., p.219).
E' poi interessantissimo il fatto che dagli atti risulti la presenza nell'area denominata PINETA di case rurali ma di tipo residenziale ed abitativo e che nella stessa area fra tante colture comparissero anche gli OLIVI una piantagione specialistica, a lungo esclusiva monastica benedettina appena concessa ai coloni dei monaci o a proprietari abitanti in prossimità dei loro possedimenti.
Per quanto è possibile recuperare da atti notarili del '200 sulla topografia di un sito oggi infinitamente diverso non può comunque sfuggire il fatto che, laddove l'attuale territorio di Bordighera va fondendosi con quello che nel XIII secolo aveva la generica denominazione di Ubi dicitur Pineta, esista una REGIONE LUCO come evidenziato da un'accurata carta geo-topografica del Touring Club Italiano risalente ai primi decenni di questo secolo.
Tracciando semplici coordinate topografiche si nota con sorpresa che una vasta area del suburbio di Ventimiglia romana (quella compresa tra S.VINCENZO dei PIANI VALLECROSINI e quella della bordigotta REGIONE LUCO) era caratterizzata nel 1200 da una PINETA così vasta da dare nome ad un'intera area (un'area che dal MARE risaliva oltre la costa, sin a VALLEBONA per l'ottocentesco tragitto che correva a lato della riva occidentale del torrente Batallo (o di Vallebona od ancora del Borghetto) di cui sopravvive questa IMMAGINE OTTOCENTESCA.
Contestualmente toponimi emblematici si inseguono dai PIANI sino alla REGIONE LUCO DI BORDIGHERA: in sequenza, per quanto ritrovato, i toponimi LUCUS o "Bosco Sacro" sia nella linea costiera di Vallecrosia che alla sua congiunzione col limite occidentale del territorio bordigotto: sullo stesso impianto territoriale ed agronomico si trovano poi dal '200 tracce di una coltura, quella degli olivi che strutturalmente nel Ponente ligure comportava la presenza nella vicinanze di una struttura fratesca benedettina.
Da tempi non quantificabili ma comunque remoti, nell'area dei Piani, peraltro caratterizzata da una STRUTTURA ECCLESIALE CRISTIANA eretta su un COMPLESSO ROMANO IMPERIALE presso cui si è trovata una LAPIDE VOTIVA AD APOLLO (e con vari ritrovamenti minori di materiale privato e da inumazione nelle circostanti proprietà a meridione dell' EDIFICIO CRISTIANO, in questo caso a settentrione della via romana e quindi della CHIESA DI S.ROCCO E S.VINCENZO sono comparsi (assieme a tracce edili di una certa SIGNIFICANZA o a relitti documentari scrittografici di reperti comunque da valutare, i toponimi VIGNASSE e TERRA DEI FRATI senza ombra di dubbio da collegare a colture gestite da un qualche organismo monastico di cui è arduo stabilire definitivamente origine e scopi.
L'impressione generale è che qui, nel contesto delle sovrapposizioni tra ambiente pagano ed ambiente cristiano, si sia finito per ricalcare in qualche modo un aspetto del suburbio romano: con proprietà minori e campi di privati, ed abitazioni, dalla strada romana alla riva del mare e con uno spazio a settentrione della strada (parimenti citata come romana nei documenti e della cui direzione per la zona a nordi di S.Rocco parla comunque il GUADO ROMANO NEL VERBONE) lasciato per qualche ragione nello stato di BOSCO SACRO.
Cosa che potrebbe avere un suo senso e collegarsi cogli impianti culturali della civiltà ligure preromana: al modo che accadde per la città romana di Nervia che risultava occupare la piana meridionale mentre a settentrione di essa sopravvisse per un certo tempo il complesso originario tipicamente ligure.
In due atti del di Amandolesio (17-XII-1259 e 4-I-1260, doc. 148) "ubi dicitur Banchi" stavano sia proprietà di diverse famiglie d'origine germanica, Alamano, che di un Guglielmo Calcie di Dolceacqua, che di un ordine religioso inidentificabile.
