cultura barocca
Un antico laboratorio di distillazione e qui leggi un relativamente recente testo digitalizzato su lavanda e sua distillazione [con uno sguardo ai vecchi laboratori di distillazione di profumi in Vallecrosia (IM)] = analizza quindi le riflessioni su Lavanda e Medici Paracelsiani o ritorna a "vita sociale, rustica e antropologia" in Cultura-Barocca = Consulta qui l'Indice per voci tematiche
LAVANDA Il MITO DELLA PANACEA = LA RICERCA DELLA TRIACA/TERIACA E NON SOLO NEI "SECOLI DEI VELENI": vedi anche TRACCE DI CULTURA SCIAMANICA, con altre piante, attribuito alla lavanda: magia bianca - magia nera collegata alla lavanda (nel contesto dei riferimenti ad altre piante un cenno all'uso di alcune come segnali onorifici nella classicità)

LAVANDA: PIANTA DI UN'ANTICA STORIA RURALE
(LEGGI DIRETTAMENTE QUI TUTTO IL SOTTOSTANTE TESTO MULTIMEDIALE SENZA L'USO DEGLI INDICI)

INDICE
VOCI SPECIFICHE (voci specifiche, in ordine alfabetico/ tematico) ed INTEGRAZIONI (entro parentesi quadre)

-
[UNA PIANTA DI USO ANTICHISSIMO CHE AFFONDA LE SUE RADICI NELLA CULTURA SCIAMANICA E NEL PAGANESIMO OLTRE CHE POI NEL MAGISMO]
- [CENNI ANTICHI SULLA LAVANDA E LA DIFFICOLTA' DI FISSARE UN TERMINE UNICO = ANALIZZA COMUNQUE QUI LA COMPLESSA ETIMOLOGIA DELLA VOCE "LAVANDA"]
-AZIONE CURATIVA DELLA LAVANDA IN MEDICINA ED IN VETERINARIA = IL MEDICUS CASTRENSIS, IL MARSUS, L'OSPEDALE MILITARE ROMANO E LA SUA INFLUENZE SULLA MEDICINA FUTURA GARANTITE DALL'USO DI LAVANDA E "NARDO DELLA GALLIA": IL MAGISTERO DI PLINIO IL VECCHIO.
-AZIONE CURATIVA DELLA LAVANDA IN MEDICINA POPOLARE (FORMULE EFFICACI DI ERBORISTERIA).
-CENNI STORICI SULLA LAVANDA IN GENERALE.
-AZIONE INSETTICIDA E TERMICIDA DELLA LAVANDA.
-[ERBORISTERIA - FITOTERAPIA = LIGURIA ED ALPI MARITTIME: L'IMPORTANZA DEI MONACI BENEDETTINI PER LA DIFFUSIONE DELLA LAVANDA E I PROCESSI DI DISTILLAZIONE : DALLA "CULTURA DELLA GRANGIA" AI "TERRAZZAMENTI DEI MACIERI" (MURI A SECCO)]
-[IL PONENTE DI LIGURIA E L'ERBORISTERIA = UNA STORIA IMPORTANTE DEL '500 E DEL '600 OGGI ABBASTANZA SCONOSCIUTA MA DA RIVISITARE = UN ESEMPIO FRA TANTI POSSIBILI: AREALE VALLECROSIA - BORDIGHERA - SEBORGA - PERINALDO - ZONE VALLIVE CONNESSE ED UN INTERESSANTE VIAGGIO IPERTESTUALE NELLA CIVILTA' DELLA GRANGIA E QUINDI DEI MACIERI]
-[LA LAVANDA NEL CONTESTO DELLE COSTUMANZE DELLA CULTURA RUSTICA E CONTADINA ATTRAVERSO I MILLENNI]
-[LA LAVANDA DALL'ALCHIMIA ALLA DISTILLAZIONE = VEDI OPERE DI RIZOTOMI, AROMATARI, ERBORISTI, SAVIE DONNE, MEDICHESSE MA ANALIZZA ANCHE COME LA SUPERSTIZIONE TRASFORMO' LE "SAVIE DONNE IN "STREGHE", PERSEGUITANDONE L'OPERA = VEDI PURE QUI
DAL "GIARDINO DEI SEMPLICI"
ALLA RICERCA SPONTANEA AI MEDICI PARACELSIANI =
1 -
Tutte le opere digitalizzate di = ZEFIRIELE TOMASO BOVIO (1521-1609): medico empirico, alchimista e cabalista veronese, anche attivo tra Genova - Savona - Ponente Ligure
2 - Il MONTE BALDO "Paradiso degli Aromatari"; alcune località di Liguria, Savona, Pontinvrea, Sassello, Ponente Ligure, Dolceacqua ecc., ritenute importanti per la ricerca degli erboristi [Viaggiò tra Marsiglia, Genova e Livorno il celebre scienziato danese Heinrich Fuiren ed al pari di Zefiriele T. Bovio apprezzò e stimò le qualità erboristiche e fitoterapeutiche della Liguria e del suo Ponente come leggesi in questo manoscritto = un peccato che entrambi non abbiano verosimilmente a differenza d'altri erboristi, alchimisti ed aromatarii esplorato il Bosco di Gouta che forse avrebbero trovato degno del Monte Baldo]
3 - Genio o millantatore? LEONARDO FORAVANTI = medico paracelsiano ed alchimista del XVI sec. (digitalizzazione integrale della sua celebre opera La Cirugia...)]

-ERBORISTERIA SCIENTIFICA SULLA LAVANDA
-[VEDI LA VOCE DISTILLAZIONE COMPRESA L'ANTICA E RARA STAMPA QUI PROPOSTA SU UN LABORATORIO DI DISTILLAZIONE IN GENERALE DEI TEMPI REMOTI = QUINDI CONSULTA IL VOLUME DISTILLAZIONE PARZIALMENTE DIGITALIZZATO DI MATTEO DA PONTE (1931, HOEPLI, MILANO) = NELLO SPECIFICO ANALIZZA LE VOCI "STORIA DELLA DISTILLAZIONE" E QUINDI SPECIFICAMENTE LA VOCE "COLTURA DELLA LAVANDA ED ESTRAZIONE DELL'ESSENZA" E QUINDI L'INCIPIT DELLA TRATTAZIONE MACCHINARI - METODI DI DISTILLAZIONE]
-["STABILIMENTO ITALO FRANCESE - PROFUMI E PRODOTTI CHIMICI" (CLICCA E APPROFONDISCI) DI VALLECROSIA DIRETTO DAL PROF. GUIDO ROVESTI E DAL CHIMICO DOTT. PAOLO ROVESTI STRUTTURATA PER LA DISTILLAZIONE INDUSTRIALE DEI FIORI E LA REALIZZAZIONE DI ESSENZE PROFUMATE E NON SOLO]
-[ANCORA NEL XVIII - XIX SECOLO COME SI LEGGE NEL MEDICO MANOSCRITTO WENZEL (REDATTO NEL PONENTE DI LIGURIA) TRA LE RICETTE PROPOSTE PER VARIE PATOLOGIE SI CONSIGLIAVA L'USO DELLA LAVANDA IN DERMOTERAPIA]

-FOLKLORE E TRADIZIONI SULLA LAVANDA
-LA LAVANDA NELL'ERBARIO MEDIEVALE DI S.ILDEGARDA.
-LA LAVANDA LATIFOGLIA E L'OFFICINALE: I RISCHI STORICI DI UNA CONFUSIONE.
-LAVANDA OFFICINALIS E LATIFOLIA NELLA DISTINZIONE DI LINNEO E QUINDI DEI BOTANICI SISTEMATICI.
-L'ANTICHISSIMA LAVANDA ITALIANA: LA LAVANDULA STOECHAS
-LAVANDA NOME EMBLEMATICO DERIVATO DA "LAVARE".
-LE DUE "LAVANDE ITALIANE" DI LIMITATA IMPORTANZA
-LE DUE "LAVANDE ITALIANE" DI MAGGIORE IMPORTANZA
-LAVANDULA DENTATA: LO "SPIGONARDO"
-LAVANDULA LATIFOGLIA
-LAVANDULA MULTIFICADA.
