cultura barocca
Vedi INTRODUZIONE ai "Libri Criminali" di Genova del 1556 (1557) STATUTI Leggi qui le PROCEDURE

LIBRO SECONDO
DELLE PENE

Capitolo I (1)

Norme contro i bestemmiatori [propriamente "blasfèmo" nel senso di empio e più estesamente di chi dice ingiurie avverso Dio, la Chiesa ed implicitamente lo Stato = vedi: Battaglia, s.v., II].

L'accusato, irrefutabilmente giudicato colpevole d'ignominiose ingiurie avverso Dio, la Beata Vergine, la Croce di Nostro Signore Gesù Cristo o qualchesia Divo o Santo, in occasione del suo primo reato versi ammende da uno a dieci scudi d'oro. Recidivo paghi però una multa da due a venticinque scudi aurei e quindi fin a cento la terza volta che venga condannato per l'identico misfatto: in quest'ultimo caso, senza eccezioni, sia comunque, in sovrappiù, dichiarato infame [la condizione di infamia poteva esser sublimata attraverso l'erezione di un pubblico simulacro detto COLONNA DI INFAMIA come questa eretta a perpetua dannazione di Giulio Cesare Vachero per la congiura filosabauda ordita nel 1628 contro la Repubblica di Genova].
Se il reo rivestirà invece una qualche carica pubblica, pei dettati di questo nostro capo criminale, decadrà immediatamente dall'ufficio ricoperto, nè potrà venire eletto in altro, a meno che l'Illustrissimo Doge od i Magnifici Governatori non lo abbiano, eccezionalmente, reintegrato nei diritti.
Chi è stato condannato, se non avrà saldato il suo debito allo Stato entro i tre giorni successivi a quello della sentenza, verrà fustigato passando attraverso i luoghi pubblici della città, demandati qual percorsi obbligati per tal pena, e quindi, incatenato alla berlina, per cinque ore esporrà la sua bocca impudente alle contumelie della folla circostante e dei suoi concittadini.
Qualora invece sia stato condannato in contumacia, verrà bandito come esule e non lo si riammetterà nel corpo dello Stato se non a patto che la pena comminata sia stata soddisfatta per intero.
Si amputi anzi la lingua al reo contumace che, caduto in potere dei Giudici, tre giorni dopo la cattura non abbia quietata la condanna comminatagli. E, se dopo tante condanne, qualcuno abbia peccato una quarta volta, venga allora relegato come galeotto per un quinquennio sulle triremi.
Qualora risulti condannato un soldato, costui, essendo la Repubblica in tempo di pace, sia tenuto a dimettersi da servizio e grado oltre che restituire una mensilità dello stipendio percepito: se la Repubblica sarà al contrario in stato di guerra, il reo verrà castigato su ordine espresso del Doge, attese le situazioni particolari.
I comandanti di navi o comunque i piloti di qualunque imbarcazione come pure i capimastri e gli artigiani, al pari di tutti i padri di famiglia, che abbiano udito qualcuno dei loro marinai, operai, sottoposti o servitori pronunciare oltraggiose parole, o come suol dirsi blasfemare contro Dio o i Santi, scaccino i reprobi dal loro servizio non oltre le ventiquattr'ore e, allorchè non abbiano provveduto a ciò, vengano puniti coll'ammenda medesima che spetta al delinquente. I fanciulli sorpresi a proferir bestemmie siano invece flagellati con sferze di cuoio e verghe.
A chiunque abbia consapevolmente danneggiato, infranto o in qualche modo deturpato le immagini sacre di Dio o della Santissima Croce, si amputi senza esitare una mano o in alternativa si commini la reclusione da galeotto per un quinquennio sulle triremi: qualsivoglia recidivo venga invece condannato a morte oppure relegato in perpetuo sulle triremi.
Giudichino questi rei e queste colpe i Magnifici Procuratori ai quali venga sempre concesso pieno e libero arbitrio. In linea più estesa li giudichino, entro la cinta muraria urbana di Genova, il Pretore ed il Magistrato dei Malefici, fuori città e nel distretto ancora il Pretore e gli altri Giudici.
Costoro attendano al loro ufficio come avviene per quei crimini in cui si incorre in pene corporali sin alla condanna a morte: badino soltanto a restringere al massimo i tempi delle cause, sicchè mediamente possano venir discusse e terminate nell'arco di un mese. I notari dei Magistrati, nella città di Genova e nelle tre Curie Pretorie, debbano trasmettere le denunce ai Magnifici Procuratori al più tardi entro due mesi dal momento in cui quelle furono inoltrate: contravvenendo a tal compito saranno puniti con un'ammenda di venticinque lire per ogni comprovata manchevolezza.
Si sancisce in sovrappiù, con questo primo capitolo criminale, che venga riconosciuta a chiunque la facoltà di sporgere in segreto denunzia contro qualsivoglia blasfemo di cui abbia conseguito perizia e competenza: il delatore, nei casi in cui abbia denunziato il misfatto almeno entro quindici giorni da quando fu perpetrato e di seguito, provata la colpevolezza del sospettato, riceva altresì in compenso metà della pena nummaria che, volta per volta, sarà comminata al reo. La restante quota, in Genova, si assegnerà all'Ufficio dei poveri, mentre nei Distretti spetterà alle locali Opere Pie.
Soldati, guardie e Bargello dovranno inoltre arrestare e subito tradurre in carcere, senza mandato e di propria iniziativa, chi avranno sorpreso nel riprovevole atto di blasfemare: contravvenendo a questo imperativo categorico della loro funzione pubblica, provata la negligenza, immantinente verranno destituiti da tutte le loro cariche pubbliche.
Alla Repubblica sta particolarmente a cuore la repressione dell'abominevole costumanza del bestemmiare, che senza dubbi inquina l'onestà della convivenza civile e morale. Si sancisce quindi di punire in modo esemplare tutti i rei di tale misfatto affinchè da un lato tutti i buoni cittadini restino ammoniti a non farsene epigoni col vano pretesto dell'impunità e dall'altro si tutelino santamente quegli onori e culti verso Dio e i santi che sono fondamento del vivere cristiano.
Onde rafforzare la salvaguardia delle Sante Istituzioni e rendere terrifico, per reprobi o tentabili, questo delitto infame, qui vien sancito di esporre in pubblico alla comune indignazione i nomi di tutti i condannati.
In sovrappiù, onde concorrere nel miglior modo possibile ad estirpare questi perniciosi bubboni, ordiniamo che a Genova
[gli STATUTI del XVI secolo sono emblematici di una costumanza accusatoria paneuropea del diritto intermedio ed il BESTEMMIATORE citato -anche nell'accezione più vasta di contestatore, critico dell'ordine costituito, aderente di credo religioso giudicato illecito ecc.- qui al CAPITOLO 1 era inteso eversore dell'ordine naturale e profanatore di quello soprannaturale, quindi nemico estremo di Stato e Chiesa] entro la Cattedrale di S.Lorenzo o chiesa metropolitana, e nelle Parrocchie di castelli o cittadelle fortificate, sia deposta un' URNA LIGNEA in cui ognuno possa introdurre, annotate su un foglietto, tanto le generalità di qualsivoglia bestemmiatore o degli eventuali testimoni, con le coordinate spazio-temporali del delitto perpetrato. Le chiavi di tale cassa verranno conservate, in Genova, dai soli Procuratori mentre nei centri minori del Dominio le custodiranno i Deputati locali eletti dall'Università o Comunità degli abitanti. Solo una volta alla settimana sarà lecito aprire la cassa ed investigare le delazioni segrete onde vedere se vi sia da intervenire tempestivamente avverso qualche malfattore [la precisazione era dovuta: temendosi il ricorso -in effetti sempre più frequente come qui si legge- della "delazione segreta" per calunniare persone che in effetti tali "reati" non avevano commesso = nel contesto del reato di calunnia, tra il resto, era ormai temuto, oltre che quello per quanto possibile vigilabile e da esaminare nell'Urna Lignea, l'uso indiscriminato delle LETTERE ORBE come eran dette le lettere anonime in teoria ideate o comunque autorizzate per denunciare od indurre ad investigare su personaggi meritevoli di qualche indagine specie nei periodi di estrema e generale calamità ma il cui abuso divenne con il tempo una pericolosa costante anche per vendette personali e/o di famiglia].

Capitolo II (2)

Di quanti copulano o comunque hanno rapporti sessuali contro natura

Coloro che intrattengono rapporti carnali in maniera avversa alle leggi di natura, sia coprendo da maschio che facendosi coprire a guisa di femmina, dopo essere stati appesi alla forca [impiccati secondo il sistema che comportava -nell'uso della pubblica esecuzione- drammatica "collaborazione" tra il Boia ed i "Tirapiedi" che lo aiutavano nella trazione della vittima fino alla morte della stessa: come qui si vede]vengano pure dissolti in virtù del fuoco che vendica e purifica e restino dispersi, sia di corpo che di nome, dalla terra dei viventi. Alla medesima pena sia peraltro soggetto il ruffiano che abbia prestato un suo campo o una sua casa perchè si perpetrasse tale orrendo misfatto . Non hanno subito violenza onde essere condannati per questo orrendo misfatto.Coloro invece che vengono scusati in base all'età, per arbitrato del magistrato giudicante possono essere multati tramite una pena in denaro, salva sempre in tutti questi casi l'autorità dei Mgnifici Procuratori.
[Nota documentaria sul tema = vedi qui, con quella di altri personaggi, una ragione epocale e basilare per la persecuzione sin all'estremo supplizio -a titolo di catarsi- di omosessuali, sodomiti, tribadi ecc. ecc. ed ancora per la Chiesa -nel contesto di una sempre maggiore disanima delle "colpe" connesse ai peccati di Lussuria come scrive qui L. Ferraris nella sua Bibliotheca Canonica comparirà la Bestalitas (in particolare vedi par. 64) -accoppiamento con animali- specificatamente trattata anche associata nel contesto di specifiche distinzioni a Mollities e Sodomia (in particolare vedi par. 70); giova precisare che nell'interpretazione del Ferraris viene definita "sodomia perfetta" il rapporto sessuale tra uomo ed uomo (coito anale o coito orale) oppure tra donna e donna (coito per via clitoridea, vaginale od anale, usando sia le mani che la bocca alterando la posizione di giacitura o di stasi che ancora usando "strumenti diabolici" cenni mascherati semanticamente agli "olisboi". Invece la "Sodomia imperfetta" -a giudizio del Ferraris con differenze rispetto a quanto enunciato dal Potestà ed altri come lui stesso precisa (paragrafo 52) - è quella tra uomo e donna per via anale = post scriptum : il tema complesso dell' incesto (già perseguito dal Diritto Romano ma non tanto diffuso nel Dominio di Genova quanto piuttosto nelle dipendenze insulari, come in particolare la Corsica) risulta invece trattato al capitolo III (Sugli adulteri e gli stupratori) e precisamente a questo paragrafo = tutta una letteratura giuridica, laica ed ecclesiastica, ha affrontato il tema dell'incesto: per esemplificare con il concorso (vedi qui il De Maleficiis del Gambiglioni meglio noto come Angelus Aretinus) della bibliografia pregressa (vedi la voce Incestus nel citato De Maleficiis) si può leggere la Bibliotheca Canonica, Juridica, Moralis...., di L. Ferraris sia alla sottovoce incestus (da par. 12 a par. 20) sotto la grande voce stutturata per indici: Luxuria sia quello che sul tema viene scritto dal par. 138 al par. 144 sotto la voce Pena: trattandosi sia di Pene Civili che di Pene Criminali (vedi elenco e articoli) = Apparentemente, sotto gli effetti del moralismo controriforimista in campo sessuale, nel '600 il tema della "presunta sessualità deviata" divenuto occasione di pubblicistica e scontro tra le fazioni dei Riformati e dei seguaci del Cattolicesimo di Roma sarebbe stato affrontato con estrema cautela o addirittura evitato a livello predicatorio oltre che scrittografico fuori dei testi spiccatamente giuridici o polemisti = ciò non è esatto ma la lettura non sempre è semplice su tali temi dato il ricorso a sistemi comunicativi talora riservati a decrittatori esperti come l'Aprosio che pure dopo aver steso -anche per le sue ricerche in ambito biblico ed esegetico- una sua "Storia dell'Adulterio" non mancò -come altri né giuristi né canonisti- di affrontare i temi della omosessualità maschile e della omosessualità femminile compreso quello assai delicato in merito al sesso femminile del Tribadismo donde la figura della Donna Tribade (senza dimenticare l'attenzione dedicata ai temi di Ermafroditismo, Bisessualità e Transessualità = attesi anche i pericoli, a fronte dei Riformati, del vetero dibattito sulla "Papessa Giovanna")]

Capitolo III (3)

Sugli adulteri [cfr. DIGESTO, LIBRO XLVIII, TITOLO XV] e gli stupratori

Qualora una donna sposata abbia commesso adulterio [considerato reato ed unificato, nel capo 3, libro II degli Statuti Criminali di Genova del 1556, col ben più grave crimine di stupro-violenza sessuale], senza esservi stata costretta, venga punita con la morte e tutti i suoi beni, compresa la dote, passino al marito ed ai suoi figli: a titolo esemplificativo si prenda sempre risoluzione di supplizio estremo nei riguardi della donna che abbia abbandonato il tetto coniugale [sul delicato argomento, specie nel XVII secolo, a lato della normativa giuridica si era andata sviluppando una vasta letteratura, satirico-predicatoria, a scapito della "colpa femminile" di cui giova dare qui qualche utile esempio testuale: attraverso gli anni ed i dibattiti gli interpreti del diritto ecclesiastico per loro parte approfondirono vieppiù la tematica e per questo, pur proponendosi qui di seguito i testi civilistici e le norme tridentine giova, per un orientamento del lettore, registrare quanto proposto nel secolo di Angelico Aprosio entro un'opera celebre di Felice Potestà in merito ai peccati di illecita concupiscenza sessuale].
Venga altresì condannato a morte l'uomo che abbia avuto rapporti carnali colla moglie di un altro in luogo diverso dalla sua solita abitazione. Non debba invece un uomo patir condanna alcuna o minima pena nel caso si sia congiunto, nei modi come sopra, con una sposata impudica, che si prostituisca o che lucri del proprio corpo o sul cui mercimonio sessuale possano testimoniare tre persone di provata attendibilità od anche soltanto tre individui qualsiasi, purché attestino sotto i vincoli del santissimo guramento d'aver avuto colla stessa rapporti sessuali di qualsivoglia genere: soltanto la donna in tal circostanza debba esser condannata a morte
[a titolo documentario giova comunque riportare quanto fu sancito dai Padri del Concilio di Trento (sessione XXIV - Canone del Matrimonio) avverso i CONCUBINARI e gli ADULTERI: a titolo esplicativo la più esauriente trattazione canonica, giuridica e teologica resta quella della BIBLIOTHECA CANONICA... di padre Lucio Ferraris, specificatamente, in merito alla voce ADULTERIUM, dell' ARTICOLO I = "DEFINIZIONE DI ADULTERIO" - dell' ARTICOLO II = "PENE PER IL REATO DI ADULTERIO" - dell' ARTICOLO III = "ADULTERIO CHE NON PUO' COMPORTARE DIVORZIO" - dell' ARTICOLO IV = "REATO DI ADULTERIO: CONSIDERAZIONI DA TENERE A SECONDA CHE SI TRATTI DI ADULTERO OD ADULTERA" - dell' ARTICOLO V = "DOVERI DEI GENITORI VERSO LA LORO PROLE NATA DA ADULTERIO" -]
Allorché un uomo, a casa sua propria, abbia stuprato la sposa di un altro sia condannato a pagare un'ammenda che va da cinquanta a cinquecento lire e venga invece fustigato soltanto qualora non abbia versato quanto dovuto entro quindici giorni.
Nella ben trista eventualità che abbia poi fatto della donna una propria concubina, lo stesso debba però essere senza meno condannato a morte.
Infine, sempre alla pena capitale sia inviato chiunque, in qualsiasi altro luogo che la sua medesima abitazione, abbia usato violenza ad una sposa altrui.
Un uomo od una donna responsabili d'aver commesso incesto siano condannati a morte anche se sian stati vicendevolmente consenzienti.
Venga poi mandato a patir la pena capitale colui che, entro le mura di un convento od anche fuori di quello, abbia avuto rapporti carnali con una donna, fosse anche consenziente, che abbia votato a Dio la sua vita e che abbia indossato l'abito monacale. Non sia peraltro lecito ad alcun laico, se non per speciale concessione delle autorità religiose, entrare di giorno o di notte in un pio monastero. Chiunque abbia fatto ciò venga multato, dopo la prima trasgressione, per trecento lire e, dalla seconda in poi, sino a seicento per tutte le volte che si sia reso colpevole. Nel caso che entro un mese il reo non abbia pagato l'ammenda venga allora corporalmente punito con tre giri di corda oppure, oltre i confini di Genova e distretto, sia recluso per un triennio sulle triremi come galeotto. Chiunque poi, senza consenso dell'autorità ecclesiastica, abbia ospitato una religiosa nella sua casa d'abitazione od in qualche modo abbia con lei vissuto sotto lo stesso tetto sia punito con un'ammenda di duecento lire.
Chi abbia tolto la verginità ad una fanciulla intatta e pura, anche se consenziente, debba pagare ammende da cinquanta a cinquecento lire e se, cosa da presumersi nella fattispecie salva la prova del contrario, l'abbia puranco traviata, oltre alla pena sopracitata, tal seduttore sia tenuto a farne la dote nuziale su indicazione del Magistrato che calcolerà la riparazione secondo ceto e censo delle persone in causa.
Nessuno osi d'altronde insidiare la pace di lecite nozze e da tutti si abbia estremo rispetto dell'onore muliebre. Pertanto si stabilisce che al riguardo il diritto di muovere accuse, deferire o denunziare in occasione d'adultèri, stupri, incesti, spetti ai parenti più prossimi, precisamente al padre, al fratello, allo zio paterno, a quello materno ed al marito, purchè tutti costoro siano in effetti mossi ad agire da dolore autenticamente sincero. Qualora tuttavia il marito della donna accusata d'adulterio si trovasse a Genova e nel distretto, nessun altro, fuor di lui, venga però ammesso a sporgere denunzia d'adulterio: solo nel caso che egli si trovi lontano, i parenti prossimi di cui si è fatta menzione in precedenza possano adire alla denunzia.
Fatta l'accusa da qualsivoglia fra questi, sia per adulterio, violenza sessuale, stupro od incesto, non si istituisca inquisizione al di sopra di lui o di qualsiasi altro di quei congiunti prima menzionati e l'inquisizione stessa sia tenuta nel rispetto formale degli statuti e del diritto comune allorquando negli stessi Libri dei Malefici manchi qualcosa al riguardo della causa in fieri.
In tutti i casi inoltre in cui ad un adultero o a un'adultera debba essere inflitta una pena corporale non si faccia alcuna differenza o riguardo per il sesso qualora entrambi i rei siano caduti in potestà della magistratura: se altrimenti uno solo è stato catturato, mentre costui o costei vien tormentato, quello o quella che sia contumace risulti bandito da esule fin a quando non venga a scontar la pena.
Al marito che abbia accusato di adulterio la propria moglie, ed anche a quanti in subordine al coniuge od al padre, abbiano promosso identica accusa ad un'altrui sposa sia tuttavia lecito, in qualsivoglia momento, purchè anteriormente alla pubblicazione della sentenza, ritirare la denuncia, alla condizione però di non poter nuovamente muovere accuse alla stessa donna per il medesimo crimine. Dell'identico beneficio possa altresì usufruire l'uomo accusato di adulterio. Allorchè una moglie accusata d'adulterio venga liberata sia quindi affidata al marito, che la dovrà accogliere nella propria casa. Ed al proposito si deve intendere per casa non tanto la proprietà dell'alloggio od abitazione quanto il domicilio. Per tal ragione questa norma ha vigore sia che uno risieda in casa di proprietà o a pigione od ancora in abitazione altrui a titolo gratuito oppure in locanda ed ospizio: e la stessa vige altresì a riguardo di chi abita in poderi o case rurali, nella misura però che si intenda domicilio il sito in cui si tenga abitualmente dai Sindicatori il censimento dei luoghi
[per ragioni variamente espresse nelle voci del seguente indice le "Leggi Criminali" non analizzano le colpe avverso bambini, fanciulli, adolescenti se non nel contesto degli analoghi vari crimini commessi verso adulti = sulla base del Diritto Romano sono valutate le voci Pedofilo, Pederasta e soprattutto Pederasta violentatore di fanciulli/fanciulle = comunque a riguardo dell'aspra esistenza di fanciulli/ -e nell'età intermedia e specie se di umili condizioni vale la pena di analizzare con attenzione qui la voce Mercante/-i di Meraviglie (con particolare attenzione allo sfruttamento di bambini/-e)]