Dai "Banchi" si giunge nel territorio di S.Biagio, paese che si appoggia ad una altura ripida e scoscesa detta S.Croce o Cima della Crovairola che fu quasi certamente anche sede di un castelliere ligure e, per quanto si evince dalla ricerca archeologica, di almeno un'azienda estrattiva romana: le ricerche in situ confortano l'idea di una lunga visitazione umana e la toponomastica rimanda talora dal periodo ligure romano a quello gotico, bizantino e longobardo (non fu come scrisse il Giustiniani patria dell'Imperatore Publio Elvio Pertinace, verisimilmente nato ad Alba Pompeia (oggi Alba) nel II sec.d.C., ma l'antico toponimo di Villa Martis attribuito a S.Biagio conforta l'impressione che vi stesse, come in altri luoghi dal simile nome di luogo, un insediamento civile romano mentre la morfologia, gli atti del Duecento ed una radicata tradizione popolare suggeriscono l'idea di organismi cenobitici e di successivi edifici ecclesiali per il ritiro spirituale = S.H.A., Pert.,1,2;9,4,13,4: vedi I graffiti della Storia...cit.,p.41,nota 7 e Libro spettante alla Chiesa di S.Croce situata sulla Cima della Crovairola - MS. di Giovanni Battista Maccario di Giuseppe, 1819, carte 18, copertina cartacea-studiato in Ibidem, p. 45-6)

Non è semplice delineare i confini della zona da sempre indicata in modo nebuloso come Alma Antiqua, Almantiqua, Armantica una zona in cui si sarebbero trovati ruderi e grotte risalenti alla civiltà rustica romano-imperiale; secondo atti del di Amandolesio si può ritenere che il toponimo, ancora nel '200, fosse esteso da S.Biagio a Vallebona, poco prima di Bordighera.
E' importante notare che dalla Cima della Crovairola un'asse viaria di crinale correva al mare o più giustamente all'indecifrabile edificio romano che comunque presiedeva una piccola necropoli del medio Impero nel Lucus romano ai Piani di Vallecrosia, ove sorge la romanica chiesa di S.Rocco e S. Vincenzo.
Per quanto si possa essere scettici le convergenze sono sintomatiche.
In definitiva inducono a pensare che l'ARMANTICA della tradizione orale, ed eretta a sito sacro per i Liguri, corresse per i territori di S.Biagio, Vallecrosia, Borghetto, Vallebona e venisse in qualche modo a spegnersi sulla linea della strada romana.
I confini dell'Armantica -ma queste sono ipotesi molto più labili- avrebbero potuto "perdersi" anche per i territori più interni della valle del Crosa, oltre il borgo di Soldano, e spingersi fin al Giuncheo là dove una chiesa molto antica di SANTA GIUSTINA alla maniera dei Benedettini fosse andata a sovrapporsi a qualche insediamento ligure-romano con finalità anche sacrali ma certamente caratterizzato da elementi socio-economici che come non sfuggivano ai monaci neppure risultavano trascurabili per i Romani: terra fertile, solatia, abbastanza pianeggiante, al centro di una rete di utili vie di comunicazione tra le valli e soprattutto polle di limpida acqua sorgiva.

La fine della villa medievale del Giuncheo, come oggi più spesso si chiama S. Giusta, può anche esser collegata alla scelta dei Doria di aprire un itinerario montano, alternativo a quello di Val Nervia, per raggiungere l'approdo marittimo - sotto loro protezione dal 13-XI-1296, e fuori della giurisdizione fiscale intemelia con cui erano spesso in aperto disaccordo - della Ripa Nerviae ad Rotam, presso Nostra Signora della Rota dopo la malsana palude o burdiga in Bordighera di costa e nell' agro di Ospedaletti.
A. Eremita ha recentemente ritrovato, percorso e descritto questo tragitto dal castro di Dolceacqua sin alla costa dopo la burdiga o palude di Bordighera e prima di Ospedaletti.
