AIROLE: La compravendita di AIROLE dipese dal fatto che il Comune intemelio ne fece un nodo della "via del Roia": il progetto di colonizzare l'area aveva lo scopo di istituire un insediamento intemelio lungo il tragitto del Roia e farne un antemurale contro invasioni banditesche che preludevano a spostamenti militari sabaudi.
Tale ipotesi giustificherebbe l'esistenza di qualche struttura militare in valle, la fortificazione dei luoghi di passo e la concentrazione a barriera dei villaggi di Collabassa, S.Michele, Olivetta, Piena, Fanghetto e Libri, sul terminale od in parti nodali di itinerari corrispondenti ad antiche mulattiere.
Nel 1498 la zona di Airole, avanguardia genovese contro il Piemonte, era ancora priva di vita di relazione a comprova che gli insediamenti in val Roia furon sempre macchinosi contrariamente a quanto accadde in Val Nervia.
La ritardata evoluzione "coloniale" di Airole, di cui Ventimiglia era detta "Signora", dipese da sopraggiunti contenziosi coi Certosini di Pesio: con atto autografo del 17-XII-1436 Samuele Priore della Certosa di Pesio non solo protestava contro l'insolvenza dei reggitori intemeli ma chiedeva la "conservazione" in Airole di un fondo i cui proventi spettassero alla Certosa.
Le "terre e i diritti" cui alluse frate Samuele confortano nel giudizio che i Certosini prima della vendita mai avessero abbandonato il Priorato, contro le "false voci dei Sindaci" e che avessero finito per centrare i loro interessi su alcuni siti e su quelle pertinenze agricole che producevano cespiti migliori: in base al rescritto del 1436 si deduce che i frati benché poco numerosi stessero ad Airole ancora nel 1434 e che, attese le manchevolezze del Comune intemelio, avessero assegnato ad un procuratore di porre sotto cautelativa il sito onde vanificare le proposizioni insediative dei Ventimigliesi.
La soluzione della diatriba avvenne tempo dopo, verso gli anni '90 del secolo: soltanto dopo la fine della lite il Comune intemelio, saldati i debiti e entrato in possesso di Airole mentre già si era evoluta la strada del Roia, incaricò 4 suoi cittadini-magistrati di suddividere l'agro di Airole in 14 zone da assegnare ad altrettanti capifamiglia "probi e fidi" che in rapporto al beneficio assunsero l'onere di costruirvi un'abitazione , risiedere sul lotto di proprietà e lavorarlo, versando al Comune annualmente un soldo per diritto di "cottumo" ( allorché le terre fossero state "accottumate", o riscattate, il tributo sarebbe divenuto formale sotto l'aspetto di una "fava nera"). La volontà intemelia di ripopolare l'agro di Airole facendone "fida guardia sul ben meditato viatico delle gole (del Roia) sin a Tenda contro malintensionati e a pro di boni homini" si ricava da altro capoverso dell'atto del 1498.
I capifamiglia beneficiari erano sì titolari delle proprietà ma avrebbero potuto venderle solo ad abitanti del luogo e in dipendenza del pagamento al Comune dello Jus di "laudemio", cioè la somma variabile che il concessionario di un'enfiteusi (titolare del cosiddetto dominio utile come nel caso i 14 capifamiglia destinatari) doveva versare al proprietario concedente (titolare del dominio eminente o diretto come nella circostanza il Comune intemelio) nell'eventualità di un'alienazione del suo diritto in seguito a vendite, donazioni, trasmissioni di eredità od altro.
Tenendo conto dei progetti viari sulla Valle del Roia, della compravendita di Airole e delle condizioni strategiche del sito si evince che Ventimiglia non solo intendeva aprirsi una via nel Piemonte ma che, per garantirne la sicurezza, voleva costellarla di insediamenti coloniali che non si esaurissero di abitanti e che soprattutto non passassero sotto altrui giurisdizioni laiche od ecclesiastiche. Lo studio di carte della Certosa di Pesio giustifica i codicilli inseriti nell'atto del 1498. La "casa madre" ormai non era solo strettamente legata alla sfera politica sabauda ma risultava anche connessa tanto al "borgonuovo" di Cuneo quanto alle strade commerciali "Provenza-Nizza-Piemonte": fu ulteriore ragione di legare gli abitanti di Airole sia a Ventimiglia che alla terra rendendo gravosi trasferimenti e alienazioni. Temendo nuove infiltrazioni del clero pedemontano, visto che le abbazie piemontesi "non son serve nostre ma dei Duchi", il Comune, d'accordo colla Diocesi, istituì una Rettoria in Airole affidata (doc. del 25-VIII-1516, a tal Giovanni Serviense che si obbligò a versare annualmente le decime, in occasione della Festa dell'Assunta, al "Preposito della Cattedrale intemelia G.B.D'Oria" e così in perpetuo fra i successori: fu un modo per innestare Airole, oltre che civilmente, anche dal profilo religioso sul tronco delle istituzioni intemelie).