Capitolo IV (4)

Dei Rapitori

I rapitori di vergini oneste e pure, tanto promesse in isposa che non ancora fidanzate, od anche di vedove o spose, e parimenti quanti abbiano concorso al delitto vengano condannati a morte pur nel caso che le rapite sian state consenzienti. Si vendano inoltre al pubblico incanto i beni di questi criminali e metà del ricavato spetti al Fisco repubblicano mentre la restante parte tocchi, per risarcimento, alla vittima [questo capitolo riprende i dettami del Concilio di Trento in merito alla piaga dei rapimenti affrontata nella sessione XXIV del Concilio e parzialmente dedicata ai Canoni sul matrimonio].
Tutti quanti altresì, al corrente dei progetti di rapimento, non abbiano denunciato al Giudice le intenzioni malavitose e parimenti quelli che, prima o dopo il delitto, si sian brigati nel soccorrerne l'esecutore, risultino passibili di condanna capitale, senza tener conto alcuno di sesso o condizione sociale, sia questa infima oppure eccelsa: soltanto si badi dalla magistratura ,e sempre con massimo rigore, a che i beni patrimoniali di costoro giammai abbiano a patire minima depauperazione o decremento alcuno per arbitrato di qualche Giudice.
Resti tuttavia concesso al rapitore di porre subito rimedio al suo crimine, sposando la propria vittima, purché preventivamente intercorra il consenso del padre di quest'ultima, nel caso sia ancora vivente, od in alternativa quello di due fra i suoi parenti più prossimi. Qualora poi il succitato delinquente, come detto fattosi pentito e riparatore, intenda non soltanto convolare a lecite nozze colla vittima ma anche dotarla giustamente, ben rispettando la di lei condizione e seguendo punto a punto l'arbitrato della magistratura, si debba procedere alla cancellazione della pena sancita nei suoi confronti e contestualmente lo si reintegri nel pieno possesso dei suoi beni, eccezion fatta per la quarta parte degli stessi che, secondo i dettati di questo capo criminale, si intende spettare al Fisco repubblicano. Accadendo però che il valore di siffatta porzione risulti inferiore alla somma di cinquecento scudi aurei, venga costui obbligato, nel giro consueto per legge dei trenta giorni, a rimpinguarla sin a quel minimo valore qui summenzionato. Restando insolvente, il reo sia immantinentemente legato sulle navi qual galeotto sempre che, in alternativa, non lo si esili da Genova e distretto od ancora non lo si incarceri nelle pubbliche prigioni per tutto il tempo giudicato opportuno secondo l' insindacabile arbitrio di Doge, Governatori e Procuratori: attese, sempre per questi ultimi, facoltà e licenza di comminar pene e multe avverso tutti quanti siano stati complici e correi di quel malfattore che, finalmente assicurato alla giustizia genovese, abbia quindi subìto processo e condanna.
Vengano confiscati i beni e si commini l'estremo supplizio a chi abbia tentato rapito o tentato di rapire, anche se consenzienti, una suora votata a Dio o puranche una donna temporaneamente reclusa in convento. A simile pena soggiacciano altresì quanti abbiano partecipato a tal crimine. Inoltre il Pretore e gli altri Magistrati detengano sempre, nei riguardi di questi malfattori, pieno ed ampio arbitrio d'agire, inquisire e punire nei modi cui or ora si è fatto cenno.
Chi poi abbia rapito una serva od una concubina altrui, coll'indegno seppur plausibile fine di congiungervisi carnalmente, sempre che non si riesca a provare il contrario, venga incatenato per un triennio qual galeotto e rimborsi al padrone della serva una cifra doppia rispetto alla stima di mercato applicabile nei riguardi di tal femmina. Chi abbia poi condotto via di casa una serva che non sia stata consenziente, senza meno venga condannato sia all'immediata restituzione della stessa nelle mani del suo legittimo proprietario quanto al pagamento di una multa sempre fissata al doppio del valore di mercato della donna: metà di tal somma debba comunque pervenire in ogni caso al Fisco della Repubblica, spettando il rimanente a titolo di risarcimento del danneggiato. In senso più ampio sia poi comminabile al reo un anno d'esilio da Genova e suoi Distretti.
Onde dissipare a priori future controversie interpretative ed ogni possibile, susseguente contenzioso, sanciamo in chiusa di capo criminale che debba intendersi per serva rapita quella che, nel giro di due giorni, non abbia fatto rientro nalla casa dominicale: contestualmente si stabilisce che i condannati ancora insolventi dopo un mese saranno, sempre e comunque, relegati per un anno sulle triremi.

Capitolo V (5)

Che né a donne di cattiva fama né a lenoni e ruffiani si conceda d'abitare sotto lo stesso tetto con onesti cittadini

Nessuna meretrice o donna di mala fama, alcuna ruffiana e tantomeno lenoni o seduttori possano abitare nello stesso caseggiato ove risiedono uomini e donne di onesta condizione e di buon nome. Qualora le autorità abbiano accertata l'insolvenza di questa norma ed il Magistrato sia stato edotto, grazie anche al concorso di tre giurati, che una qualche donna tenga condotta pubblicamente impudica o che un uomo eserciti il lenocinio, i rei siano obbligati a lasciare tale abitazione entro tre giorni oppure vengano frustati in pubblica piazza, sempre che non abbiano soddisfatta questa imposizione. Qualora i rei, in tempo susseguente, riprendano dimora nella stessa abitazione donde furono espulsi, oltre i confini di Genova e suo distretto, vengano relegati per un quinquennio sulle triremi. Allorché si contravvenga a quanto sopra restino obbligati tutti i colpevoli a pagare l'ammenda di cento lire.

Capitolo VI (6)

Che nessuno osi esercitare meretricio o lenocinio nella città di Genova

Il lenone o la ruffiana, o comunque qualsiasi individuo d'entrambi i sessi, che abbiano attentato per lucro alla pudicizia di fanciulle da marito o di legittime spose, una volta catturati, incatenati e finalmente condannati, siano frustati in pubblico in occasione del loro primo delitto: e quindi, col ferro incandescente, vengano marchiati in fronte. Ai recidivi si amputino quindi le nari e vengano condannati a perpetuo esilio, espulsi per sempre oltre i confini di Genova e del suo distretto. Coll'espressione "tentare la pudicizia" si deve intendere il far in modo che una donna da ritrosa ed onesta venga indotta a fare lasciva ostentazione e mercimonio del proprio corpo. Di conseguenza, essendo cosa vergognosissima svendere per lucro la castità dei propri nati, i genitori che prostituiscono le figlie debbano essere puniti col taglio del naso: i Giudici provvederanno poi a loro insindacabile arbitrato, caso per caso, soltanto nell'occasione in cui le figlie abbiano testimoniato d'essersi consenzientemente prostituite. Oltre a ciò il marito d'infima condizione che abbia tratto guadagno dal meretricio della consorte, sarà frustato e verrà esiliato per dieci anni da Genova e distretto a meno che non venga recluso come galeotto sulle triremi per la durata di un quinquennio. Un cittadino d'onesta condizione verrà al contrario esiliato in perpetuo da Genova e distretto mentre la metà dei suoi beni sarà trasferita nelle casse del fisco repubblicano: non stupisca la severità di tal pene perché chi, fattosi lenone o ruffiano della propria sposa, ne ha prostituiti corpo e piaceri ha realmente commesso un grave delitto avverso la società tutta.

Capitolo VII (7)

Su quanti si sposano clandestinamente

E' possibilistico, di questi nostri tempi, che qualche fanciulla, neppur venticinquenne e giammai sposata o quanto meno fidanzata, possa giungere all'ardimento d'unirsi in vincolo matrimoniale con qualcuno senza il preventivo, richiesto e lecito permesso dei parenti. Per legittimo consenso sanciamo ora, con questo capitolo criminale, che in primo luogo debba intendersi la benedizione paterna alle nozze cui, in ordine decrescente per importanza, succede quella del nonno paterno. In caso però di loro premorte, il diritto di consentire spetterà alla madre quando non si sarà risposata o, in caso opposto, al nonno materno se non allo zio paterno o comunque a qualche altro fra i parenti più stretti.
Può certo accadere che una fanciulla si decida a contrarre le nozze senza possedere famigliari superstiti od anche nell'evenienza che i suoi più intimi congiunti, quelli di cui prima si è fatta rassegna, abbiano a trovarsi fuor di casa, lontani ben cinquanta miglia, se non più ancora dalla città o località distrettuale di residenza; non potendosi, per legge e costumanze, far a meno del consenso cui sopra si alluse, la mentovata fanciulla dovrà allora ottenerlo dai parenti più stretti che le siano rimasti vicini od in vita, risalendo fino a quelli di quarto grado registrati nel suo albero genealogico: in caso estremo, trovandosi lontani pur questi o finalmente estinto dal fato anche l'ultimo fra tutti costoro, sarà necessario per la giovane procurarsi il consenso dei suoi tutori o procuratori. Contravvenendo a quest'obbligo, come si è esemplificato in testa di capo criminale, la fanciulla dovrà venir sempre condannata a perdere ogni pretesa sulla propria dote e contestualmente a decadere da qualsiasi diritto ereditario tanto nei riguardi dei beni paterni che materni, i quali di converso, come se l'ultimo destino avesse sottratto la donna dalle schiere dei viventi, perverranno, nelle frazioni di legge, al padre, alla madre, ai fratelli od ancora a tutti gli altri congiunti aventi diritto.
Un uomo invece che, dei parenti ignorandone la mancanza di consenso, abbia sposato una fanciulla di tal età e condizione, fosse anche una donna più matura, paghi in qualità di multa una cifra da cento a mille scudi, che il Giudice esattamente fisserà dopo che avrà ben soppesato la condizione socio-economica delle persone in causa. Sarà però condannato a morte colui che colla forza avrà indotto al matrimonio qualsiasi donna, coartandone in qualsivoglia modo modo la volontà: in sovrappiù, trattandosi d'una cittadina genovese o d'una residente in città, lo Stato si rivarrà sui beni del colpevole con una pena nummaria di mille lire, che verrà tuttavia ridotta, per insindacabile arbitrio del Giudice, ad una somma compresa fra trecento e mille lire genovesi nel caso sian state vittime della coercizione ragazze o donne dei Distretti.
Può comunque accadere che, per quanto ben al corrente dei contenuti di questo nostro capitolo criminale, qualche pessimo soggetto abbia oprato in maniera assolutamente contraria ai dettati della legge. Resti allora condannato chi, porgendo aiuto o cattivi consigli, fungendo da ruffiano od intermediario, ordinando oppur obbedendo ad altrui comandi e più estesamente usando fraudolenza e suadente inganno, sia stato capace di spingere ad un matrimonio clandestino qualsiasi donna d'età inferiore ai venticinque anni od anche un di quei giovani che non abbiano ancora raggiunto i ventidue anni. La pena comminabile è qui fissata nella somma di cinquecento lire: questo reo dovrà comunque versare nelle casse del Fisco repubblicano anche metà di tutte le multe patite e di cui sopra si disse, mentre la quota superstite perverrà di diritto nelle mani di chi sia stato danneggiato dal matrimonio clandestino ed al quale sarebbe invece spettato per legge l'arbitrio di consentire o meno alle nozze.
I testimoni ed il Notaio che, consapevoli di queste norme avverse, abbiano sancito la legalità di un connubio clandestino, gli uni con le loro attestazioni e l'altro colla sottoscrizione e registrazione degli atti, debbano pagare singolarmente un'ammenda di cento lire in qualità di pena: sarà invece multato con trenta lire chi avrà prestata la sua abitazione, non conta se di proprietà od in affitto, onde perpetrare tal misfatto. Si farà eccezione, colla remissione di condanne e pene, solo per quei poveracci d'ambo i sessi che, senza dimora e famiglia certa di provenienza, sian da ascrivere al sempre folto gruppo dei vagabondi.

Capitolo VIII (8)

