cultura barocca
CABALA

CABALA E OCCULTISMO (VOCI VARIE)
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CABALA (= "tradizione"): in ambito teologico con tale termine si indica la dottrina ebraica diretta all'interpretazione simbolica del senso intimo e segreto della Bibbia quale è stato trasmesso per tradizione secondo una catena ininterrota di iniziatori.
In senso estensivo e mediato la CABALA, che a sua volta deriva dal complesso campo della GEMATRIA, è entrata a far parte dell'universo, in qualche maniera, parallelo delle arti magiche e divinatorie, specie se connesse all'arte della numerologia cui non fu nemmeno estraneo ANGELICO APROSIO (soprattutto per influenza dell'erudito spirito toscano di PIER FRANCESCO MINOZZI) nella stesura di vari scritti ed in particolare di una crittografia in cui l'evidenziazione dei segni alfabetici rimandava a calcoli numerici.
Nelle forme più grezze essa presume di poter gestire l'arte della
DIVINAZIONE
attraverso un rapporto di connessioni fra numeri, segni, sogni intesi come presagi da decifrare.
E' da collegare alla CABALA il GIOCO DEL LOTTO che ebbe origine proprio a Genova nel XVI secolo probabilmente per ideazione di un patrizio della città, tale Benedetto Gentile, che applicò questo gioco d'azzardo alle scommesse che venivano fatte sulle elezioni del Senato della Repubblica.
Al gioco veniva però dato anche nome di GIOCO DEL SEMINARIO forse dal luogo in cui originariamente si giocava.
E' anche vero tuttavia che si chiamava URNA DEL SEMINARIO quella in cui venivano deposti i foglietti coi nomi dei candidati da eleggere.
Non passò molto tempo che si sostituirono i nomi dei senatori con quelli dei numeri sì che il gioco divenne quello che di fatto è oggi.
Il consenso ricevuto dalla popolazione (tra la quale era comunque altissima la pratica del GIOCO D'AZZARDO) fu altissimo e permise agli organizzatori privati del LOTTO di gestire enormi guadagni.
Questo fatto attirò l'attenzione dello Stato che si sostituì ai privati istituendo nel 1643 una tassa.
Gli altri governi italiani, vedendo che anche molti loro sudditi si adopravano per giocare al LOTTO GENOVESE, emanarono severissimi bandi con cui si impediva ai non genovesi la partecipazione alla lotteria.
Le leggi non ottennero tuttavia grossi risultati e la partecipazione al gioco genovese di cittadini di altri Stati non venne meno.
I vari sovrani anzi, valutando l'impossibilità di proibirne la frequentazione e valutando i consistenti guadagni che esso garantiva al Governo che lo avesse autorizzato, lo liberalizzarono ed anzi ne assunsero l'esclusiva.
Fu questo il caso di Carlo Emanuele di Savoia che nel 1674 lo cedette in appalto a gestori privati lucrando sull'operazione.
Seguendo un suo piano moralizzatore il successore Vittorio Amedeo lo proibì nel 1713 ma ancora una volta i governanti sabaudi si trovarono a fare i conti con le giocate clandestine.
Per questo motivo, oltre che per trarne un guadagno fiscale, Carlo Alberto, che pure personalmente si dichiarava contrario al "Gioco del Lotto", lo fece ripristinare.
Il Sovrano non poteva infatti rinunciare ad un importante cespite di guadagno, che vigorosamente sosteneva l'erario statale: l'unica concessione al moralismo albertino fu l'imposizione di un limite massimo di giocata, sin al valore di una lira (1835).
Successivamente con R.D. 5-XI-1863 dichiarò mantenuto a vantaggio dello Stato il gioco del Lotto.
Poi (D.L. del 19-VII-1880) il governo venne autorizzato ad emanare due decreti per disciplinare le deroghe alla proibizione generale di svolgere pubbliche lotterie, comminando le sanzioni penali in caso di contravvenzione al divieto nonché per riunire e coordinare in un testo unico le tante disposizioni sin ad allora emanate in materia di LOTTO.


OCCULTISMO: Dottrina e pratica connesse con la supposta esistenza di forze, entità e poteri non conoscibili né spiegabili scientificamente ma dominabili con particolari tecniche da chi possieda delle facoltà superiori a quelle comuni.

-PARACELSO

-PIETRA FILOSOFALE :la GRANDE PIETRA o PIETRA FILOSOFALE sarebbe lo strumento principe a al tempo stesso il fine ultimo della RICERCA ALCHIMISTICA. La sua fabbricazione renderebbe possibile la realizzazione di quella tintura o polvere di proiezione che potrebbe trasmutare qualsiasi sostanza dallo stato naturale e fisico alla perfezione assoluta.
Esistono controversie su cosa si debba intendere per pietra filosofale.
Secondo la tesi corrente o meno colta la "pietra filosofale" in quanto materia prima giunta alla pienezza della maturità sarebbe da identificarsi con la sostanza, presumibilmente minerale, che permetterebbe di trasmutare in oro ed argento qualsiasi metallo vile.
La riduzione liquida della "pietra filosofale" consentirebbe poi di realizzare l'elisir di lunga vita o panacea universale: questo liquido conterrebbe tutti i principi vitali della natura.
Ben diverse sono le interpretazioni psicologica e transpsicologica della pietra filosofale.
Entrambe le correnti vedono nella pietra filosofale il termine trionfante di un processo di ascesi entro e oltre le forme della natura e della fisicità.
Per i sostenitori dell'interpretazione psicologica la pietra consentirebbe di giungere all'estremo livello della conciliazione della coscienza individuale con le fasi dell'inconscio.
Per i teorici dell'interpretazione transpsicologica il simbolismo espresso dall'azione della pietra filosofale alluderebbe all'atto con cui il singolo può pervenire a stati di coscienza coagulanti salvezza e potere, principio che necessariamente rimanda ad un'impostazione esoterica e gnostica di questa "scuola" interpretativa della pietra filosofale.


-CLAVICOLA DI SALOMONE (anche VERA CLAVICULA DI SALOMONE): si tratta dalla CLAVICOLA DI SALOMONE che è poi una GRAMMATICA KABALISTICA.
Questo antico testo di cabala finì presto per esser considerato libro proibito di negromanzia e magia:
Raggiunse anche una fama malefica nei primi decenni del '600 per esser stato un suo esemplare una prova di reato in un crimine di stregoneri che fu al centro d'un procedimento di importanza mondiale.
Si tratta del caso che fu caratterizzato dall'attentato a papa URBANO VIII.
Dopo che Felice Centini ottenne la porpora di cardinale di Ascoli, un suo ambizioso nipote, tal Giacinto Centino, fu preso dal folle sogno di progettare la morte del Pontefice per far in modo che al suo posto venisse eletto lo zio Cardinale d'Ascoli.
Giacinto Centini entrò quindi in rapporto con un frate Domenico Zancone da Fermo, col frate Cherubino Serafino di Ancona e con un religioso eremita, tal Diego Gucciolone di Palermo.
Questo gruppo di "congiurati" consultò almeno due libri proibiti e ritenuti eretici e magici: il testo delle profezie di Gioacchino da Fiore ed appunto la CLAVICOLA DI SALOMONE.
Tali personaggi pensarono di operare una forma di magia: l'incantamento fu fatto secondo l'artificio delle fatture sulle statuette di cera.
Essi predisposero un'immagine di cera di Urbano VIII coperta di abiti pontificali che prima torturarono infiggendovi spilli e quindi fecero liquefare su un braciere dopo una cerimonia religiosa sacrilega sì da far morire il Papa con magia diabolica.
Frattanto però il frate Zancone, preso dal rimorso, si recò dall'Inquisitore confessando ogni cosa a patto d'aver salva la vita.
I restanti tre furono incarcerati e quindi, dopo 56 interrogatori con tortura, una volta indotti a confessare vennero giustiziati nel 1635 a Roma in Castel S.Angelo.
Intanto nel 1631 Urbano VIII aveva promulgato la Bolla Inscrutabilis iudiciorum Dei con cui si augurava di dare direttive efficaci per far cessare le tante invocazioni diaboliche, le stregonerie e le pèratiche superstiziose in generale: con questo espediente egli intendeva rafforzare i contenuti della Bolla di Sisto V del 5 gennaio 1586 (Coeli et terrae creator) con cui si impediva agli astrologi di attribuirsi il potere di predire il futuro e d'usare forze misteriose per i loro colpevoli fini.

-Johan Daniel MILIUS, oggi misconosciuto, ebbe nel '600 fama di profondo ALCHIMISTA amplificata da una certa alea di mistero che lo fece spesso confondere coll'idea del mago. Le immagini qui tratte son ricavate da un'opera rarissima, corredata di varie immagini di esperimenti condotti per la ricerca della PIETRA FILOSOFALE: Anatomia Auri sive Tyrocinium Medico-Chymicum. Continens in se partes quinque: Quarum I. Tradit concordantiam & harmoniam Solis coelestis cum Auro Terrestri: item Auri definitionem & confusam multorum Phisycorum de Auro opinionem; II. Agit de Medicinis aureis & Receptis antiquorum ac recntium Medicorum, Aurum ingredientibus, tam in simplici quam in preparata forma; III. Tractat de Auri potabilis praeparatione tam vulgari, quan Philosophica; IV. Exibet usum Medicinalem Auri potabilis tam communis quam veri & Philosophici; V. Demonstrat ideam Lapidis Phliosophici in duodecim figuris, Francofurti, sumptibus Lucae Iennisi, 1628: in 4°, bell'antiporta in rame con figure allegoriche ed astrali; pp.26, 204, 27. Stemma nobiliare in rame a piena pagina nel testo: 6 curiose tavole nel testo in rame con diverse figure. Prima edizione.
In questo esemplare (coll. privata, di metà '700, legato in pergamena coeva, in 4°, di pp.70-48-168, con diversi disegni) si esamina quindi la CABALA in quanto strumento di DIVINAZIONE e PREVISIONE DEL FUTURO: nella prima parte si danno chiavi numeriche dell'alfabeto latino, greco ed ebraico in cui si spiega il metodo per formare le PIRAMIDI NUMERICHE e spiegarle.
Nella II parte del lavoro manoscritto sono anche illustrate le NOVE TAVOLE dei NUMERI SIMPATICI, quelli che servono per il GIOCO DEL LOTTO.