Per Rettoria si intendeva un edificio religioso sufficientemente importante da coagulare un numero crescente di fedeli, sin a divenire luogo cultuale per eccellenza e surrogare qualsiasi tradizione locale connessa a preesistenti chiese o cappelle. Nella sua inedita Raccolta di notizie storiche antiche (I, pp. 229-619) il gesuita intemelio Agostino Galleani (1724-1775) precisò che ancora ai suoi tempi Ventimiglia soleva inviare ogni anno consoli e censori per esercitare la supervisione dei luoghi, di modo che non fosse avvenuta alcune cessione contrastante l'atto del 1498, e riscuotere il censo formale.
La periodicità dei controlli e della riscossione fiscale cui alluse l'erudito restano prova della volontà intemelia di esercitare controllo politico-amministrativo sul paese di Val Roia, di cui sotto il profilo strategico pei tragitti di valle e sublitorale ai tempi del Galleani (quelli della guerra di successione austriaca di metà '700) si ribadiva la valenza: non sembra casuale che a fronte dei controlli ormai superficiali sulle altre sue dipendenze rurali, il Capoluogo intemelio andasse non solo esercitando periodiche supervisioni su Airole ma che le autorità attribuissero a Ventimiglia il titolo di "Signora di Airole" che alludeva al totale possesso di Airole senza pretese straniere o contenziosi con organi ecclesiastici (G. ROSSI, Sulla fondazione di Airole, colonia ventimigliese, documenti del XV secolo, Torino, 1864).
BORDIGHERA: visti i ritrovamenti della lapide e di una tomba monumentale di famiglia di un certo LUCREZIANO ebbe origine romana come suburbio della capitale del municipio di Albintimilium, la Ventimiglia romana di Nervia .
Il suo nome attuale però compare nel 1200, tra i più antichi atti dei notai. Dapprima si trova la forma Burdigheta, la cui pronuncia in dialetto doveva essere Burdigea con esito gutturale. Con tal nome di luogo o toponimo, che ha alla base il termine burdiga, si voleva indicare un recinto di canne o giunchi in un canale o lacuna per la pesca (significato simile lo troviamo nel provenzale bordiga e nel francese bordigue). In epoca medievale con tal nome si indicava qui non tanto un borgo ma piuttosto un’area specifica (quella pianeggiante ove ora sorge la moderna Bordighera) in cui operavano pescatori e traghettatori per lavori di vario tipo: era un sito riparato e percorribile con l’ausilio di barche medievali, di basso pescaggio (copani e bauccii) adatti per acque basse e paludose (proprio nella bordiga nacque l’antica tradizione marinara dei Bordigotti). L’erezione ufficiale di Bordighera ad ottava villa di Ventimiglia, sita sul Capo, risale al 2-IX-1470 (per volontà di 32 capifamiglia delle ville di Borghetto e Vallebona), da altri documenti (3 del 1471) si apprende che in vero questa non fu autentica fondazione ma semmai rifondazione di un borgo, già distrutto ed abbandonato da tempo per ragioni che, al momento, sprofondano nel buio della memoria. Al primo insediamento di Bordighera in effetti era stato fatto cenno in un focatico o censimento provenzale (1340-1) del territorio intemelio, secondo cui alla località veniva attribuita la residenza di 15 famiglie, per un numero di poco più d’un centinaio d’abitanti. Ma su questa Primigenia Bordighera esistono anche dati che risalgono al XIII sec. quando il notaio genovese di Amandolesio stese un atto (20 dicembre 1259) su una terra agricola sita al Capo di Bordighera. Fino alla Rivoluzione Ligure del 1797 Bordighera, in un crescente sviluppo, visse all’interno della Magnifica Comunità delle Otto Ville, insieme delle ville del Capitanato di Ventimiglia che dal 1686 si erano rese indipendenti per il lato amministrativo dal controllo fiscale intemelio (Bordighera, Camporosso, S.Biagio, Soldano, Sasso, Vallecrosia, Vallebona, Borghetto S.Nicolò).