Girolamo Rossi nella Storia del Marchesato di Dolceacqua (cap. VI,7) ideò per linee deduttive tal via ma, non individuando il tracciato sul campo, si sentì in obbligo scientifico di scoprirlo in qualche documento.
Credette di averne trovato un riferimento nel Manoscritto Borfiga e trascrisse (Ibidem, doc. XXII) la porzione superstite di un atto trecentesco di sentenza arbitrale tra Ventimiglia e Dolceacqua sul commercio vinario.
Mentre i magistrati intemeli ritenevano che Dolceacqua non potesse caricar vino su navi da trasporto in posse maritima di Ventimiglia senza pagar dazi, Enrichetto Doria sosteneva che, secondo i vecchi decreti del vino, ciò non fosse lecito risultando comuni i lidi del mare fra le Comunità.
L' atto fu realmente steso durante la controversia che indusse i Doria a trasportare il prodotto fuori giurisdizione intemelia a S.Maria de Rota; nel caso di questo documento si faceva però riferimento ad un'altra Rota, cioè ad un ormeggio similare, secondo la tecnica ligure dell'ancoraggio monolaterale: Nilo Calvini, pur affermando giustamente che la ROTA RIPAE NERVIA fosse identificabile alla foce del gran torrente, non avendo investigato sul campo ha finito nel suo lavoro su Camporosso per disconoscere l' esistenza del percorso da Dolceacqua alla Rota di Ospedaletti.









Nella Leggenda di S. Giustina registrata da Iacopo da Varagine nella sua Leggenda aurea (tr. it. a c. di C. Lisi, Firenze, 1952, pp. 643-648), Franco Cardini vede la testimonianza dell'epico scontro alle radici del cristianesimo occidentale tra santo cristiano e mago profano.
Tenendo conto dell'alta valenza di siti magici tra le valli del Nervia e del Verbone per risalire sin al territorio di Baiardo si può effettivamente pensare che l'intitolazione a S. Giustina di una chiesa e del suo areale sia rientrata in quel processo di sovrapposizione cultuale del cristianesimo sui relitti del paganesimo che rientrava nei progetti di Gregorio Magno: in questo caso Santa Giustina avrebbe specificatamente i connotati del santo cristiano e/o mago bianco che non solo ha la meglio sul mago diabolico (nella fattispecie del ponente ligure possibili sacerdoti druidi di cui la tradizione parla a riguardo del sito protostorico di Baiardo ma che, in qualche modo, dovevano soprattutto aver segnato una particolare area geoculturale delle valle del Nervia e specificatamente di Dolceacqua:
"Giustina era figlia di un sacerdote pagano di Antiochia.
Tutti i giorni, stando seduta alla finestra, udiva il diacono Proclo leggere il Vangelo: in tal modo si convertì alla fede di Cristo.
La madre raccontò la cosa al padre mentre si trovavano a letto; dopodiché si addormentarono e un angelo gli apparve in sogno e gli disse: 'Venite a me, ed io vi darò il regno dei cieli'.
Subito si svegliarono e si fecero battezzare insieme alla figlia.
Costei fu molto molestata da un mago chiamato Cipriano ma alfine riuscì a convertirlo alla fede di Cristo.
Questo Cipriano si era dedicato al diavolo all'età di sette anni: ed era così abile da potere, ad esempio, cambiare le donne in cavalli.
Essendosi innamorato di Giustlna ricorse alle arti magiche per arrIvare a possederla lui stesso o per darla in mano di un certo Acladio che ugualmente la desiderava.
Chiamò dunque in suo aIuto il diavolo che subito gli si presentò e disse: 'Perché mi hai chiamato?'.
E Cipriano: 'Amo una vergine della setta dei galilei, ti è possibile far sì che io la possieda?'.
E il demonio: 'Se ho potuto scacciare l'uomo dal Paradiso, convincere Caino ad uccidere il fratello e i giudei a uccidere Cristo, come non potrò piegare una fanciulla alle tue voglie? Prendi questo unguento e spalmalo sulla porta della tua casa, ed io accenderò il cuore di Giustina di tale amore che, certo, le sarà impossiblle resisterti'.