Degli omicidi

Vengano condannati a morte sia quanti commisero premeditatamente un omicidio sia quanti furono correi del misfatto, ne predisposero l'ingannevole trappola od anche se ne resero favoreggiatori se non complici [ Le grandi Casate della Repubblica di Genova non erano esenti da congiure con omicidi e partecipazione di assassini e sicari = un caso emblematico (con la temibibile ritorsione di Agostino Grimaldi come qui si legge) fu rappresentato dalla mortale congiura (1523) di Bartolomeo Doria Signore di Dolceacqua (il vero e proprio omicida assistito da suoi sgerri come assassini e sicari) contro lo Zio Luciano Grimaldi Principe di Monaco nel corso di un incontro conviviale nel Palazzo Signorile di Monaco = logicamente dato l'alto rango, le Casate, i Domini in gioco e gli Stati interessati si giunse come si legge nella relazione non ad una condanna ma un atto di vassallaggio del Doria al Duca Sabaudo: cosa che causerà non pochi problemi nel futuro alla Repubblica ]. Un omicida sfuggito all'arresto, ma in seguito convocato dai Giudici ai sensi del capo criminale che qui detta sui contumaci, dovrà presentarsi in Curia entro il giorno fissato sì che poi, secondo i dettami del summenzionato capitolo, non sia più bandito qual esule dal Dominio genovese.
Sanciamo altresì che tutti i suoi beni immobili vengano dispersi o distrutti, salvi i diritti acquisiti da spose, nuore e creditori: depositi bancari, titoli, denaro liquido, gioielli e restanti beni mobili siano invece confiscati, congiuntamente a legati e crediti eventualmente maturati avverso debitori di cui sia cura giudiziale registrare le generalità, onde esser quindi devoluti per un terzo agli eredi della vittima ed al fisco repubblicano per le due restanti porzioni. In caso che succeda subastazione i beni immobili saranno aggiudicati al miglior offerente, salvo che l'Illustrissimo Senato non abbia ritenuto di far cosa più opportuna suddividerli fra attinenti e vicini, aggiudicandoli a costoro sulla base del prezzo che essi stessi abbiano fissato: siffatte opzioni spetteranno, senza alcuna possibilità d'altrui sindicazione, al Senato genovese, purché la Repubblica, per questi ed altri beni ancora, tanto mobili che immobili, già devoluti al fisco od ancora da devolvere dopo una sentenza di causa criminale allorquando sia capitato di metterli in vendita, resti sempre obbligata a tutelare gli interessi di acquirenti ed eredi, congiuntamente a quelli dei loro diversi successori.
Chi si sia dato alla macchia debba sempre venir condannato all'esilio, a meno che, nel tempo convenuto entro questo nostro libro delle pene al capitolo che tratta del modo di procedere avverso i contumaci, il reo sospetto non abbia fatta comparizione innanzi ai Magistrati, sì che allora si possa giudizialmente agire secondo i dettami del succitato capitolo. Cassiamo invece dall'ascrizione alla pena per omicidio quel folle o povero demente che non abbia inteso nè al presente intenda quanto prima abbia perpetrato od al momento faccia. Parimenti dalla stessa accusa cassiamo tanto colui che ha ucciso per legittima difesa o per salvare un compagno quanto quelli che commisero un omicidio a detrimento d'un esule, messo al bando da un Magistrato avente potestà, o di comuni criminali fuggiaschi, quanto ancora quel padrone o quella padrona che abbiano soppresso un lor servitore, maschio o femmina che sia: contro questi ultimi si applicheranno piuttosto le norme del capo qui dettante sui provvedimenti punitivi, leciti o no, nei riguardi di servi infidi e ribelli. Si intima comunque che il Magistrato a tutto ciò preposto indaghi con zelo estremo di modo che alla fine non possan più sussistere dubbi od errore alcuno: il Giudice negligente verrà comunque punito all'istante, con un'ammenda qui fissata in 200 lire.
Si mandino a morte sulla forca, trattivi lungo le vie a coda d'una bestia per pubblico delubrio, quei servi domestici e pur anche tutti quei sottoposti che abbiano ucciso i padroni o qualcuno dei coabitanti nella casa dominicale; vengano altresì condotti al patibolo tutti i lor complici, cioè quanti abbiano prestato consigli ed aiuti al fine di perpetrare simili nefandezze: anche a questi, come a tutti gli omicidi, s'applichi senza eccezione la confisca totale dei beni.
Verrà inoltre condannato senza alcuna remissione ogni individuo, non importa se maschio o femmina, che abbia praticato od anche soltanto concorso a procurare aborti
[vedi anche aborto = nel campo socialmente importantissimo della ginecologia/ostetricia il parto (vedi anche parto cesareo) costituiva un momento drammatico e delicatissimo]: qualora il feto sia nato vivente siffata genia di delinquenti verrà sottoposta alla tortura punitiva mentre, in caso opposto, il Giudice, con modalità e tempi che di volta in volta avrà cura di decidere e fissare, potrà ricorrere all'imprigionamento del colpevole sulle navi sotto specie di galeotto od ancora avrà facoltà di motivare e sancire ulteriori tipi di pene.
Può poi verificarsi che qualcuno, di persona o per tramite di sicari, sia arrivato al punto estremo d'uccidere una persona al fine di diventarne erede in virtù di qualche disposizione testamentaria, d'un intestato od ancora d'un fidecommisso. Costui, una volta sentenziato colpevole, decadrà di nome e di fatto dai suoi diritti e resterà del tutto escluso dall'eredità: questa verrà quindi devoluta ai successori in grado od a quanti altri spetterà, così che mai in qualsiasi tempo possa sottentrare, a titolo di potestà, alcun suo diritto sulla proprietà e sull'usufrutto, salve s'intende le ragioni di coloro dei quali è stato deliberato nello statuto sulle successioni al capo che detta dei morti senza testamento, di cui anche qui sopra abbiamo sancito. Per simile motivo decadranno dai loro diritti tutti quelli che, di per sè od in via di sicari, avranno uccisa la moglie od una nuora o comunque si saranno adoprati onde tramare per la loro morte violenta, sì da poter aumentare le proprie ricchezze con parti della dote di quelle od altrimenti far in modo che detta porzione di beni dotali in seguito pervenga loro, sotto qualsivoglia forma e modo, per strumento d'altre persone. I parricidi e quanti sian stati giudicati rei di parricidio, vengano invece puniti secondo la forma del diritto comune.
Può senza meno accadere che qualcuno, non conta di qual sesso, abbia cospirato per la morte d'un'altra persona o sia comunque risultato complice del misfatto sotto forma di consigli, suggerimenti, ausilio materiale. Non succedendo crimine o perlomeno non andando questo neppur vicino a compimento e fine, il summenzionato reo debba versare al fisco repubblicano trecento lire di multa nel giro di trenta giorni: nel caso sia infine risultato inadempiente, venga costui esiliato da città e distretto oppure sia incatenato qual galeotto sulle navi pubbliche per un arco di tempo che sarà fissato a libero arbitrio del Giudice.
Qualora invece il delitto sia stato perpetrato o quanto meno sia andato prossimo ad esaudirsi, si debba tormentare il reo secondo la forma di questo nostro capitolo e di tutti gli altri ove si tratta di siffatto genere di crimini. Resterà tuttavia assolto chi, fra i principali correi e complici, avrà deferito per tempo ogni cosa al Giudice, sì da vanificare l' omicidio: costui verrà anzi ricompensato con metà somma dell'eventuale pena nummaria che sarebbe altrimenti stata da versare ad altre fonti.

Capitolo IX (9)

A proposito dei cittadini di Genova o dei distrettuali rei d'omicidio fuor di città e distretto

Qualora un cittadino genovese od un distrettuale, fuor di città, dei Distretti ed anche d'ogni altro sito soggetto al Dominio repubblicano, abbia perpetrato un omicidio avverso qualcuno che non sia cittadino della Repubblica, il giusdicente preposto si astenga d'agire contro di lui a guisa d'accusa, inchiesta d'ufficio od altro modo ancora, a meno che non sia intercorsa petizione o denuncia esclusivamente ad opere di colui che abbia volontà di perseguire l'offesa a lui direttamente fatta o ad uno dei suoi consanguinei, parenti ed affini.

Capitolo X (10)

Sugli avvelenamenti

Chi, di persona o per il tramite di sicari, abbia avvelenato qualcuno al segno d'ucciderlo o comunque renderlo in qualche modo inabile, atteso comunque su ciò il giudizio dei medici legali, venga condannato a morte e se ne confischino i beni, di modo che, mentra la terza parte di questi risulti assegnata alla vittima od ai suoi eredi in titolo di risarcimento, le restanti due porzioni siano incamerate dal fisco repubblicano.
Chi, personalmente o tramite il concorso di qualche complice, abbia quindi propinato ad altri un qualsivoglia filtro d'amore venga condotto in catene lungo le vie cittadine, sotto i colpi di verga del Boia, ed infine a titolo d'infamia perpetua gli si marchi il volto con un ferro incandescente, sempre che i Magistrati non abbiano diversamente sancito, comminandogli l'amputazione del naso o delle orecchie
[la condizione di infamia poteva esser sublimata attraverso l'erezione di un pubblico simulacro detto COLONNA DI INFAMIA come questa eretta a perpetua dannazione di Giulio Cesare Vachero per la congiura filosabauda ordita nel 1628 contro la Repubblica di Genova].
Individui colpevoli di siffatto crimine, anche qualora non abbiano agito per dolo né abbiano fisicamente nuociuto alla loro vittima, femmina o maschio che sia, debbono comunque esser puniti con severità poiché da un lato hanno fornito pessimi esempi comportamentali e d'altro canto soprattutto hanno concorso ad accendere il pubblico malessere. Per tal ragione, nel caso che la parte lesa sia rimasta perpetuamente invalida, i colpevoli vengano fatti accecare: e addirittura si commini loro la stessa pena capitale allorquando la vittima sia morta per gli effetti deleteri del filtro o della pozione che furtivamente gli sia stata fatta assumere. A consimile pena si mandi altresì chiunque abbia materialmente contribuito a perpetrare tal crimine o vi abbia in qualche modo concorso, sì da soccorrere tutti questi rei avvelenatori nell'espletamento dei loro malefici imbrogli.
[nota documentaria = non bisogna dimenticare che queste leggi criminali son state redatte nei così detti secoli dei veleni = quando i contrasti specie tra la grandi Casate si risolvevano per via di veleni e di servi altrui prezzolati sì che come qui si legge divenne usuale l'uso del "servo assaggiatore di cibi e bevande" come la ricerca frenetica di possibili antidoti]. Ai nostri tempi [dettano in merito a questo articolo sugli avvelenamenti le norme della LEGGE PENALE GENOVESE DEL XVI SECOLO] neppur manca che alcuni malintenzionati, di per se stessi o coll'ausilio di complici, ardiscano nascondere, in casa o sotto il letto altrui se non già nelle vesti o sul corpo stesso d'una persona, strani maligni artifici opere di streghe o maghi (..maleficam artem strigum vel incantatorum...) [Vedi qui -"AVVELENAMENTO STREGONESCO" = FILTRI E VELENI RITENUTI OPERA DI "STREGHE AVVELENATRICI" - POI ANCORA "AVVELENAMENTO STREGONESCO - VELENI ATTRIBUITI ALLA STREGONERIA E AL DEMONISMO MEDIEVALI" = leggi pure integralmente digitalizzato "L'elemento tossicologico nella stregoneria e nel demonismo medioevale"]. Qualora sussista credibile opinione che le vittime di tali fatture o presunte malie abbiano in seguito perso il ben dell'intelletto, sì da patire oblio di sè, divenendo altre persone da quella ch'erano per costumi ed intelletto, si possa comminare ai colpevoli l'estremo supplizio, salvo comunque l'arbitrato del Giudice che, caso per caso, ha comunque potestà di sancire la pena a suo parere meglio adeguata. Alla stessa maniera, vengano inoltre condannati a morte tutti quei correi che abbiano materialmente partecipato al delitto o che si siano adoprati con giudizi e consigli all'applicazione di queste infernali arti per detrimento di chicchessia [ qui però intercorrerà con il tempo un contrasto tra Stato e Chiesa per stabilire se trattasi di STREGHE e/o MAGHI CRIMINALI spettanti alla giustizia dello Stato oppure di STREGHE ERETICHE e/o MAGHI ERETICI/-ci spettanti invece alla giustizia del Sant'Uffizio = a titolo documentario è da remmentare che Martin Del Rio nelle sue Disquisitiones Magicae descrive un maleficio amoroso che sarebbe stato perpetrato perpetrato proprio a Genova nel XVI secolo ai danni di un giovane uomo]. Il Pretore di Città o qualsivoglia altro Magistrato detengano sempre totale arbitrio nella conduzione dell'inchiesta contro tutti costoro, usando anche gli strumenti della tortura, tanto inquisitoriale che punitiva e letale: e vengano ammessi a far ciò secondo le caratteristiche del delitto commesso. [ nota documentaria = non si fa cenno in queste leggi criminali, non essendo ancora apparse le grandi manifestazioni di peste nel genovesato, ad una forma preternaturale di avvelenatori vale a dire, alimentati dal dilagare della superstizione oltre che dall'inefficienza delle terapie, degli UNTORI di "sostanze diaboliche e altamente tossiche e ritenuti correi di streghe e maghi" (e di cui nel milanesato si ebbe la feroce persecuzione ai tempi della peste di manzoniana memoria)]

Capitolo XI (11)

Degli assassini

La letteratura giuridica suole definire assassini non solo quanti abbiano tolto la vita a qualcuno, o lo abbiano ferito colla plausibile intenzione, non potendosi provare, il contrario, d'ucciderlo, ma anche coloro che, soggetti a procedura inquisitoriale abbiano canfessate certe lor delittuose premeditazioni ed il conseguente tentativo, vanificato da sopraggiunti inconvenienti, di far qualche ammazzamento. Con questo capitolo criminale sanciamo quindi che siffatti rei vengano impiccati sulla forca dopo esservi stati trascinati, attraverso le pubbliche vie, a coda d'una mula ond'esser di monito spaventoso alle genti accorse. A perpetuo esilio si punisca poi l'assassino che, sfuggito alla giustizia, si sia reso contumace: oltre a ciò i suoi beni verranno immediatamente confiscati e quindi distribuiti secondo le modalità già impresse sotto il precedente capitolo che detta degli omicidi. Tal reo, una volta che auspicabilmente sarà stato assicurato alla giustizia dalla forza pubblica, verrà giustiziato senza ulteriori indugi e secondo i modi sovraesposti. Le stesse pene peraltro colpiranno anche quanti, onde ingiuriare e far del male, pur senza esplicita intenzione di commettere assassinio, avranno trasceso al punto d'ammazzare qualcuno, mutilarlo per sempre od anche deturparlo in volto con indelebile cicatrice. Nell'eventualità che niente di questo sia accaduto e che neppur le ferite risultino permanentemente visibili od invalidanti, l'accusa di tentato assassinio sarà cassata onde venir surrogata con quella d'aggressione sì che cadrà la pena di morte, sostituita col taglio d'una mano o coll'incatenamento del condannato, qual galeotto, sui vascelli statali per la durata d'un lustro. Qualora però si sian dati alla macchia, siffatti rei restino esiliati dallo Stato. E' altresì vero che un gesto criminale, con in potenza i crismi dell'assassinio preterintenzionale, di fatto si sia quindi tradotto in aggressione non cruenta, senza spargimento alcuno di sangue: in tal caso al reo toccherà la pena nummaria di cinquecento lire a meno che, secondo arbitrato giudiziale, non si ordinerà d'imprigionarlo per due anni qual galeotto di triremi. Questo genere di condannati però, mancando di pagar l'ammenda nel giro di dieci giorni, non potrà evitare un esilio quinquennale dai territori del Dominio.
Per la nostra letteratura giuridica dovrà altresì chiamarsi assassino chi, in qualche modo indotto ad assumere l'incarico di far un'uccisione, pur senza perpetrare il crimine confessi in seguito ai Giudici preparazione, volontà di far male e premeditazione dell'incompiuto misfatto, sì da venir tradotto agli arresti e subito dopo condannato ad un'ammenda di cinquecento lire, se non anche in estrema ragione ad esser relegato nelle navi, sin a dieci anni, sotto titolo di galeotto. Tal sicario inoltre, se non avrà saldata la pena nummaria entro dieci giorni da quello della sentenza di condanna, verrà di poi prontamente esiliato dal Dominio genovese a libero arbitrio dei Giudici ma giammai, comunque, per un arco temporale minore di cinque anni.. Può tuttavia verificarsi l'accidente che un sicario, prima d'esser deferito e catturato, abbia denunziato il suo mandante così da farlo assicurare alla giustizia: il sicario resterà allora immune da colpa, accusa e pene correlate ricevendo in sovrappiù il premio pattuito dal mandante che, di converso, dovrà sborsare al fisco repubblicano, qual pena nummaria, il doppio di quanto convenuto col sicario. Stabiliamo in ultima analisi che s'ascrivano fra gli assassini sia quelli che per commettere un dei crimini di cui si disse abbiano assunto il prezzolato incarico del sicario sia coloro che abbian comunque agito nella speranza di riscuotere tal illecito compenso: vengano parimenti reputati assassini tanto quelli che da voce e fama popolare sian giudicati rei di tali crimini quanto coloro che abbiano espresso in pubblico la volontà d'ammazzare qualcuno avendo già riscosso mercede del perpetrando delitto o pur solo avuta garanzia e promessa del nefando compenso.
Quanti abbian giovato a questi criminali dando ricetto, soccorso materiale e puranco utili consigli restino condannati come quegli stessi sicari od assassini che in modi diversi si sian dati, volta per volta, a sovvenire illecitamente. Poichè purtroppo tuttora accade che, nonostante le precauzioni della legge, in parecchi casi siffatti ammazzamenti vadano ad effetto e compimento, noi qui sanciamo che tutti questi correi, dei quali s'è or ora data menzione, non debbano venir condannati coll'assassino alla pena capitale, all'esilio perpetuo od alla prigionia a vita sulle galere, da comminarsi secondo il parere dei Giudici e la gravità dei fatti, soltanto nel caso che abbiano fattivamente collaborato per la cattura del criminale o che entro due giorni dall'avviso di comparizione lo abbiano personalmente assicurato agli inquirenti. Qualora però l'assassino debba pagare il suo delitto non colla morte né con torture punitive ma sotto forma d'ammenda nummaria, al suo od ai suoi favoreggiatori toccherà la stessa pena, a pro del fisco repubblicano.
Non di rado avviene che qualcuno, personalmente od in via di sicari, abbia tentato d'uccidere un suo nemico residente al momento in paesi stranieri: succedendo però che, a ragion di imprevisti e peripezie, l'assassinio venga alla fine perpetrato in terre del Dominio di Genova, il reo, una volta preso e condannato, sarà senza remore condotto al patibolo incatenato a coda di bestia: inflessibilmente s'applichi inoltre identica pena a quanti abbiano ucciso all'estero un cittadino genovese o del Dominio o qualsivoglia residente su territori soggetti alla Repubblica. Tutte queste norme abbiano vigore parimenti contro sicari, complici che accettino in consegna momentanea il compenso del delitto, fomentatori e favoreggiatori del sicario od assassino a meno che per sanzione della magistratura genovese la vittima non risultasse ricercata per gravissimi delitti sì da venirne contestualmente autorizzata la giustizia sommaria. In tal evenienza pei succitati individui giammai debbano sussistere colpe né tantomeno condanne e pene. Sia peraltro vietato condannare in contumacia qualsiasi assassino se non sussista pubblica voce e solare convincimento della cittadinanza sulla sua reità come esecutore o mandante. Inoltre non dovrà mai restare immune da accuse colui che avrà fraudolentemente accusato o calunniato chicchessia d'assassinio, poco importa se a titolo d'esecutore o di mandante
[NOTA = nel contesto del reato di calunnia, tra il resto, era ormai temuto, oltre che quello per quanto possibile vigilabile e da esaminare nell'Urna Lignea, l'uso indiscriminato delle "lettere orbe" come eran dette le lettere anonime], e una volta condannato costui verrà multato per cinquecento lire da versare in uguali frazioni al fisco repubblicano ed a chi sarà stato danneggiato dalle sue infondate e mendaci delazioni.