L'ACCADEMIA DEGLI INTRONATI fu fondata a Siena nel 1525, ebbe come impresa una zucca contenente del sale sovrastata da due pestelli incrociati, con il motto Meliora latent; le sue leggi erano delle massime di comportamento: orare, studere, gaudere, de mundo non curare. Le sue attività furono inizialmente incentrate su poesia ed eloquenza, poi anche sulla composizione e rappresentazione di opere teatrali. Vi partecipò Alessandro Piccolomini , in qualità di "Principe de' Comici", con il nome accademico di Stordito. Nel 1611 fu pubblicata a Siena la prima raccolta Delle Commedie degli Accademici Intronati di Siena. L’accademia terminò la sua attività verso la fine del '700.
BUSENELLO (BUSINELLO) GIAN FRANCESCO: rimatore e librettista (di cui si può vedere qui un raro ritratto) vide la luce a Venezia nel 1598 e si spense a Padova verso il 1659.
Ebbe un maestro prestigioso in Paolo Sarpi ed esercitò con successo l'avvocatura.
Fu però attratto dalle lettere umane divenendo un grande sostenitore dell'Adone di G. B. Marino per cui si schierò avverso T. Stigliani.
Compose il libretto del primo melodramma storico L'incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi.
Redasse altresì il testo di altri melodrammi che vennero musicati da Pier Francesco Cavalli: ricordiamo in particolare
La Didone (carnevale 1641) e
La Statira (18 Gennaio 1655)
Oltre a ciò fu anche un apprezzato autore di rime satirico giocose in dialetto con pittoresche descrizioni della vita veneziana.
CASTELVETRO LUDOVICO: fu uno dei maggiori studiosi e critici del '500 di Dante (di cui rimane memorabile un commentario della Divina Commedia), Petrarca e Aristotele (la sua traduzione della Poetica è un riferimento per gli studiosi).
Vide la luce a Modena nel 1505 da una famiglia benestante: suo padre era infatti il ricco banchiere Giacomo Castelvetro.
Il giovane Ludovico si laureò in giurisprudenza all'università di Siena e nel 1532 divenne docente di diritto all'università della sua città natale.
Poco dopo, tuttavia, egli abbandonò gli studi giuridici, per occuparsi di quelli letterari ed entrare a far parte dell'Accademia modenese, fondata dal medico Giovanni Grillenzoni, allievo di Pietro Pomponazzi , che riuniva i principali notabili della città, come, ad esempio, Filippo Valentini ed il professore universitario Francesco Porto (1511-1581), per discutere di teologia, ma anche per studiare e commentare le Sacre Scritture, utilizzando direttamente le fonti originarie, un modus operandi caro alla Riforma.
C. stesso si mise in evidenza, curando nel 1532 la traduzione in italiano dei Loci communes di Melantone , edito sotto il titolo di I principii de la theologia. D'altra parte le tendenze riformiste di C. si notarono anche nella rilettura che egli aveva fatto dei testi di Petrarca, presentato come un proto-protestante, intento a satireggiare sul papato di Avignone e a fare richiami continui agli insegnamenti di Sant'Agostino o direttamente alle Sacre Scritture.
Tale fu la popolarità raggiunta dall'Accademia che il cardinale di Modena, Giovanni Morone , coadiuvato dal cardinale Gasparo Contarini , costrinse nel settembre 1542 gli aderenti a firmare un formulario di fede, gli Articuli orthodoxae professionis, che C. si rassegnò a sottoscrivere: non così per il Porto e il Valentini, che preferirono allontanarsi dalla città.
Tuttavia la messa sotto accusa del C. nell'estate 1556, assieme a Bonifacio e Filippo Valentini e al libraio Antonio Gadaldino, lo consigliò di fuggire da Modena.
Calmate le acque, C. rientrò, ma la comparsa, intorno al 1559, della sua traduzione (probabilmente risalente al 1541) di un'altra opera di Melantone, De Ecclesiae autoritate et de veterum scriptis libellus (Dell'autorità della Chiesa e degli scritti degli antichi), mise questa volta seriamente nei guai l'umanista modenese.
Infatti, una volta salito al potere, il nuovo duca di Ferrara e Modena, Alfonso II (1559-1597), tutt'altro che tollerante verso i protestanti come invece sua madre Renata di Francia , cercò inutilmente di far processare C. a Ferrara per eresia.
C. decise quindi di presentarsi spontaneamente nell'ottobre 1560 presso il tribunale del Sant'Ufficio a Roma, ma il 17 dello stesso mese, avuta la certezza che i giudici avevano visionato la sua traduzione del De Ecclesiae, fuggì, con l'aiuto di suo fratello Gian Maria, dal convento di Santa Maria in Via, dove era confinato, in quanto era sicura la sua condanna come eretico.