Nella notte seguente il demonio tentò di suscitare un illecito amore nel cuore della fanciulla, ma costei si raccomandò al Signore e tutta si fortificò col segno della croce.
Per la qual cosa i1 diavolo atterrito fuggì e si presentò a Cipriano.
Disse Cipriano: 'Dov'è la fanciulla?'.
E il demone: 'Ho visto in lei un segno che annulla ogni mio potere'.
Cipriano allora lo licenZiò e chiamò in suo aiuto un demone più potente che gli disse: 'Conosco il tuo desiderio e ho visto l'insuccesso del mio compagno, ma io saprò appagare la tua concupiscenza perché apriro nel cuore di lei la piaga della libidine'.
Dopodiché tentò con ogni mezzo di infiammare l' animo di Giustina di un illecito amore: ma quella devotamente si raccomandò a Dio e scacciò ogni tentazione col segno della croce.
Il demone dovette andarsene coperto di confusione.
Quando fu al cospetto di Cipriano questi gli disse : 'Dov'è la fanciulla?'.
E il demone: ' Mi confesso vinto e non oso dire in che modo. Ho visto in lei un segno terribile e ho perso ogni forza'.
Allora Cipriano invocò l'aiuto del principe dei demoni e gli disse: ' Come mai la vostra forza è così piccola da potere essere vinta da quella di una fanciulla? '.
Rispose il demone: ' Ecco io andrò da lei e la infiammerò di desiderio nell'animo e nel corpo così da renderla pazza d'amore'.
Dopodiché prese l'aspetto di una vergine, si recò da Giustina e le disse: 'Ecco io sono venuta da te per vivere nella castità, ma prima voglio sapere qual premio ci è destinato'.
Rispose Giustina: 'La ricompensa è molta e la fatica è poca'.
E il demone: ' Che cosa comanda il Signore? Non dice forse: crescete, moltiplicatevi e ricoprite la faccia della terra? Onde io temo di andare contro al precetto di Dio rimanendo vergine e di cadere per questo nella sua ira e nella pena eterna'.
Le abili parole del demonio turbarono il cuore di Giustina che già stava per cedere agli istinti della carne.
Ma infine, ben comprendendo chi si celasse sotto le apparenze di una fanciulla si fece iI segno della croce e soffiò sul demonio che si liquefece come cera.
Il demonio non volendo darsi per vinto prese allora la forma di un bellissimo giovane ed entrò nel letto di Giustina per goderne l'amplesso; ma quella si fece il segno della croce e il diavolo si liquefece come cera.
Allora lo spirito maligno, col permesso di Dio, fece gravemente ammalare la santa fanciulla e sparse una terribile peste per tutta Antiochia; fece poi dire, per bocca di alcuni ossessi, che nessuno sarebbe scampato da tale peste, se Giustina non avesse preso marito.
Ed ecco che tutti i cittadini si affollarono dinanzi alla casa della fanciulla e chiesero a gran voce ai suoi genitori che la costringessero a sposarsi per liberare la città da tanto grande pericolo.
Ma Giustina non volle in alcun modo acconsentire a venir meno al proprio voto di verginità e ottenne, dopo sette anni di continue preghiere, che la peste cessasse di mietere vittime in Antiochia [...]
.

"Sin dall'episodio di Mosé e dei maghi d'Egitto, nonché di quello di Pietro e di Simon Mago, il duello tra l'uomo di Dio e l'adepto della scienza diabolica é divenuto un topos della letteratura cristiana: dietro ad esso, il grande problema del rapporto e della differenza tra il miracolo e il prodigio taumaturgico operato anche da filosofi e da mistici pagani (è rimasto celebre il neopitagorico Apollonio di Tiana).
Nei confronto con il santo il mago, insieme con l'umiliazione della sua falsa scienza, trova talora la via della salvezza personale, convertendosi.