-LAVANDULA OFFICINALIS
-LAVANDULA OFFICINALIS: LA "PRODUZIONE DI OLII ESSENZIALI".
-LAVANDULA STOECHAS: L'ESSENZA RICAVATA DALLA DISTILLAZIONE SUE PROPRIETA'
-LE NUMEROSE SPECI DI LAVANDA E LA LORO AREA COLTURALE
-LE SPECI DI LAVANDA IN ITALIA
-L'"ESSENZA" DI LAVANDULA OFFICINALIS.
-L'IBRIDO PER ECCELLENZA: IL LAVANDINO.
-L'IBRIDO PER ECCELLENZA: IL LAVANDINO E LA "DISTILLAZIONE DELLA SUA ESSENZA".
-PROBLEMI COLTURALI DELLA LAVANDA NELL'IMPERIESE: MALATTIE, RIMEDI, ALTERNATIVE.
- (LE) TECNICHE DI DISTILLAZIONE ATTRAVERSO I SECOLI SIN AI GIORNI ODIERNI: DALL'ARTIGIANATO ALL'INDUSTRIA.
-CULTURA SCIAMANICA = TRACCE DI "CULTURA SCIAMANICA" COLLEGATE ALL'USO DELLA LAVANDA = IL "BALLO DELLA MORTE"
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- USO DELLA LAVANDA IN PRATICHE DI MAGIA BIANCA E DI MAGIA NERA.
- USO DELLA LAVANDA E DELLO SPIGO IN FORMULE "MAGICHE" E/O "FILTRI".

- UN PONTE E' COME L'ARCOBALENO, TALORA UNISCE DUE MONDI (UN VIAGGIO TRA GRANGIA E MACIERI DI SEBORGA CON 2 ADORABILI ESPLORATORI)
- DA NINFA E FATA CH'ERO AI TEMPI DEGLI DEI ANTICHI FUI FATTA STREGA; COL TEMPO DIVENTAI LEGGENDA ASSASSINA E L'ALTRUI ODIO PER IL MIO SESSO VOLLE CRUDELE CHE VOLANDO ATTRAVERSO L'ARCOBALENO DA DONNA CH' ERO DIVENTASSI UOMO ED ORCO
-[APPROFONDIMENTO SU CORRELAZIONI DI CIVILTA' E ULTERIORI SINCRETISMI SCAMANICI CON CULTUALITA' PAGANE E QUINDI CRISTIANE = INTERFERENZE CELTICHE SUI LIGURI - VEDI ANCHE A BAIARDO LA CULTURA DELL'ALBERO NELLA FESTA DELLA BARCA ED A DOLCEACQUA E CAMPOROSSO, CON LA CULTURA DEL VISCHIO (VENERATA DAI DRUIDI FRA I CELTI COME "LA PIANTA CHE CURA TUTTO" CIOE' LA LEGGENDARIA PANACEA) E QUELLA DELL'ALLORO: ANALIZZA IL TUTTO IN RELAZIONE E/O SINCRETISMO CON LA CULTURA CRISTIANA DELLE OSTIE E STUDIA QUI ANCHE I SOSPETTI DELLA CHIESA SULL'USO NON SACRAMENTALE DELL'OSTIA CONSACRATA (TESTO ANTIQUARIO DIGITALIZZATO) ED ALTRESI' SULLA MEDICINA CONNESSA A RIZOTOMI, AROMATARII, FITOTERAPIA, ERBORISTICA ECC. ECC. = TESTI ANTICHI INTEGRALMENTE DIGITALIZZATI, ANCHE IN IPERTESTO]
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-[ IL MITO DELLA PANACEA QUI SCRITTO PANACEO (TRA I PIU' DEGNI GERMOGLI IL "PANACEO" PAG. 55, RIGA TREDICESIMA DAL BASSO, CITATO DA APROSIO NELLA SUA SFERZA POETICA IN MERITO AD ALCUNE OBIEZIONI DELLO STIGLIANI SULLE LICEITA' DEL MARINO NELL' AVER POSTO ALCUNE PIANTE NEL MITICO "GIARDINO DI VENERE" DEL SUO POEMA ADONE= TERMINE QUESTO DI "PANACEO" CONIATO DALLA GRECA DEA "PANACEA" OVE "PANACEA" INDICHEREBBE LA "PIANTA CHE TUTTO CURA", SOGNO ANTICO COME L'UOMO (DESTINATO AD ESSER CONIUGATO CON L'ALCHEMICA RICERCA DEL COMPOSTO VEGETALE E NON O DELLA FONTE DELL'ETERNA GIOVINEZZA ILLUSIONE DI NON POCHI ED IN PRIMIS DELLA REGINA MARIA CRISTINA DI SVEZIA, SULLA CUI "STRANA" MORTE FU UNCARICATO DI INVESTIGARE IL DISCEPOLO DI APROSIO, DOMENICO ANTONIO GANDOLFO = ARGOMENTO QUELLO DELL' ETERNA GIOVINEZZA, PIANTA, FONTE OD ALTRO CHE LA GARANTISSE, SU CUI ERA IN APERTA CONDANNA NELLE SUE "DISQUISIZIONI SULLA MAGIA", IL DEMONOLOGO MARTIN ANTONIO DEL RIO: LADDOVE PER ESEMPIO AFFRONTO' LA QUESTIONE SU "UNA FONTE CHE SI DICEVA ESISTENTE NEL MONDO NUOVO -OVE PERALTRO SI PARLAVA DI INDIANI GIUNTI AD ETA' INCREDIBILI- CHE AVREBBE AVUTO IL POTERE DI RIDARE LA GIOVINEZZA AD UN UOMO ANZIANO" = AFFERMAZIONE PERALTRO IN PERFETTO ACCORDO CON I SUOI DOVERI DI CENSORE A FAVORE DELL'ORTOSSIA CATTOLICA E QUALE CONVINTO SEGUACE DELL'EPOCALE SANZIONE DEL "MEMENTO MORI" AFFERMATO IN RAPPORTO ALLE RIFLESSIONI TIPICAMENTE SEICENTESCHE DELLA "FUGACITA' DELLA VITA" ).
IN EFFETTI IL TEMA DELLA PIANTA MAGICA DELLA "PANACEA" PROCEDE NEI MILLENNI DAL VISCHIO DI AMBITO CELTICO SIN A A QUELLO CINQUE-SEICENTESCO DEL TABACCO ( POI CONTESTATO E CONDANNATO DAL '600 CON IL CONCORSO DI SCIENZIATI MA ANCHE DELLA CHIESA PER ESSER PIANTA ESOTICA, USATA DA GALEOTTI E GENTAGLIA E POI SMODERATAMENTE, SIA DA UOMINI CHE DONNE E SOMMINISTRATA PERFINO AI BIMBI MALATI, TANTO DA ROVINARE, NON DI RADO CON LA SALUTE, I PATRIMONI ).