La sentenza fu effettivamente emessa, ma gli inquisitori dovettero accontentarsi, a causa dello stato di contumacia, di bruciare il C. in effigie.
Il C. dapprima si nascose, per qualche mese, nella sua villa di Verdeda (vicino a Modena), quindi lasciò Modena nella primavera 1561 per Chiavenna, dove fu visitato dal suo ex allievo Fausto Sozzini e dove fu raggiunto dall'antico amico Francesco Porto, con il quale si trasferì a Ginevra.
Dal 1562 al 1564 C. visse a Ginevra e qui fu raggiunto dai nipoti Giacomo (1546-1616) e Lelio (1553-1609) Castelvetro, esuli, come lo zio, per motivi religiosi.
Giacomo, dopo anni di esilio volontario all'estero, rientrò in Italia (a Venezia) nel 1597 e 14 anni dopo, nel 1611, fu arrestato con l'accusa di eresia. Per sua fortuna, i potentissimi appoggi internazionali di cui godeva permisero la sua scarcerazione: era stato nientedimeno che insegnante di italiano del re di Scozia Giacomo VI, poi Giacomo I re d'Inghilterra (1603-1625), il quale intervenne tempestivamente per richiedere il suo rilascio. Morì in Inghilterra nel 1616. Il fratello minore Lelio fu meno fortunato: fu infatti processato e successivamente bruciato come eretico a Mantova nel 1609.
Lo zio Ludovico abitò successivamente a Lione, in Valtellina (dal 1512 sotto il cantone protestante dei Grigioni), a Vienna ed infine ritornò a Chiavenna, dove morì il 21 febbraio 1571.
Addolorato per la morte dell'amico modenese, Fausto Sozzini scrisse, in suo onore, un sonetto, in cui l'antitrinitario senese dichiarò che C. gli aveva chiaramente mostrato la via da seguire: l'esilio in terra protestante e la palese professione di fede.
DOLCEACQUA: comune di media val Nervia a pochi Km da Ventimiglia. Di origini antiche, con tracce di insediamenti rurali romani, il paese fu capitale (simboleggiata dal castello dominante sul Borgo vecchio ad oriente del Nervia) del Dominio dei Doria cui appartenevano pure Apricale, Isolabona e Perinaldo.
In Dolceacqua (in cui si son trovati reperti di ordine celto-ligure) si sono concretizzati sia il tema del rovesciamento cultuale (per cui supponibili elementi idolatri furono sconsacrati con l’identificazione di entità positive precristiane in elementi negativi-maligni secondo lo schema-trappola dell’ inganno demoniaco: il buco del Diavolo) quanto il processo della sovrapposizione cultuale, di modo che una qualche tradizione (o struttura) pagana, resistente nella religiosità popolare non venne combattuta quanto piuttosto assimilata nel contesto di un sistema fideistico cristiano-cattolico (il complesso ecclesiale e le leggende taumaturgiche correlate di Nostra Signora della Mota poi detta, per alterazione dell’etimologia popolare, della Muta) nel vasto sito già occupato dal Priorato benedettino medievale dipendente dal monastero di Novalesa nel circondario di Susa (R. CAPACCIO - B.DURANTE; Marciando per le Alpi... , cit., p.193 sgg.).
Paese al terminale della
Val Crosa (Stretta) o del Verbone, già possesso dei Doria di Dolceacqua. Fu patria del grande astronomo del ‘600 G.D.Cassini, che fu tra i Fautori dell’Aprosiana, ove tuttora se ne conserva un ritratto: è interessante la biblioteca fratesca in cui si custodiscono opere di un certo pregio, tra cui edizioni di Fortunio Liceti.
Comune dell’alta val Nervia, sede di insediamenti rurali romani: se vuoi approfondire l'indagine clicca qui il lemma PIGNA o quello del relativo AREALE D'ALTA VALLE DEL NERVIA.
Importante sito dell'antico borgo è tuttora il complesso di Lago Pigo, dialettale per ad Lacum Putidum cioè il lago che puzza ad indicare una sorgente termale-solforosa, curativa di varie affezioni, innestata in epoca celto-ligure e romana nel ciclo religioso delle Matres poi inglobato nel culto cristiano delle tre Marie o donne del Calvario come indicano i rilevamenti archeologici sulla vicina chiesa d’origine monastica dell’Assunta, primigenio luogo di culto del vicino borgo di Castelvittorio e causa con questo, peraltro legato a Genova, di notevoli contrasti su cui è consultabile una specifica antica cartografia.