Uno fra i divertimenti più praticati nell'età intermedia fu il GIOCO D'AZZARDO: e nel genovesato giunse a tale livello di popolarità che uno fra questi giochi, un'invenzione tipicamente genovese, il LOTTO, fu alla fine riconosciuto come legale dallo Stato che prese quindi a gestirne, direttamente o per appalto, l'esistenza.
La pericolosità del GIOCO D'AZZARDO (specie quello caratterizzato dai GIOCHI DELLE CARTE E DEI DADI non a torto ritenuti causa di perdizione economica e morale dall'ORATORIA ECCLESIASTICA) che poteva rovinare i patrimoni o scatenare gravi risse si riscontra ancora nei REGOLAMENTI MILITARI DI GENOVA DEL XVIII SECOLO allorché si scrissero severe NORME CONTRO SOLDATI CHE ERANO BARI O CHE GIOCAVANO D'AZZARDO.
Comunque per i PROBLEMI SOCIALI ED ECONOMICI ARRECATI DAL GIUOCO D'AZZARDO ancora una volta è la CHIESA ROMANA ad offrire le documentazioni più approfondite su usi ed abusi del giuoco: in simile contesto un sunto basilare delle discussioni giuridiche in merito a tale tematica compare nella BIBLIOTHECA CANONICA, JURIDICA... di Padre Lucio Ferraris.
La voce LUDUS - SPONSIO vi è trattata in modo eccezionalmente esaustivo e non solo in merito al LUDUS(GIUOCO) ma anche a riguardo dello SPONSIO (SCOMMESSA): il tutto viene fatto con un rigore estremo con una costante voglia di aggiornamento sì che ancora in fine della voce di propongono ulteriori postulazioni su LUDUS - SPONSIO.
Nell'INDICE - SOMMARIO
vengono analizzate tutte le variabili possibili tra gioco lecito e non, dicieti, considerazioni per i religiosi, valutazioni sui figli che dissipano i patrimoni di famiglia al gioco d'azzardo: nulla viene trascurato e, a titolo esemplificativo, vale la pena qui di segnalare un tema tuttora controverso quello che riguarda il RAPPORTO TRA UN GIOCATORE ESPERTO ED UN PRINCIPIANTE che dal Ferraris viene trattato al PUNTO 54.
Oltre al LOTTO un gioco che godette dal XVII secolo grande successo fu quello del BIRIBISSI detto anche "BIRIBIS".
Per giocare si utilizzava un tavoliere di 36 caselle ed ogni giocatore doveva estrarre tre numeri consecutivi.
Qualora indovinasse uno dei 36 numeri guadagnava 32 volte la posta.
I tre banchieri del BIRIBISSI erano chiamati BIRBANTI: uno di loro teneva il sacco dei numeri per l'estrazione, l'altro il denaro ed il terzo controllava il tavoliere.
Le autorità sia civili che ecclesiastiche cercarono di proibire o comunque impedire il gioco e addirittura un vescovo di Ventimiglia in un suo "discorso prosinodale" lo condannò severamente, visto che la popolazione per seguirlo trascurava la frequentazione di Messa e Vespro.
Lo Stato genovese intervenne poi estesamente contro ogni forma di GIOCO D'AZZARDO e con le leggi del 15 marzo 1692 e del 18 aprile 1697 cercò di colpire severamente quanti giocassero a "biribis, bassetta, venturella e faraona" come anche coloro i quali li favorissero od offrissero i loro locali per la pratica del gioco d'azzardo (e tra costoro erano davvero tanti gli osti, i locandieri, i caffettieri).
Rimuovere la passione del gioco fu un'impresa impossibile: e del resto se si calcola che, verso la fine del '600, uno dei giocatori più incalliti nel territorio di Ventimiglia era quel Capitano Giusdicente della città, che al contrario avrebbe dovuto reprimere quell'usanza, è facile intendere quanto fosse irrealizzabile il proponimento delle autorità di Genova.
A proposito di GIUOCHI - DIVERTIMENTI (VEDI QUI L'INDICE DETTAGLIATO) non è dato di scoprire nell'opera di APROSIO riferimenti particolari su GIOSTRE E TORNEI CAVALLERESCHI: in quanto religioso Aprosio non avrebbe dovuto interessarsi di arti belliche pur se la sua carica di Vicario dell'Inquisizione lo portava ineluttabilmente ad affrontare il sempre dibattuto problema del DUELLO (in dipendenza di ciò, dovendosi tenere aggiormnato sulla pubblicistica tecnica e sui temi giuridici tra altri lavori che trattano la monomachia come all'epoca si nominava il duello il frate assimilò alla "Libraria intemelia" una celebre opera sull'arte della scherma del maestro bolognese ACHILLE MAROZZO, opera INTEGRALMENTE QUI DIGITALIZZATA DA "CULTURABAROCCA" CON OPPORTUNI COMMENTI CRITICI
Dall'agostiniano intemelio non si ricavano nemmeno notizie peculiari sulle forme primordiali dei GIUOCHI CIRCENSI che i MERCANTI DI MERAVIGLIE, personaggi spesso al limite della legalità, organizzavano in occasione delle feste di CARNEVALE e periodicamente nell'occasione dei MERCATI AMBULANTI: forme di divertimento popolare che in Liguria pure vantarono una tradizione importante con la triste esposizione alla pubblica curisità dei così detti "FENOMENI DA BARACCONE" (Aprosio non ne trattò esplicitamente anche se notevole fu la sua attenzione a quelli che purtroppo costituivano il "clou" di questi eventi, vale a dire i presunti MOSTRI : DI CUI NELL'EPOCA FU REALIZZATA QUESTA ICONOGRAFIA TANTO IMPORTANTE QUANTO IMPRESSIONANTE E DESTINATA AD ALIMENTARE LA LETTERATURA ROMANZESCA ED ORRORIFICA DEI SECOLI A VENIRE).
Nel contesto della produzione di Aprosio capitano inoltre riferimenti frequenti alla CACCIA ed alla PESCA attività su cui la "Libraria intemelia" non manca di rari esemplari: e su cui l'agostiniano dissertò in vari luoghi (anche per i riferimenti agli autori classici) e partcolarmente nella parte biografia della Biblioteca Aprosiana qui proposta in ANALISI IPERTESTUALE.
L'agostiniano di Ventimiglia, a differenza di quanto spesso si dice o si scrive con superficialità, non solo accumulava libri, ma li leggeva e li giudicava, spesso fornendo delle utili indicazioni.
Per esempio nel campo vastissimo dei GIOCHI STORICI / GIUOCHI STORICI egli particolarmente si interessò del GIUOCO DEL CALCIO DI SCUOLA FIORENTINA (sorprendentemente quasi nulla fu la sua attenzione al GIOCO LIGURE-PIEMONTESE DEL PALLONE ELASTICO) e del GIUOCO DEGLI SCACCHI analizzando in merito due opere di fondamentale importanza, una redatta, principalmente sotto una stimolazione culturale ed erudita, da Giovanni Bardi dei Conti di Vernio ed intitolata Discorso sopra il giuoco del calcio fiorentino, in Firenze, All'Insegna della Stella, 1673 (tuttora custodita presso la CBA) ed una seconda composta da un autentico campione del gioco degli scacchi, vale a dire Pietro Carrera di cui il frate parla diffusamente nella sua Biblioteca Aprosiana a p. 643, numero 50 [anche questa pubblicazione si trova tuttora presso la CBI intemelia].
Angelico Aprosio, come tanti altri predicatori, non lesinò critiche ai GIOCHI D'AZZARDO capaci di rovinare con le anime anche i patrimoni di famiglia: non era però estraneo ai divertimenti sani tra cui in primo luogo poneva la lettura, senza nemmeno porre troppi freni alle opere da leggere sempre che non fossero oscene [ed in ciò era decisamente meno intransigente di un anonimo autore di matrice ecclesiastica del XVIII secolo che nella sua opera qui INTEGRALMENTE DIGITALIZZATA dal titolo
TRATTATO DE' GIOCHI E DE' DIVERTIMENTI PERMESSI, O PROIBITI AI CRISTIANI a proposito della scelta dei volumi da leggere o far leggere sarebbe stato decisamente più rigoroso e conservatore.