COME SOPRA IN FONDO QUASI ANTICIPATO IL SOGNO DELL' IMMORTALITA' SI EVOLSE DALL' EPOCA ROMANA, E MEDIEVALE SIN A DIVENIRE MITO DEGLI ALCHIMISTI: DAPPRIMA IN VIRTU' DEL SILFIO, TRASCURANDO PERO' LA PIANTA FORSE DALLE MAGGIORI POTENZIALITA' CURATIVE SPECIE PERCHE' USATA ANCHE DALLE MEDICHESSE NATURALI (ANCHE "SAVIE DONNE") SPESSO ACCUSATE DI STREGONERIA CHE E' LA PIANTA DETTA USNEA (ALLE MODERNE RICERCHE RIVELATASI "OSCURO PRESENTIMENTO DELA PENICILLINA") ANCHE PERCHE' NEL MISTERICO E FANTASIOSO "MONDO TERMINOLOGICO", SPESSO AD EFFETTO, DI CUI SI CIRCONDAVA CERTA MEDICINA ERANO USATE DEFINIZIONI OSCURE SE NON RACCAPRICCIANTI COME L'USNEA CHE CRESCE NEL TESCHIO DELL'IMPICCATO REPUTATA LA QUALITA' MIGLIORE ]
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-[USI DI ALTRE PIANTE NELLA CLASSICITA' = LE PIANTE A SCOPO RELIGIOSO E/O ONORIFICO TRA CUI IL MIRTO SACRO A AFRODITE/VENERE MA ANCHE COME ORNAMENTO MILITARE ROMANO DELLA CORONA OVALIS = INTEGRAZIONE STORICA SULL'ALLORO OLTRE IL DISCORSO MITICO-RELIGIOSO QUALE ALTISSIMA ONORIFICENZA = UN CASO EMBLEMATICO IN MERITO GIULIO AGRICOLA FIGLIO DI GIULIA PROCILLA RESIDENTE E TRAGICAMENTE MORTA A VENTIMIGLIA ROMANA PER ESEMPIO ESSENDO IL GENERALE ROMANO CHE CONQUISTO' LA BRITANNIA INDOSSO' NELLA SUA CELEBRAZIONE A ROMA LA CORONA D'ALLORO TIPICA DEGLI ORNAMENTI TRIONFALI DURANTE L'IMPERO EPOCA IN CUI QUESTE CORONE UN TEMPO EFFETTIVAMENTE VEGETALI FURONO DETTE CORONAE TRIUMPHALES (CORONE TRIONFALI) E PER PERPETUARNE CONSERVAZIONE E RICORDO OLTRE CHE CHE ACCENTUARNE VISIBILITA' E VALORE ERANO RIPRODOTTE IMITANDO PERFETTAMENTE LA PIANTA MA CONFEZIONATE IN ORO (PLINIO, 22, 3, 4) ]
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-" La lavanda, / alta di folte spighe... sovrasta / insultatrice e baldanzosa ai campi " (Bergantini, I, 439).
Così il poeta; ma ciò che è semplice per la lirica lo è meno per la botanica e quanto può sembrare una monade si rivela un artificio di comodo o un'effetto dell'ignoranza sotto la cui illusoria apparenza si celano piu entità, diversissime seppure somiglianti.
Non una ma 20 sono le specie di lavanda che sovrastano ai campi, ma ancor oggi non sono note tutte le differenze esistenti tra le singole entità vegetali.
Queste piante fanno parte della famiglia delle Labiate o Laminacee (tribù Laminacee) e si sviluppano su una vasta area geografica che va dalle Canarie sino all'India anteriore coprendo le regioni della fascia mediterranea.
Le speci di lavanda presenti in Italia sono in effetti cinque, diverse tra loro non solo per la morfologia ma anche per le proprietà e la conseguente applicazione di queste nel settore dell'erboristeria, su scala famigliare od industriale.
Sino al XII secolo l'unica specie di lavanda conosciuta in Italia è la Lavandula stoechas probabilmente introdotta dai Focesi nel 600 a.C.
Per quanto concerne la Francia meridionale e, di conseguenza, il Ponente ligustico la pianta è importata piu tardi (IV secolo a.C.) dai Greci di Marsiglia (cfr. Strab., III, 4, 17 e IV, 63; Pompeo Trogo in Justinum XLII, 4).
Di questa specie esiste una descrizione nel codice costantinopolitano del VII sec. d.C. attribuito a Dioscoride (già conservato nella Biblioteca imperiale di Vienna).
Da essa si ricava un'essenza od oleum stoechados di una certa utilità contro ai crampi ed i disturbi respiratori come si legge nel Regimen Sanitatis Salerni della fine del Duecento.
Non ha però mai avuto grande diffusione essendo pianta da climi aridi e selvatici; detta volgarmente steca (ed anche stecada o stigadosso) cresce sotto forma di arbusti alti sino ad un metro e mezzo con un gruppo brattee sterili, vivacemente colorate in violetto o porporino, che sormontano le infiorescenze (cfr. G. FASOLA - A. LEGA, La coltivazione della lavanda, in "Alcuni problemi economico-agrari della Riviera Ligure", Sanremo, 1958, p. 156).
Delle altre quattro specie italiane, DUE sono poco significative.
La L. dentata L. (volgarmente spigonardo), così detta per le foglie dentate, è un arbusto tipico della regione mediterranea occidentale e coltivato nel Gargano e in Sicilia come pianta ornamentale. Solo nell'estremità della Calabria, oltre che nei pressi di Messina, Catania e Trapani, si sviluppa la L. multificada L. riconoscibile per le foglie pennate divise fino al nervo mediano (propriamente pennatosette , termine composto di pennato e dal latino sectum= "tagliato").
Si tratta di una pianta perenne, tipica di ei luoghi aridi e collinoso del Nord Africa e della Spagna.
luoghi aridi e collinosi del Nord Africa e della Penisola Iberica.
Ma le più importanti specie di lavanda sono la lavanda latifolia e la lavanda officinalis introdotte nelle Alpi marittime, secondo lo Hegi, dai Benedettini: che contribuirono alla rinascita dell'erboristeria (vedi qui indici) con quella loro grande tecnica colturale della Grangia, donde derivò poi quella dei "Terrazzamenti con Muri a Secco" (Macieri)
La prima (nome scientifico Lavandula latifoglia Vill. = L. spica var. Beta) è un fruttice ramoso che fiorisce in estate in tutta l'area mediterranea occidentale sino alla Dalmazia.
In Italia è comune in Piemonte, Liguria, Colli Euganei, Firenze e zone limitrofe, Perugia, Spoleto, Napoletano e Sicilia; è detta spigo o spighetta ma "in Toscana ed in qualche altro luogo d'Italia si chiama spico B" (cfr. TRAMATER, S.V.).
La latifolia non cresce a notevole altura perchè predilige le temperature poco rigide; le sue foglie sono lunghe e lanceolate, più larghe che nell'officinalis. I fiori piuttosto piccoli, sono organizzati in infiorescenze ramificate composte da pseudoverticilli fusi in spicastri; di questa specie si conoscono tre fondamentali varietà: vulgaris Briq., tormentosa L., Alba De Ging..
La lavandula officinalis è la "vera lavanda" (nome scientifico Lavandula Chaix = L. Spica L. Var. Alfa = L. vulgaris var. Lamark = L. vera D.C.).
E' un fruttice ramoso, foglioso di 5-10 dm di altezza; diffusa in tutto l'occidente del Mediterraneo e presente un po' in tutta Italia sebbene Liguria e Piemonte (Cuneo) possiedano i più ricchi lavandeti naturali.
Le foglie sono lineari e lanceolate, bianco tormentose all'inizio e verdastre verso la fine; i fiori, piuttosto grandi, sono numerosi all'ascella delle bratte di forma romboidale e risultano organizzati in strutture compatte dette spicastri.
Questi sono di dimensioni diverse a secondo delle varietà; abbondanti e resistenti nella varietà Delphinensis e assai meno in quella Angustifolia.
Ricordiamo per ultima la varietà fragrans che ha le spighe più dense ma di minor dimensione e con fiori intensamente azzurri, concentrati soprattutto sul vertice della spiga.
La famosa essenza si trova concentrata in alcune ghiandole odorifere, composte da 4 ad 8 cellule, che sono disposte tra le scanalature situate in senso longitudinale sul calice florale.
L'essenza è ricca di acetato di linalide, fondamentale per la qualità stessa; la presenza di tale componente aumenta proporzionalmente all'altezza, così che l'essenza di maggior pregio (soprattutto per la varietà fragrans) si ottiene da lavandeti siti ad un'altezza intermedia tra i 1500 e i 1700 metri sul livello del mare.
Il più antico cenno alla lavanda (non possiamo sapere di quale specie) compare nella Bibbia dove ne è descritto l'uso, in associazione col mirto per profumare gli altari.
Parecchi secoli più tardi il medico latino Pedanio Dioscoride registra in una sua opera alcune considerazioni meno generiche sulla pianta (cfr. P. MATTIOLI, Pedanii Dioscoridis de materia medica libri sex XXVII) e scrive: "Abbiamo ancora in Italia il nostro nardo, il quale chiamiamo spigo, ancor che di più debile virtù").
Nel Medioevo tutte le specie di lavanda sono univocamente denominate Pseudonardus o Spicanardus per distinguerle dal Nardus indica (Nardostachys indica, famiglia delle Laminacee) e dal Nardus celtica (Valeriana celtica, famiglia delle Valerianacee).