Capitolo XII (12)

Di quanti si levano a far percosse

Venga frustato qualsiasi cittadino genovese, del distretto o qualsivoglia straniero che contro chicchessia abbia levato minacciosamento delle armi o qualsiasi strumento atto a percuotere, non tuttavia fin al segno d'espletare l'intendimento aggressivo: in alternativa gli venga comminata una pena nummaria da cinque a cinquanta lire. Qualora l'ammenda non sia stata pagata entro un mese, si torturi il colpevole coi giri di corda oppure lo si incarceri sino al giorno in cui non abbia versato la somma dovuta al fisco. Nel caso però che prima della sentenza di condanna sia intercorsa pacificazione con l'offeso si provveda a ridurre la multa a sole dieci lire. Occorrendo invece che qualcuno sia stato percosso ma non al punto di versar sangue, il malfattore paghi ammenda da dieci a cento lire, salvo che che non abbia addotto in sua difesa ciò che sanciamo venga inteso in esplicito riferimento a qualcuno di quei particolari eventi e casi che di seguito sono elencati in questo nostro capo criminale. Nella circostanza all'opposto del versamento di sangue, senza però che l'offeso presenti FERITA MORTALE (VEDI APPROFONDIMENTO) o sia rimasto col volto frantumato, trattandosi sempre d'offesa non premeditata ma preterintenzionalmente generata da una rissa degenerata o da un eccesso riprovevole d'iracondia, il condannato debba al fisco repubblicano da dieci a duecento lire in titolo di multa. In sovrappiù, correndo pacificazione colla parte lesa, entro quindici giorni la pena nummaria venga dimezzata. Qualora però non sia intercorsa, nel mese dopo la condanna, quietanza alcuna dell'ammenda inflitta, la multa venga duplicata per ognuno dei delitti predetti oppure si incateni il colpevole sulle triremi come galeotto per un periodo da uno a tre anni, valutata come di norma la qualità del misfatto.
In caso invece d'offesa premeditata, senza però che sia intercorsa ferita mortale, s'applichi un'ammenda da venti a cinquecento lire ed al più tardi s'applichi la pena dell'esilio triennale: sempre che nel frattempo un intercorso concordato fra le parti in lite non abbia resa opportuna l'abolizione della pena. Comunque solo una volta che sia stata pagata l'ammenda, si dichiari il condannato libero dall'esilio. Quando sia stata provocata una ferita, durante un'aggressione preterintenzionale esaltata da eccessi di rissa od ira, il colpevole venga condannato ad un'ammenda da trenta a trecento lire e resti esiliato per un triennio da Genova e suo distretto. Nella circostanza che in quel periodo di tempo sia intercorsa pacificazione con l'offeso od i suoi eredi, il condannato, pagata l'ammenda, non venga però esiliato.
Allorquando invece l'aggressione sia stata premeditata, sì da procurar ferite letali, si condanni il colpevole ad una pena nummaria da cento a mille lire e, al più tardi, lo si multi a cinque anni d'esilio da Genova e distretto oppure lo si incateni per un triennio come galeotto sulle triremi. Se nel frattempo intercorrerà pacificazione colla parte lesa, il reo, nel caso sia stata pagata l'ammenda, non debba prender la via dell'esilio. Chi di persona o per mano d'un sicario abbia intenzionalmente percosso qualcuno in volto sì da sfregiarlo in modo permanente, venga condannato a un'ammenda compresa fra cento e mille lire per ciascuna ferita procurata e lo si incateni sulle navi come galeotto per un arco di tempo fino a tre anni, attese le qualità del misfatto e della vittima, specialmente se quest'ultima è una donna di limpida rispettabilità. Lo stesso, una volta che abbia saldata la multa, non venga però rinchiuso qual galeotto nel caso sia sovvenuta pacificazione colla parte offesa o, nel caso di premorte, coi suoi eredi.
Si tagli una mano, salvo che non lo si recluda come galeotto per un decennio, a chiunque, volontariamente, come è presumibile in assenza di prove contrarie, entrato nell'abitazione di chicchessia, lo abbia percosso, con armi di qualsivoglia genere o con oggetti contundenti, pur senza causare lesioni gravi e permanenti. Nel caso però che queste sian state perpetrate, il colpevole venga condannato a morte o sia recluso a vita come galeotto. L'aggressore che, usando balestre, archi o schioppi, abbia esploso dei colpi avverso qualcuno, evidentemente per ferirlo allorquando non si riesca a provare il contrario, sia condannato a morte. Nell'evenienza che tal reo sia sfuggito alla cattura, lo si condanni all'esilio perpetuo dal dominato genovese e soggiaccia egli a tutte le restanti pene comminate, secondo questi Libri dei Malefici, nel capitolo sugli omicidi. Si tagli una mano, qualora non lo si renda galeotto per tre anni, a chi, travestito e mascherato sì da non essere riconoscibile, con armi od oggetti contundenti abbia assalito qualcuno, pur senza ferirlo. Nel caso sia stato invece perpetrato siffatto ferimento, venga comminata al reo la pena di morte; qualora poi non lo si riesca ad assicurare per tempo alla giustizia repubblicana, si condanni il contumace all'esilio perpetuo, comminate naturalmente le pene spettanti agli omicidi secondo quanto sancito al relativo capitolo di questi nostri libri criminali. Nel caso che qualcuno, dopo un'aggressione ed un susseguente ferimento, abbia perduto un occhio o sia rimasto mutilato del naso, di un braccio, di un piede od ancora di una mano o d'una tibia, oppure, semplicemente, sia rimasto minato nel fisico in modo irreparabile, sì da non potersi più sostentare in modo autonomo, si punisca il feritore raddoppiando, quando possibile, l'entità delle ammende di cui si è scritto sopra. La stessa norma si applichi peraltro a quanti abbiano perpetrato simili misfatti nei templi sacri, nei monasteri o in altri luoghi santificati ed ancora nel foro, comunemente detto li banchi (in volgare nel testo) ove si trovano i mercanti, nel Palazzo delle Compere di S.Giorgio, davanti ai magnifici Supremi Sindicatori, innanzi gli Straordinari, il Pretore od ancora gli Uditori della Rota.
Si condanni immantinente a morte, altresì confiscandone tutti i beni, l'infame che, in presenza di Doge, Governatori o comunque anche uno soltanto fra loro, abbia osato sfoderare la sua spada o cavar fuori altra arma convenzionale, coll'evidente intento, se proprio non si possa provare l'opposto, di ferire se non anco far uccisione. Allo stesso modo ed in simile forma cada sotto i colpi della giustizia l'ignobile aggressore che, entrato di forza in casa del Doge, abbia sguainato un'arma percuotendo a sangue l'Illustrissimo Signore: si tagli invece la mano rea a quel criminale che non abbia saputo o potuto perpetrar l'indegno assalto a segno di procurar ferite gravi o sanguinolente. Quanto viene qui sancito pei feritori del Doge ricada altresì sui malvagi assalitori che, in piazza del Palazzo o nell'aula dei Magnifici Procuratori, abbiano proditoriamente assalito un di questi fin al punto di farne scorrere il sangue: nell'evenienza però che detto aggressore non sia trasceso dalla minaccia armata ai fatti, stabiliamo che debba piuttosto venir recluso da galeotto sui vascelli o quantomeno esiliato per un lustro fuor di Genova e distretto.
Chi abbia poi colpito qualche rivale con un manrovescio od un pugno in volto, od addirittura l'abbia battuto in testa se non anche preso a colpi di bastone, pagherà al fisco pene nummarie da trenta a trecento lire e dovrà allontanarsi per sempre dal Dominio, a meno che, entro un anno dal suo crimine, non si sia pacificato colla vittima o cogli eredi di questa ed abbia pagata la multa, sì da poter rientrare impunemente nei territori della Repubblica. Qualora però risulti vittima dell'aggressione un cittadino genovese d'oneste condizioni non potranno sussistere remissioni di sorta ed al reo si amputerà una mano: in sovrapprezzo quest'ultimo verrà relegato per tre anni in un luogo prestabilito fuori Dominio o, in utile alternativa, sarà imprigionato ai remi delle navi per un periodo compreso fra l'anno ed il triennio, attese dal Giudice, more solito, qualità di persona e di misfatto.

Capitolo XIII (13)

Siano incarcerati quanti procurano percosse o ferite

Venga tradotto in carcere, dopo l'avvenuta cattura, chiunque abbia percosso o ferito qualsivoglia persona nè lo si dimetta se non quando, secondo la relazione dei medici legali, si sia dimostrato che la ferita non è mortale o più non comporta rischio di vita. Perché si abbia questa fedele ed opportuna certificazione è però necessario che il Magistrato inquisitore invii due medici, precisamente un fisico ed un chirurgo, ad ispezionare il ferito. I due medici legali raggiunto, al capezzale della vittima, il chirurgo preposto alle medicazioni provvedano, con quest'ultimo, ad ispezionare attentamente se la ferita possa o meno portare alla morte. Quanche solo due fra loro testimonino che la ferita sia mortifera, il colpevole non debba venir scarcerato; in caso contrario lo stesso sia invece rimesso in libertà una volta che sia stata accettata la garanzia da lui fornita d'attenersi al diritto e di soddisfare quanto sarà poi sentenziato.

Capitolo XIV (14)

Sulla scelta dei medici legali

Spetti al Doge stesso od ai Magnifici Procuratori la scelta, fatta dagli elenchi dei Collegi professionali dei Fisici e dei Chirurghi, per entrambi i medici legali che, assieme al medico curante e secondo i dettati del precedente capitolo, debbano giudicare la gravità delle ferite dell'offeso.

Capitolo XV (15)

Su chi percuote il proprio avversario

Può verificarsi che tanto il querelante che il querelato, in ambito di discussione davanti al Giudice incaricato, possano aggredire il proprio avversario, direttamente o valendosi di complici. In tale circostanza, per lo stesso diritto, non abbian più a valere nella causa le offese addotte, a pregiudizio della propria persona e/o patrimonio, da chi abbia dato luogo all'aggressione. In caso che le percosse sian state causate in momentanea assenza del Giudice , tanto che sia scorso sangue quanto che ciò non abbia avuto luogo, vengano raddoppiate a danno del percuotitore le pene che già si sono fissate per quanti incorrono in questo tipo di reato. Parimenti, ed in conformità dello stesso capo criminale, si commini la duplicazione delle pene anche a quei procuratori che, trattando per altri le liti in tribunale, abbiano percosso o comunque per primi si sian levati ad aggredire le persone contro cui praticano al momento la loro giuridica professione. Se però verrà provato che quest'ultimo riprovevole fatto sia accaduto per volontà del principale, costui dovrà essere multato in conformità degli assunti e delle norme concernenti la sua peculiare figura giuridica, mentre, nel contempo, gli si infliggeranno le pene da noi stabilite avverso tutti quanti perpetrano percosse e procurano ferite.

Capitolo XVI (16)

Su chi percuote o gravemente offende un Nunzio in occasione di qualsiasi citazione reale o verbale

Valutato il misfatto e le condizioni socio-economiche della vittima, debbano pagare l'ammenda da quindici a cinquanta lire quanti abbiano ingiuriato o percosso od ancora fatto malmenare un messo o nunzio pubblico di entrambe le Curie , sia civile che criminale. Risulti altresì probatoria la testimonianza giurata del messo o nunzio. Nondimeno il colpevole si ritenga per citato in quella causa per la quale lo doveva essere, così come se fosse stato pubblicamente citato.

Capitolo XVII (17)

Sulle spese che qualsivoglia feritore sarà obbligato a sostenere per il risarcimento delle sue vittime

Il cattivo soggetto che si sia reso colpevole di percosse e ferite nei confronti di qualche persona sia sempre obbligato a risarcire la vittima tanto delle spese medico sanitarie sostenute, quanto dei danni patiti per la sospensione coatta delle attività di reddito, quanto ancora d'ogni altra somma altrimenti sborsata per riparare a/lle più svariate conseguenze di sì imprevedibile eppur grave accidente. In ogni caso a Genova sarà sempre compito del Pretore urbano o del Giudice dei malefici l'arbitrio di fissare la cifra del risarcimento: costoro peraltro faranno eseguire la sentenza nel caso che sian state finalmente rimossi appelli, proteste, opposizioni. Per quanto invece concerne i Distretti lo stesso dovere spetterà al Magistrato locale che avrà condotta l'inchiesta sul caso.

Capitolo XVIII (18)

Su chi dà origine a risse , tafferugli e oltraggi a pubblici ufficiali

Venga condannato a sborsare tempestivamente nelle casse fiscali una somma da cinquanta a centocinquanta lire, attesa per il Giudice la più ampia facoltà di comminargli l'esilio biennale, chiunque abbia oltraggiato con vergognose espressioni un Magistrato della Repubblica, un ufficiale ordinario, un delegato come pure arbitri od arbitratori nell'esercizio delle loro funzioni. Se poi il reo avrà percosso un di loro a pugni o calci, in modo però non sì grave da ferirli, la pena nummaria dovrà essere estesa fin ad ottocento lire; e nel caso ancor più grave che l'assalto sia avvenuto tanto sconsideratamente che, per schiaffi in pieno volto o pugni violenti sul capo od alla nuca, il funzionario sia poi caduto ai piedi del'aggressore, verrà senza meno comminata a quest'ultimo un'ammenda da cento a mille lire, la cui cifra esatta sarà fissata dal Giudice dopo che avrà investigato a fondo sul misfatto e sulla condizione socio-economica del colpevole.
Trascesa invece l'aggressione a segno che per l'animo infuocato dall'ira, un aggressore, maneggiando qualsiasi arma a ragion di millanteria ed intimorimento, abbia accidentalmente ferito un di quei servitori della giustizia, la pena nummaria resterà contenuta in mille lire, pur concedendosi al Giudice ampia potestà di sancire avverso il criminale l'esilio da Genova per due anni: al contrario, venendo inconfutabilmente provate la premeditazione e l'intenzionalità del delitto, il reo sarà consegnato al Boia perché, a perenne marchio di vergogna, ne amputi una mano.
Un'eventuale offesa ai Magistrati può verisimilmente degenerare in rissa e non è certo da escludere l'ipotesi che un oltraggioso malfattore pervenga in modo preterintenzionale al segno di cui sopra: tenuto sempre debito conto del pubblico esempio, la condanna dovrà esser quindi di ordine tanto nummario che corporale, contemplando ammende da trecento a mille lire e l'esilio fino ad un quinquennio, pene che tuttavia, di caso in caso ed a seconda di ceto e censo delle persone coinvolte, verranno sancite dal Giudice solo all'atto della sentenza.
Può altresì malauguratamente accadere che, trasformatosi l'oltraggio in aggressione fisica, un di questi funzionari venga ferito in maniera tanto seria da restar perpetuamente menomato: in tal caso si comminerà il doppio della pena in questo nostro libro sancita sotto il capitolo concernente gli aggressori ed i percuotitori, sempre che, naturalmente, il colpevole possieda beni bastanti a dare soddisfazione, nel tempo concesso, dei suoi debiti avverso lo Stato. In caso opposto il succitato reo dovrà esser punito corporalmente con due o tre giri di corda a meno che il giusdicente non intenda piuttosto comminare, secondo sua libera scelta, la condanna all'esilio per tutto il tempo che riterrà conveniente.
Sanciamo invece qui di seguito che i Magistrati possano intraprendere azione legale avverso il proprio ingiuriatore soltanto a ragion che la causa pervenga in ogni circostanza all'ultima e definitiva sentenza. A tal riguardo dovrà sempre e soltanto sentenziare ed eseguire il Pretore di Genova nei casi in cui sian stati offesi Magistrati operanti nella città: proprio al Giudice insultato, allorché risieda ed eserciti nelle Riviere o nei Distretti, si conceda invece d'istituire il processo purché, giunto in prossimità della sentenza definitiva, egli non la pronunci ma piuttosto trasmetta tutti i suoi atti all'Illustrissimo Doge ed ai Magnifici Procuratori cui spetterà l'onere di far integrare la giustizia sin a sentenziare una volta per tutte. Nel caso però che l'ingiuria sia stata sollevata contro la degnissima persona del Pretore urbano, a lui solo resterà lecito agire, indagare, riconoscere sì da definire nel modo che gli sarà parso migliore, salvo sempre il rispetto di questi Statuti Criminali: non gli verrà però mai concesso di sentenziare in relazione a cause che comportino pene criminali e sempre, in tale circostanza, formato il processo, dovrà egli consultare Doge e Governatori, dovrà egli consultare Doge e Governatori, sì da poter in seguito sentenziare secondo il loro illuminato parere.
Può indubbiamente anche verificarsi che un cittadino genovese di buon nome e saldo patrimonio sia giunto a segno d'ingiuriare un che che non risulti da meno di lui. Giammai in queste evenienze potrà insorgere remissione di pena ed anzi, considerati fatto e qualità delle persone in causa, si commineranno ammende da venticinque a duecento lire, compresa la più ampia potestà di comminare un anno d'esilio, sempre che nel frattempo non sia intercorsa pacificazione. Verrà invece multato da trenta a trecento genovini quel cittadino che abbia offeso un altro a lui superiore per ceto e censo: nel caso però che dopo trenta giorni sia rimasto ancora insolvente lo si torturerà, a ragion punitiva, con due o tre giri di corda, sempre che non gli si comminino in alternativa tre mesi di carcerazione. Occorrendo invece offese tra cittadini d'umile condizione la multa avverso il perpetratore sarà senza meno dimensionata tra dieci e le venti lire, sempre che l'ingiuria non sia stata pronunciata davanti a qualche Magistrato urbano o distrettuale, nello spazio del pubblico mercato detto Li Banchi (in corsivo nel testo), nelle chiese, nel Palazzo dogale od in quello dei Magnifici Protettori delle Compere di S.Giorgio, se non addirittura entro la casa dell'offeso o sul limitare del suo uscio: in tal caso si dovranno sempre raddoppiare a danno dell'ingiuriatore, tutte le pene che abbiano valenza di duplicabilità.
Inoltre insorto il vile accidente che, in pieno espletamento della professione, sia rimasto ingiuriato un dottore ascritto al Collegio medico genovese, dovran sempre condannarsi i rei, qual ch'essi siano, a pagare da venticinque a cento scudi aurei di multa, una cui metà si dovrà poi assegnare al fisco, mentre la restante spetterà al summenzionato Collegio dei medici: alternativamente alla pena nummaria potrà venir comminata, nei confronti del malfattore, la tortura punitiva sotto forma di due o tre giri di corda.