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In un volume del gesuita Carlo Casalicchio destinato ad avere varie ristampe e diffuso successo (cito da Gli Stimoli al timor di Dio, Napoli, per Giacinto Passaro, 1673) l'oratoria sacra del XVII secolo, tra l'altro, concentrò (cap. XXVI, Stimolo XXVI, à Temer Dio, cavato da' castighi dati da Dio a' giuocatori) una vera e propria Summa contro la pratica del giuoco d'azzardo 1.
Nel testo, indubbiamente colorito per l'implicita funzione catartica, si legge: "Essendo io molto giovane, udij raccontare in una Congregatione, dove alcuni uomini molto pii, e virtuosi si radunavano per un giorno di ciascheduna settimana, ad esercitarsi con varii atti di pietà e di divotione, il caso seguente, come socceduto di fresco in questa Città. Un tal figliuolo di una Vedova, a poco a poco lasciando la Congregatione e la frequenza de' Sacramenti, si diede in preda al vitio del giuoco, il quale, non so se fosse causa dell'allontanarsi da' Sacramenti, o effetto della lontananza da quelli, ma in breve colto da Dio fu il fiore de' suoi anni con una malatia mortale, furono chiamati due Religiosi dell'Ordine di colui, che raccontò il soccesso, li quali andati dall'infermo e appressatisi al letto, furono invitati subito dall'ammalato, sapete a che? a giuocare alle carte; ma essendosi risposto da' Padri che loro non sapevano giuocare, e che non era tempo di giuocare, ma di far da dovero, cioè a confessarsi e a dimandar perdono a Dio, perché la morte era vicuna, e vicino il tempo di dover dar conto strettissimo della vita menata con tanto poco Timor di Sua Divina Maestà; Oh non mi state a fare il Predicatore (ripiglia il giovane) giuocate se volete, e se no partite presto da qui, che io voglio onninamente giuocare; e assalito da tuttavia da un parossismo, che gli diede anche in testa, come che giuocasse attualmente, diceva farneticando: o' che bella primera, vada tutto il resto, questo è per certo fruscio maggiore, io sono il vincitore; e così perdè la vita giuocando, senza confessione e senza Sacramenti., Qualis vita, finis ita, non si fa altro nella morte, ordinariamente se non ripetere quel che s'è fatto nella vita, corrispondendo la morte a questa come un fidelissimo eco. Ma molto più tremendo fu il caso di un altro giuocatore socceduto nell'anno 1612 e raccontato dal Padre Ottonelli della nostra Compagnia. Viveva in quest'anno un peccatore, che fra gli altri vitii era giuocatore per la vita e in conseguenza pessimo bestemmiatore, solendo egli con sfacciataggine assai grande e orribile empietà bestemmiare il primo giorno di Novembre, come consecrato a tutti li Santi del Cielo, la Divina Maestà, che come diceva il Savio talvolta Dissimulat peccata hominum propter poenientiam, tollerò molto tempo quest'empio e sfacciato, ma perché quanto più buono si dimostrava Dio con lui, egli tanto più pessimo si portava con esso, fu in un subito ferito dal fulmine del Divino furore, poiché mentre un giorno aveva perduta grossa somma di danari, giuocando in casa di un Nobilissimo Personaggio e perciò al maggior segno sdegnato, bestemmiando se n'uscì dal giuoco, e dalla casa e, stracciando le carte, diceva: O Dio, così vorrei poter stracciare te, così strapazzarti, come straccio e srapazzo queste carte e aggiunse: io non voglio che punto mi vaglia la Messa, che m'ho sentita questa mattina, e mentre così bestemmiando camminava per la strada, gli fu sopra la Divina Vendetta, che lo fece cascare in terra e svolgere il collo in maniera che fra pochi momenti se ne morì, i quali momenti, che pensate, che li spendesse in ravvedersi, e dimandar persono? no, che non fece altro, che mordersi per rabbia le dita delle mani senza poter proferir parole, le quali, alli segni, che dava di disperato, se l'avesse proferite sarebbero pure state di bestemmie contro Dio e de' Santi suoi, tanto può il mal'habito di molto tempo, il quale senza dubbio a parere dei savii e santi Dottori Cogit velut altera natura. Nolite decipere animas vestras diceva un tempo Geremia e io ora dico a chi ne ha di bisogno; Per quel sangue preziosissimo sparso per voi, ravvedetevi e svegliatevi da quel maledetto letargo che vi ha tenuto tanto tempo oppressi e illusi con tanta gran rovina di voi medesimi e della vostra bell'anima, dandovi ad intendere quel che mai era, vedete almeno a spese di altri che Deus est in Coelis e che castiga quando meno si ci pensa, e che non vi è nè vi è stato nè vi sarà mai chi possa scappare dalle sue potentissime mani: Nolite decipere animas vestra, non ne sia più di coteste vostre affettate e crasse ignoranze, colle quali vi andate palpando la coscienza, vedrete che è più che vero, che Quae seminaverit homo, haec etiam metet, fate riflessione, che l'inganno vien sopra voi stessi, sopra delle vostre persone e sopra delle vostre anime stesse: Nolite decipere animas vestras".
Angelico Aprosio andò oltre la condanna del gioco d'azzardo, proponendo intelligentemente delle alternative.
Angelico Aprosio, detto “Il Ventimiglia” dalla città natale (1607 - ivi 1681), che fu agostiniano ed oratore sacro prima che eruditissimo bibliotecario (sempre giova rammentarsi di ciò) sostanzialmente si attenne a questa retorica, cui pur doveva impegnarsi onde rispettare gli obblighi del suo sacerdozio, e finì quasi sempre col tempestare di biasimi, anche truculenti, le varie forme di peccato e tentazione. Durante i Quaresimali, fra il fumo degli incensi e l’ovattata quanto palpabile angoscia di un pubblico attento ma superstizioso, il frate ventimigliese si avvaleva di siffatti stilemi: non aveva l’arrogante potenza di un Panigarola né l’intelligenza occamistica del Segneri ma godeva di buona reputazione: sì, in ultima analisi, a parte qualche nota bizzarria del suo ingegno staripante, doveva realmente essere un oratore sacro seguito dai fedeli e generalmente ben accetto a superiori e Santo Uffizio.
Queste però sono notizie indirette: un po’ derivano dallo stesso Aprosio, altrettanto dall’amato discepolo Domenico Antonio Gandolfo e, in minor misura, dai vari testi in cui, dopo aver parlato dei suoi poliedrici interessi eruditi e biblioteconomici, in forma di chiusa qualche stanco commentatore, ormai privo di argomenti celebrativi, si limitava ad elogiarlo ancora, seppur genericamente, quale uomo di eccellenti costumi e religioso dalle valide qualità oratorie. 2
Apparentemente non siamo in grado di valutarlo su questo campo, soprattutto perché (ed è lapalissiano) l’assistenza diretta all’evento retorico sarebbe tanto necessaria per emettere qualsiasi giudizio quanto lapalissianamente inattuabile: e ci si concedano in questa circostanza sia lo scorretto ma efficace ragionamento per assurdo quanto la consequenziale ma forse efficace cacofonia.
Le Lezioni sacre sopra Giona, le sue più note esperienze di oratoria sacra, tenute a Genova tra il 1649 ed il 1650, rimasero inedite per esser quindi disperse fra le ben conosciute, secolari peripezie della biblioteca.
In linea pratica sono rimasti, nel manoscritto 40 dell’Aprosiana, solo gli Opistographa una serie di appunti per prediche religiose, brevissimi, scritti in grafia quasi illeggibile, dichiaratamente preparati per un uso personalissimo e senza alcuna pretesa formale: a sfiancarsi nel decifrare il piccolo codice, si ha solo l’impressione che il metodico frate si fosse preparato una sorta di vademecum, un utile elenco di luoghi e citazioni delle Scritture da usare per rinverdire qualche orazione o sostenere qualche possibile incertezza della memoria.
Eppure, se si presta un’attenzione meno svagata al complesso della produzione aprosiana, sostanzialmente scindibile in tre grandi gruppi tematici (1, lavori critico-letterari - 2, scritti biblioteconomici - 3,opere di contenuto moralistico - satireggiante) si evince che le sue esibizioni retoriche non si sono completamente disperse sotto le volte rimbombanti di chiese più o meno affollate: in effetti ciò non sarebbe nemmeno stato in sintonia con la consuetudine ideologica del frate, avvezzo, per narcisismo certo ma altresì per voglia di dire e proporre idee sempre nuove, a conservare ogni suo sforzo intellettuale all’interno dei più svariati serbatoi eruditi.
E, se qualche occasione gliela potevano offrire tanto i suoi grandi repertori biblioteconomici quanto gli interventi critico - letterari, entrambi non scevri di qualche polemica contro le vanità dei dotti, resta fuor di dubbio che la sua oratoria sacra ha finito per “metamorfizzarsi” o meglio ancora per “sublimarsi” (si passino questi termini a loro modo forzati ma ancora una volta ineluttabilmente efficaci) innestandosi sul troncone delle disquisizioni moralistiche che contribuirono a renderlo famoso soprattutto con le pubblicazioni dello Scudo di Rinaldo (parte I) e soprattutto della Grillaia. 3
Il meccanismo di recupero e, usando un altro orribile quanto pertinente modernismo, di “riciclaggio” era in definitiva così elementare e spontaneo da risultare, per vari aspetti, quasi inavvertibile.
Dal pulpito egli aveva parlato, certo in modo colorito eppure efficiente quanto mediamente adeguato al consueto livello medio basso dell’uditorio, di vizi e vanità, di peccati e tentazioni, di uomini da taverna e di donnacce…di ogni umana debolezza aveva probabilmente reso iridescenti la gravità e le inevitabili punizioni sia terrene che spirituali.
A monte di tali esternazioni retoriche risiedeva altresì un vasto bagaglio di concetti eruditi che il clima rarefatto e talora indolente di certe ritualità avrebbe frequentemente stemperato se non alienato fra l'inerzia intellettuale di troppi fedeli: ma tutto ciò che risultava impronunciabile per le angustie culturali del contingente era comunque recuperabile nel contesto di opere a stampa, di libri dedicati a uomini sapienti capaci di leggere, fra lo svariare delle citazioni e senza affatto scandalizzarsi, sia il messaggio morale e cristiano quanto la filosofia, indubbiamente, controriformista dell’autore.
E così, nello Scudo di Rinaldo come nella Grillaia, il frate intemelio riuscì ad enfatizzare ciò che in chiesa era stato appena in grado di suggerire: fu soprattutto in grado di abbandonarsi al vituperio scherzoso e non, per quanto controllato dall’onesta dissimulazione e dalle mille astuzie dell’erudizione ingegnosa. 4
Ed ecco allora, onde fare un esempio, che le donnacce -bersaglio quasi istituzionale dell’Aprosio ma anche dei suoi confratelli- finivano per essere avvolte da una spirale di riferimenti acutissimi, di bibliografiche menzioni che ne ricucivano le tortuosità morali per via di casistiche varie e contrastanti, che potevano ora esorcizzare il femminino attraverso i fatti dell’infingarda e pagana Elena quanto della dea puttana, cioè Venere, o che, molto concretamente, trovavano l’energia di demitizzare ogni presunta donnesca virtù, estranea ai ruoli ufficiali della buona moglie e della madre premurosa, in forza dei quei corollari di pettegolezzi che, nei salotti colti, la noia intrecciava sulle vicende di tante, contemporanee cortigiane via, via alla moda o via via ricacciate nel fango dalla perdita, quasi sempre, di bellezza ed utile protezione maschile.
L’oratoria sacra aprosiana, logicamente, si era esperita in molteplici tematiche e qui, per non ribadire un torto che però il frate condivise con la maggior parte dei maschi suoi contemporanei, cioè l’antifemminismo, è preferibile proporre il modo in cui ebbe occasione di servire Stato e Chiesa, sia quale predicatore sia come scrittore moraleggiante.
Fu il caso, serio, del gioco d’azzardo, diffusissimo e pernicioso, causa di rovine familiari e di autentiche tragedie: dal pulpito i religiosi tuonavano, lo si è visto all’inizio con la citazione del Casalicchio, nelle Curie, cioè nei Tribunali, magistrati, non raramente sfiduciati dai contorcimenti legali del diritto intermedio, dibattevano interminabili cause contro bari e giocatori incalliti, rei di aver gettata sul lastrico la loro famiglia privata d’ogni forma di previdente sostegno. 5
L’argomento era tanto comune che a nessun predicatore era possibile eluderlo; nemmeno l’Aprosio, sicuramente, poté astenersi dall’affrontarlo ma quel che disse in chiesa finì per esser quasi di sicuro il prologo di un discorso più ampio, intelligente e meditato, un tipo di discorso cioè del quale ad una folla al momento intimidita, ma spesso nascostamente indifferente, si poteva concedere solo qualche spunto generalizzante e catastrofico, alla maniera appunto del Casalicchio: “giocare d’azzardo è male, va contro la volontà di Dio e Dio, che tutto perdona, può scatenare tutta la sua ira contro chi, per quanto sia stato richiamato, giammai si ravvede”.
Aprosio scrisse anche una seconda parte dello Scudo di Rinaldo, sicuramente la più mordace, ma non riuscì a pubblicarla: senza qualche mecenate i costi di stampa erano già proibitivi!
Il lavoro è però sopravvissuto alle angherie del tempo, ai primissimi del XIX secolo, allo stato di manoscritto, fu portato a Genova per essere ingressato nell’istituenda ma mai realizzata Biblioteca Centrale della Repubblica Rivoluzionaria eretta dai Francesi sulle ceneri del Dominio di Genova.
Non lo lesse mai nessuno per secoli: lo feci oltre un decennio fa, grazie all’intercessione del compianto amico ispanista Mario Damonte.
Vi scoprii cose interessanti, argomenti dati per persi e leggendolo intuii quel meccanismo aprosiano di cui ho parlato e che in qualche maniera avevo intuito ma che, certamente, scoprii ancora più sofisticato e senza dubbio meno visibile rispetto a quanto riscontrabile nella Grillaia o nella parte edita dello Scudo.
La prima parte del capitolo VII dedicato alla “Liceità o meno dei giuochi d’azzardo” si presenta come una vera e propria orazione dove l’acme concettuale si raggiunge laddove è scritto "…per ricreare gli animi nostri, non dobbiamo usare ne danze ne balli, ne le CARTE ne DADI perciocché tai giuochi e spassi sono ministri delle male arti e sonvi giuochi più dannosi che utili …anzi incitano gli uomini a molti vitij e massimamente dell’Avaritia, della Prodigalità et all’Iracondia…". 6
Pare di leggere il Casalicchio, in particolare verso la fine della sarcina appena riprodotta: l’Aprosio ha un passo letterario più deciso, procede senza dubbio con scrittura più accattivante, qualche citazione dotta finisce per farla ma sostanzialmente sino a metà capitolo o quasi egli sembra davvero tenere una predica religiosa, solo moderatamente forbita e in definitiva del tutto adatta per fedeli di qualsiasi livello socio-culturale.
In particolare la chiusa di questa presunta prima sezione dell’intervento oratorio dà l’impressione di vibrare quasi delle stesse simulazioni emotive e dei medesimi progetti catartici riscontrabili nella prosa del Casalicchio: anzi, i due eruditi predicatori hanno in comune un’identica matrice ideologico - documentaria che, giustamente, risulta quella del gesuita Gio. Domenico Ottonelli, all’epoca ritenuto, non a torto, la massima autorità nel campo, invero piuttosto settoriale, dei danni procurati alla morale del buon cristiano dagli ambigui trastulli del gioco, inteso sia quale competizione d’azzardo sia quale evasione edonistica e mondana innervata sui rituali di feste, veglie, balli proibiti e discutibili rappresentazioni teatrali:

"[p.228,linea 1: si seguirà sempre in questo modo la numerazione del manoscritto genovese]..E poi, che cosa aspett'io dal giuoco, già che per confessare ingenuamente la verità, non fine di ricreatione honesta ma ben sì ingordigia, e desiderio dell 'altrui danaro a invocare m'invita. Forse col danaro che ne rittrarrò comprar poderi o fabricar palazzi? Sì se il Padre Gio.Domenico Ottonelli da Fanano Gesuita, huomo zelantissimo della salute delle anime, come dimostrano le sue Opere della Christiana moderatione del teatro et il Peccatore angustiato dalla vicina morte per conto della Christiana lode, oltre eccedienza non m'insegnasse il contrario mentre scrive. I Giuocatori di CARTE poche volte comprano poderi o fabricano palazzi con danari ammassati giuocando, e vincendo: ma per lo più chi vince tre volte, ne perde quattro: onde alla fine il Giuocatore può sommare dalle partite che ha vinto un pur nulla, anzi un danno moltiplicato; perch'io stimo verissimo il detto del B. Francesco Borgia, Duca di Candia nel Secolo, e nella Religione Generale della Compagnia di Giesù, cioè che'l giuoco fa perdere quattro gioje, il TEMPO, il DANARO, la DEVOTIONE e spesso l'ESISTENZA....". 8
" [p. 233, linea 7]..E mancano forse trattenimenti honesti ne' quali l'huomo può ricrearsi e non senza utile?, senza valersi delle CARTE, e delli DADI? Io per me confesso il vero, che non ritrovo maggior sollievo nelle hore del meriggio che'l passarmela intorno a Libri. Se io do di mano a Girolamo Natali mi si porge occasione di pascer la curiosità nelle imagini della Historia Evangelica in cui viene da questo eccellentissimo scultore espressa tutta la vita di Christo Signor nostro dando trattenimento all ' anima con le Meditationi del Padre Agostino Vivaldi, che ad esse immagini rispondono. Quando poscia dopo questi stato tirato ad altra lettura, non mi vengono meno li pij Desideri del P. Hermanno Hugone li quali e con gli Emblemi e con le Elegie, e con gli aspetti dei Grandi Padri essendo adorni, sono cibo proporzionato a qualsivoglia anima più che svogliata: alli quali non sono punto secondi gli Emblemi Sacri di Guglielmo Hesio, che s'aggirano intorno alla Fede, alla Speranza, ed alla Charità; le Fiammelle d'amore del P.S. (p.234) Agostino adornate e con versi e con Emblemi da F. Michele Maiero; e le Epistole delle Sacre Heroine Segretario delle quali e il P. Giovanni Vincartio. Ma dove lasso la Fenice degli Eruditi Italiani il gran Fortunio Liceto? 9 Non è egli forse bastante con la varietà delle Lucerne degli antichi, da lui tanto ingegnosamente spiegate e con tanti quesiti intricatissimi, senza valersi dell 'artificio d'Alessandro, con facilità non immaginabile disciolti a ricreare qualunque animo più oppresso dalle fatiche? L' Atalanta fuggitiva di Michele Majero, gli Emblemi di Dionigi Lebeo-Bartholomeo, di Jacomo a Bruck, di Willichio Westhovio, di Florentio Schoonhovio, di Nicolò Torelli; di Guglielmo Zinggrefio, di Jacomo Catzio, di Daniele Meisnero, di Giusto Rollenhasgio, di Giovanni Sambuco, e di Andrea Alciato, sono forse privi di tal virtù? 10 . Che diremo delle Imprese dell 'Aresio, del Ferro, del Lucarini; del Bargagli; del Giovio; del Ruscelli; del Contile, del Taegio, del Tasso, del Capaccio e dell'Ammirato? Forse saranno stimate da loro troppo sollevate le materie di quelle? Ecco che dal Tassoni vien loro apparecchiata la Secchia rapita, il Bracciolini medita a questo fine lo Scherno degli dei dei Gentili (7); il Lalli fa comparir da Zanni l'Heroe Virgiliano nell'Eneide travestita, Bartholomeo Bocchini stanco di usar le forbici e i [illegg.-macchie di inchiostro] ne Le Pazzie de' Savi e'l Lambertaccio (8): Piero de' Signori di Bardi narra (9) Il pregio [parola illegg., macchie], e i marzial furori
D'Avino, d'Avolio, d'Ottone e Berlinghiero
Al dolce suon del suo scacciapensieri
Gio. Francesco Negri, Pittore eccellentissimo nel formare i Ritratti, non contentandosi de la gloria minor de l'arti mute importò con grandissima leggiadria nel volgar Bolognese F. e finalmente il Loredano, l'ORACOLO della REINA delle REPUBBLICHE per ristoro dalle continue fatiche sostenute nelle ordinarie consulte di quel Serenissimo Senato, con Bernesche rime prese a cantare:
L ' ira crudel del furibondo Achille
Che con la Carne, e'l sangue dell 'Eroi
Fece lauto banchetto a più di mille
Uccelli e Fiere là ne i Boschi Eoi
dando a divedere, che etiandio nello scrivere possa ricever l'animo qualche sollievo; e così anco il Lalli che oltre l'Eneide travestita cantò:
Con parlar quasi da Zanni
Del Mal francese i lagrimosi affanni et
Le strane guerre e memorande
Che de la gran Moscovia nel nobil regno
Mosse a dì suoi Domiziano il grande
[p.236] Ma perché non tutti si dilettano di Poesia non mancano Libri Istorici così antichi come Moderni o che se loro non piace la gravità delle materie possono ricrearsi con le Guerre di Parnaso di Scipione Herrico, Poeta celebratissimo, come dimostrano la "Babilonia distrutta " e la "Guerra Troiana ", ed Apologista sottilissimo, come si può avvedere nell’ “Antisquittinio opposto allo Squittinio della Libertà Veneta” e nella “Risposta all'Historia del Concilio di Trento tessuta da Pietro Soave Polano” [più abitualmente volendo rispondere al Sarpi, Aprosio si valeva però dell' Historia del Concilio tridentino di Alberto Alberti] sotto la scorza delle quali si hanno le Guerre di Fiandra (3 voll., Colonia s. e. 1 635-39) del Cardinal [Guido] Bentivoglio, con la Vita del Picaro dell'Alamanno, o con l'Historia di Don Chisciotte della Mancia di Michel Cervantes Saavedra, essendo questo uno scrittore bastante a stagnar le lagrime alla sorella di Pelope. Io però, invece di questi ed altri simili, essorterei gli Ecclesiastici a ricrearsi leggendo le opere ascetiche del P. Pavolo di Barri, Del P. Adriano Adriani del P. Alardo le Roy, del P. Antonio de Balinghem, del P. Antonio Cordeses, del P. Antonio Gaudier, del P. Carlo Musart, del P. Francesco Adorno, del P. Francesco Arias, del P. Giovanni David, del P. Giovanni Niess, del P. Fabio Ambrogio Spinola, del P. Gio. Stefano Ferrari [più pertinentemente " De Ferrari" che fu confessore di Anton Giulio Brignole Sale e mentore del suo ingresso nella Religione: Bibliot.Apros. p.491], del P. Pavolo Zehentier, del P. Stanislao Kizinokolek, del P. Stefano Stapels, di F. Antonio Delgado, di F. Arnaldo Alostano, di F. Bartholomeo Salusso (?), di F. Carlo Boulanger, di F. Bartholomeo Stella, di Fra Martino Ruego, di F. Zacharia de Milano, di F. Giorgio Magretio: e per non confondersi in tanto numero di scrittori e di libri si possono leggere l' Eternità consigliera del P. Daniele Bartoli, l' Anello dell 'Eternità del P. Henrico Hengelgrave, e la Predica della Morte del P. Barnaba Kearneo nella quale tocca l'istessa materia....
".
[la lunga sarcina continua con citazioni del Volterrano, del Sabbothio (erroneamente trascitto Sasbodio), del Maia Materdona, dell'Ottonelli, di Ovidio nella versione di Angelo Ingenieri, del Souterio].

1 Secondo il Dizionario della Letteratura Italiana, a cura di E. Bonora, Milano, 1977, II, p.101, col. 1 Carlo Casalicchio sarebbe nato a Sant’Angelo Le Fratte, Potenza, 1624 e sarebbe defunto a Napoli nel 1700. Invece secondo l’indice informatico “ICCO” dell’ “ISBN” la data di nascita sarebbe da porre verso il 1620 e quella di morte al 1680.