E' il caso di Cipriano d'Antiochia, omonimo del ben più autorevole vescovo di Cartagine e talora con lui confuso.
A Cipriano, redento dall'amore per santa Giustina, una lunga tradizione popolare continuò a lungo ad attribuire la paternità di certi libri di magia; egli ispirò il Calderon de la Barca di E1 magio prodigioso e la stessa leggenda del dottor Faust.
Anche il mago Ermogene, umiliandosi dinanzi all'apostolo Giacomo, trova la via della propria redenzione.
Il tema della contesa tra il santo e il mago conosce infinite varianti e si unisce strettamente, in un certo senso, con l'ordalia.
Esso diviene una chiave interpretativa per la comprensione delle vicende che hanno condotto all'evangelizzazione dell'Europa altomedievale: nella prova di forza tra i loro sacerdoti e gli uomini del nuovo Dio, i popoli scelgono il più possente.
Paradigmatica in tal senso la contesa tra san Patrizio e i druidi irlandesi
".









"Brava gente, io non sono uno di quei poveri ciarlatani, o di quei poveri erbolari che gironzolano davanti alle chiese, in povere palandrane scucite, e portanti scatole e sacchettini e stendono un tappeto: e hanno più sacchetti loro, di quelli che vendono pepe e cimino!
Sappiate che io non sono di costoro; ma sono anzi al servizio di una signora che si chiama Madama Trotta di Salerno, che si serve delle sue orecchie come d'un copricapo e ha le sopracciglia che le scendono a catenine d'argento sulle spalle.
Sappiate che è la donna più saggia che ci sia nelle quattro parti del mondo.
La mia Signora ci manda in diverse terre e paesi in Puglia, in Calabria, in Toscana, nella Terra di Lavoro, in Germania, in Sassonia, in Guascogna, in Ispagna, nella Brie, nella Champagne, in Borgogna, nella foresta delle Ardenne, per ammazzare le bestie selvatiche e ricavarne gli unguenti, per offrire delle medicine a coloro che soffrono delle più varie malattie.
La mia Dama mi ha detto e comandato di far sapere, in qualunque luogo io fosst giunto, certe cose che servissero di buon esempio a quanti si fossero raccolti intorno a me, e poiché ella me lo fece giurare sui santi quando me ne venni via, vi insegnerò a guarire del male dei vermi, se volete sentire.
Volete sentire?
Ci sono delle persone che mi domandano donde mai vengano i vermi.
Io vi faccio sapere che essi vengono da diverse carni riscaldate e da quei vini messi in botte e andati a male.
Essi si coagulano nel corpo per calore e per umore; poiché se, come dicono i filosofi, ogni cosa nasce da essi, così si formano nel corpo i vermi, che salgono fino al cuore e fanno morire di una malattia che si chiama morte istantanea.
Fatevi il segno della croce! Dio ve ne liberi, uomini e donne!
Per guarire della malattia dei vermi (coi vostri occhi la vedete, coi piedi la calpestate), la migliore erba che ci sia in tutte le quattro parti del mondo è l'artemisia.
Le donne si cingono con quest'erba la sera della festa di san Giovanni e se ne fanno dei cappelli da mettere in testa, e dicono che né gotta né pazzia può prenderle più, né alla testa, né alle braccia, né ai piedi, né alle mani; ma io mi stupisco che non scoppi loro la testa e non gli si spezzi il corpo in due, sì grande è la virtù che l'erba in sè racchiude.
Nella Champagne ov'io sono nato, la chiamano 'Marrebor', che vuol dire 'la madre delle erbe'.
Di quest'erba prenderete tre radici, cinque foglie di salvia, nove foglie di piantaggine; battete il tutto in un mortaio di rame, con un pestello di ferro, prendetene il sugo a digiuno per tre mattine e sarete guariti della malattia dei vermi.