Il complesso termale è in relazione viaria e cultural-religiosa con quello di Nostra Signora delle Fontane nel territorio di Briga: in entrambe le località, non a caso, assieme a rinvenimenti di romanità si espresse l’arte pittorico-profetica di Giovanni Canavesio che, verso il morente ‘400 e all’alba di grandi scoperte geografiche e di imprevisti rovesciamenti di verità un tempo indiscusse, affrescò alcuni edifici sacri, dando prova del suo talento in Due giudizi universali.
ISOLABONA: paese dell’entroterra intemelio, lungo la provinciale che fiancheggia il Nervia sulla diramazione verso Pigna. Non privo di elementi architettonici, con tracce, in gran parte ancora da studiare, di romanità nel complesso viario e fondiario di "VEONEGI". OLIVETTA S.MICHELE: a circa l5 km. da Ventimiglia, s'incontra questo paese
della val Bevera. Su un'altura sovrastante il torrente Bevera, e quasi sotto gli splendidi "orrori" di MONTAGNE dai connotati foscoliani, sta OLIVETTA, il borgo principale
che fu capoluogo di un insieme di nuclei: Piena, Libri, San Michele e Bussaré: dopo le vicende dell'ultimo conflitto mondiale e il nuovo assetto dato alle frontiere il paese si compone però, oltre che del centro di OLIVETTA anche dell'importante insediamento di S.MICHELE e dalla frazione di FANGHETTO. Questo agglomerato, antico feudo dei conti di Ventimiglia e del vescovo di Grasse andò a costituire una comunità che, nel 1862, prese il nome di Penna. "Il nome attuale (quel
lo congiunto di "Olivetta San Michele", come dal 1890 per regio decreto 6700) è costituito dalla giustapposizione del nome di due frazioni, borghi agricoli di formazione relativamente recente e privi di documentazione storica. San Michele ricorda il culto del santo cui è intitolata la chiesa del centro vicino più importante (Sospello, oggi Sospel). Forse Olivetta era in
origine un collettivo plurale neutro oliveta dalla diffusa
coltivazione dell'ulivo nella zona, ed è stato poi erroneamente interpretato come diminutivo femminile in -etta" (G. Petracco Sicardi in Dizionario di Toponomastica, Utet, Torino, l990, s. v. Olivetta San Michele).
In antico i borghi della comunità furono disposti su un territorio d'importanza strategico-economica: Penna si trova su un importante valico di trontiera della Repubblica Genovese in rapporto con la principale Strada del Sale.
Quando Penna, per scelta della Repubblica di Genova, fece ostacolo al commercio, si scrisse una pagina importante della storia di Olivetta e terre vicine.
Cominciarono lotte e tentativi di conquista da parte dei Savoia che intendevano impossessarsi del valico. Le tappe pnncipali di queste battaglie sono
3: nel 1451 il brigante Giovanni Bondetto, di Sospello, con
100 uomini, occupò borgo e castello. A questa vittoria dei Savoia seguì l'intervento del Signore di Dolceacqua, che catturò il brigante e mise fine all'assalto. Un secondo
attacco fortunato sabaudo si ebbe nel 1625: riuscì per il tradimento di un castellano,
sì che il borgo e il castello giunsero ai Savoia.
In epoca successiva Genova riprese possesso dei territori: gli scontri tra i Savoia e Genova non cessarono: nel 1672 Penna subi 3 altri assedi. L'ultimo fu di 5 giorni e finì
con la ritirata dei Savoiardi, una volta che, su altro fronte,
presero Oneglia e il col di Nava come vie di transito per i loro commerci.
Nei secoli seguenti Penna mutò il nome in Piena, e così rimase
fino al 1890.
Da questi tempi Piena perse la sua identità
storica: divenendo frazione di quella che è ora Olivetta San Michele.
Il comune di Olivetta è un centro piccolo ma importante per la vallata. Nel
paese e nei dintorni sono conservate opere artistiche di un certo rilievo. Tra queste si cita l'antica parrocchiale
di S.Antonio da Padova. piu volte ricostruita, e il ponte romano a Fanghetto. Transitando su una
carrozzabile o a piedi su una mulattiera scavata nella
roccia, si raggiungono i resti del castello medievale.