Le lavande latifolia e officinalis sono citate specificatamente in un erbario del XII secolo intitolato Hortum sanitatis ed attribuito alla badessa benedettina Santa Ildegarda.
Nel capitolo De Lavandula la latifolia compare sotto il nome di Spica mentre l'officinalis è indicata col lessema Lafander.
Le due specie, che crescono frammiste, sono spesso confuse nel passato, con la conseguenza di grossolani equivoci.
I naturalisti dei secoli XV, XVI, XVII sono però gia consapevoli delle differenze morfologiche esistenti tra le due specie: "lo spigo e quello spigo che si denomina lavanda, son differenti. Questa ha le foglie più morbide e delicate né si distendono i suoi rami frascoluti et il suo fiore è più corto" (cfr. SODERINI, II, 365).
Nel XVIII secolo Linneo definisce la questione sotto il profilo botanico, identificando entrambe le specie come Lavandula spica e distinguendole nelle varietà Alfa (l'officinalis) e Beta (la latifolia).
Nonostante questa illustre precisazione si dovrà attendere l'opera più recente di botanici sistematici per giungere alla denominazione scientifica in precedenza riportata, certo più corretta, esauriente e meno equivoca di quella di Linneo.
La confusione a livello dei fitonimi è anche dovuta al fatto che, quasi ovunque, ai nomi scientifici si preferiscono quelli volgari di spigo e lavanda, con frequenti interferenze dell'uno sull'altro.
Ancora oggi è radicata in Liguria l'usanza di nominare le due più importanti specie di lavanda con nomi arcaici, veicolati in genere a livello di vernacolo.
La latifolia è infatti detta spigu a Genova, sciarmantin a Montalto
, busomo ad Alassio e steccadea a Camporosso; l'officinalis è conosciuta a Savona come spigo di S. Giovanni.
Il lessema lavanda (dal latino lavanda) ha avuto meno fortuna popolare del corrispettivo spica, spicum poi spigo in volgare tramite lenizione settentrionale della C in G.
Eppure la lavanda è nome sicuramente più pertinente con le proprietà e l'uso fatto di tale pianta dall'antichità ad oggi.
Tale lessema (scient. Lavandula) deriva, come il francese lavande (1370), dal verbo latino lavare "per l'uso che si fa nel lavarsi" (cfr. BATTAGLIA, s.v.); "il suffisso anda equivale alla desinenza del gerundio della prima coniugazione latina " (cfr. ROHLFS, 1098).
Questo nome viene attribuito a tale pianta forse per il fatto che "gli antichi la usavano nei loro bagni, o perchè le lavandaie ne mettono ne pannilini imbiancati per farli odorosi "(cfr. TRAMATER s.v.).
Ma il discorso etimologico è estremamente complesso: in "Wikipedia l'Enciclopedia Libera on line si legge = "La storia della lavanda ha radici lontane, tuttavia è difficile ricostruirne la strada, soprattutto perché le fonti antiche di cui si dispone spesso non sono tra loro congruenti.Nonostante ciò l'ipotesi più diffusa e citata è certamente quella del barone Gingins-Lassaraz (1826), che vede come importanti precursori nello studio della lavanda Dioscoride e Plinio il Vecchio. Dioscoride è il primo, nel 50 d.C., a citare l'erba odorosa stoecha, che prenderebbe il nome dalle isole Stecadi nelle quali è diffusa (Dioscoride Pedanus, De materia medica, Trad. Lily Y. Beck, Georg Olms Verlag, 2005, p. 191), e che usualmente si considera proprio la Lavandula stoechas. Di seguito, secondo Lassaraz ( F. Gingins-Lassaraz, Histoire naturelle des lavandes, Parigi, 1826) le date della scoperta delle varie specie: 50, Dioscoride, Lavandula stoecha - 70, Plinio, Lavanda spp - 1541, Fuchs, Lavandula vera e spica - 1565, L'Écluse, Lavandula dentata e multifida - 1576, Lobel, Lavandula pedunculata - 1651, J. Bauhin, Lavanda verde - 1696, Plukenet, Lavanda aurone (Artemisia abrotanum?) - 1780, Carl Linné figlio, Lavandula pinnata - 1815, Augustin Pyrame de Candolle, Lavanda dei Pirenei - 1817, Poiret, Lavandula coronopi - In realtà il nome lavanda non compare né in Dioscoride né in Plinio. Quest'ultimo, nella sua Naturalis Historia XII, 26 descrive il nardo e le sue tre specie: quella più apprezzata è il nardo di Siria, segue la varietà delle Gallie e infine quella di Creta, che alcuni dicono "nardo selvatico".
Comunque data la rilevanza di Plinio vale la pena di riprodurre integralmente quanto scrive ma traendo il testo dalla traduzione fattane recentemente per l'Einaudi nel libro XII (pag. 31 e seguenti) della Storia Naturale edita, con testo latino a fronte, nel 1984:"(26) Sulla foglia del nardo" [si ritiene che il nardo puro degli antichi sia da identificare cn una valerianacea (Nardostachis jatamansi.) Dioscoride I 6 sgg.) dedica diversi capitoli alla sua descrizione.)" conviene soffermarsi un po' di più, perché essa riveste importanza primaria tra i profumi. Il nardo è un arbusto dalla radice pesante e grossa, ma corta, nera e fragile, benché sia oleosa: ha un odore fetido come quella del cipero [Si tratta del Cyperus rotundus o Cyperus longus, una pianta descritta da Dioscoride I 4 e Plinio XXI. 117. Ma il testo è oltremodo incerto e molti leggono cypirus (Gladiolus segetum o Gladiolus italicus).] e un sapore aspro. Le foglie della pianta sono piccole e folte; la sua cima si ramifica in una serie di spighe: così il nardo va famoso per il doppio dono che esso offre delle foglie e delle spighe. Una seconda sua specie nasce sulle rive del Gange [il famoso fiume dell'India è descritto da Plinio a VI.65] e per il suo odore mefitico viene bollata senza remissione col nome di ozenitide [Il nome dell'ozenitide, che compare solo qui, era connesso dagli antichi col greco ozaina (ozena, polipo fetido del naso; cfr. l'informazione di Plinio sul fetore che emana da questa qualità di nardo), ma deriva in realtà dalla città di Ozene (oggi Ujjain), posta nel bacino del Gange]. Il nardo si falsifica con l'erba dello pseudonardo [Forse Lavandula spica o Lavandula latifolia], che cresce dappertutto: ha le foglie più spesse e larghe e un colore smorto che tende al bian. Si falsifica anche mescolandolo con la sua stessa radice per aumentarne il peso, oppure con la gomma, col letargirio [Trattato da Plinio a XXXIII. 106], con l'antimonio [Su quest'uso dell'antimonio cfr. anche Dioscoride I, 6], col cipero o la corteccia di cipero. Il nardo puro si riconosce dall'aspetto levigato, dl colore rosso, dal profumo soave, dal suo gusto, che prosciuga la bocca, ma possiede una fragranza piacevole. La sua spiga costa 100 denari la libbr. Il prezzo delle foglie varia a seconda della loro grandezza. L'adrosfero, così chiamato perché se ne ricavano pallottoline più grandi, costa 40 denari a libbra, e quello con foglie più piccole è il mesosfero e costa 60 denari. Il più pregiato è il microsfero [Adrosfero, mesosfero e microsfero sono denominazioni che derivano dal greco e significano rispettivamente grande sfera, media sfera e piccola sfera] così chiamato dalle foglie piccolissime, e costa 75 denari. Tutti hanno un profumo gradevole, ma di più quando sono freschi. La qualità migliore di nardo, quando invecchia, è quella di colore più nero. Nella nostra parte di mondo dopo il nardo indiano viene apprezzato quello siriaco [E' forse l'odierna Patrinia scabiosifolia. Cfr. Dioscoride I 6], poi quello gallico, al terso posto è quello cretese che viene chiamato selvatico o phu [E' la valeriana tuberosa per questa varietà di nardo cfr. anche Dioscoride I 10. La variante di denominazione phu, fornita da Plinio, deriva dal greco phou che designa appunto il nardo selvatico]: ha foglie simili a quelle del macerone [Il macerone - Smyrnium olus-atrum - è un'erba perenne della famiglia delle Ombrellifere], il tronco alto un cubito, nodoso e di color rosa pallido, la radice ricoperta di peli e a forma di piede d'uccello. Il nardo dei campi di cuidi cui parleremo trattando dei fiori [In XXI. 135], si chiama baccari [Per il nardum rusticum, cfr. XXI. 132 sgg. Ne parla anche Dioscoride III, 44]. Tutti questi nardi sono erbe all'infuori di quello indiano. Quello della Gallia viene divelto con la sua radice e bagnato nel vino, si fa seccare all'ombra e si lega in piccoli fasci confezionandolo nella carta: i suoi caratteri non sono molto differenti da quelli del nardo indiano, ma è più leggero di quello siriaco. Il prezzo è di 3 denari a libbra. C'è un solo modo per verificarne la qualità: le foglie non devono essere fragili e bruciate, invece che secche. Col nardo gallico cresce sempre un'erba chiamata irculo [Probabilmente valeriana saxatilis. Il nome hirculus è connesso con hircus, il capro, proverbiale per il cattivo odore che mandava] per il suo cattivo odore simile a quello del capro: è con questa soprattutto che lo stesso nardo gallico viene falsificato e ciò avviene per la loro somiglianza. La differenza sta nel fatto che l'irculo senz tronco ha le foglie più piccole e le sue radici non sono né amare né odorose."