Ora levatevi il cappuccio, tendete l'orecchio, e guardate queste erbe, che la mia Dama manda in questo paese e in questa terra; e poiché essa vuole che il povero possa arrivarci come il ricco, mi ha detto di venderle a un denaro (che uno può avere nella sua borsa un denaro e non avere cinque lire).
E mi ha detto e ordinato di prendere un denaro nella moneta in corso nel paese e nella contrada dove fossi arrivato, a Parigi un parigino, a Orleans un orleanese, a Mans un mancese, a Vienne un viennese, a Clermont un clermonese, a Arras un artesiano, a Londra, in Inghilterra,una sterlina e tutto questo per avere del pane e del vino per me, del fieno e dell' avena per il mio ronzino, poiché chi serve un padrone, dal padrone dev'essere sfamato.
E vi dico che se vi fosse qualcuno, uomo o donna che sia, così povero da non poter dar nulla, che si faccia avanti e io gli presterò una delle mie mani per Dio e l'altra per la Madre sua, purché entro un anno faccia cantare una messa di Spirito Santo, dico in particolare, per l'anima della mia Dama, che mi ha insegnato questo precetto, di non fare cioé mai tre peti senza che il quarto sia per l'anima di suo padre e di sua madre, in remissione dei loro peccati.
Queste erbe, voi non le mangerete, perché non v'è bue così forte in questo paese ne sì forte destriero che, se ne avesse sulla lingua solo quanto un pisello, non ne muoia di morte istantanea, tanto esse sono forti e amare; e quel che è amaro alla bocca, è buono invece al cuore.
Ma le metterete invece tre giorni a riposare in un buon vino bianco; se non ne avete di bianco, prendetene di rosso; se non ne avete di rosso, prendete della bella acqua chiara: poiché uno ha magari un pozzo davanti alla porta e non ha una botte di vino in cantina.
Ne prenderete dunque a digiuno per tredici mattine; se ne salterete una, prendetene il giorno dopo, perché non si tratta di una formula magica; e io vi dico per la passione che sofferse, maledetto da Dio, Corbitaz giudeo, che forgiò le trenta monete d'argento nella torre di Abilant, a tre leghe da Gerusalemme, per le quali Dio fu venduto, vi dico che sarete guariti da svariate malattie e da svariati mali, da tutte le febbri, salvo quella quartana, da ogni forma di gotta, salvo la paralisi, dall'enfiagione del corpo e dalla vena del didietro se vi batte.
Che se mio padre e mia madre fossero in pericolo di morte e mi domandassero la migliore erba ch'io potessi dar loro, io gli darei questa.In questo modo io vendo le mie erbe e i miei unguenti; chi ne vuole, ne prenda, chi non ne vuole li lasci!
".
Da Rutebeuf, Il detto dell'erbolaro, in Teatro francese, I, a c. di I. Siciliano, Milano 1959, pp. 170 -171.





IL MERCANTE - Sono un medico di Salerno: attraverso l'Alvernia sono venuto fin qui. E le erbe che ho trovato per strada, ve le ho portate.
Ecco un'erba! Chi ne beve, sa l'ora che deve morire, il mese, il giorno e il luogo, così possa ìo uscirmene di vita!
Eccone una ancora più preziosa! Chi per bene se ne ungesse il volto, i piedi, le mani e il cervello, pur con una pelle vecchia da non stare più in piedi, tosto gli converrebbe diventare un giovinotto arzillo e leggero in età d'anni trentadue.
Non crediate che io vi dica menzogna! Anzi non v'è pulzella per quanto graziosa che non ami - voglia o non voglia - se ne porta addosso una foglia.
Arditamente e senza essere veduta, mattina e sera può andare a trovare il suo amico, e lì sollazzarsi, baciarlo, abbracciarlo, trastullarsi: a meno che lei stessa non s'accusi.
Rifiutare un'erba così prodigiosa è da pazzi.
Eccovi la pimpinella che fa giovane ogni vecchia!
E ancora ne ho - e per nulla ne dubito - di quella che ha nome indivia: l'ho colta nel paradiso terrestre.