Capitolo XIX (19)

Sugli stranieri che fuori Genova e suoi Distretti abbia fatto violenza a qualche cittadino della medesima città od a qualsivoglia suddito delle dipendenze

Può verificarsi che forestieri avventurosi, in qualche luogo fuori Dominio, al di là quindi di cinta urbana e dei Distretti, abbian l'ardimento di recare ingiurie ed offese se non addirittura danni fisici nei riguardi di cose e persone di qualche cittadino di Genova o suddito distrettuale del Dominio. Accadendo che un di questi malfattori rientri in città o nei diversi siti dei Distretti, sia sempre lecito, per le vittime o loro vindici, farne querela nelle persone di Pretore o Magistrati locali onde agire legalmente contro di quello. Al Pretore od ai Giudici distrettuali si conferisca quindi potestà di catturare prontamente lo straniero colpevole come sopra, di farlo tradurre in carcere e pronunciare quindi la sentenza come se il delitto fosse avvenuto sempre in Genova sì da poter comminare sempre le pene secondo la forma del diritto ordinario.

Capitolo XX (20)

Dei ladri

Chiunque abbia rubato per un valore sino a cinque lire di moneta genovese venga condannato ad un'ammenda, pur del doppio, che il Giudice caso per caso fisserà tenendo conto dell'età del reo, del tipo di reato, della quantità di refurtiva, del luogo e del tempo in cui fu perpetrato detto misfatto. Allorquando, entro dieci giorni dalla condanna, la multa non sia stata versata al fisco, il colpevole venga fustigato procedendo per la pubblica via sin al luogo di S.Antonio. Qualora il furto sia stimato per una somma compresa tra le cinque e le dieci lire di genovini il colpevole paghi invece sin a venticinque lire d'ammenda secondo insindacabile arbitrio del Magistrato. Se le stesso non avrà saldato l'ammenda nei giorni come sopra si è detto, venga fustigato in pubblico andando di processione per strada fino al sito di S.Lazzaro. Allorquando poi il furto ecceda le venticinque lire, per un massimo di quaranta, il reo resti punito coll'amputazione dell'orecchio sinistro ma nel caso che il crimine compiuto sia stato valutato e stimato di valore compreso fra quaranta e cinquanta lire si provveda a marchiare il colpevole sul volto, usando un ferrro incandescente, sì che egli debba in perpetuo e a titolo d'infamia ostentare alla pubblica ragione i segni delle sue malefatte [la condizione di infamia poteva esser sublimata attraverso l'erezione di un pubblico simulacro detto COLONNA DI INFAMIA come questa eretta a perpetua dannazione di Giulio Cesare Vachero per la congiura filosabauda ordita nel 1628 contro la Repubblica di Genova]. Per un furto stimato fra cinquanta e cento lire si amputino invece ambo le nari del reo ed ancora lo si marchi d'infamia sul volto [la condizione di infamia poteva esser sublimata attraverso l'erezione di un pubblico simulacro detto COLONNA DI INFAMIA come questa eretta a perpetua dannazione di Giulio Cesare Vachero per la congiura filosabauda ordita nel 1628 contro la Repubblica di Genova]. Venga quindi impiccato chiunque abbia rubato per valori superiori alle cento lire genovesi. Nel caso che il furto sia però stato commesso in Genova nello spazio del porto o nella pubblica piazza, dove si radunano i mercanti, chiamata li Banchi (in volgare nel testo) oppur anche nelle chiese, tutte le ammende pecuniarie vengano raddoppiate e qualora queste non sian state tempestivamente pagate nella loro interezza, il ladro paghi il debito suo sotto forma di pene corporali. In linea generale si ritiene di dover comminare tutte queste pene già in occasione della prima condanna ma, nel caso che qualcuno sia stato riconosciuto responsabile di più furti, senz'esser mai stato in avanti multato, debba egli pagare la sommatoria delle pene in denaro connesse ai singoli misfatti di cui abbia colpa. Qualora la soluzione delle multe non sia invece avvenuta nel tempo legalmente utile, debba il reo venir punito con sanzioni corporali. Valga altresì identica procedura avverso ogni recidivo, purché la stima complessiva di tutti i furti attribuitigli non ecceda un valore compreso fra le venticinque e le cinquanta lire genovesi: nel caso contrario il reo venga però condannato a morte ed impiccato sulla forca. Nell'evenienza non rara che più delinquenti abbiano perpetrato in comune un furto dal valore comunque inferiore alle cento lire genovesi si proceda alla condanna d'ognuno al pagamento d'una pena nummaria od ai tormenti corporali seguendo la procedura già da noi prescritta. Accadendo poi che tal furto collettivo abbia dato un bottino che, nella ripartizione a testa fra i criminali, risulti alla fine ammontare fin alle cento lire di Genova si debba condannare tutti i criminali alla relegazione quale galeotti sulle triremi, per un periodo variabile dal biennio ai cinque anni. Si applichi infine il supplizio capitale nei confronti degli aderenti a quella banda o gruppo di ladri ch'abbia perpetrato un furto cumulativamente di tal entità che, per criminosa ripartizione del maltolto, ad ognun fra loro sarebbe spettata una refurtiva del valore superiore alle menzionate cento lire genovesi. Tuttavia, avverso quei ladri ch'abbiano età inferiore ai vent'anni o comunque superiore ai sedici, non si applichino suddette pene e si provveda piuttosto alla fustigazione od alla relegazione quale galeotti sulle navi, ben soppesate comunque sempre dai Giudici le condizioni socio economiche dei soggetti in causa, le azioni compiute e la gravità dei fatti delittuosi perpetrati.
I LADRI TAGLIABORSE
[come detta questo capo XX dei cinquecenteschi Statuti Criminali di Genova: ci si riferisce a predoni da strada meglio noti come MANTICULARII] che di notte a forza o con destrezza rubano ai passanti vesti, mantelli e copricapo [a dimostrazione della valenza economica data -oltre che al denaro od altro custodito nelle borse- all'abbigliamento in tutte le sue forme, tanto da attrarre la cupidigia dei ladri, nel suo Scudo di Rinaldo (parte I) -qui digitalizzato e multimedializzato- l'erudito intemelio A. Aprosio seppur in una chiave misogina ed antifemminista che attutì con lo scorrere degli anni (vedi "lettera C" e in particolare "XII QUESTIONE") trattò di argomenti connessi a moda, vesti, cosmesi, lusso, acconciature, ornamenti ecc. ecc. (le parole evidenziate nel testo antico digitalizzato sono attive)] mentre di giorno, mescolatisi alla folla, taglieggiano o comunque sottraggono con destrezza ed artifizio le borse dei viandanti, siano condannati, per la prima volta, a fare i galeotti sulle triremi repubblicane: siano però mandati alla forca ogni volta in cui sia provato che si tratta di recidivi [i manticularii erano retaggio, violento, d'una forma di furto contemplato sin dal tempo di Roma antica quello di indumenti e vesti, specie se di pregio e di valore e pertanto ambiti da ladruncoli, magari perché relativamente facili da asportare soprattutto ne caso degli indumenti momentaneamente dismessi dai frequentatori delle Terme: antichi malandrini ( indubbiamente prossimi, nella tipologia, ai citati manticularii di molti secoli dopo) per quanto usi a preferire la destrezza e l'abilità nel dileguarsi ma talora rivelandosi aggressivi specie se sorpresi, cosa non impossibile in un impianto balneare certamente frequentato e verosimilmente custodito. Al contrario dal medioevo al XVII secolo alcuni manticularii erano invece alquanto temuti perché assalivano di notte, sbucando da qualche agguato imprevisto, e colpivano i riottosi, fin anche ad ucciderli ma giammai con armi da fuoco o armi da taglio: loro preda importante -oltre ai valori monetali od in preziosi delle malcapitate vittime- era anche costituita dalle vesti pregiate dei viandanti, specie se nobili od agiati commercianti, sì che per vincere le resistenze, fino all'assassinio, si valevano di armi contundenti, specie di bastoni, in grado di uccidere senza rovinare gli abiti e senza far in modo che venissero macchiati da emorragie di sangue particolarmente violente, con la conseguenza in entrambi i casi di non poter rivendere gli indumenti, così criminalmente sottratti, al massimo prezzo possibile].
Sia impiccato
[continua questo capo XX dei cinquecenteschi Statuti Criminali di Genova] chiunque abbia compiuto effrazione nei riguardi di un'abitazione, una dispensa od un magazzeno coll'intenzione presumibile, se non si provi il contrario, di rubarvi per un valore stimato superiore alle dieci lire: a riguardo di cifre minori di questa si ricorra piuttosto alla fustigazione oppur si leghi da galeotto il reo ai remi delle navi per un periodo di tempo giammai da meno dei due anni. Chi al contrario abbia sì scassinato un di quei locali di cui si disse ma non abbia alcunché rubato, sia perchè distolto da imprevista paura o da rumor di passi sia anche perchè colpito e fermato se non pur soltanto messo in fuga da qualcuno per caso lì sopraggiunto, venga frustato e quindi esiliato per un anno da Genova e distretto. Ma anche in questi ultimi casi sia giustiziato sulla forca, per impiccagione, il reo che, pur non avendo rubato nulla dopo l'effrazione, abbia fatto irruzione a mano armata, con intenzioni violente. I correi e favoreggiatori, per detta partecipazione o maliziosi consigli forniti, restino colpiti dalle stesse pene che tocchino all'esecutore materiale del crimine. In tutti i summenzionati casi si restituisca ogni volta il maltolto qualora se ne sia rientrati in possesso mentre, in caso contrario, il reo risarcisca del proprio il valore del furto secondo la stima fattane in lire genovesi. Non sussista differenza fra una soluzione della pena in denaro o col patimento di pene fisiche ed anzi, pur nel caso sia stato soddisfatto una punizione corporale, il ladro venga tenuto in sicura custodia dallo Stato presso il carcere di malapaga (in volgare nel testo) a libero arbitrio del derubato, finché appunto questo non abbia ottenuta soddisfazione del maltolto. Non si sospenda però, una volta che sia stata comminata, alcuna pena di morte, salva restando tuttavia, per chi soffrì un furto, l'azione legale contro i beni del giustiziato allo scopo di un opportuno risarcimento. A riguardo del concetto di pena capitale od estremo supplizio, dal momento che se ne fa menzione più volte in questi Statuti dei crimini, è doveroso rammentare che per essa si intende sempre, nel Dominio di Genova, almeno in prima istanza l'impiccagione sulla forca. La condanna a morte può tuttavia eseguirsi legalmente anche sotto specie o forma del venir arsi vivi sul rogo anche se questo genere di pena, essendo stato escogitato in tempi più recenti e soprattutto contro sacrìlegi ed eretici, per la giurisprudenza criminale genovese noi riteniamo preferibile comminarlo soltanto per colpe e pene specificatamente indicate in quei capitoli ove si richieda l'opera purificatrice delle fiamme. In senso più esteso ma secondariamente all'esecuzione per via d'impiccagione sul patibolo la giustizia estrema può venir lecitamente applicata, in questo caso senza eccezion di sorta per le caratteristiche del reato, secondo le tecniche della decapitazione: aggiungiamo peraltro che secondo la nostra interpretazione la condanna perpetua d'incatenamento ai remi delle galere repubblicane debba ritenersi ulteriore forma d'estremo supplizio. Non sia però concesso punire chicchessia per un furto commesso oltre i confini del Dominio, anche nel caso che la refurtiva fosse poi stata ricettata in Genova o nei suoi Distretti. Tuttavia il Pretore di città o qualsiasi Magistrato distrettuale che, su espressa denunzia, abbiano avuto cognizione, anche per sommi capi, che una qualche refurtiva già condotta fuori Dominio si ritrovi, perché riportatavi in qualsiasi pur imprecisabile momento, presso un ricovero di qualsiasi ladro, in Genova o comunque nel Dominio, abbiano essi facoltà di incarcerare il colpevole ed obbligarlo a restituire il maltolto al lecito padrone, se non, in alternativa, risarcire questo secondo la stima nummaria dei beni rubati. Qualora il furto sia stato perpetrato a danno di qualsivoglia cittadino genovese o distrettuale sia naturalmente consequenziale l'azione criminale contro il reo catturato.
Chi poi abbia fatta ricettazione di oggetti rubati paghi, alla prima condanna, un'ammenda sin al doppio del valore della refurtiva, alla seconda condanna versi al fisco tre volte tanto e qualora, nonostante ciò, persista nell'esser recidivo, debba il suddetto venir perseguito secondo i dettami della giustizia criminale oppure sia multato ancora, ma in modo nuovo, come se lui stesso avesso commesso tal furto
[vedi DIGESTO DI GIUSTINIANO al TITOLO XVI del LIBRO XLVII].
Il servo che senza complici abbia rubato qualche cosa al suo padrone, o comunque a chi lo tenga al proprio servizio, venga multato secondo il libero arbitrio del danneggiato: nell'eventualità che via siano stati uno o più complici, non importa se servi o liberi per condizione, il reo resti punito sempre secondo la forma di questo capitolo criminale sui ladri ed in alcun modo si conceda al padrone di poterlo eventualemente sollevare dalle sue responsabilità e colpe.

Capitolo XXI (21)

Di quanti abbiano rubato una serva od un servo

Chi, furtivamente, abbia portato via un servo od una serva dalla lor casa dominicale oppure accolto un di questi, fuggiasco, nella propria dimora, celandolo agli inquirenti, od anche chi abbia fatta combutta con tale o tali famigli, dopo la fuga dall'abitazione padronale, ed ancora quanti si siano adoprati per l'alienazione di detto servitore o servitrice, vengano senza distinzioni di sorta condannati a morte per impiccagione sulla forca oltre che ad una giusta pena nummaria, stablita ad arbitrio di due probiviri, onde risarcire al derubato il prezzo del servo fuggiasco. Chi poi, senza espressa volontà del padrone, abbia liberato la tibia od il collo di un servitore dall'anello costrittorio paghi per intero il prezzo del servo stesso al suo padrone, stante la stima fatta da quest'ultimo: il risponsabile della malefatta debba altresì versare al fisco, come pena, la somma di cinquanta lire. Il padrone danneggiato conservi comunque sempre integro dominio del servo o della serva rapiti o fuggiaschi e contestualmente possa sempre muovere azione legale contro i beni di chi portò via uno o più domestici suoi di natura servile, logicamente secondo il prezzo di volta in volta attribuito a ciascuno di questi ultimi. Ma poiché non è mai facile provare tutte queste cose, nell'ntenzione di oprare sempre meglio e più facilmente far risplendere la cristallina verità, con questo capo criminale attribuiamo al Magistrato inquirente la potestà di indagare sui predetti reati nelle forme e nei modi che di volta in volta gli parranno opportuni. Inoltre per la classificazione di servo o serva ci si attenga in tutto a ciò che risulta sancito in questo capo criminale e nei due che subito seguono: definiamo peraltro di condizione servile colui che, da qualsiasi padrone, vien tenuto o lecitamente posseduto per l'espletamento di quei lavori che per l' appunto son detti servili secondo l'usanza pubblica.

Capitolo XXII (22)

Su quanti inducano alla fuga servi altrui

Chiunque, al di là della volontà dei padroni, abbia indotto un servo od una serva ad abbandonare furtivamente la casa dominicale, fuggendo di città o da qualunque sito distrettuale per via di terra o di mare, sia obbligato alla pena nummaria di cento lire e gli si debba amputare una mano nel caso abbia mancato di saldare il dovuto nel giro estremo dei trenta giorni di legge. S'applichi invece il marchio d'infamia su una mascella del servo transfuga, finalmente catturato e rimesso in potestà dei suoi proprietari [la condizione di infamia poteva esser sublimata attraverso l'erezione di un pubblico simulacro detto COLONNA DI INFAMIA come questa eretta a perpetua dannazione di Giulio Cesare Vachero per la congiura filosabauda ordita nel 1628 contro la Repubblica di Genova]. Identica punizione colpisca peraltro colui che sia stato sorpreso mentre con un suo mezzo andava trasportando lontano il fuggiasco. A nessun padrone o comandante di nave, grande o piccola che sia, resti peraltro consentito accogliere in essa qualche servo, o serva, che risulti privo della scheda o patente del padrone, con la sottoscrizione del nome dei suoi servitori, opportunamente vidimata dal sigillo dominicale. Nel caso che abbiano disatteso a questo comandamento, debbano siffatti marinari pagare al fisco un'ammenda di cento lire ed in più debbano sborsare al padrone del servo, o serva che sia, almeno la metà del prezzo che sul mercato sia attribuito a questi ultimi.
Chi peraltro abbia acciuffato a dieci miglia da Genova, a venti trattandosi del distretto, un servo od una serva privi della scheda obbligatoria e , una volta presili con sé, li abbia rimessi al loro legittimo proprietario, da quest'ultimo debba sempre ottenere, a titolo di ricompensa, dieci lire di genovini: e la TAGLIA
[ cioè la RICOMPENSA PER LA CATTURA O UCCISONE DI UN CRIMINALE CONTUMACE fissata per legge o per accordo con la famiglia, mutevole da individuo a individuo, ed a vantaggio dei così detti CACCIATORI DI TAGLIE citati spesso nel testo globale di questi cinquecenteschi LIBRI CRIMINALI DI GENOVA] salga a venti lire nell'evenienza che i catturati sian stati intercettati ad una distanza superiore alle venti miglia dal teritorio distrettuale. Il Magistrato abbia potestà di esercitare costrizione ai fini d'un celere pagamento procedendo per sommi capi, senza ricorrere ad alcuna necessità di scritture e pegni.