2 E' curioso che la più estesa e letterariamente nota menzione su Aprosio predicatore compaia in un romanzo barocco La Rosalinda [ La Rosalinda, in Opere del Conte Bernardo Morando, lV, Barochi, Piacenza, 1662] del genovese Bernardo Morando (Sestri Ponente 1589 - Piacenza 1656) che è oggi un'opera senza lettori i cui pochi esemplari superstiti sono quasi pezzi da museo. La sua fortuna nasce e tramonta nel '600, epoca in cui vive splendori di effimera celebrità una tradizione romanzesca i cui prodotti, respinti dalla posteriore critica letteraria, sono ormai difficilmente reperibili, costringendo il bibliofilo ad autentiche indagini tra i meandri di biblioteche, scaffali, cataloghi d'antiquariato e non [D. Bianchi, B. Morando prosatore. B. Morando verseggiatore, in Atti dell' Accademia Ligure di Scienze e Lettere, 1959, pp. 110-22 - E. Cremona, Bernardo Morando, poeta lirico drammatico e romanziere del Seicento, Piacenza, 1960 - D. Conrieri, Il romanzo ligure dell' età barocca, in "Annali di Sc. Norm. Sup. di Pisa", IV, 3, 1974, pp. 1074-1088 - Romanzieri del Seicento, a. c. di M. Capucci, Torino, 1974, pp. 44-48, 529-572]. Il racconto, tra instancabili digressioni moralistiche, narra le peripezie di due giovani cattolici, Rosalinda figlia di Sinibaldo, mercante genovese trapiantatosi a Londra, e Lealdo, che fuggono dalI'lnghilterra antipapista dove, dopo il sovvertimento delle istituzioni religiose, si sta concretizzando anche quello dei valori etico-sociali attraverso la condanna legale del re Carlo I. L'urto colle brutture di una storia alterata dalle violenze umane porta i due giovani, dopo innumerevoli avventure, separazioni e ricongiungimenti, a rifiutare il disordine morale di un mondo che non omprendono ed a cercare la quiete delI'animo nella pace dei silenzi claustrali. Indubbiamente il cattolicesimo è il connotatore primario dell'opera, ma non sotto la specie di un fideismo dinamico, di matrice controriformista, che presuppone autentiche crociate contro l'Idra protestante. Di tale religione il Morando recupera piuttosto la funzione consolatrice, la capacità cioè di portare un'anima sgomenta, attraverso una lenta meditazione, alla quiete spirituale o, nei casi estremi, a quella felicità tutta interiore ed individuale che offre la vita del convento. Dopo una visita alle chiese di Genova il calvinista Edemondo che, al di là del suo credo, è figura positiva e protettore degli infelici protagonisti, trova la forza di meditare criticamente sulle sue scelte religiose. Egli, dopo un naufragio sul lido di Taggia, viene soccorso dal buon frate cappuccino Egidio che lo cura, senza prevenzioni, nel fisico e nello spirito, portandolo ad una conversione, la cui apoteosi si concretizza nella Cattedrale di Ventimiglia. Al proposito il Morando scrive "Il luogo per la conversione fu destinato nella Cattedrale di Ventimiglia, città indi poco discosta, il tempo, tosto che Edemondo fosse in termine per consiglio del medico di licenziarsi dal letto, il che speravasi fra pochi giorni: e il modo con quella maggiore solennità che per loro possibile fosse. Volle il P. Egidio prender egli stesso di ciò l'assunto. Licenziatosi pertanto con teneri abbracciamenti dal figliolo nuovamente da lui con lo spirito generato, e raccomandato a quei padri particolarmente alla continua assistenza del P. Raffaele, andò a prendere quanto era d'uopo. Si trasferì a Rezzo luogo non molto quindi lontano ove trovavasi come in proprio suo Feudo il Marchese Nicolò suo fratello: ivi da Genova egli poco prima s'era ridotto, per ischermirsi dagli estivi colpi, in quel luogo che situato sopra di un colle può godere i freschi fiati di Zefiro lusinghiero, anche sotto noiosi latrati di Sirio ardente. Informatolo del successo [la conversione di Edemondo] lo pregò ad onorare quella funzione [un “Atto di fede” ed un’ “Abiura”] con la sua presenza, non solo, ma insieme con la sua liberalità, onde più splendida e più solenne ne apparisse. Quel Signore, che alle nobilissime prerogative del sangue accoppiava la nobiltà e la generosità dell'animo, più promise di ciò che fosse richiesto e più mantenne che non promise. Si trasferirono ambidue Vintimiglia, ed ivi concertato il tutto col Vescovo di quell'antica città, prelato, e per pietà di costumi e per grandezza di meriti, degno d'eterni encomi, fecero apparare superbamente la Chiesa, preparare solenne musica e disporre molte altre cose, a rendere più ragguardevole fa festa. Fu forse favorevole che si trovasse allora in quella città, ch'è sua patria, il Padre Angelico Aprosi, accademico eruditissimo, predicatore insigne, scrittore di libri famosi, soggetto per eccellenza di dottrina, per soavità di costumi, e per cento altri titoli, uno dei più ragguardevoli di cui si vanti oggidì la nobilissima religione agostiniana, il quale agli inviti del Padre Egidio accettò di buona voglia il carico di accompagnare con una sua predica adattata al soggetto la solennità di quel giorno.....". E finalmente quel giorno giunse; il Morando ne scrive al cap.VII del romanzo: "...L'accompagnarono [Edemondo ormai guarito] alla città di Ventimiglia, ove il medesimo Padre Egidio col fratello e con altri Signori lietamente l'accolse. La mattina, che all'arrivo di lui successe, riempitasi di spettatori la Cattedra e tapezzata di finissimi arazzi e risonante di musicali concerti, il conte Edemondo, prostrato sopra un tappeto a terra, davanti il Vescovo, Abiurò con alta e chiara voce tutti gli errori di Calvino e recitato poi il simbolo degli Apostoli e la parafrasi sopra di quello di Atanasio Santo fece solenne profession della fede. Indi ergendosi in piedi, con atto magnanimo e risoluto, pose la destra sul pomo della sua spada e giurò di mantenere e col ferro e col sangue, se d'uopo fosse, la verità infallibile della Fede, sotto l'obbedienza di Santa Chiesa Romana. Ciò finito si sentì risonare a piena musica il Rendimento delle grazie secondato dall'applauso e dal giubilo dei Circostanti, ma piu dagli affetti del Convertito. Indi il Padre Angelico Aprosio con Elegantissima orazione, esaltando la Fede, abbattendo l' eresia e lodando il candidato suggellò quella nobilissima azione... ".

3 [Scipio Glareano: pseudonimo di Angelico Aprosio] Lo Scudo di Rinaldo ovvero lo Specchio del disinganno, Venezia, per lo Hertz, 1676; La Grillaia. Curiosità erudite di Scipio Glareano, Accademico Incognito, Geniale, Apatista e Ansioso, Conte Palatino, Napoli, per Novello de Bonis, 1668; tra le opere biblioteconomiche quella che conserva la maggior parte di disquisizioni di costume e di contenuto moraleggiante è certamente La Biblioteca Aprosiana. Passatempo autunnale di Cornelio Aspasio Antiviglimi [altro pseudonimo di Aprosio], tra i Vagabondi di Tabbia detto l'Aggirato, Bologna, per li Manolessi, 1673.

4 In particolare si leggano: Antonietta Ida Fontana, Il P. Aprosio e la morale del ‘600 - note in margine a 4 grilli inediti in "Quaderno dell’Aprosiana", V.S., I, 1984, pp. 9 - 40 e B. Durante, Aprosio Critico e Morale in "Quaderno dell’Aprosiana", V.S., II, 1985, pp. 45 - 66.

5 Sui provvedimenti contro giocatori d'azzardo, bari e truffatori dello stesso "giro" nel genovesato si può leggere: B. Durante - F. Zara, Figliastri di Dio - "...a coda d'una bestia tratto...", CooperS ed., Ventimiglia, 1996, passim : la piaga era comunque molto grave e peraltro molto diffusa tra i soldati della Repubblica di Genova ancora nel pieno XVIII secolo come ci suggerisce lo studio di: L. M. Zignago, Instituti et Ordini militari da osservarsi dalle truppe della Serenissima Repubblica di Genova approvati da' Seren. Collegi per loro Decreto de' 22 Genaro 1722, in Genova, per G.B.Casamara, Nella Piazza delle cinque lampade, 1722 [dal Regolamento delle pene, si legga per esempio il capo 11: "Quelli che giocheranno a giochi di zara in quartiere si manderanno per otto giorni ai ceppi col solo pane e chi avrà guadagnato restituirà al compagno il guadagno e avendo praticato trufferia o inganno restituirà parimenti il denaro e starà un'ora ogni giorno degli otto accennati sul cavallo di legno [leggi "eculeo" = forma di trotura panitaliana].

6 Lo Scudo di Rinaldo parte II si custodisce manoscritto nel "fondo Aprosiano" della Biblioteca Universitaria di Genova (sigla B.U.G.): vi pervenne dopo la mancata realizzazione dell’iniziativa napoleonica, citata nel testo, di un’unica grande Biblioteca Centrale Ligure: ho editato gran parte dell’opera nel "Quaderno dell’Aprosiana", N.S., I, 1992, numero monografico dal titolo Angelico Aprosio il "Ventimiglia": le “carte parlanti d’erudite librarie”, cui si può qui, anche, far riferimento per un’aggiornata bio-bibliografia aprosiana. Il capitolo che interessa questo studio è quindi sviluppato alle pp.57-60 per la I sua parte. Risulta dedicato ad Antonio od Antonino Galeani (? - 28 aprile 1649), canonico e decano della cattedrale di Piacenza, dottore in teologia, autore di poesie in sparse opere ed in particolare di un sonetto preposto alle poesie per la nascita di Alessandro Farnese nel 1610 (L. Mensi, Dizionario biografico piacentino, Piacenza, 1899, p. 192: vedi anche la breve silloge in La Letteratura Italiana - Storia e Testi, Ricciardi ed., Milano-Napoli, 1954, vol. 37 Marino e i Marinisti a cura di G.G.Ferrero, p. 812 sgg.). Il Galeani era noto nel ‘600 per aver scritto La Supplica per la Pace al Serenissimo di Piacenza, Parma etc. raccomandata al Sig. Giacomo Gaufrido Segretario di Stato, Piacenza, per Ardizzoni, 1637. Fu amico tra l’altro di Bernardo Morando, del potente segretario di Stato dei Farnese Jacopo Gaufrido e dell’Aprosio, anche se in B.U.G., Mss.E.VI.9 rimane di lui solo una lettera al "Ventimiglia" dalla data non ben leggibile, da ricondursi comunque agli anni ’40 del secolo. Fu caro all’Aprosio per avere scritto un carme latino esastico sul quadro che il Ridolfi fece del "Ventimiglia" nel 1647 ma non realizzò altro di straordinario per la biblioteca intemelia: stupisce ancor più che l’agostiniano abbia lasciata immutata la dedica a distanza di tanti anni ma forse, viste le tematiche misogine del Galeoni ed il suo probabile appoggio nella polemica antifemminista contro la Tarabotti, tale conservazione può essere un attestato di riconoscenza.