È stato in seguito che molti hanno ricondotto l'erba profumata di re Salomone al nardo siriaco, e quindi alla lavanda, e altri, prendendo spunto dalla leggenda delle peregrinazioni di Didone, hanno ipotizzato che la donna raggiunse anche le coste provenzali, ai cui antichi abitanti regalò la lavanda che portava con sé dalla Siria.
Di tutto questo non c'è riscontro.
Alcuni vedono nel nardo siriaco di Plinio il Nardostachys grandiflora o la Valeriana spica: il nardo gallico dovrebbe essere la Valeriana celtica e quello cretese la Valeriana italica.
Matthioli, nel 1563 (Matthioli Pietro I discorsi di Matthioli ne i sei libri di Dioscoride, Venezia 1563, capitolo VI), afferma che il nardo è di due specie, indiano e siriano. "Chiamasi usualmente il Nardo nelle spetiarie Spica Nardi", e inizia una lunga dissertazione per dimostrare gli errori in cui sono caduti gli studiosi a lui precedenti e quelli coevi, contestando lo stesso Plinio. Ci fa sapere che secondo alcuni il nardo che arriva in Italia non è l'indico, ma il siriano, mentre Giovanni Manardo afferma non essere neanche il siriano: Matthioli dimostra che entrambe le posizioni sono sbagliate. Secondo Antonio Musa Brasavola il nome della Spica Nardi indica il fatto che venga utilizzata la spiga, ma il Matthioli, sottolinea che si usa la radice, e che "spica" sia contrazione di aspide, il serpente, che vicino alla pianta spesso si trova.
Il nardo italiano, che si chiama anch'esso spigo, non rassomiglia né all'indiano né al siriaco, e "di questa medesima specie si crede che sia la lavanda". Alla pagina 28 due disegni confrontano il nardo italiano, la lavanda e il nardo celtico. Matthioli ci fa sapere che molti confondo la lavanda col nardo celtico, che cresce in Liguria e in Istria, ma "chi ben pesa le qualità dategli da Dioscoride con quelle della lavanda, può facilmente il manifesto loro errore accusare".
Nella seconda metà del XV secolo, Giuseppe Donzelli, nel suo Teatro farmaceutico (Teatro Farmaceutico dogmatico e spagirico 1475), ipotizza che la "Spica narda habbia pigliato il nome da Nardo città della Siria", e che si chiami anche indica o siriana, non perché originaria dell'India, ma perché Dioscoride dice che il monte dove nasce guarda "da una parte verso l'India e dall'altra verso la Siria". Afferma altresì che la spica narda si trovi "di una sola spetie, varia nondimeno di bontà, per causa del luogo dove nasce, perché la più perfetta è quella, che si trova in luoghi montuosi". Questa varietà, "quella pianta detta Lavendola", è detta Nardo Montano o Nardo Italiano, e, volgarmente, "Spica di Francia".
Donzelli, quindi, pur considerando una sola specie di lavanda, disserta poi sul Nardo Celtico, il quale, assieme al "Nardo Gallico, sono una medesima cosa con la Spica Celtica".
Yuhanna Ibn Sarabiyun, medico arabo conosciuto come Serapione, la chiama Spica Romana, e Luigi Anguillara afferma essere la Saliunca di Virgilio ".
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Comunque sia la questione -e si capisce che potrebbe scriversi all'infinito- non resta che dire come l'uso di un bagno schiuma all'essenza della lavanda o di tale profumo dopo una doccia è un fatto consueto ai giorni nostri.
E' invece folklore tipicamente ligure, ma non solo, l'abitudine delle massaie di riporre tra la biancheria mazzetti di fiori di lavanda opportunamente ripiegati (ruchette ), in modo da trasmettere ai panni le loro benefiche proprietà. Queste non si limitano, come in genere si crede, al compito di profumare ma si concretizzano, grazie agli olii eterei dei fiori, in una azione termicida.
In alcune aree di campagna si continua tuttora a conservare l'abitudine, empiricamente appresa dagli antichi, di appendere o strofinare alle gambe del letto foglie di lavanda onde prevenire l'infestazione di cimici, ragni, scarafaggi.
A livello di medicina ufficiale quanto popolare entrambe le specie, officinale e latifoglia, in Ligura occidentale venivano usate nel passato come antidoto contro il morso della vipera; la terapia consiste nel fregare vigorosamente la ferita con foglie fresche (ma siffatta terapia sembra da collegarsi con la medicina militare romana e l'opera prestata negli ospedali militari: non tanto dal medicus castrensis ma dallo specialista contro morsi venenosi detto Marsus
Rifacendoci sempre a Plinio il Vecchio ed a quanto se ne usò in merito alla complessa evoluzione dell'etimologia del temine Lavanda
possiamo registrare in base a ciò che scrisse sul nardo verosimilmente oggetto di una imprevista ed imprevedibile confusione con la pianta che avrebbe assunto la denominazione di Lavanda quanto egli scrisse nel libro da noi usato ma in questo caso al Libro XXI, 135 (pag 231 e sgg.) ove si legge "E siccome certuni, come abbiamo detto, hanno chiamato nardo dei campi la radice del baccaro inseriremo qui anche i medicamenti ricavati dal nardo di Gallia, che nella trattazione degli alberi esotici avevamo rinviato a questo punto. Dunque, contro il morso dei serpenti esso è efficace nella dose di due dracme messe in vino; in acqua, o in vino, giova nei casi di confiore addominale; per il gonfiore del fegato e dei reni, nei casi di travaso di bile e di idropisia, fa bene da solo oppure unito ad assenzio. Fa cessare le mestruazioni troppo violente ed abbondanti. (80) La radice della pianta che nella medesima trattazione abbiamo chiamata phu si somministra, tritata o bollita, in pozione, nei casi di crampi uterini o di dolori al petto o causati dalla pleura. Provoca il flusso mestruale. La si prende insieme con vino".
La latifolia, sino ad epoca piuttosto recente, è stata spesso usata in veterinaria per le malattie degli zoccoli dei cavalli e come cura contro la rogna. Inoltre tale specie occupa da sempre un ruolo rilevante in erboristeria ed è spesso utilizzata per pratiche mediche come emmenagono ed abortivo; al pari di erbe come la consolida, il rosmarino, il biancospino, l'achillea millefoglie e la borsa pastore anche lo spigo è utile per la cura di disturbi della sfera sessuale femminile come la smenorrea e l'irregolarita delle mestruazioni.
Ma tale specie ha anche proprietà stimolanti e nervine; i fiori se utilizzati da personale competente e opportunamente manipolati, esercitano una reale azione corroborante sul sistema nervoso.