VENTIMIGLIA: DALLA PREISTORIA ALLA CONTEMPORANEITA'
Altura degli Intemeli (come detta il nome ligure-romano Albintimilium) si sviluppò a Nervia sull’altura di Colla Sgarba. Dopo la conquista romana si eresse una città quadrata e cinta da mura al terminale del Nervia (grosso torrente che formava prima d’entrare in mare un porto canale per l’attracco delle navi). Con l'integrazione tra Liguri e Romani la città eretta a capoluogo del municipio imperiale di Albintimilium si espanse vigorosamente con suburbi o periferie che si estendevano verso Sanremo e Mentone.
Vi si costruirono ville, case condominiali, acquedotti e fontane, un foro pubblico, un teatro e una struttura termale.
Dopo i secoli bui del Medio Evo (quando la popolazione abbandonò la città romana, che finì per esser sepolta sotto la sabbia eolica, onde rifugiarsi sull’altura ben protetta della città medievale) e dell’epoca feudale (caratterizzata dall’egemonia dei Conti di Ventimiglia, sui ruderi del cui castello sorge dal 1668 il convento delle Canonichesse Lateranensi) si ebbe la fase comunale. Nel XIII sec. la città fu conquistata da Genova e ne diventò base di frontiera, purtroppo anche tormentata da guerre ed invasioni. Divenne quindi "Capitanato di Ventimiglia e distretto" nel Dominio di Genova ed il ceto dominante dei nobili locali o "Magnifici" risiedeva nel quartiere, poi sestiere, "Piazza" di Ventimiglia medievale il cui locale Parlamento, importante per l'amministrazione economica del territorio, fu spesso in disaccordo coi "popolari" e soprattutto coi "rustici" delle "ville rurali" che a fine '600 avrebbero, dal Senato genovese, ottenuta l'autonomia economica e fiscale da Ventimiglia ritenuta troppo esosa. Ventimiglia seguì quasi sempre i destini di Genova, tra guerre, periodi di fortuna e di difficoltà: sarebbe diventata Comune autonomo dopo la "Rivoluzione Ligure" del 1797 e, caduto Napoleone, dopo il Congresso di Vienna (1815) per cui la Repubblica di Genova fu soppressa ed il suo territorio venne assegnato al Piemonte sabaudo. Lo sviluppo urbano e demografico di Ventimiglia nella piana tra i corsi d'acqua del Nervia e del Roia si ebbe dall''800 ed in particolare dalla II metà dopo la realizzazione della "Strada della Cornice" (oggi "Aurelia") e della "Strada ferrata" con la "Grande Stazione ferroviaria internazionale" che resero intensi i traffici e potenziarono il ruolo frontaliero della città. Nuove attività economiche (a fianco di quelle tradizionali della olivicoltura e floricoltura) tra cui, per ultima e gloriosa, la floricoltura fecero la fortuna di Ventimiglia [la celebre Battaglia di Fiori (anche detta Battaglia dei Fiori) con splendidi carri fioriti, lavorati soprattutto coi pregiati garofani locali, divenne un appuntamento mondano ed internazionale, recentemente riproposto nonostante la gravezza dell'impegno e dei costi]. La vicinanza della Francia e, sin a tempi recenti, la congiuntura favorevole del cambio lira/franco ha fatto di Ventimiglia un enorme emporio commerciale il cui apice è costituito dal monumentale mercato ambulante di ogni Venerdì, diventato di rinomanza europea. Molte associazioni culturali e la stessa Amministrazione comunale stanno tuttora operando per una sempre più vasta qualificazione turistica di Ventimiglia (non limitata alla fruizione del pur splendido mare) con varie iniziative: alcune di carattere "storico", come la festa di fine estate per il Patrono S.Secondo (con fuochi artificiali e corollario di manifestazioni) altre più recenti come l'Agosto Medievale nel corso del quale numerosi figuranti celebrano uno dei tanti aspetti dell'antica storia della città [grande sagra folkloristico-culturale che si esalta tramite parecchie altre manifestazioni sportive (corsa a staffette di squadre dei "sestieri" o contrade cittadine storiche per esempio ma ancor più con le sfide del bravissimi Balestrieri intemeli) ed in particolare con un Palio marinaro o competizione nautica di velocità tra "gozzi -tipiche imbarcazioni liguri a remi- con equipaggi dei sestieri "Burgu", "Campu", "Cuventu", "Ciassa", "Auriveu", "Marina"]. Di questo importante centro commerciale (cui non è però estranea una serie di iniziative culturali importanti: vedi la manifestazione Mediterraneo) è utile dar ora la rassegna di alcuni dati utili per una fruizione ottimale, di turisti e visitatori in particolare ma anche di residenti.