Capitolo XXIII (23)

Come reprimere gli eccessi di qualsiasi servitù insofferente d'ordine e disciplina

E' da ascrivere entro il capo assai vasto dei crimini possibili che qualche servo malandrino, recatosi nell'abitazione di un cittadino genovese od anche entro quella d'onesti residenti urbani, sia pervenuto a riprovevoli eccessi secondo il savio giudizio di qualche galantuomo già testimone oculare del fatto od anche soltanto sulla base di verosimili congetture. Attese le malazioni del domestico, non si dovranno altrimenti punire quei di casa allorquando, eccitati od offesi in dignità ed onore, poco conta se da solo o tramite uomini di lor fiducia, abbiano punito subito tal servo maldicente, sin al punto stesso di lasciarlo ferito se non addirittura prostrato od anche ucciso suopra l'impiantito di casa od altrimenti nelle vicinanze della stessa dimora, magari anche abbandonato per strada, nei campi, nelle aie od in consimili siti ancora. In caso ultimo potrà venir comminata, ai responsabili di lesioni fisiche permanenti o persin letali, soltanto una pena nummaria fin a cinquanta lire sotto titolo di risarcimento per il padrone di quel famiglio così punito per le sue troppe sconvenienze. Sanciamo inoltre qui, onde reprimere sul sorgere controversie interpretative, che l'espressione giuridica del "recarsi in casa altrui" debba intendersi sotto variegate forme, comunque riconducibili ad un elenco d'azioni fondamentali quali il raggiungere l'uscio d'un'abitazione, l'entrar nel portico, il salire su per le scale od ancora il battere o picchiettare contro la porta o le finestre di casa. Neppur sussistano pene per il cittadino genovese che abbia percosso, anche selvaggiamente, o ferito, sin a menomarne una parte del corpo, quel servo impudente ma disarmato da cui sia stato aggredito in maniera proditoria: i Giudici commineranno pene, peraltro nummarie e mai corporali, nell'unica gravissima evenienza che la legittima difesa sia trascesa al punto d'uccidere il domestico: non debbano invece comminarsi pene d'alcun genere nell'evenienza che il servo ferito od ucciso si fosse scagliato brandendo, avverso cittadini genovesi, armi di qualunque foggia. Neanche sussistano condanne allorché un padrone abbia preso a nerbate un proprio servo usando bastoni od altri oggetti contundenti, purché non siano di ferro né abbiano anima d'altro metallo: non faccia peraltro differenza se tal padrone, come più facilmente accade, avrà demandato ad altro suo dipendente o famiglio il compito di eseguire materialmente la punizione del servo ribelle o negligente. In sovrappiù nemmeno conti, per quello che si è detto, cosa quel cattivo domestico possa poi fare a ragion delle botte e punizioni patite: nessun peso legale avrà dunque il fatto che egli si sia eventualmente dato a precipitosa fuga, che abbia persin scelto di suicidarsi, che sia perpetuamente rimasto sciancato se non menomato o che addirittura sia morto in conseguenza delle pene corporali cui venne assoggettato. Fa eccezione l'occorrenza che la suddetta punizione sia stata perpetrata con oggetti di ferro perché, in tal caso, per quanto sia interdetto ricorrere a tormenti corporali, il Giudice, scegliendo di suo libero parere, dovrà comunque multare i responsabili dell'arbitrario eccesso di costrizione.
A prescindere dai casi summenzionati, sanciamo tuttavia di seguito che si debba punire con multe, torture od anche sulla forca, chiunque abbia ucciso un altrui servo, intendendosi fissato, a termini di questo nostro capo criminale, un risarcimento fin a centocinquanta lire, da versarsi nelle mani di chi legalmente possedesse il famiglio straziato. Chi al contrario non avrà trasceso oltre il ferimento d'un altrui domestico, resterà parimenti condannato ma gli sarà comminata sempre e soltanto metà della pena che, secondo gli Statuti Criminali, avrebbe dovuto soddisfare avrebbe dovuto soddisfare uccidendo un uomo libero.
Nell'occasione invece che sia stato un servo a percuotere o ferire un libero, seppur in maniera non mortale, la pena da espiare dipenderà esclusivamente dal Giudice che, in piena autonomia e col solo impedimento di sancire l'estremo supplizio, sceglierà, in relazione al crimine ed alle persone coinvoltevi, quella punizione che di volta in volta gli sembrerà migliore. Sanciamo in chiusa di capo criminale che quanto predetto debba pariteticamente intendersi lecito per il genere femminile ed estendibile quindi a tutte le donne, di libera e servile condizione.

Capitolo XXIV (24)

Sulle rapine

Su tutto il Dominio, da Corvo a Monaco e dai gioghi al mare, oltre alla confisca di tutti i beni, vengano trascinati per coda d'un cavallo alla forca dell'ultimo supplizio quanti, armati o no, con destrezza o violenza, abbian perpetrato rapine a danno di viandanti o passeggeri delle pubbliche strade. Si comminino altresì identiche pene a predoni d'altrui dimore, briganti di via e a tutti quanti sian stati marchiati come nemici del pubblico bene. Da queste condanne nemmeno scampino quei malandrini che, pur non riuscendo a compierla, abbiano premeditata qualsivoglia rapina: ed in sovrappiù questo nostro capo criminale sancisce che la pena di morte per impiccagione debba pur toccare a quei delinquenti di strada i quali, poco conto se disarmati o meno, abbian rapinato, fuor di piazze e pubbliche strade, beni diversi d'un valore eccedente le venticinque lire di genovini. Tuttavia, occorrendo che la stima di tal refurtiva risulti inferiore a suddetta minimale, sia cassata in ogni caso l'estrema condanna, dovendo invece il Giudice, secondo suo insindacabile arbitrio, optare per multe da cento a trecento lire, per l'esilio da città e suoi Distretti od ancora per l'imprigionamento triennale qual galeotti in servizio sui vascelli della Repubblica. In ogni caso resti sempre intesa, comunque, la riparazione di ciò che sia stato rapinato od in utile alternativa l'esborso, alla persona lesa, d'una somma in denaro stimata equivalente al maltolto che, eventualmente, possa esser andato disperso.

Capitolo XXV (25)

Sui sacrilègi (clicca qui per approfondire l'importante tematica sui sacrilègi anche sotto l'aspetto dell'evoluzione dei crimini e dei provvedimenti di legge)

Venga condannato come sacrìlego e sia giustiziato in pubblico, sulla forca, chiunque abbia rubato qualsivoglia santissima reliquia, fra quante di solito si conservano in chiese e basiliche, sacrari o luoghi santificati. Al ladro, così empio d'aver violato il tabernacolo coll'Eucarestia o qualsivoglia più modesto vaso ove puranco la si conservi, venga mozzata la mano profanatrice, prima di farlo trascinare nella polvere delle pubbliche vie, ben legato alla coda d'un mulo, fin che si giunga al luogo del supplizio estremo, là ove s'eresse la forca.
S'applichino invece pene minori, seppur sempre severe, nel caso che qualcuno, per via d'inganni o rapine, abbia strappato, alla solita custodia entro i luoghi pii dei nostri templi, anche una sola fra le tante cose di per sè non sacre ma assolutamente essenziali all'espletamento del culto cristiano: tra queste vogliamo menzionare il turibolo, la croce, il messale, l'antifonaria, il breviario, qualsiasi ornamento dell'altare od altri sacerdotali indumenti, quelli che nell'uso corrente si chiamano più spesso paramenti, ed in definitiva ogni arredo o strumento o simbolo simile a tutti questi di cui si è appena fatta menzione. In prima istanza chi sia stato riconosciuto reo d'un siffatto crimine, per una refurtiva che non ecceda comunque la somma di cinque lire genovesi, debba sempre venir fustigato in pubblico.
Nel caso però che suddetto criminale sia recidivo gli si mozzino le orecchie oltre ad applicare la pena consueta della fustigazione.
Se però la refurtiva sarà stata stimata per un valore compreso fra le cinque e le dieci lire di genovini, il colpevole, già al primo reato, oltre a venir frustato in pubblico risulterà ulteriormente punito tramite l'amputazione di entrambe le orecchie, come sopra appena si è scritto.
E se poi la valutazione del furto ammonterà ad una somma che intercorra fra la dieci e le venti lire, oltre alla pubblica fustigazione, si procederà alla relegazione del criminale, per un anno almeno, ai lavori forzati quale galeotto sulle triremi repubblicane. In caso quindi di gravissimi furti, per somme cioè superiori alle venti lire di genovini, si dovrà sempre comminare senza tergiversazioni il supplizio estremo sulla forca, per via d'impiccagione.

Capitolo XXVI (26)

Gli abitanti tutti dei luoghi soggetti a Genova debban sempre risarcire quei danni che scriteriati criminali abbian eventualmente cagionato a chi transiti pei territori soggetti alla loro giurisdizione.

Capita non di rado che qualche pacifico viandante, nelle dipendenze venga proditoriamente aggredito, da malfattori d'ogni sorta, nelle dipendenze di Genova, entro i sacri confini del Dominio, quelli che, al modo che è noto, corrono dal Corvo a Monaco e scendono dalle giogaie, ed in parecchi casi persin dall'Oltregiogo, fin alla Riviera del mare. Verificatosi un di questi accidentati eventi sovviene spesso che se ne faccia pronta denuncia agli abitanti se non al giusdicente del luogo sui cui territori fu perpetrato tal delitto: non esisterà mai differenza di procedura, da intraprendersi in forma d'inquisizione, d'ufficio od in qualsiasi altro modo sancito da opera del Magistrato dei Malefizi: correrà invece costante obbligo pei Giudici di multare tutti gli abitanti del posto, rei di negligente custodia, a soddisfare sempre, senza eccezion di casi, quanti passeggeri abbian patito rapine ed offese sull'area delle loro competenze amministrative, intercorrendo impunità nell'esclusiva circostanza che l'offeso sia un ricercato per crimini se non altrimenti un di quegli spiriti ribelli che, datisi alla macchia, non saranno ancor stati assicurati alla giustizia dopo l'ottavo giorno di latitanza. Sanciamo anzi, col presente capo criminale, che in quest'ultimo caso, oltre a venir riconosciuti senza colpa, i summenzionati paesani addirittura abbian licenza di far causa non solo a tal delinquente, onde rivalersi sulle di lui proprietà, ma altresì contro i suoi plausibili complici, cioè quelli che lo possano aver soccorso nel crimine od anche l'abbiano ospitato dopo aver appreso che sulle sue piste s'era già messa in caccia la giustizia. Vi sia comunque sempre potestà di procedere d'ufficio e per sommi capi avverso tali delinquenti e tutti quanti siano stati accusati di esserne correi. Pretore di Genova, Giudice dei Malefici e qualsiasi altro Magistrato distrettuale facciano quanto di meglio per ricostruire la verità sui fatti e mettere ai ceppi tutti i responsabili, così che si possa indennizzare per tempo le municipalità ed i luoghi sulle cui aree amministrativo-giurisdizionali vennero perpetrati crimini e biasimevoli rapine.
Il cittadino genovese ed il suddito distrettuale che in terra ferma, ma fuor dei Distretti, abbian rapinato qualcuno che non sia nemico dichiarato della Repubblica, debbano venir condannati alla restituzione del maltolto se non, in caso estremo, al risarcimento della refurtiva, per quella stima che ne avrà fatto fare la magistratura, di modo che un' equivalente somma pervenga, di poi, qual pena nummaria nelle casse del fisco di Genova. Giammai si possano comunque comminare pene superiori a queste, sebbene in certi casi e secondo la forma di qualche sentenza sembrerebbe da provvedere in modo diverso, a meno che la rapina non sia stata perpetrata contro qualche cittadino genovese o del distretto: per via di tormenti e torture venga peraltro punito nel corpo, come se avesse commesso il crimine in Genova, colui che si rese colpevole di tanto misfatto. Correndo poi severi sospetti e indizi che degli avventurieri, per terraferma o sul mare, abbiano rapito qualcuno, onde costringerlo poi a riscattarsi la libertà a peso d'oro, resti concessa al Giudice designato l'indagine d'ufficio al fine di ricomporre realtà e sostanza di quanto supposto o denunziato, magari valendosi anche dei massimi strumenti inquisitoriali: poi, nel caso che la verità sia stata doviziosamente delineata e che si sian provate le colpe, lo stesso Magistrato dovrà far punire a morte sulla forca il reo già messo ai ceppi, sempre che non si tratti d'un pirata o d'un nemico dello Stato.

Capitolo XXVII (27)

Che nessuno eserciti la pirateria né sul litorale né si dia ad azioni da predone marinaresco

Nessun cittadino genovese o distrettuale e tantomeno alcun suddito dello Stato [dettano i "Libri Criminali" di Genova del 1556 (1557)] abbia l'ardire sia d'armare qualsivoglia imbarcazione per l'esercizio della pirateria che di prestar opera su un vascello piratesco allestito da chicchessia. Si condanni quindi all'impiccagione chiunque abbia violato questa norma e resti sempre obbligato alla restituzione del maltolto: faranno eccezione il caso per cui si sia riusciti a provare che lo stesso sia stato coartato a far ciò od esista qualche specifica concessione dell'Illustrissimo Senato della Repubblica. Quanti sul litorale che corre dal Corvo a Monaco abbiano perpetrato rapine per una stima inferiore a venticinque lire siano tenuti a risarcire la vittima del doppio rispetto al danno patito ed in sovrappiù versino identica somma, entro quindici giorni dalla sentenza, nelle casse del fisco. Al reo, che non abbia provveduto ad espletare questi obblighi, si taglino le mani, ma lo si condanni alla pena capitale nel caso il delitto da lui commesso sia stato stimato per un valore eccedente le venticinque lire di cui sopra si disse.

Capitolo XXVIII (28)

Di quanti offrono riparo a Pirati e Predoni

Nessun cittadino genovese o distrettuale, di qualsivoglia livello sociale, alcuna associazione collegiale di abitanti, a qualsiasi municipio o castello appartenga, per il litorale che va da Corvo a Monaco, osino offrir ricovero in lor porti, spiagge o contrade a qualunque tipo di nave piratesca o di predoni, per quanto grande o piccola possa essere, seppur anche del tipo minimo della barca a remi dal nome volgare di fregata. Contestualmente non sia lecito fornire a pirati e predoni alcun altro genere di soccorso o favore compresi il rifornimento di vettovaglie e di armi. Qualunque cittadino privato sia pervenuto in contravvenzione di queste norme paghi una multa fin a cinquanta lire e possa lecitamente esser tormentato nel corpo a titolo di punizione infamante [la condizione di infamia poteva esser sublimata attraverso l'erezione di un pubblico simulacro detto COLONNA DI INFAMIA come questa eretta a perpetua dannazione di Giulio Cesare Vachero per la congiura filosabauda ordita nel 1628 contro la Repubblica di Genova]. Nel caso però siano stati correi gli abitanti tutti di castelli e municipi, l'ammenda sia elevata da cento sin a cinquecento lire e possa esser aumentata ancora, secondo l'insindacabile arbitrio dei Magistrati a meno che non si possa dimostrare che gli inquisiti siano stati costretti senza alcuna facoltà di scampo a dar pronto ricetto alle imbarcazioni piratesche nei ricoveri del loro litorale.

Capitolo XXIX (29)

Su quanti offrono assistenza e protezione ai Predoni

Di questi tipi di brigantaggio e pirateria può certamente accadere che qualche mal fidato suddito genovese abbia procurata ospitalità o si sia data briga onde accogliere, magari tramite complici od interposte persone, un predone se non addirittura un pirata, cui s'addebiti d'aver rapinato alcuni residenti distrettuali o qualsivoglia cittadino genovese. In questo capitolo criminale degli Statuti sanciamo pertanto che si debba condannare senza remore chiunque, così mal oprando, abbia procurato gran nocumento allo Stato trasformandone qualsivoglia sito in ricetto sicuro pei briganti e al riguardo ribadiamo, per filo e segno, che i limiti territoriali del Dominio, cui si fa cenno, corrono da Corvo a Monaco e si estendono da Novi, Gavi, Palodio, Capriata, come in definitiva da qualsiasi altra terra genovese dell'oltregiogo, fin alle riviere del mare. La condanna verrà sempre fissata tempestivamente, sì da obbligare il reo all'intero risarcimento di chi sia stato vittima dei misfatti di pirati o predoni da lui ignominiosamente soccorsi: per inciso si stabilisce che pari ammende spettino a quei cattivi soggetti che, pur avendone licenza e facoltà, non si siano adoprati affatto al fine di catturare i ladroni ma li abbiano semmai lasciati scappare.
In relazione a quanto venne summenzionato qui sanciamo che, allorquando ne abbia fatta esplicita richiesta una qualsiasi fra le vittime di quei predoni, il Pretore di Genova od altri Giudici nei Distretti conservino obbligo di confiscar tutti i beni che, dopo oculata investigazione, si siano trovati in città come nel Dominio, appartenere lecitamente al malavitoso ch'abbia ospitato quei criminali predatori: a detti Magistrati resti tra l'altro ampia e piena facoltà di incarcerare chi sia stato accusato poi d'aver dato illecito ricetto ai briganti sì che per conseguenza gli stessi Giudici possano procedere d'ufficio a sommi capi onde obbligare siffatti delinquenti, puranco valendosi di tutti i leciti strumenti inquisitoriali, a risarcire, compiutamente e nel tempo da lor fissato, le persone lese e danneggiate senza necessità alcuna di trascrizione o pegno di bannalità: nel caso però che il colpevole sia riuscito a sfuggire, il Giudice potrà comunque valersi sui beni sequestrati sì che, rimossa ogni plausibile eccezione e finalmente venduti quelli al pubblico incanto, si sia in grado di dar completa soddisfazione ai danneggiati.