7 Giovanni Domenico Ottonelli (Fanano - Modena 1584 - Firenze 1670) viene qui citato per gli scritti moralistico-religiosi delle sue opere: quando redasse questo capitolo (1656 - 1657) Aprosio però non possedeva ancora dell' Ottonelli il fortunato e controriformistico libello Della pericolosa conversatione con le donne, Firenze, per Franceschini e Logi, 1646 (a p.337, linea 16 del manoscritto genovese dello Scudo di Rinaldo II si legge infatti: "Gio Domenico Ottonelli nel Floriferum de multiplici conversationum genere, ver foeminea, p. 119 e di lui m'imagino sia un libro citato ivi a p. 121 sotto titolo Della pericolosa conversatione con le Donne, impresso in Firenze nel 1646 come che egli non habbia altro fine (essendo Religioso di santissimi costumi) che di estirpare i vitij dal mondo"). Oltre che i libri devozionali menzionati nel testo come a p. 239 Il Peccatore angustiato dalla vicina morte per l'abuso della Fede) l'Aprosio, per altre citazioni, nel suo lavoro non si vale dall'opera principale dell' Ottonelli (Della christiana moderatione del theatro, I, Firenze, per Franceschini e Logi, 1648, II, Firenze, per Bonardi, 1649, III, Firenze, per Franceschini e Logi, 1649, IV, Firenze,per Bonardi, 1652) ma del più pratico, economico e diffuso Compendio dell 'opera della christiana moderatione del teatro. Nella biblioteca intemelia si conservano tuttora i lavori dell'Ottonelli più specificatamente connessi alla storia dell'arte: il Memoriale agli spettatori delle teatrali oscenità (in Firenze, per Sermartelli, Firenze, 1640) ed il Trattato della Pittura, e Scultura, uso et abuso loro (Firenze, per il Bonardi, 1652). In B. U. G., Mss.E.VI.9 si conservano 37 lettere di varia erudizione e di contenuto moralistico inviate all'Aprosio da questo uomo di indubbia cultura negli anni 1659 - 1666, donde si evince che il "Ventimiglia" entrò in possesso delle opere che gli mancavano in questo periodo, fruendo dei meriti acquisiti presso l'Ottonelli dalla circolazione di questo suo inedito Scudo di Rinaldo II: particolare attenzione meritano gli accenni ad una operetta moralistica dell' Ottonelli (tuttora presente in C.B.A. e stampata in Roma nel 1661), L'interrogatorio con le risposte circa le comedie de' moderni comici mercenarii, strutturata, secondo parametri di aperta misoginia, in forma di contraddittorio. Per esempio al "Quesito n. 5" emblematicamente si legge " (Interrogatorio). La Donna porge maggior occasione di peccare all'huomo stando alla finestra o recitando in Teatro? / R(isposta). Recitando in Theatro massimamente se è Comica perita nell'Arte, che con parole e gesti sa ferire & involar i cuori".

8 Da qui al successivo paragrafo il "Ventimiglia" sviluppa sequenze erudite sui danni cagionati dal giuoco a molti patrimoni: a p.230-da linea 7 a linea 15- Aprosio registra anche un'ottava di "un faceto Poeta" di cui non fornisce le referenze bibliografiche (l'ottava, contro la solita buona grafia dei manoscritti aprosiani, come questo già predisposti alla stampa, risulta però, stranamente, scritta in maniera faticosa, con diverse correzioni a penna su lettere e parole vergate in modo abbastanza scorretto: "Gioco siam noi di questa avara etade/ Quanti provar vid 'io da gli Avversari/ Intra COPPE di mensa arme di SPADE/ Et a quanti i BASTON tolser i DENARI./ E se ciò non vi basta udite questo/ Quanti pochi in buon PUNTO han fatto PASSO/ Quanti in tal PUNJO hanno perduto il RESTO/ E quanti RE vidi restarne in ASSO!".

9 Si riferisce al De Lucernis antiquorum reconditis in quattro libri (Venezia, per il Deuchino, 1621): " Al Signor Fortunio Liceto Filosofo Medico e theorico Supremo nell'Atheneo di Padova " cui Aprosio ha già dedicato il capitolo VlII della Grillaia edita nel 1668 intitolato Delle Scuse degli Plagiarij - quando sono colti, come si suol dire, col furto nelle mani.

3 - Trattasi di un repertorio di autori ecclesiastici, per la cui completa interpretazione occorrerebbe un intervento settoriale: grossomodo il frate intemelio riprende tale elenco nella Bibliot. Apros., pp.58-59: un cenno a parte vale per Andrea Alciato, Emblematum liber, Venezia, per il Manuzio, 1546.

4 - L'elenco è una prova degli interessi araldici ed eruditi di Aprosio sul tema degli "Emblemi": Paolo Arese, al secolo Cesare (Cremona 1574 - Tortona 1644) scrisse 7 volumi delle Imprese Sacre, edizione completa in Venezia per il Giunti e Baba, poi in Tortona per il Viola e Calenzani, poi in Genova, 1630 - '49, per il Calenzani (Aprosio cita da questa che possiede nella Biblioteca); Giovanni Ferro, Teatro di Imprese (Venezia, per il Sarzina, 1623) e Ombre apparenti nel Teatro d'Imprese di G.F. illustrate dal medesimo autore, Venezia, senza indicazione tipografo-editore, 1629; Alcibiade Lucarini, Imprese dell'Offitioso Accademico Intronato, 2 vol., Siena, per il Gori, 1628 - '29; Scipione Bargagli, Dell'Imprese I parte, Siena, per il Bonetti, 1578, II - III parte, Venezia, per Francesco de' Franceschi, 1594 (con diverse RISTAMPE; Paolo Giovio, in particolare alludendo al Dialogo delle Imprese militari e amorose, Roma, per A.Barre, 1555; Girolamo Ruscelli, Le Imprese illustri, con espositioni et discorsi, Venezia, per Francesco Rampazetto, 1566, edizione ampliata in Venezia, per Comin da Trino, 1572; Luca Contile, I Ragionamenti sopra la proprietà delle Imprese, Pavia, per il Bartoli, 1564; Bartolomeo Taegio [ca. 1520-1573] fu un Letterato e giureconsulto nato a Milano intorno al 1520 e morto nel 1573. Fondò a Novara l'Accademia dei Pastori di Agogna, in cui era detto Vitauro. Fu vicario generale di Milano e governatore della Riviera all'isola d'Orta. Nei testi i suoi dati onomastici variano: Bartolomeo Taegio; Bartolomeo Taegio detto Vitauro; Bartholomaeus Taegius. L'Aprosio lo valuta interessante verisimilmente per le opere Orazione nel principio dell'Accademia dei Pastori, Novara, per il Sesalli, 1554 e Liceo...dove si ragiona dell'ordine delle Accademie et della Nobiltà, Milano, per il Pontio, 1571; Giulio Cesare Capaccio che interpretò singolarmente gli Emblemata dell'Alciato, sviluppando una concezione aristocratica della letteratura ed una teorizzazione di uno Stato clericale, ne Il Principe, Venezia, per il Barezzi, 1620 (Aprosio dovrebbe citare a mente perché non risulta aver mai posseduta tal opera: nella sua Biblioteca, del Capaccio si conservava solo Delle Prediche Quadragesimali, in Venezia, per Fabio e Agostino Zoppini Fratelli, 1564, in 8°); Scipione Ammirato, Il Rota ovvero delle Imprese, Napoli, per G. M. Scoto, 1562.5 - Francesco Bracciolini (Pistoia 1566 - 1645) era soprattutto famoso per questo poema eroicomico edito in Firenze dai Giunti nel 1618 circa 4 anni prima della Secchia rapita del Tassoni, che era pur circolata per Roma in forma manoscritta, pubblicata invece nel 1622 a Parigi per lo stampatore Tussan du Bray sotto lo pseudonimo d'Androvinci Melisone.

6 - Giovan Battista Lalli (Norcia 1572-ivi 1637), autore di poemi eroicomici, qui citato per L 'Eneide Travestita (imprimatur in Editio Princeps, Roma, 1633 -rarissima- e in 2 edizioni per gli eredi del Facciotti, 1634: seguono edizioni a Venezia e Macerata negli anni 1635, 1651, 1675. Appena un anno dopo la morte di Aprosio, a testimonianza di un duraturo successo di pubblico, viene editata a Venezia, per Stefano Curti, un'ulteriore edizione (in 8°) di buona qualità: si veda G.Mombelli, Gli annali delle edizioni virgiliane, Firenze, 1954, p.327 nn. 1548-1551). Il frate ventimigliese risulta attratto dall'agile e spesso lubrica versificazione del Lalli; per intendere il gioco celle allusioni concettose basta iperaltro sbirciarne l’ “attaccatura” del "Proemio": "Io canto l'arme, e'l bravo capitano / d'una Troia figliuol, che al Tebro venne. / E per terra, e per mar, con tempo strano, / Fortune del gran Diavolo sostenne ". Aprosio non ha certo torto a ritenere quest'opera, senza dubbio accattivante, un buon deterrente contro ozio, noia e tentazioni del gioco d'azzardo ma, d'altro canto, da uomo di mondo sa altrettanto bene che è arduo parlare a chi non vuole intendere: questo crescente stato d'animo, permeato di malinconico pessimismo sulle reali possibilità di riscatto dall'umana debolezza, finisce col permeare il suo discorso, specie verso la fine del capitolo, quando esplicitamente, pur richiamandoli severamente ai doveri spirituali e a nobili letture, deve pur riconoscere che pure non pochi ecclesiastici si dedicano al pericoloso trastullo delle scommesse, coi giochi delle carte e dei dadi. Poco più oltre nel testo dello Scudo di Rinaldo II, dello stesso autore, Aprosio cita due altre opere di cui apprezza la naturale vivezza: si tratta della Moscheide overo Domiziano moschicida (Venezia, per il Sarzina, 1624) e della Franceide (Ibid. 1629): edite criticamente da G.Rua, Torino, 1927. Nella Moscheide, traendo spunto da una notizia di Svetonio, il Lalli racconta come le mosche si fossero vendicate di Domiziano, che si divertiva ad acchiapparle per poi trafiggerle con un acutissimo stilo, mentre nella Franceide facendo interagire, secondo modulazioni care al "Ventimiglia", la divulgazione scientifica, il vezzo d'arte e gli argomenti piccanti, sono descritte genesi, guasti e vicende relative alla diffusione della sifilide o mal francese. Oltre che che ad Anton Francesco Doni (edizione veneziana della Libraria del 1580, par. l, carta 41, a tergo, dove leggesi "sfumare il grillo" per "sfogar la mente o la penna") Aprosio, come lascia intendere a p.7 della Grillaia si ispirò, per il titolo e la caratteristica nominazione dei capitoli, proprio al Lalli che nel proemio della Moscheide invoca curiosamente i "grilli" come sue Muse (si veda: A.Orvieto, I poemetti del Lalli, in Il Marzocco, 1928, n. 2).
Bartolomeo Bocchini (Bologna 1604 - m. 1648 / 1653) figlio di Giovan Battista si dedicò soprattutto al teatro ed alla pittura col nome d'arte di Zan Mussina. Dipinse spesso Zanni ed altri soggetti di teatro: compose pure testi per le scene ed il poema eroicomico, qui menzionato dall'Aprosio, Le Pazzie de' Savi overo: Il Lambertaccio (Venezia, per il Bertani, 1641): si veda D.Ortisi, Le pazzie de' savi ovvero Il Lambertaccio di G.Bocchini in It., XXII, 1955, pp. 248-258).