DATI STATISTICI GENERALI
-Superficie comunale: 53,92 Kmq.
-Abitanti: 25.978 u.c.
-codice di avviamento postale: 18039.
-prefisso telefonico: 0184,
La città è sita a circa 40 km. da Imperia (suo capoluogo di Provincia) ed è collegata a Savona ed alla Francia dall'Autostrada A 10 ("dei Fiori"), dalla Statale n.1 ("Aurelia") e dalla Statale n.20 per il Colle di Tenda.
INDIRIZZI DI VARIA UTILITA'
1-Pronto Soccorso: "Croce Rossa" (via Dante 12, tel.25.07.22), "Croce Verde" (Piazza XX settembre, tel.35.11.75).
2-Soccorso in mare: "Capitaneria di porto, tel.35.11.01.
3-Carabinieri: via Chiappori, tel.35.72.35.
4-Polizia stradale: Piazza della Libertà 1, tel. 34.902.
5-Polizia di Stato: Piazza della Libertà 1, tel. 34.75.75
6-Vigili del Fuoco: gruppo operativo di Ventimiglia, tel.115.
7-Vigili Urbani: via S.Secondo 9, tel. 35.25.25.
8-Comune-Municipio: Piazza della Libertà, centralino 2801.
9-Poste-Telecomunicazioni:Piazza Battisti (poste ferrovia) tel.33.809; "Centrale"-Corso Repubblica, tel. 35.13.12[Dettatura telegrammi: tel.35.11.23, Bancoposta: tel.35.51.90]; Ventimiglia Alta, tel. 351735; Succ. di Grimaldi, tel.38010; Succ. di Latte, tel.34.040.
10-Stazione ferroviaria: centralino tel.35.67.77.
11-Ospedale-Guardia Medica, via Basso, centralino 2751.
12-U.S.S.L. 1: corso Genova 88, tel.35.75.57.
13-Autostrada dei Fiori: Area del Roia, tel. 35.12.03.
14-Azienda di Promozione turistica:"IAT-Ufficio informazioni", via Cavour 61, tel.35.11.83; "Forte dell'Annunziata-Mostre/Convegni", via Verdi 15, tel.35.28.44.
15-Alliance Francaise della Riviera dei fiori: (scambi socio-culturali italo francesi) via Martiri Libertà 1, tel.35.25.68.
16-Agenzia Giornalistica Alpazur, via Asse 53, tel.239177.
17-Auto-pubbliche/Taxi: Piazza Stazione Ferroviaria, tel.35.11.25.
18-Autobus-servizi pubblici: "Riviera Trasporti", via Cavour 61-Biglietteria tel.351251.
19-Ambulatorio Veterinario U.S.S.L.1 via Peglia 231649 ("Consultorio familiare servizio veterinario" tel.2751-"Veterinario di confine", via S.Secondo, tel. 35.56.86).
20-Camera del Lavoro, via Roma 23, tel.239199.
21-Confederazione Nazionale Artigianato:Corso Genova 50, tel.34891
22-Confederazione nazionale dei coltivatori diretti: via Asse 3, tel.351627/ 351417.
23-Ufficio Provinciale del lavoro-Ufficio collocamento, via Lamboglia 14, tel.254822.
24-Distretto Scolastico n.1: via Martiri Libertà 2/a, tel.356355.
25-Civica Biblioteca Aprosiana: Ventimiglia alta-v.Garibaldi 19, 35.12.09
25-Museo Preistorico: Balzi Rossi, tel.38.113.
26-Museo Archeologico G.Rossi: Forte dell'Annunziata, via Verdi, tel.35.28.44.
27-Giardini Hanbury: "la Mortola", tel.39.852.
ITINERARI TURISTICO-CULTURALI DA VENTIMIGLIA
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1-Sito archeologico di Ventimiglia Romana a Nervia (Teatro, terme, mosaici, Insulae o case condominiali romano imperiali, villa signorile presso il magazzino ENEL: possibile escursione a Colla Sgarba ed all'oasi faunistica del Nervia).
2-Visita a Ventimiglia medievale: Chiesa Cattedrale - Battistero - Convento Canonichesse Lateranensi(edificio) - Porta Medievale della cinta muraria - case signorili del quartiere/sestiere "Piazza" - Biblioteca Aprosiana - chiesa romanica di S.Michele con cripta - Area del "Funtanin: possibile escursione a "Porta Canarda" simbolo con la torre e la porta doppia ad arco gotico delle difese di Ventimiglia verso ponente sulla "strada romana".