Capitolo XXX (30)

Di quanti dispongono del denaro o degli altrui beni in modo diverso da come ne stabilì il padrone e che, comunemente, si definiscono barattieri.

Accade talora che qualcuno disponga, altrimenti da come pattuito col loro legittimo padrone, di quei beni o denari che gli vennero consegnati per farne deposito, reddito o commercio. La giurisprudenza non ha mai veramente chiarito se al responsabile del dolo si possa imputare il furto per via di inquisizione, di delazione o di pubblica accusa. Volendo cancellare questi dubbi di interpretazione da un lato stabiliamo che il dolo debba essere punito con un'ammenda straordinaria, precisamente sotto forma pecuniaria, dall'altro sanciamo invece che l'azione giudiziaria del furto spetti soltanto a colui che affidò i propri beni nella forma come sopra è detto od al limite, essendo nel frattempo morto, ai suoi superstiti eredi. Inoltre se di questi qualcuno vuole intraprendere un'azione legale, il Magistrato dovrà attenersi al diritto ordinario ed avvertirà l'accusato in che modo è idoneo oprare in siffatte circostanze, purchè, visto il tipo di accusa, nulla, sotto forma di aggravio o di addolcimento, possa intercorrere nei riguardi della legge comune e di quella municipale.

Capitolo XXXI (31)

Sulle Monete

A chicchessia, su tutto il territorio soggetto al Dominio genovese, sia proibito battere monete, per sè o su commitenza, fuor che a quanti venne attribuita tale facoltà dal Serenissimo Senato: e debban pur costoro oprare soltanto nella Zecca o Casa Monetiera. I contravventori vengano puniti con la morte e siano arsi sul rogo, anche se la moneta battuta sarà in tutto identica a quelle lecitamente coniate. Tocchi la medesima pena a chiunque abbia fuso o battuto moneta falsa e lo stesso valga per chi si sia eletto promotore del delitto, vi abbia partecipato in maniera diretta, ne sia stato complice materiale o comunque, pur avendone la possibilità, non ebbe cura d'impedirlo o deferirlo. Da tal condanna e pena neppure siano esentati quanti, testimoni oculari od anche solo a conoscenza del delitto perpetrato, non ne abbiano fatta delazione ai Magistrati entro il giro delle ventiquattro ore per il territorio della capitale o nell'arco di otto giorni a riguardo dei Distretti del Dominio. Vengano altresì confiscati tutti i beni dei colpevoli e se ne assegni un terzo a chi insinuò l'accusa, spettandone il restante al fisco repubblicano. La casa od edificio in cui venne materialmente perpetrato il delitto, qualora sian risultate proprietà di qualcuno dei rei, vengano demolite in tutte le lor parti, sinché fin le macerie, a perpetua dannazione ed oblio, risultino spianate a livello del pubblico suolo.
Quanti poi abbiano alleggerito qualsiasi asse monetale d'oro o d'argento, colla presumibile intenzione, se non si prova il contrario, di farne illecito commercio a peso ridotto, vengano torturati con finalità punitive oppure siano condannati a morte se non si vorrà applicare qualsiasi altra ammenda ed anche una multa in denaro da comminare secondo l'autonomo arbitrio del Giudice. Allo stesso modo si colpiscano coloro che, manipolando metalli con rasure o vernici ricoprenti se non con diversi altri imbrogli, abbiano fatto sì da alterare od impoverire l'intrinseco valore delle monete. Successivamente resti compensato, rivalendosi sui beni del criminale, con una somma tra duecento e cinquecento lire, chi abbia accusato o fatta delazione, di modo che la colpa del sospetto sia stata provata in maniera inconfutabile. Se però non restassero beni da confiscare od i pochi superstiti fossero serviti a pagare quanto dovuto per risarcimento e pena, chi avrà contribuito alla giusta condanna sarà premiato direttamente dai Magnifici Procuratori con un valore nummario oscillante fra le venti e le cento lire genovesi.
Può accadere che alcuni criminali dolosamente costruiscano quei tipi, per battere moneta, che oggi si soglion chiamare ferruzzi detti punzoni, che valgono a fare il conio. Si condannino a morte, confiscandone altresì i beni, tutti costoro, sia residenti in Genova che nel Dominio: si concede altresì al Giudice, quale alternativa al patibolo, di far torturare il reo secondo criteri esclusivamente punitivi e non inquisitoriali. La stessa pena ancora si applichi avverso quanti sian stati scoperti celare in casa propria tenaglie da zecca, crogiuoli o fornelletti per la fusione dei metalli o qualsiasi altro apparecchio idoneo a coniar monete. Sanciamo quindi che le suddette attività e le illecite detenzioni d'artifici professionali restino interdette a chiunque, fatta eccezione pei fabbri che debbano valersi, ben s'intende, di questi strumenti: è altresì implicito che a codesti artigiani si dovranno comminare le pene sopradette nel caso che pure essi siano incorsi nel crimine della falsificazione.
Se nelle mani di qualcuno fossero giunte delle monete false le spezzi in due parti o, non essendo in grado di far ciò, si valga dell'opera di chi sia capace ed abbia gli attrezzi per tal scopo. Ben si capisce che, a maggior ragione, dovranno far la medesima cosa quell'agente di cambio o cassiere, così meglio oggi si usa dire, e quegli orefici nelle cui mani saranno casualmente capitate una o più monete fallaci. Nel caso che si sia contravvenuto a queste direttive, il colpevole versi al fisco, per ogni reato commesso, una pena nummaria stabilita volta per volta dal Magistrato ma di cui si fissano a venticinque lire il minimale ed a cento il massimale. Occorrendo che qualcuno sia stato scoperto ed arrestato per aver speso almeno cinque lire false o, trovandolo comunque in possesso d'una simile cifra, si applichi nei suoi confonti, secondo la stima giudiziale, una pena nummaria compresa fra le venticinque e le trecento lire.
Chi, non importa se Genovese, distrettuale o straniero, abbia consapevolemente introdotte nel Dominio repubblicano delle monete straniere messe al bando resti punito colla confisca delle stesse ed una di queste si versi al fisco: per sovrappiù il reo sia obbligato ad una pena nummaria compresa fra cinquecento e mille lire, da fissarsi in rapporto alla sua condizione socio-economica. Può accadere che qualcuno abbia portato a Genova o nel distretto monete straniere di qualsivoglia genere, di cui sia lecito il cambio presso gli sportelli preposti, che abbiano il valore eccedente quello di dieci lire repubblicane: sia allora suo dovere, prima di spenderle, recarsi prontamente presso gli uffici del Magistrato delle Monete al fine di farle stimare. Chi avrà disatteso a questa normativa verrà multato con la confisca delle monete e risarcirà personalmente il danno a chi, in buona fede, abbia accettato le stesse a pagamento di qualsiasi oggetto venduto o servizio prestato: successivamente il reo verrà multato ad una pena nummaria fissata, secondo la gravità del reato e la sua condizione socio-economica, dai funzionari dell'Ufficio delle Monete.
Senza remore o dilazioni si condannino poi subito a morte quanti, in piena consapevolezza, abbiano introdotto nel Dominio intero di Genova anche una sola moneta falsa di valore eccedente le dieci lire repubblicane. Trattandosi invece di monete stimate per un valore minore si debba diversificare la pena a seconda della nazionalità del reo. Uno straniero verrà rinchiuso come galeotto sulle triremi per un tempo definibile, a giudizio dei Magistrati, fra cinque e dieci anni; al contrario un suddito della Repubblica potrà esser punito coll'esilio perpetuo oppure per mezzo dell'incatenamento ai remi delle navi statali. Venga giustiziato sulla forca anche chi abbia fatto coniare monete false oppure abbia prestato il suo ingegno o la propria capacità manuale allo scopo di realizzarle.
Sovraintenda all'inchiesta il Giudice degli Ufficiali delle Monete che, nel rispetto di questo capitolo degli Statuti Criminali, potrà giudicare e sentenziare secondo la forma della facoltà che gli sarà stata attribuita.

Capitolo XXXII (32)

Di chi redige falsi documenti

A qualsiasi individuo maggiorenne, d'età quindi sopra i 25 anni, che abbia consapevolmente falsificato, da sé o tramite complici, qualsivoglia atto notarile o documento pubblico, si amputi una mano e si commini il perpetuo esilio da Genova e distretto: contestualmente metà dei suoi beni passi al fisco repubblicano, spettandogli altresì il carico del risarcimento a pro di chi sia stato danneggiato. Incorra nella stessa pena chiunque abbia falsificato qualsivoglia scrittura notarile in carte pubbliche, atti, sentenze, libri dello Stato e delle Compere di S.Giorgio, come anche delle altre compere. Estensivamente sia così punito chi, nelle trascrizioni fatte da un pubblico Notaio al servizio di qualsiasi Magistrato della Repubblica, abbia scritto od evidenziato qualcosa di fallace oppure si sia macchiato di omissione per malafede od ancora abbia eroso o cancellato la scrittura originale per poi soprasegnare altrimenti. Fatta lecita eccezione per colui che rogò il documento, venendo segnate e testate in calce o margini di questo, per mano del pubblico notaro, le chiose o cancellature apportate: solo in questo caso nessuno possa giudicarsi colpevole.

Capitolo XXIII (33)

Su chi produce atti o documenti falsi

Decada istantaneamente, per le norme del diritto stesso, dalla causa in corso e da ogni suo diritto, azione e difesa e debba pagare una pena nummaria doppia rispetto al valore di quanto venga dibattuto chi, davanti ad un Magistrato ordinario o delegato se non anche innanzi ad un arbitro od un arbitratore, mentre vien trattata la summenzionata causa, abbia l'ardire di produrre, da sé o per concorso d'altri, documenti, sentenze o qualsiasi altro atto che siano falsi od in cui sia stato aggiunto qualcosa di mendace, od al contrario per via di cancellazione o rasura qualcosa vi sia stato tolto: lo stesso valga nell'occasione che qualcuno abbia istruito o comunque fatto istruire dei testimoni a dire delle falsità e che successivamente se sia valso in tribunale: inoltre lo stesso reo abbia l'obbligo di soddisfare la parte lesa di tutte le spese che questa abbia dovuto sostenere. Sia condannato alla stessa pena ogni procuratore che al suo ignaro principale abbia consegnato qualcuno di questi documenti falsificati o mendaci: gli venga peraltro revocata per sempre la facoltà d'esercitare il suo uffizio e più estesamente venga dichiarato infame [la condizione di infamia poteva esser sublimata attraverso l'erezione di un pubblico simulacro detto COLONNA DI INFAMIA come questa eretta a perpetua dannazione di Giulio Cesare Vachero per la congiura filosabauda ordita nel 1628 contro la Repubblica di Genova]. Nel caso poi risulti come una qualche sentenza pronunciata da un Giudice ordinario o delegato, se non pure da un arbitro od un arbitratore, sia stata fondata su uno qualunque di suddetti falsi documenti, la stessa venga annullata in base alle norme dello stesso diritto e neppure sia possibile far alcuna opposizione nei confronti della persona contro cui si sia fatto uso di tali o tale falsità. Non si possa punire in modo diverso né peraltro di minor intensità chi si sia reso responsabile di simili colpe e nel caso si tratti d'una persona d'età inferiore ai vent'anni la multa verrà allora fissato ad insindacabile arbitrato giudiziale.

Capitolo XXXIIII (34)

Su chi mette insieme e produce delle false scritture private

La letteratura giuridica dà ampia testimonianza che in diversi procedimenti civili e criminali si son prodotte scritture private falsificate e adulterate in vari modi, di cui facciamo qui seguire a opportuna, motivata rassegna. Può infatti sovvenire che qualche malavitoso abbia imitato, per redigere documenti privati, l'autografo d'un altro: si son parimenti verificati nel passato, seppur in maniera diversa, altri consimili delitti di falsificazione come quando si son alterati di persona se non tramite altri, uno o più punti d'una scrittura o quando ancora qualcuno è intervenuto su carte singole e quaterni di libri razionali, anche se di sua proprietà, per mutare, cancellare, raschiar via, rendere intelleggibili alcuni dati spalmandovi sopra dell'inchiostro. E' pure accaduto che altri delinquenti, onde mascherare la realtà dei fatti, abbiano preso l'ardire di nascondere od aggiungere qualcosa in atti privati allo scopo di servirsi d'uno o più fra gli stessi. In ogni similare circostanza, chi si sarà reso colpevole decadrà dalla causa e dovrà pagare al fisco un'ammenda di valore equivalente a quello discusso. A tutti peraltro resterà obbligo di risarcire d'ogni danno e spesa le parti lese; oltre a ciò correrà pei rei l'inderogabile dovere di soddisfare la multa fissata ad arbitrio del Giudice in rapporto all'entità del crimine perpetrato: sotto titolo di pena corporale ordiniamo inoltre che quanti siano risultati colpevoli vengano marchiati per sempre quali infami, senza che mai più abbiano vigor di verità loro altre scritture, producibili per qualsiasi giustificazione [la condizione di infamia poteva esser sublimata attraverso l'erezione di un pubblico simulacro detto COLONNA DI INFAMIA come questa eretta a perpetua dannazione di Giulio Cesare Vachero per la congiura filosabauda ordita nel 1628 contro la Repubblica di Genova]. Oltre a queste pene, atteso il motivato parere giudiziale, si potrà in sovrappiù multare e tormentare, fuor che a segno di morte, quanti avranno imitato o falsificato scritture altrui, obbligazioni, cambiali, quietanze.

Capitolo XXXV (35)

Sulle false testimonianze

Non manca d'avvenire nel corso di qualche inchiesta giudiziaria che dei testi, pur sotto giuramento, possano alterare o screditare il vero allorquando ne vengano interrogati dai Magistrati, ordinari o delegati che siano, se non altresì da quegli arbitri ed arbitratori che per legge coprono l'ufficio di indagare. Chi avrà prestata falsa testimonianza nel corso d'una causa civile dovrà quindi venir fustigato per le vie di città, in pubblico sotto le contumelie delle folle, mentro lo si starà trascinando all'officio del Boia perché gli si taglino le nari; occorrendo invece spergiuro, in causa criminale, onde coinvolgere qualche innocente, si dovrà punire il colpevole con identica sanzione, purché giammai inferiore all'amputazione del naso, per diritto criminale, comminabile nel caso che la persona avesse davvero perpetrato quel crimine. Ancora in occasione di procedimento criminale, il testimone che, al converso si sarà provato reo di fallacia a pro d'un inquisito, dovrà venir tormentato nel corpo al pari di quanto sarebbe spettato a quest'ultimo: sempre che, ordine già peraltro sancito poco sopra, non fosse il caso d'applicare un tormento meno grave che la menzionata amputazione del naso. Più estesamente, in questo capo, stabiliamo che, nei confronti della parte lesa, restino sempre obbligati al risarcimento totale, di danni e spese, tanto quelli che avranno prestata falsa testimonianza quanto coloro che scientemente l'avranno prodotto allo scopo di valersene in tribunale. Peraltro a nessuno verrà mai concesso produrre in causa testi con cui avrà intrattenuto qualsiasi patteggiamento a titolo di eventuali ricompense: contestualmente sarà sempre interdetta nei riguardi di qualsiasi testimone la possibilità d'accettare altri premi in denaro fuor che che la soddisfazione consueta di legge per interruzione d'attività, spese di viaggio e soggiorno. Chiunque avrà violato questi nostri ordinamenti dovrà sempre venir multato ad arbitrio del Magistrato preposto alla causa, che d'obbligo vaglierà la qualità del delitto perpetrato e la condizione socio-economiche delle persone coinvolte.

Capitolo XXXVI (36)

Di chi, fornite e trascritte sue false generalità, abbia fatto redigere un documento mendace

Può accadere che qualcuno, maschio o femmina che sia, adducendo false generalità di nome, cognome e località, abbia falsificato, personalmente o no, documenti legali o scritture pubbliche. Venga in tali casi condannato all'amputazione della lingua e decada subito da tutti i pubblici uffici, dovendo in sovraprezzo pagare come multa il doppio del valore nummario indicato sull'atto falsificato. Metà della cifra esatta entri quindi nelle casse del fisco e la restante spetti di risarcimento a chi abbia subito pregiudizi e danni dall'alterazione del documento o della pubblica scrittura.

Capitolo XXXVII (37)

Su chi falsifica il sigillo o le lettere della Signoria

Quanti abbiano falsificato anche in qualche minima parte o comunque alterato scritture a nome del Doge, dei Magnifici Governatori o dei Procuratori od addirittura ne abbiano falsificato il sigillo vengano arsi sul patibolo. La stessa pena si applichi a coloro che abbiano falsificato in tutto od in parte lettere, scritture o sigillo dei Magnifici Procuratori delle Compere di S.Giorgio.