Date queste qualità anche il magismo (XV, XVI, XVII sec.) si impossessa di tale pianta, forse recuperando dai recessi del FOLKLORE e di DIMENTICATE RELIGIOSITA' antichi usi di MATRICE SCIAMANICA.
Come noto il magismo, fuori delle fantasticherie d'uso, è nel passato un modo di vita, una risposta irrazionale ai più negativi stimoli esistenziali. Le streghe sono spesso povere sventurate che apprendono, talora per esigenze personali di sopravvivenza, le proprietà di alcune piante che vendono sotto forma di olii, essenze, decotti, filtri e bevande.
Spesso per insegnamento della MEDICINA POPOLARE si compongono autentiche sozzure ma in alcuni casi si organizzano prodotti terapeutici efficaci: spicca la mistura di rose rosse, violette, melitosio, papavero bianco (2 g), giusquiamo bianco (2 g), finocchio bianco o pseucedano, che viene messa su un telo con cui si benda la fronte di chi e colpito da disturbi nervosi.
Secondo la moderna erboristeria i risultati sono buoni contro le affezioni neurovegetative e la mistura garantisce comunque un sonno tranquillo.
Le "medichesse popolari" sfruttano spesso, per il conforto di se stesse e dei miserabili, piante attive in diversa misura sull'organismo quali il ginepro, il papavero, lo spigo e il cartamo (scient.: Chartamus tinctorius, cfr. P. MATTIOLI, cit., I, 690: "Solve il cartamo la flemma disotto e parimenti per vomito e similmente l'acquosità del corpo".
Quando però elaborano e combinano piante dalle proprietà stimolanti, quali salvia, santoreggia e spigo, con altre dalle qualità soporifere come il papavero (specie il P. somniferum, varietà setigerum, famiglia delle Papaveracee, che cresce spontaneo in Italia), queste EMPIRICHE, ignorando spesso gli opportuni dosaggi, finiscono per combinare pericolosi decotti.
Questi hanno talora le caratteristiche di droghe leggere, capaci di causare ai loro fruitori lievi effetti allucinogeni, caratterizzati da sogni piacevoli o spaventosi con una sensazione di torpore al risveglio.
Ed è questo uno dei motivi per cui nei secoli XVI e XVII molte MEDICHESSE NATURALI sotto gli EFFETTI DELLE PROCEDURE INQUISITORIALI E SOPRATTUTTO DELLA TORTURA (VEDI QUI LA "CAMERA DEL DOLORE O COME SI DICEVA DELLA QUAESTIO) si autoaccusano di essere STREGHE; ignoranti degli effetti di quanto conoscono solo intuitivamente esse danno valore reale ai sogni irrazionali indotti dalle droghe, che hanno sperimentato personalmente, e spesso si sentono autentiche complici del Maligno.
La scuola anglosassone valorizza scientificamente il potere nervino dei fiori di lavanda; una tazza di te caldo, allestito con fiori secchi o freschi, può alleviare i disturbi gastrici oltre che il mal di testa.
Ma soprattutto un decotto di fiori e germogli è utile per rinfrescare la bocca, purificare l'alito e rinforzare le gengive (così almeno ritiene Lelord Kordel, illustre specialista americano di dietologia e medicina psicosomatica).
La lavanda vera, cioè l'officinalis, pur partecipando di molte proprietà terapeutiche proprie della latifolia, è soprattutto nota per il rendimento e la costituzione di olii essenziali.
Naturalmente la pianta oggi coltivata è il risultato del miscuglio di diverse linee provenienti da fecondazione naturale.
Il suo habitat ideale è costituito da terreni pietrosi e siccitosi siti tra i 600 e i 1800 metri; se protetta dall'umidità e dalle piante infestanti cresce bene anche in altri terreni purchè siano adeguatamente concimati.
La Francia è la maggior produttrice mondiale di essenze (95%); in Italia la provincia di Imperia copre un ruolo fondamentale per la coltura della pianta e la distillazione dell'essenza.
Comuni importanti per la produzione di lavanda vera sono Cosio d'Arroscia, Carpasio, Pornassio, Borgomaro, Pieve di Teco, Pietrabruna, Armo, Vasia, Pigna, Castelvittorio, Molini di Triora (specie in località "Agaggio"), Triora, Rezzo, Rocchetta Nervina.
Sono tuttora significativi i lavandeti del monte Faudo dove è attuata una distillazione a carattere familiare che produce un'essenza di notevole pregio.
Il fiore viene in genere tagliato con un falcetto a mano e dovrebbe essere distillato entro le 24 ore per evitare al massimo perdite di essenza.
Un cespuglio di lavanda da 200-300 grammi di fiori dopo il terzo anno di impianto; un lavandeto, della durata di 10-12 anni, ha una resa media di 2 quintali di fiori al primo anno, di 15 al secondo, di 40 al terzo e di 50 al quarto.
La coltura della lavanda ha subito, in provincia di Imperia, una contrazione a partire dal 1940 in conseguenza di una moria di cui fu, con molti dubbi, ritenuta responsabile la Macrophonina phaseoli (in precedenza erano poche e non gravissime le malattie che attaccavano la pianta: Cuscuta, Septoria lavandulae, Arima marginata).
Un rimedio concreto e una possibile alternativa alla crisi di tale coltivazione è costituito dall'impianto di varietà nuove, più robuste, immuni ai parassiti e capaci di sopportare l'aumentato tasso di inaridimento del terreno.
Al proposito è esemplare l'esperienza portata avanti a Pietrabruna, sulla base di concrete indagini scientifiche; in quest'area si è proceduto alla messa a coltura di un ibrido di buona qualità teorica (10.000 piantine su terreni banco di prova).
I risultati saranno però apprezzabili solo tra qualche anno, quando si potrà constatare l'opportunità di un'opera di conversione della coltura.
Continuando a parlare di ibridi, merita un cenno particolare il LAVANDINO o lavanda bastarda (scientif. L. Burnati); benchè meno usuale e migliore il lessema alternativo lavandina (cfr. BATTAGLIA, S.V.), ma in questo caso si tratta di un adattamento cacofonico dal francese lavandin.
In Italia esso è esclusivo della provincia di Imperia: Pietrabruna, Dolcedo, Ventimiglia, Pieve di Teco, Airole, Carpasio, Rocchetta Nervina, Castellaro.
Si tratta di un incrocio tra la lavanda latifolia e l'officinalis; sono però predominanti le caratteristiche della latifolia da cui differisce per un numero di palchi di fiori più consistente.
Se ne ricava una essenza migliore di quella ottenuta dalla latifolia, anche se permane il tipico odore di canfora che caratterizza lo spigo.
Il lavandino è resistente, immune alle malattie dell'officinalis anche se, come questa, teme le piante infestanti.
Cresce ad altezze inferiori ai 600 metri, in terreni freschi ed in zone soleggiate; non porta però semi e la sua moltiplicazione deve avvenire per via agamica (talee) mentre per l'officinalis, pur sperimentandosi la riproduzione per talee, è tuttora applicata quella per semi (gamica).
L'essenza del lavandino è certo meno pregiata di quella estratta dall'officinalis, ma anche meno costosa e per questo motivo trova larga applicazione nell'industria dei saponi.
Concludendo questa rassegna vale la pena di citare i processi tecnici di distillazione.
I metodi di base di DISTILLAZIONE e per certi aspetti tradizionali sono due:
a fuoco diretto e a corrente di vapore.
Per attuare tali processi è necessario usare un alambicco (dal greco ambix = "vaso a grandi labbri"; attraverso la voce araba al-inibiqu), composta da una caldaia, denominata cucurbita, posta in un fornello, ossia con possibilità di essere direttamente riscaldata dal fuoco diretto, e chiusa da un coperchio denominato elmo o cappello.
Detto elmo, per mezzo di una ulteriore tubazione denominata pipa viene collegato ad un serpentino, ossia ad una tubazione di stagno puro, e racchiuso in una botte ove scorre acqua fresca corrente.
Il procedimento ai fini della distillazione della lavanda è il seguente: il fiore di lavanda viene riposto e pressato nella caldaia o cucurbita: nella stessa viene versato circa un quarto della capienza cucurbita di acqua.