7 - Piero de' Bardi (nato prima del 1570 e morto dopo il 1600) = vedi aprosiana Visiera Alzata a pagina 41 (pseudonimo Carlo Fioretti).
Egli scrisse il poema eroicomico Avino, Avolio, Otone e Berlinghieri, più noto sotto il titolo di Poemone (Firenze, 1643) che in qualche modo precede Forteguerri sulla strada che porterà al Ricciardetto (vedi: F.Foffano, Un secentista plagiario dell'Aretino, in Miscellanea Scherillo-Negri, Milano, 1904).
Fra questi autori eroicomici l'Aprosio non cita Giuseppe Berneri (Roma 1634 - 1701) il cui Meo Patacca uscì dalle stamperie quasi 15 anni dopo la morte del "Ventimiglia" (che ebbe comunque occasione di contattarlo per ragguagli sulla sua primigenia produzione teatrale = 1 lettera del Berneri del 1677, in B.U.G., Mss.E.VI. 10., in merito particolarmente a La Susanna Vergine e Martire del 1675, in Bologna, per il Longhi) mentre usa sporadicamente (p.334 per es.) Giulio Cesare Cortese di cui possiede l'edizione del 1612 (Napoli, per T.Longo) della Vaiasseide (Canto III, st.21).

8 - Giovanni Francesco Negri (Bologna 1593 - 1659) architetto (fu autore della pianta della chiesa dei Gesuiti in Bologna) e pittore bolognese, figlio di Giovanni Battista e Caterina Cipolli, conosciuto nel secolo anche come letterato e fondatore nel 1640 dell'Accademia petroniana degli Indomiti che tenne in casa sua le prime adunanze: raggiunse discreta fama per la traduzione in dialetto bolognese della Gerusalemme Liberata, con il titolo La Gerusalemme Liberata/ del Signor Torquato Tasso/ tradotta in lingua popolare antica/ di Bologna per Gio. Francesco Negri/ pittore con l'originale a canto per comodità/ di chi legge e le annotazioni a ciaschedun/ canto al di Fabritio Alodnarim./ All'Eminentissimo e Reverendissimo Signore/ Cardinale Spada, mai stampata (ma fatta circolare in copie fra gli eruditi italiani) e conservata in diversi esemplari presso la Biblioteca Comunale dell'Archiginnasio di Bologna ed in quella Universitaria (Denise Aricò, Il Patetico grottesco - "La Gerusalemme Liberata" Bolognese di Gio. Francesco Negri in "Studi Secenteschi", XXVI - 1985: parte di pubblicazione, interrotta alle ottave del canto XIII, "in folio" avvenne per l'Orlandi a Bologna nel 1628) Allievo per due anni in Venezia del più celebre Odoardo Fialetti, autore degli inediti Annali delle Storia di Bologna e delle Crociate, il Negri fu considerato un eccellente ritrattista meritandosi ii nome di "Negri de' ritratti" (G.C.Malvasia, La Felsina Pittrice. Vite de' pittori bolognesi per l'edizione bolognese -184 1- del Guidi all'Ancora, parte II, pp. 236 - 237 = Le Glorie de gli Incogniti o vero gli huomini Illustri de' Signori Incogniti di Venetia, in Venetia, appresso Francesco Valvasense, 1647, pp.163 - 164): per il suo "museo pittorico" fece un ritratto di Angelico Aprosio poco prima di metà XVII secolo: come si evince dalla lettura del capitolo XXXII della Grillaia, Aprosio, cui il Negri - presso il quale il frate anche soggiornò essendo in viaggio per Roma aveva donato alcuni suoi sonetti in dialetto bolognese e suggerito nel 1651 il titolo del "Grillo" ovvero Serie degli Imperatori Romani, chiede al figlio Bianco Negri che gli spedisca come promesso dal padre il di lui ritratto e copia di un'opera in poesia, la "Guerra Sacra", da Francesco fatta stampare poco prima della morte. Peraltro, alle sollecitezioni in merito dell'Aprosio, lo stesso Francesco Negri aveva risposto con una lettera scritta da Bologna il 10-III-1659 poco tempo prima di morire ove si legge: "m'hanno fatto indugiare la dovuta risposta alla gentilissima lettera di V.S. le Chiragre [intendi “chiragra”=grecismo medico per indicare una forma di gotta che colpisce le mani], cha tutto questo Inverno m'hanno tenuto in letto, e le molte occupationi dopo cessate. Hora che posso, rispondo, rendendole infinite gra tie della memoria, che tiene id'un suo servitore. E quanto alla sodisfatione di mandarle il mio ritratto, procurarò di servirla: che quando potrò levarmi di letto, dove sono dal giorno di S.Luca in qua, ne farò uno nell'età, che mi trovo e gliene invierò un transunto, sì come ancora accoppiarò la Guerra Sacra che già cantai grezzamente, con la Historia di essa, che ho raccolta e fatta stampare ma non ancora publicata, e fin tanto che la Dedicatoria non sarà presentata al Papa non si publicarà (allude alla Prima Crociata, overo lega di militie christiane segnalate di Croce Liberatrice del Sacro Sepolcro di GIESU' Christo, e del regno di Terra Santa, stampata a Bologna dal 1658 dal Ferroni). Che è quanto m'occorre dirle con angustia di tempo, mentre per fine la riverisco./ Bologna li 10 Marzo 1659/ Di V.S.& Humilissimo divotissimo e cordialissimo servitore/ Gio. Francesco Negri " (B. U. G., Manoscritti Aprosiani: lettera, sotto data, di Francesco Negri; regesto in Fontana, Indice...cit., sotto voce): Bianco Negri, verisimilmente verso la fine del 1668, mandò poi un ritratto paterno da mettersi nella Pinacoteca aprosiana in Ventimiglia assieme al libro richiesto Prima Crociata, overo Lega di Militie Christiane, segnalate di Croce, Liberatrice del Sacro Sepolcro di Giesù Christo e del Regno di Terrasanta. Raccolta da Gio. Francesco Negri Bolognese. In Bologna, presso G.B.Ferro, 1658 (in folio). L'altro figlio Alessandro, Protonotaro apostolico e Canonico della Collegiata di S.Petronio in Bologna, "fautore dell'Aprosiana" e studioso di monumenti antichi donò inoltre al Ventimiglia Maniliani Bononionsi Monumenti Historico Mystica Lectio, Interprete Alexandro Nigro, lo. Francisci Filio l.V.D. Perinsignis Collegiatae Ecclesiae Bonon. Canonico, Protonotaro Apostolico, Bononiae, Typis HH. de Ducijs, 1661, in 4° (Alessandro aveva anche fatto fare un suo ritratto da donare alla Biblioteca dell'Aprosio per risultar effigiato a fianco del padre ma dopo la sua precoce morte nel 1661 -registrata in Bibliot.Apros. p.315- la trascuratezza del fratello Bianco fece si che l'opera, mai giungesse in mano del bibliotecario intemelio).

9 - A riguardo dell'amico e corrispondente Gian Francesco Loredan (Venezia 1606 - Peschiera del Garda Verona 1661) fondatore nel 1630 dell'Accademia degli Incogniti Aprosio cita la protasi dell'Iliade Giocosa (Venezia, per il Guerigli 1661), che è un rifacimento burlesco in ottave del poema omerico.

10 - Il l poeta marinista Scipione Herrico od Errico (Messina 1592 - ivi 1670), tra l'altro accademico Incognito, Ozioso e membro eminente della Fucina di Messina oltre che amico (conosciuto a Venezia) e corrispondente di Aprosio, vien qui menzionato non, come ci si aspetterebbe, per l'antistiglianeo Occhiale appannato (Messina, per Bianco 1629), ma per i poemi eroici La Babilonia distrutta (Venezia, per Tozzi, 1624) e Della Guerra Troiana del 1642, in sintonia colle indicazioni aprosiane sulla letteratura storico-mitologica e sui suoi volgarizzamenti. Il frate agostiniano allude altresì agli interessi politici di quello, facendo riferimento agli interventi polemici contro il Sarpi che pubblicò anche sotto nome di Teologo Aquilano (dall'Antisquitinio edito in Messina nel 1653 alla Censura theologica, Dillingen, per il Mayer 1654 poi tuttavia contraddetta dal De tribus scriptoribus historiae Concilii tridentini, Amsterdam, per Weyerstraten 1662) e al romanzo Le Guerre di Parnaso (Venezia, 1644) parodia delle Guerre di Fiandra del Bentivoglio ove immagina che lo Stigliani con un'armata di scrittori muova guerra al Marino, venendone però sconfitto.

11 - Angelo Ingegneri nacque a Venezia nel 1550 e morì nella stessa città nel 1613. Non si hanno molte notizie sulla sua vita. Tradusse nel 1572 Ovidio in ottava rima (Rimedi contra l’amore, e nel 1578 ebbe modo di conoscere Tasso a Torino. Nel 1581 curò la stampa della Gerusalemme liberata e (nel 1608 avrebbe fatto pubblicare le tassiane Sette giornate del mondo creato).
Si dedicò a tutt’altro nel 1585, quando fu chiamato a Guastalla da Ferrante II Gonzaga per aprire un opificio per la fabbricazione del sapone.
Ulteriori notizie biografiche lo vedono ancora a Guastalla nell’87, in prigione per debiti. Si trasferì poi a Roma, al servizio del cardinale Aldobrandini, e scrisse il trattato Del buon segretario (Roma, 1594).
Fu in seguito a servizio del duca di Urbino e dei Savoia.
Partecipò alla polemica sul dramma pastorale, aperta da Guarini, con il Discorso della poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole sceniche.
Scrisse anche un Discorso delle lettere famigliari (Viterbo, 1607) e una commedia dal titolo Tomiri (Napoli, 1607).
Aprosio qui cita dalla sua traduzione dei Rimedi contro l'amore di Ovidio in ottava rima edita in Avignone per Pietro Rosso nel 1572.
Il frate intemelio dell'lngegneri conosceva però soprattutto i Versi Venetiani d'Anzolo Inzegner, in Vicenza, per il Brescia, 1613, in 12°.
Alla Civica Biblioteca Aprosiana si custodisce tuttora:
Danza di Venere, boschereccia singolare del Sig. Angelo Ingegneri ..., In Vicenza : per Dominico Amadio, 1613. - 117 p. ; 12°
Dato il rilievo assunto nella storia teatrale si propone qui, da raccolta privata, la digitalizzazione informatica del testo:
- [ANGELO INGEGNERI]
DISCORSO DELLA POESIA RAPPRESENTATIVA E DEL MODO DI RAPPRESENTARE LA FAVOLE SCENICHE.
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A Roma tra i giochi da tavolo, quindi fra quelli che potevano prestarsi a diventare giochi d'azzardo e scommesse, si possono ascrivere quello, quasi istituzionale, della "morra", quello degli astragali (tali), dei dadi (tesserae), comprtavano un maggior tipo di riflessione altri giochi come il ludus latrunculorum, dove un poco come nella nostra dama o per altri nel gioco degli scacchi, i due avversari dovevano spostare, su una tabula lusoria, le pedine (milites o bellatores) fino a raggiungere lo scopo di porre quelle avversarie nella condizione di stallo (di qui una supposta influenza -sotto forma di variante- dell'antico gioco degli scacchi).
Un gioco i cui dettagli non sono stati ancora chiariti [vedi per un approfondimento anche bibliografico Albintimilium... (p.108)], ma che forse era simile alla nostra "scala reale" era quello detto dei duodecim scripta ove, in base ai risultati dei dadi gettati, quindici pezzi per giocatore si facevano avanzare o retrocedere su tavole divise con dodici linee verticali centralmente attraversate da una linea orizzontale.
Si trattava certamente di un giuoco di tavole e pedine ma nell'orlo superiore delle tavole erano spesso incise, su tre linee di dodici lettere ciascuna, alcune parole guida, generalmente sei di sei lettere ciascuna in omaggio ad una certa tendenza romana per bizzarre ed ancora misteriose ragioni di elocubrazione linguistia, la più elementare delle quali suona "anche se la sorte dei dadi ti è favorevole, io ti vincerò con la riflessione".
Il rapporto tra dadi, tessere e parole nonostante gli studi del Lamer (PAULY - WISSOWA, Real-Encyckl., XIII, col. 1900 sotto voce lusoria tabula) non è chiaro: ma risulta evidente, grazie alla buona conoscenza di lettura e scrittura, che i Romani gustavano anche le composizioni linguistiche ed enigmistiche.
Contrariamente al quadro scorretto ed enfatizzato verso il male proposto da diverse fonti attraverso i secoli (non esclusa in epoche recentissime una pessima cinematografia d'evasione) la legge romana perseguiva i giuochi d'azzardo che risultavano consentiti solo durante i Saturnalia e le feste carnevalesche.
Come accade oggi la legge non riconosceva al creditore di esigere il debito ed anzi concedeva al debitore il diritto di richiedere giudizialmente la restituzione di quanto avesse pagato a causa di una perdita nel gioco d'azzardo (cosa quest'ultima che invece non accade per la nostra legge).
Con il termine alea si indicavano genericamente tutti i giochi d'azzardo.
Contro i trucchi dei molti ed esperti "bari" (vedi Marziale, XIV, 16) si prese l'abitudine di usare un bussolotto (pyrgus o turricula) per gettare su una tavola da gioco (tabula aleatoria) i dadi e gli ATRAGALI. Questi ultimi erano ossicini e oggetti di vario materiale, allungati e stretti con solo quattro facce utili, rettangolari: le quattro facce valevano uno, tre, quattro e sei punti.
Si giocava con quattro astragali e la massima combinazione vincente (fra le 35 possibili) era il venus o tractus Venerius quando cioè le facce dei quattro pezzi mostravano numeri diversi (1, 3, 4, 6 = vedi Marziale, XIV, 14). I dadi offrivano le attuali varianti ed erano d'osso o d'avorio: l'"uno" era detto canis e si gettavano sul tavolo a due o tre per volta.