Capitolo XXXVIII (38)

Sul nunzio o messo che renda una falsa relazione

Un messo, dalla gente oggi chiamato più spesso nunzio ( o comunque qualcuno che in un certo momento abbia ricoperto il ruolo di messo o venga utilizzato in tal senso) il quale abbia riferito falsamente d'aver citato qualcuno od abbia sostenuto d'aver intimato a chicchessia qualcosa a riguardo d'atti o cause della Curia, cosa al contrario da lui per nulla espletata, debba sempre pagare un'ammenda da venticinque a cinquanta lire per ogni volta che sia venuto meno ai propri doveri. Nel caso che lo stesso non abbia, nel tempo della legge, saldato quanto dovuto, debba quindi procedere sotto le frustate del Boia per le via di città, da cui potrà anche esser esiliato sino a due anni: in dettaglio del resto non lo si possa più ammettere a ricoprire in alcun modo tale incarico. Siffatto genere di colpevoli sia inoltre tenuto a soddisfare la parte lesa pagandole tutte le spese sostenute per la sua malazione e risarcendo i danni patiti per intero: soprattutto risulti subitamente cassato e vanificato dal Magistrato tutto ciò che possa esser poi occorso e succeduto in dipendenza della scorretta relazione di tal messo o nunzio.

Capitolo XXXIX (39)

Sul Notaio spergiuro

Il Notaio, ricusato per spergiuro o comunque in qualsivoglia occasione responsabile di tal colpa, venga obbligato alle dimissioni immediate dall'ufficio ricoperto né possa più venirvi riabilitato. Qualora diversamente abbia ricoperto la funzione di Magistrato pubblico paghi l'ammenda di cinquanta lire né mai più lo si reintegri nella carica già rivestita.

Capitolo XL (40)

A riguardo di quanti giurino che certe scritture fatte o scritte non furono giammai fatte o da lui sottoscritte

Se davanti al Giudice ordinario o ad un delegato del Magistrato od ancora alla presenza di un arbitro od un arbitratore o ad oltri probiviri, se non anche parenti scelti e costituiti da qualsivoglia Magistrato, qualcuno sotto giuramento abbia negato di aver redatto e sottoscritto un determinato documento prodotto da altri ed invece a detta dei testimoni o sulla base d'altre scritture sia stato dimostrato spergiuro ad arbitrio del Giudice preposto alla causa, sia e debba esser ritenuto tale sì da risultare perdente nella causa e di maniera che la sentenza venga pronunziata sempre a favore di colui che abbia prodotta la summenzionata scrittura. Il Pretore di Genova ed il Giudice dei Malefici, una volta che ad essi o ad un di loro sia stato riferito nel modo detto il caso di uno spergiuro, debbano sanzionare il reo con una multa che può correre da cento a trecento lire attesa la qualità della causa e la condizione della persona.

Capitolo XLI (41)

Su chi dà il reo consiglio di produrre falsi documenti o pubbliche scritture

Sopraggiungono spesso dei casi in cui onde recar malizia e duolo, qualche sconsiderato fornisca ad altri vari e malevoli consigli per far precipitare la giustizia criminale nel vischio e nella pania. Un'occasion del genere si ha quando in piena consapevolezza una o più persone garantiscono perniciosa consulenza al fine d'esporre innanzi a dei Giudici, ma anche ad arbitri od arbitratori, qualche falso documento se non addirittura quelle parti di pubbliche scritture che per legge è tassativamente proibito rendere di pubblico dominio: oltre a ciò è anche possibile che i suddetti fraudolenti consiglieri abbian persin osato avanzare proponimento di corrompere qualche Giudice sì da obbligar poi questo a sentenziare sulla base degli atti mendaci.
Or di seguito qui per qualunque siffatto reo, a titolo di comminabili pene sanciamo una volta per tutte il bando perpetuo dal Dominio intiero di Genova ed, in senso più specifico pur comandiamo che se tal pessimo consulente sarà stato un Procuratore, per il diritto stesso dovrà egli decadere da ogni esercizio ricoperto mentre, trattandosi di giureconsulti e Giudice, verranno questi radiati senza remore dai loro reciproci uffici d'avocazione e del pronunziar giudizi: in linea più estesa vien qui ordinato che ognun fra questi falsi e menzogneri intrallazzatori, oltre a ciò debba prestamente sanar la parte lesa di tutte le spese e dei danni patiti.

Capitolo XLII (42)

Degli incendiari ( o piromani)

Chiunque entro la città di Genova o nel distretto ma entro la cinta muraria, direttamente o prezzolando sicari, abbia incendiato, per far danno, qualsivoglia edificio, venga condannato a morte e, a guisa di risarcimento, i suoi beni vengano attribuiti al fisco repubblicano. Qualora non sia stato catturato, venga allora condannato in contumacia per tal crimine e risulti bandito, come esule, dal consesso dello Stato. Nei limiti territoriali sopra evidenziati e segnati può talora accadere che qualcuno abbia fatto scoppiare un incendio, anche se non al segno che ogni cosa venga combusta, all'interno di qualche casale rurale sito fuori mura fortificate. Il colpevole sia tenuto a risarcire i danni procurati ed a versare al fisco una somma variabile da cinquecento a mille lire. Nel caso che non abbia pagato il dovuto entro dieci giorni da quello della condanna, il reo venga perpetuamente esiliato dallo Stato o sia incatenato come galeotto per il resto della vita. Se al contrario l'incendio avrà distrutto il corpo intero dell'edificio od anche solo parte dello stesso, il responsabile condannato, salvo l'obbligo dei risarcimenti, sia condotto al supplizio estremo. Allo stesso modo venga punito chi da sé o per mezzo d'altri, in qualche spazio esterno ad abitazioni residenziali o edifici rustici, abbia appiccato fuoco, per dolo, a qualsivoglia cosa o manufatto, di modo che l'incendio si sia poi esteso al vicino edificio, sì da distruggerlo in tutto o in parte. Tenuto altresì conto se l'incendio si sia esteso per colpa o casualmente e comunque oltre la reale volontà di nuocere, il reo sia condannato e multato secondo la forma del diritto. Chi abbia devastato col fuoco un'altrui terra agricola coltivata, in cui si trovino piante da frutto, paghi la multa di cinquanta lire e risarcisca al proprietario il doppio del danno patito. Chi invece, senza volontà di dannificare ma per negligenza, abbia appiccato il fuoco ai coltivi altrui debba risarcire il semplice danno e versare al fisco l'ammenda di dieci lire. In ultimo chi, di persona o per via di complici, abbia incendiato per fini dolosi degli incolti, senza però impedire che il fuoco devasti dei coltivi vicini, venga ritenuto colpevole come se avesse incendiato le terre agricole poste a coltura.
Chi abbia incendiato una terra silvestre o pratense od un qualsiasi incolto risarcisca il danno per il doppio di quanto stimato e paghi al fisco un'ammenda da dieci a cento lire, oppure venga portato in giro per la città, incatenato e battuto a colpi di verga. Qualora per colpa o negligenza ma ben oltre la volontà di far dolo il fuoco abbia invaso un terreno silvestre, pratense od incolto, il reo debba invece risarcire il danno semplice, versando al fisco un'ammenda di dieci lire. In senso più ampio si ribadisce che allorquando qualcuno sia morto per un incendio o sia rimasto ferito se non menomato oppure una casa sia andata distrutta interamente od in parte, spettino al fisco repubblicano tutti i ben di colui, per cui colpa, opera, incitamento o consiglio, sia stato appiccato il fuoco. Poiché tuttavia è arduo provare le responsabilità degli incendiari o piromani, in particolare perché fraudolentemente di per sé agiscono solo colla copertura della notte od ancor meglio si valgono di interposte persone come fanciulli, sempre giustificati dall'età, domestici o parenti nullatanenti, intendendo qui soccorrere a tutti questi problemi inquisitoriali e quanto più facilmente giovare alla ricostruzione della verità, si conferisce potestà, al Pretore di Genova come a tutti gli altri Magistrati cui spetta indagare su questi crimini, di esercitare costrizione, ogni volta che parrà necessario, sul malfattore, procedendo anche per presunzione di colpa e per vie indiziarie ad arbitrio dell'uomo buono e giusto, colla facoltà d'obbligare, per la riparazione del danno, il padre al posto del figlio, il padrone per il servo oppure uno solo dei componenti di tutta quanta la famiglia cui appartiene colui che fu responsabile materiale dell'incendio.

Capitolo XLIII (43)

Di quanti accusano o denunciano per far del male o per calunniare

Svelato qual reo e finalmente fatto prigione un vil malfattore, che intendendo perpetrar malizie o calunniar [NOTA = nel contesto del reato di calunnia, tra il resto, era ormai temuto, oltre che quello per quanto possibile vigilabile e da esaminare nell'Urna Lignea, l'uso indiscriminato delle "lettere orbe" come eran dette le lettere anonime] degli altri, abbia osato muovere denunzie od accuse avverso qualche innocente, si provveda immantinente a comminargli quelle pene nummarie che, volta per volta, paiano giuste all'insindacabile arbitrio giudiziale purché, come qui vien ordinato, giammai eccedano le cinquecento né sian da meno delle dieci lire.

Capitolo XLIIII (44)

Sull'obbligo di non istituire conventicole e congiure

Può accadere che qualcuno, entro la città di Genova o nel dominato repubblicano, abbia concorso ad organizzare illecite conventicole, complotti od accordi segreti, volgarmente detti leghe o che altresì, in qualche maniera, abbia parzialmente oprato e consigliato per la loro stipulazione. Contestualmente è fattibile che qualche Notaio abbia redatto un pubblico documento oppure che un qualsiasi cittadino o distrettuale si sia adoprato alla stesura di un atto privato sempre a riguardo di quelle citate ed illegali associazioni: in questo come nei casi precedentemente trascritti ed ancora nell'eventualità del volontario coinvolgimento di chicchessia in tali imbrogli, si commini una pena nummaria oscillante, attese le qualità della colpa e la condizione della persona, fra un minimale di cinquanta e un massimale di cinquecento scudi d'oro.
Se poi qualcuno di tali malfattori avrà anche schiaffeggiato, o addirittura abbattuto a forza di pugni, persone di qualsivoglia condizione, dovrà venir condannato, oltre tal pena e le altre ancora qui sancite nel capitolo sui violenti aggressori, al confino triennale da Genova e Dominio. Qualora la vittima sia stata percossa a sangue il reo possa in sovrappiù venir multato se non, valutati come detto sopra fatto e persona, addirittura torturato o condannato a morte; in occasione di pena capitale e sulla maniera di comminarla, mancando eventualmente nei nostri libri criminali utili chiarimenti su qualche caso specifico eppur controverso, il Pretore ed il Giudice consultino l'Illustrissimo Senato ed attengano il suo necessario consenso.
Sopraggiungendo la morte dell'offeso, certo come dipendenza delle ferite causategli dall'aggressione, tutti i complici e gli associati oltre che alle pene sopracitate, verranno condannati alla confisca dei beni qualora, nel giro di dodici mesi, non avranno assicurato alla giustizia l'omicida od in utile alternativa non saranno riusciti a farlo catturare né tantomeno lo avranno indotto a costituirsi. Nel contempo però non resti giammai differita la pubblicazione dei beni per il fatto che non sia ancora trascorso il termine estremo d'un anno, concesso ai complici onde trarsi di impiccio; si proceda anzi subito alla confisca ed i loro beni vengano depositati presso i Magnifici Procuratori e degli stessi si disponga secondo forme e modi indicati nei presenti capitoli alla rubrica concernente il caso che uno qualsiasi degli affiliati abbia rotto la pace generale. Nessuno possa né intercedere in detti casi per alcuno di costoro né patrocinarlo senza il consenso del Doge Illustrissimo e dei Magnifici Governatori o, in ambito distrettuale, del Giudice preposto alla causa. L'eventuale contravveniente verrà multato per venticinque scudi d'oro.
Può altrimenti verificarsi che qualcuno abbia congiurato, unendosi a più esuli già condannati a morte o tortura e ad altri giammai confinati, sì da invadere l'agro genovese e portar rovine entro villaggi, città o municipi, gravemente nuocendo allo Stato. Si debba punire questo reo come ribelle pur nel caso che l'aggressione ideata in comune non sia poi stata perpetrata. Allorquando il reo abbia invece oprato di proposito al fine di ruinare nei beni e nella persona quasivoglia cittadino o distrettuale, punto importa se riuscendovi o meno, sia torturato ed obbligato a risarcire l'offeso o gli offesi.

Capitolo XLV(45)

Sul notaro che nasconde o cela le scritture

Non è mancato d'accadere più volte l'accidente che qualche notaro si sia fraudolentemente adoprato per celare alle parti interessate o comunque sia persin giunto al segno di rifiutarsi di esibire loro qualche pubblica scrittura da lui stesso rogata se non scritta da altri e poi ingressata nei suoi archivi, fra quante si debbono notificare pei comandi del diritto ordinario o che lo stesso notaro abbia potestà di pubblicare. In occasion di sì deplorevole modo d'oprare gli venga sempre comminata una pena nummaria di cento lire, coll'obbligo di fare pronto risarcimento a pro della parte lesa in riguardo di spese e danni testé sopraggiunti : in linea generale venga egli altresì multato ad un'annua interdizione dall'esercizio professionale. Quel notaro che sarà poi stato scoperto recidivo sarà condannato, oltre che a quel risarcimento di cui s'è appena detto, all'interdizione per un lustro dalla pratica dei suoi uffici se non, per estrema soluzione, a venir radiato fuor della professione notarile: quindi per questo nostro comandamento sanciamo da ultimo che a fissare l'entità di quest'ultima pena dovrà essere sempre il Giudice che vaglierà e sentenzierà a suo libero e pieno arbitrio, dopo aver soppesate le caratteristiche e le modalità della colpa del notaro medesimo.

Capitolo XLVI (46)

Sui notari che, per negligenza o frode, non abbian fatto notifica di legati, istituzioni o costituzioni in pro dei luoghi ed istituti di carità

Giammai possan contravvenire i pubblici notari all'obbligo di far celere notificazione in pro di quanti ne abbiano diritto, sotto specie d'erede primo o secondo come pure in titolo di beneficiario d'un legato, a riguardo di beni che, secondo i testamenti e i codicilli redatti a genovese costumanza, con religiosa bontà sian stati lasciati, legati o pur anche erogati a quelli di cui si è detto per opera di eventuali testatori, sempre che in diversa forma quest'ultimi non abbiano sancito che i summenzionati ufficiali debbano di per sé procedere direttamente nell'elargizione, come in genere detta la consuetudine quando si lasciano per testamento somme varie a beneficio dell'Uffizio del Suffragio dei poveretti della Misericordia, dell'Ospedale di Pammatone o degli Incurabili od ancora d'ogni altro luogo sacro e pio. Per quanto qui viene sancito i notari, a due mesi dalla morte d'un testatore e solo dopo ch'abbiano ricevuto la loro giusta mercede, s'adoprino, appena che ne vengano richiesti, onde trasmettere autentico esemplare dell'atto testamentario nelle mani d'ogni avente diritto. Non ottemperando a ciò, ogni contravveniente notaro paghi per multa al fisco la quinta porzione di quanto risulti computato ed ascritto in qualsivoglia testamento di cui non abbia inteso far notificazione: in senso lato, a guisa d'ulteriore pena, venga sempre e per sempre comminato ad ogni indempiente funzionario divieto assoluto di progredire in carriera ed onori. Da identica pena sian peraltro colpiti gli eredi che ne abbiano ricevuto notizia.

Capitolo XLVII (47)

Sul divieto di vendere od acquistar pubbliche scritture

Venga prontamente multato, da venticinque a cento lire repubblicane, chiunque, fuor del consenso del Collegio genovese dei Notari, abbia venduto, di per sé o tramite complici, qualsivoglia documento, atto o libro pubblico, protocollo o scrittura. Identica pena tocchi peraltro all'acquirente e l'ammenda, da fissare in rapporto a qualità di misfatto e criminale, non venga inoltre comminata una tantum ma sempre in istretta relazione al numero dei reati commessi, secondo le ricostruzioni condotte dagli inquirenti: metà della somma riscossa debba peraltro assegnarsi a chi, accusando i responsabili di queste malazioni, si sia reso d'utilità alla vita dello Stato.

Capitolo XLVIII (48)

Sul modo di sequestrare i beni dei delinquenti

Accade spesso che si dibatta una causa criminale avverso qualcuno che sarà verisimilmente da condannare a pene nummarie eccedenti il minimale delle cento lire - Zecca di Genova. Il Magistrato preposto a tal causa ordini per tempo il sequestro cautelativo dei beni dell'incolpato, dopo averne fatto redigere un esauriente inventario, sì che questi possano venir dissequestrati solo nell'evenienza che il reo abbia saldato nei termini di legge i suoi debiti verso la giustizia. Nel caso però che il delitto perpetrato sia stato un di quelli che comportano la confisca d'ogni cosa, i beni del malfattore, perché non vengano dispersi, si assegnino a pro del fisco statale per tutto quel tempo che risulterà necessario prima dell'ultima e definitiva pronuncia di sentenza.

Capitolo XLIX (49)

Sulle pene che possono essere imposte od esatte senza processo

Affinché in occasione di delitti di minima portata la comunità non risulti inutilmente gravata da spese eccessive, come capita spesso per la necessità di salvaguardare la solennità del diritto e di questi statuti, non riconosciamo al Pretore di Genova ed al Giudice dei malefici la potestà, in qualsivoglia delitto per cui non debbano irrogarsi pene eccedenti le nove lire, di procedere fuor di processo alla condanna ed all'esecuzione, a patto che il denaro riscosso si rimetta nelle casse fiscali e negli atti si registri il pagamento delle ammende sancite. La stessa cosa sanciamo a pro di tutti gli altri Magistrati ed ufficiali nella città e nel distretto cui spetti il compito di presiedere alla giurisdizione criminale, allorquando vi sia certezza del crimine e la pena nummaria da comminare, da versare interamente al fisco repubblicano, non ecceda i cinquanta soldi.


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