A mezzo di un paranco l'elmo viene messo a coperchio della cucurbita, si ruota in modo che la pipa sia nella parte terminale inserita nel serpentino.
La condizione di tenuta stagna dell'elmo con la cucurbita avviene mediante riempimento dei bordi di conduzione d'acqua; per cui non è possibile la fuoriuscita di vapore.
Accendendo il fuoco sotto la cucurbita, gradatamente, si raggiunge l'ebollizione; il vapore prodottosi nella cucurbita, per l'ebollizione dell'acqua col fiore di lavanda, raggiunge l'elmo e di qui attraverso la pipa il serpentino, per cui conseguentemente al raffreddamento del vapore circolante si ritrasforma in liquido in funzione della condensa per cui fuoriesce l'essenza del distillato, nel caso olio di lavanda e acqua.
Per il peso specifico l'olio resta a galla dell'acqua di lavanda e finisce nel contenitore dell'essenza di lavanda.
In sintesi: il liquido nell'interno della cucurbita si trasforma in vapore, questo raccolto dall'elmo e dalla pipa finisce nel serpentino, si condensa ed esce quindi nuovamente allo stato liquido dall'apertura inferiore.
In questi ultimi tempi si è passati ad un impianto promiscuo: anziché mettere acqua nella cucurbita, vi si mette solo il fiore di lavanda ed il fuoco non viene più acceso sotto la medesima.
A fianco si è costruita una caldaia a vapore, collegata alla cucurbita da apposita tubazione, che permette di immettere il vapore nella cucurbita ad elevata temperatura e pressione.
Tale vapore, praticamente, si impregna dell'essenza di lavanda e seguendo il percorso dell'elmo e della pipa finisce nel serpentino, condensandosi e fuoriuscendo dallo stesso in forma liquida, composta da acqua di lavanda ed essenza.
L'alambicco degli antichi ha così, pur mantenendo le proprie caratteristiche, accettato di modernizzarsi di quel tanto che gli ha permesso di migliorare la produzione con la diminuzione dei costi.
E' da tener presente come detta attività, qualora venisse opportunamente guidata e potenziata, potrebbe concorrere ad una positiva soluzione incrementativa del reddito dell'entroterra.
Oltre alla lavanda, l'alambicco potrebbe, con modesta spesa, distillare altri prodotti, in particolare erbe, fiori e frutti che in oggi non sono utilizzati e non rappresentano alcuna economia positiva per la zona.
La produzione dell'essenza sta però assumendo nell'imperiese i connotati di un'operazione industriale, forse meno romantica e folkloristica di quella a fuoco diretto ma certamente più funzionale ed efficiente.
Proprio nel capoluogo sono installati opifici a carattere industriale, dove il processo di distillazione avviene attraverso l'utilizzazione di elementi chimici (solventi come il benzolo); una volta estratto, il prodotto è concentrato e denominato conreta.


Vi sono varie specie di MENTA: la MENTA ACQUATICA (nei fossati e nei luoghi umidi), la MENTA ROTONDIFOGLIA (che pure cresce nei posti umidi), la MENTA SILVESTRE (nelle siepi, nei campi e nei luoghi umidi), la MENTA VERDE, la MENTA PULEGGIO, la MENTA CAMPESTRE (vi sono poi le piante coltivate come la MENTA PIPERITA).
Sulla coltivazione della MENTA un celebre erborista, il Lieutaghi, ha scritto :"si tratta dell'ultima delle grandi medicine di un tempo, principessa detronizzata e alla quale rimangono solo il nome e la grazia come tesori, e che deve solo al suo profumo se non è caduta nell'oblio".
Nei paesi arabi ad es. mazzetti di menta portati nelle gerle dagli asinelli profumano tutti i mercati.
Arriva la menta e le mosche e le zanzare si mettono in fuga.
Nei periodi di gran caldo non è raro vedere passeggiare gli indigeni con un sacco di menta fresca in mano nel quale affondano continuamente il naso.
Le indubbie qualità antisettiche attribuite alla menta se inducono tuttora le popolazioni del terzo mondo ad usarla comne un profilattico contro le epidemie incoraggiavano i MEDICI del Medioevo e del Rinascimento ad accostarsi ai malati tenendo davanti alla bocca una spugna imbevuta di aceto o un sacchetto di menta: esperienza purtroppo vana data la virulenza di tale morbo.
Anticamente -e questo anche nella Liguria ponentina- i siti infestati dalle pulci venivano liberati facendovi bruciare dei fusti di menta fin a quando i fastidiosi insetti non si allontanavano.
A livello popolare le opinioni sulla MENTA E I CONSEGUENTI USI erano comunque vari.
Per esempio la MENTA impedisce al latte di cagliare.
Il latte di una mucca che avesse brucato della MENTA veniva squlificato per la fabbricazione del formaggio.
Col succo fresco della pianta di menta le padrone di casa sfregavano le mele "a rischio" impedendo loro di marcire.
E peraltro i certe contrade la MENTA era posta un pò in ogni casa per far sì che l'acre odore tenesse lontani topi e roditori.
Da queste considerazioni il passo alla magia nel Medioevo fu abbastanza facile.
Si credeva che, onde far guarire un malato tormentato dalla febbre, costui dovesse recarsi per tre giorni consecutivi, prima del levar del sole, innanzi ad una pianta di MENTA deponendovi intorno del pane o del vino, del sale o del pepe e, salutando quindi con trasporto la pianta, comunicarle che essasi sarebbe essiccata una volta che la febbre l'avrebbe colpita. Secondo la leggenda l'evento terapeutico sarebbe stato quasi certo e la febbre dall'uomo si sarebbe trasferita sulla pianta al segno di distruggere: non v'è da far commenti su questa fantasia ma il credo popolare che attribuiiva siffatti poteri alla pianta non era altro che la trasposizione in favola del pubblico convincimento sulle sue capacità curative.
La SALVIA si presenta in numerose varietà: la "officinalis", la "pratensis", la "sclarea" tutte della famiglia delle Labiate.
La SALVIA OFFICINALE cresce nei luoghi sassosi ed aridi. Le sue foglie oblunghe e grigiastre non cadono in inverno: all'inizio dell'estate sbocciano dei fiori di colore azzurro violaceo. Come sostanze attive, in farmacopea e medicina, nelle sue foglie si trovano un olio essenziale, acido tannico e resina: le foglie sono quindi utilizzate come astringente, digestivo, stimolante e antidiaforetico.
La SALVIA, pianta medicamentosa per eccellenza, fu fatta ascrivere tra CARLO MAGNO in un suo CAPITOLARE tra le erbe dei SEMPLICI cioè tra le 16 piante base dell'erboristeria, quelle cui ogni AROMATARIO doveva appellarsi per comporre le sue TISANE E/O DECOTTI.
La più celebre scuola medica dell'antichità medievale (la SCUOLA SALERNITANA) l'aveva battezzata "SALVIA SALVATRIX" la "PIANTA CHE SALVA" aggiungendo in un celebre versetto che "PERCHE' NON MUORE L'UOMO CUI LA SALVIA CRESCE NELL'ORTO?".
Nel passato le erano attribuite, non senza ragione, tante qualità: come stimolante aromatico, contro le alitosi, per agevolare il parto (un infuso di salvia preso regolarmente un mese prima del parto avrebbe facilitato lo stesso riducendone i dolori).
Una leggenda della SALVIA come erba medicamentosa sorse nel XVII sec. con un fatto criminale durante un dramma quale l'EPIDEMIA DI PESTE.
Nel 1630 Tolosa era tormentata dalla PESTE ma "sette (o "quattro", secondo un'altra versione) ladri" continuavano a saccheggiare le case ed a depredare i cadaveri degli appestati restando immuni.
I delinquenti vennero alla fine arrestati e furono interrogati.
Fatto il processo vennero condannati a morte: ma il giudice conoscendo le loro prodezze e saputo che, prima di avventurarsi tra le case piene di cadaveri, si strofinavano sul corpo un unguento, chiese loro di cosa si trattasse.