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CODICE GEMATRICO od anche CODICE GEMATRICO DI COMUNICAZIONE come scrive con affascinante competenza Nicolò Palmarini studiando il MOSAICO del BATTISTERO DI ALBENGA a titolo di prolusione scrive quanto segue:
"Quanto alla gematria, siamo di fronte ad un termine tecnico e ad una nozione più complessa.
Il termine ricorre nella esegesi rabbinica ed è di derivazione greca, ma incerta e discussa è la sua etimologia. L'incertezza dipende dal fatto che le parole straniere, assunte in una lingua semitica (nella quale le vocali non fanno parte dell'alfabeto, né, quindi, fanno parte della radice di una parola ) si deformano facilmente. Ecco qualche esempio: la parola greca synédrion =sinedrio diventa in ebraico sanhedrin; Aigyptios=egiziano diventa in arabo Kopto; la Neapolis di Palestina è in arabo Nablus (1) .
Da questo fatto dipende la diversa etimologia data alla parola. Per alcuni studiosi gematria deriva da gheometria =geometria, con allargamento del significato primitivo; per altri, invece e forse a ragione deriva da grammatèia nel senso di gioco di parole, qualcosa come i nostri cruciverba.
Qualunque sia la vera etimologia, gematria designa un particolare metodo d'interpretazione della Bibbia, proprio dei rabbini, che parte dal fatto che anticamente le lettere dell'alfabeto fenicio/ebraico antico (come quelle dell'alfabeto greco) servivano anche per scrivere i numeri (2).
Le lettere, prese come numeri, si potevano computare e quindi sapere qual fosse il valore numerico delle consonanti di un dato nome. Un esempio: il numero 14 è il valore numerico del nome DaWiD, perché le consonanti ebraiche D (daleth), W (vau) e D (daleth) hanno rispettivamente il valore di 4,6,4=14. Le vocali, come s'è detto, non figurano nell'alfabeto ebraico e non potevano servire per scrivere i numeri (3).
Le prime nove lettere servivano, per gli Ebrei, per scrivere i primi nove numeri, le unità; le nove lettere successive, per scrivere le decine; le rimanenti per le centinaia. Per scrivere cifre superiori, si ricorreva ad altre combinazioni.
A volte, sotto il valore numerico di un nome si poteva celare un senso più o meno misterioso. Il nome del factotum di Abramo, Eliezer, per esempio, costituisce un caso curioso: il valore numerico delle lettere ebraiche di Eliezer è 318, che è -guarda caso!- il numero dei servi, con i quali Abramo attaccò i quattro re d'Oriente che avevano fatto prigioniero Lot e la sua famiglia (cfr. Genesi 14,14) (4).
Ora, quando si doveva calcolare il valore numerico di un nome determinato, come Eliezer e David, non potevano nascere problemi: bastava addizionare i numeri espressi dalle varie lettere e si otteneva il numero proprio di una persona.
Quando, al contrario, si dava un numero e non un nome, e si pretendeva che fosse individuato il personaggio che si nascondeva sotto quel numero, allora la cosa diventava estremamente complicata; si diceva appunto sopsefia (uguale valore numerico) questo caso, ed è evidente che sotto un numero potevano essere compresi innumerevoli nomi. Un caso classico di questo tipo ricorre nell' Apocalisse di S. Giovanni....
Giovanni dà, come numero e nome della Bestia o Anticristo, il numero 666 e aggiunge: 'Chi ha intelligenza calcoli il numero della Bestia; esso infatti è un numero di uomo' (Apoc. 13,18). Fin dall'antichità molti si sono sbizzarriti per scoprire la persona a cui voleva alludere il Veggente, ma senza raggiungere alcuna unanimità (5). Oggi per lo più ci si appaga di considerare il numero 666 come simbolo di massima imperfezione, in quanto per gli Ebrei il numero perfetto era il 7; sicché, il 6, mancando di un'unità per raggiungere il 7, era considerato imperfetto: l'avere tre volte un'imperfezione significava averla in modo superlativo (6).
La gematria, se usata arbitrariamente, apriva la strada alle più audaci interpretazioni. Non per nulla da essa derivò la kabbalàh (=tradizione).
Un metodo particolare di gematria consisteva nello scomporre le parole in sillabe, anziché in lettere singole; era detto notarikòn: le singole sillabe venivano interpretate come sigle di altre parole, dando luogo a sensi curiosi (7).
Non dobbiamo però pensare che il considerare i numeri come qualcosa di misterioso o mistico fosse una particolarità degli Ebrei. L'orientalista francescano P. Emanuele Testa, autore di un 'opera scientifica in materia, scrive: 'I Giudeo-Cristiani ebbero i propri numeri sacri e accettarono dalla Sinagoga (cioè, dai rabbini) e dal mondo ellenistico e orientale (Pitagora, Platone, Assiri, Babilonesi) un vero sistema di crittografia numerica(gematria, isopsefia) per manifestare le proprie credenze e la propria fede'.
Pitagora fece addirittura dei numeri l'Arché dell'universo.
Gli antichi distinguevano i numeri in diverse classi:
a) numeri primitivi, scritti, per così dire, nel corpo umano, come il n.10: dieci dita (donde il sistema decimale).
b) numeri cosmici, letti nelle realtà del mondo e nelle loro evoluzioni: sole, luna, stelle; anno solare, mese lunare, numero 7, numero di perfezione perché dedotto, a quanto pare, dal periodo di 28 giorni nei quali la luna è visibile; il 7 sarebbe il risultato di 28 diviso per 4, cioè le 4 fasi della luna.
c) numeri convenzionali o generici, stabiliti in base all'osservazione e all'esperienza comune, come i 4 punti cardinali, il 40 come durata media di una generazione ecc.
La riflessione sapienziale sui numeri e sui 1oro rapporti agevolò l'attribuzione a certi numeri di speciali valori simbolici: fausti-nefasti ecc.
Non si creda però che la gematria fosse per gli antichi così abnorme come è per noi: essi erano abituati a leggere i numeri nelle lettere dell'alfabeto e quindi anche i valori convenzionali ad esse attribuiti.





1-Anche da noi certe parole latine diventano irriconoscibili nel passaggio all'italiano: Forum Livii= Forlì; Caput Trium Amnium (origine di tre torrenti) diventa: Capestrano!

2- E' risaputo che le cosidette cifre arabiche (chiamate dagli Arabi cifre indiane, perché da essi prese dall'India) furono introdotte in Occidente attraverso la Spagna nei secc. XI-XII d.Cr.

3- Nel vangelo di Matteo (c.1,17) la genealogia di Gesù è tutta inperniata sul numero 14, che è il valore numerico delle consonanti ebraiche di DaWiD, grande re d'Israele e centro ideale della genealogia. Le tre serie di antenati sono ognuna di 14 nomi.

4-E' evidente che in questi casi il dato numerico è da prendere più come simbolo, che come realtà storica. Ai tempi di Abramo (c. 1800 av. Cr.) come si ricava dalle posteriori Lettere di Tell el-Amarna (sec. XIV av. Cr.), gli eserciti erano spesso di poche diecine o al più qualche centinaio di soldati.

5 -IRENEO, Adversus Haereses, V, 30, 1 - 3: dà parecchie parole col valore di 666.

6-Nel numero 666, oltre al significato generico di massima imperfezione, si è pure visto, non senza qualche probabilità, la frase ebraica Nrwn Qsr (Neron Qesar=il Cesare Nerone): il valore numerico complessivo delle lettere ebraiche dà appunto 666 (Nel I sec. Nerone era spesso visto come tipo dell' Anticristo).

7-Nel libro mosaico dei Numeri (11,81) si legge: 'La manna aveva il sapore di pasta all'olio'. La parola Leshad (succo dolce: 'qualcosa di dolce che si lecca'; pane all'olio) veniva così scomposta e interpretata dai rabbini: L: layish = pasta; sh: shèmen = olio; d: dabàsh = miele; il tutto veniva reso così: 'pasta all'olio ricoperta di miele'. Tra i Cristiani era notissimo il notarikòn di Ichthus (pesce); le singole lettere, interpretate come sigle di diversi nomi, diventavano una professione di fede: I: Iesous; Ch: Christòs; Th: Theou; Y.: Yiòs; S.: Sotèr = 'Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore'. Un esempio curioso di notarikòn si ha nell'etimologia medievale data alla parola Cadaver (=cadavere), scompota in sillabe: CA: caro; DA: data; VER: vermibus ('carne data al vermi')".







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