Per gli occhi del mio capo, ha tal potere a discrezione che fa rivivere un morto, e lo fa bere e mangiare: non son frottole.
Non ho certo fatto mestiere d'esser mentitore o fanfarone.
Son venuto da lontanissime terre per ricercare tutte le erbe buone.
Non dico d'essere proprio un eremita ma sono bravo, il più spiccio erborista che ci sia sulla terra: in tutto il mondo è inutile cercarne, vicino o lontano, uno migliore di me
".
(Da Anonimo, Il mercante di aromi, in Teatro religioso del medioevo, cit., p. 209).





"Mai non credere a niuno che 'ndovini, né a niuno che t'insegni malie, né a niuno che ti consigli di fare archima, però che tutti sono arcadori di lingua e truffieri; e ciò che fanno o dicono, dicono per trarti danari di borsa: e però in ciò sia tu molto savio e avisato e proveduto sempre di non credere a niuno.
E molto ti guarda, quanto poi il più, sopra tutte l'altre cose, se niuna ria e malvagia persona ti ragionasse o mostrasse o 'nsegnasse di guastare alcuna moneta o vero di farne di nuova, che, com'ai cara la vita e l'anima e '1 corpo, tu non vi attenda né acconsenta di niente; in però che se per disavventura tu v'attendessi, ciò che di guadagno n'avessi sarebbe maltolletto e furto.
E ancora, sia chi vuole, e grande e savio e sottile e avveduto e 'ngenioso quanto vuole, che 'n cortissimo tempo e' non sia scoperto e preso e arso, se l'userà; e perderà l'avere e la persona
".
Da Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, a c. di A. Schiaffini, Firenze 1945, pp. 115-116.





"[...] Quando si furono installati alla Chapelle-Saint-Denis, venne a vederli da Parigi, da Saint-Denis e dai dintorni tanta gente quanta non si era mai vista neppure alla fiera del 'Lendit'.
Vero che i loro ragazzi, fanciulli e fanciulle, erano di un'abilità incomparabile.
Quasi tutti avevano le orecchie forate e portavano a ciascuna d'esse uno o più anelli d'argento; dicevano che al loro paese quella era la moda.
Gli uomini erano di carnagione assai scura, avevano i capelli crespi; le donne erano le più laide e nerastre che si fossero viste mai.
Queste avevano dei tagli sul viso e i capelli neri come code di cavallo.
A guisa di abito portavano una specie di grossolana coperta, fermata sulla spalla da un nodo di stoffa o di corda; sotto, non avevano altro che una specie di grembiale o una vecchia camicia; insomma, erano tra le più miserabili creature che si fossero mai vedute in Francia.
Nonostante la loro povertà, c'erano tra loro delle streghe che leggendo le mani della gente indovinavano il passato o l'avvenire, e gettarono la discordia in parecchie famiglie, dicendo al marito: 'Tua moglie ti fa le corna',o alla moglie: 'Tuo marito t'inganna '.
i1 peggio era che mentre parlavano con i loro clienti, riuscivano per magia, grazie al diavolo o con l'aiuto della loro destrezza a vuotare il contenuto delle loro borse nelle proprie.
O almeno, questo è ciò che di loro si diceva: perché quanto a me, ebbi modo di parlare con loro tre o quattro volte e non mi accorsi mai che poi mi mancasse nemmeno un soldo.
Io non le ho mai viste neppure leggere le mani.
Ma la gente faceva correre dappertutto queste voci, e la cosa finì con il giungere alle orecchie del vescovo di Parigi che venne a sua volta a vederli accompagnato da un frate minore detto 'le Petit Jacobin' che su ordine di quegli fece loro unbel sermone e scomunicò tutti quelli che avevano indovinato o si erano fatti indovinare la fortuna e leggere la mano.
Essi furono dunque obbligati a partire, e nella festa di Nostra Signora di settembre se ne andarono alla volta di Pontoise
".
(Journal d'un bourgeois de Paris, anno 1427, ed. cit., pp. 98-99).