Secondo il francese Messegué, illustre erborista moderno (nel volume "Uomini, erbe e salute"), si sarebbe trattato dell'unguento composto da timo, lavanda, rosmarino e salvia macerati in aceto destinati a passare alla "storia" col nome di "ACETO DEI QUATTRO LADRI".
E' impossibile che l'intruglio funzionasse contro la PESTE ma nel '600 ebbe comunque un forte ascendente sul popolo che lo chiamò anche ACETO DEI SETTE LADRI (un'altra variante della formula comportava l'aggiunta di ruta e canfora).
L'"ACETO DEI SETTE (O QUATTRO LADRI)" ottenne comunque una certa rinomanza e fu riutilizzato a Marsiglia quando la città, assieme a tutta la PROVENZA, un secolo dopo fu colpita da altra epidemia: in questo caso l'aceto fu arricchito dall'uso di un'altra pianta ancora, l'AGLIO.
L'ACETO verso il XIX secolo entra nell'uso ufficiale e si vende in farmacia: lo si raccomanda per il ben stare a tutti, anche a preti, suore e medici: l'invito è di berne a digiuno una cucchiata in un bicchiere d'acqua e poi di strofinarsene le tempie sì da andare tranquilli poi a visitare malati e moribondi.
Il ROSMARINO era tra i SEMPLICI cioè fra le piante obbligatoriamente coltivate per le loro ragioni medicamentose dai sudditi del Sacro Romano Impero di Carlo Magno.
La pianta possiede dei fusti legnosi che di solito non raggiungono il metro di altezza e sono coperti da foglioline coriacee, lineari e fini. Già apprezzato dagli Egiziani e poi da Romani e Arabi il ROSMARINO aveva fama di pianta medicamentosa per eccellenza e tra le sue varie applicazioni si ricorda soprattutto l'uso come tisana antispasmodica per i dolori di ventre causati dallo stato infiammatorio della mucosa intestinale: in altra combinazione si ritiene vantaggioso come antispasmodico per i dolori mestruali.
La CIPOLLA ("allium cepa" della famiglia delle "gigliacee") ha una storia molto antica.
Oltre che per scopi alimentari fu venerata dai Caldei per presunti poteri magici: questo concetto passò ai Babilonesi ed agli Egizi.
Presso i Romani ne furono apprezzate le qualità alimentari.
Nel Medioevo la cipolla fu base alimentare preziosa: era poi consigliata come cibo energetico.
In effetti la pianta possiede anche delle notevoli qualità terapeutiche scoperte dai riceratori dell'Università di Newcastle: in particolare è utile per la prevenzione delle trombosi delle coronarie.
La scoperta però è avvenuta su basi storiche e documentarie: i ricercatori inglesi hanno dedotto (e poi sperimentata) questa proprietà della cipolla investigando su un'antica tradizione della veterinaria popolare francese (conservata in tempi moderni dagli stallieri e dagli allevatori), quella cioè di alimentare i cavalli sofferenti di embolia con cipolla ed aglio.
La LIQUERIZIA/LIQUIRIZIA ("REGANISSU" dizione ligure) non era una pianta realmente popolare e d'uso comune nel medioevo ligure (di origine asiatica era diffusa principalmente in Sicilia e Sardegna) ma rientrava comunque nella FARMACOPEA diffusa dai BENEDETTINI e non mancano documenti medievali, anche lavori di miniature, che rappresentano la RACCOLTA DELLA LIQUERIZIA e addirittura LABORATORI DI DISTILLAZIONE dei benedettini in cui la LIQUERIZIA ha un evidente posto d'onore: vedi cosa ne scrisse AMATUS LUSITANUS in una sua CELEBRE OPERA
La pianta (nome scient.: "glaba glycyrrhiza") della famiglia delle papilionacee, alta dai 30 cm. al metro, con fusto diritto, striato e robusto e con foglie di un bel verde, ha riconosciute proprietà medicamentose come quelle di combattere la tosse, l'ulcera dello stomaco e delle gastriti in generale (il succo si estrae dalle radici che si possono commerciare in varie forme per grandezza e aspetto).
La LATTUGA ("Lactuca sativa" della famiglia delle "Composite") si presenta in una notevole varietà di specie (circa 140 tra coltivate e selvatiche).
Il nome trae origine dal succo bianco e lattiginoso che cola da incisioni del fusto quando questo è in fioritura.
Come pianta alimentare naturalmente è nota da tempi remoti e ne parlarono nelle loro opera autori classici come Marziale ed Ovidio.
Fu però anche citata, per motivi igienico-sanitari, da illustri scienziati come il medico GALENO (che per sua ammissione l'avrebbe assunta alla sera prima di coricarsi per garantirsi un sonno tranquillo) e PLINIO che la citava come un buon afrodisiaco utile anche per la cura della blenorragia.
In effetti la moderna erboristeria ha provato che il lattice bianco contenuto in questa pianta erbace (propriamente il "lattucario") è un eccellente rimedio contro l'insonnia e le tossi persistenti e che viene usato per la fabbricazione di saponi igienici.
Il PREZZEMOLO (petroselinum hortense delle ombrellifere) ha il difetto di poter essere confuso dagli inesperti con l'"erba aglina", pure delle ombrellifere, velenosa, detta anche "cicuta aglina".
Il prezzemolo si riconosce per il fusto eretto, striato e ramoso con foglie triangolari e piccoli fiori bianco verdicci in dense ombrelle.
Secondo la vecchia fitoterapia gli era attribuita la facoltà di far sbollire le sbornie: era poi usato quale composto di ANTIDOTI AI VELENI.
In effetti la radice ed i frutti hanno proprietà aperitivi, diuretiche, stimolanti, emmenagoghe, carminativi, stomachiche, diuretiche. E’ fortemente controindicato in gravidanza giacché ad alte dosi può risultare abortivo. Una tazza di decotto può servire per cessare la produzione del latte alle nutrici.
La MALVA ("malva silvestris" della famiglia delle malvacee), annua o bienne con radice grossa, fusto pubescente, fiori di colore lilla tendente al rosa riuniti in fascetti, frutti a forma di carpello arrotondato e reniforme. E' diffusa in tutta Italia dal piano alle regioni submontane e nella MEDICINA POPOLARE è utilizzata da sempre onde preparare decotti emollienti.
Dal grande DIZIONARIO DEL BATTAGLIA si apprende che in tutti i tempi fu conosciuta ed utilizzata anche dalla MEDICINA UFFICIALE:
Per esempio l'ARRIGHETTO (ai primi del '300) scrisse: "La malva sana i frenetici, l'assenzio i collerici".
Nel "FASCICULO DI MEDICINA VOLGARE" (XV secolo) si legge:"Asima e difficultà del rifiatare cum suono. La cura de essa: fa cuocere malva in una pignatta e con quella così calda lava lo infermo".
MARCANTONIO MONTIGIANO (nella sua cinquecentesca traduzione degli scritti di PEDANIO DIOSCORIDE) annotò: "La malva giova assai a impiastarla su le punture delle vespe e delle pecchie".
La SANTOREGGIA è una pianta erbacea della famiglia delle Labiate ("Satureia hortensis") con fiori a spiga di colore rossastro usati come condimento di cibi ma -da tempi remoti- anche per ESTRARNE un'essenza usata in erboristeria.
Il nome peraltro -coniato evidentemente sotto influsso della MEDICINA POPOLARE allude alle sue qualità di panacea visto che è un'alterazione popolare del latino "SATUREIA" per incrocio con SANTO o SANTITA' in via di un'esplicita allusione ai poteri salvifici della pianta.
Il MATTIOLI nel suo volgarizzamento di PEDANIO DIOSCORIDE scrisse [181]:"Alcuni medici in tali malattie di fegato e di milza gli fanno mangiare di lungo inanzi al cibo, o con timo o con pepe o con giengievo o con pulegio o con santuregia o con calamento o con origano o con issopo".
Nel "LIBRO DI ESPERIMENTI DI CATERINA SFORZA" degli inizi del '500 (vedi: "Libro di esperimenti di Caterina Sforza, a cura di P.Pasolini, Imola,1894) si legge: "La santo regia trita e cotta in aceto, impiastata sul capo de la parte di rientro exita li dismenticati".