3-Visita alla città moderna : giardini pubblici, oasi faunistica del Roia e Convento di S.Agostino.
4-Escursioni verso la val Roia (Airole in particolare, con la diramazione per la val Bevera: siti interessanti per le supposte e leggendarie valenze magiche) od il o ai ruderi di Castel d'Appio
5-Escursione: Ventimiglia - Latte - Giardini Hanbury - Balzi Rossi - Frontiera (Km.8,500).
6-Escursione: Ventimiglia - Porta Canarda - Calandre - S.Lorenzo - Castel d'Appio - Ventimiglia.
7-Escursione: Ventimiglia - Bevera - Torri - C. del Bricco - M.Grammondo (Km.8,500-ore di percorso standard 6).
8-Escursione: Ventimiglia - S.Michele - Olivetta - C. delle Rove - M.Grammondo (Km.18).
9-Escursione: Ventimiglia - Ciaixe - M.Abellio (Abeglio) - Gola di Gouta - Pigna - Ventimiglia (Km.71).
10-Escursione: Ventimiglia - Vallecrosia (da visitare il Tempio-Museo della Canzone Italiana realizzato da Erio Tripodi, ricchissimo di rari strumenti e testi riguardanti la cultura musicale italiana: è sede di convegni importanti e vi si premiano le migliori tesi di laurea, a livello internazionale, sulla canzone italiana) - Apricale (autentico gioiello architettonico di paese medievale di val Nervia)- Dolceacqua - Ventimiglia (Km.71).
11-Escursione: Ventimiglia - Pigna - C.Langan - Molini di Triora (assolutamente da visitare il museo etnografico dedicato alle streghe, in memoria del famoso processo di Triora di fine XVI sec.) - Arma di Taggia - Ventimiglia (Km.96,800).
Una data da cui si possono calcolare i rapporti tra
Ventimiglia e le sue dipendenze rurali o “ville” è l’8 giugno 1251: dopo periodi di lotte, Fulco Curlo e Ardizzone De Giudici si recarono a Genova, dal Podestà Menabò Torricella per stipulare le convenzioni che sancirono la fine dell’autonomia del Comune intemelio ormai sottomesso a Genova.
Tali convenzioni furono ammorbidite nel 1396 quando Genova, per compensare Ventimiglia d’aver resistito ad un tentativo dei Grimaldi di Monaco di assoggettarne il territorio a vantaggio dei Savoia, le concesse grazie particolari e un riconoscimento di “genovesità” ai suoi cittadini. Tenuto conto che Ventimiglia e distretto (che per la costa si stendeva da “S.Remo al torrente Garavano presso Mentone”) erano giuridicamente un’unità, è giusto precisare la diversa distribuzione sociale del patrimonio demografico. L’amministrazione del “distretto” (poi “
Capitanato”) rimase nelle mani degli “urbani”, distinti in nobili e popolani: i “villani”, non servi ma affittuari delle varie località rurali del contado, ebbero scarso peso politico. Questi abitanti - agricoltori delle “ville” intemelie erano assoggettati a tali vincoli verso i proprietari-signori (come i Giudice di Vallecrosia od un clero secolare ricco di previlegi) da non poter reagire contro le ingiustizie se non per via di casuali insurrezioni. La storia delle “ville” (Camporosso, Vallecrosia, S.Biagio, Soldano, Borghetto S.Nicolò, Vallebona, Sasso, Bordighera) procedette di pari passo con quella di Ventimiglia, seguendo le vicende di Genova: così le “ville”, di volta in volta, furono sottomesse ai Sovrani di Francia (1395-1410), poi al Duca di Milano Filippo Maria Visconti (1421-’27) e poi alla Signoria del genovese Carlo Lomellino “infeudato” dai Visconti del distretto intemelio (1427-’35). Dopo un caotico sussegursi di Dominanti, cui Genova affidava le sue sorti, e dopo la supremazia milanese degli Sforza (1469-99) il “Genovesato” pervenne nel 1499 al re francese Luigi XII: solo dal 1513 la Repubblica, tornata autonoma, riprese il controllo dei suoi territori. Genova, per realizzare tale operazione e comporre le faide interne che la dissanguavano, si era però indebitata coll’organismo bancario che da essa estendeva per l’Italia e l’Europa i suoi interessi: l’
Ufficio o Compere del Banco di S.Giorgio. Così, onde pagare i debiti maturati per tante guerre, al Banco di S.Giorgio venne affidata l’amministrazione del
Capitanato intemelio: i “Protettori”, o massime autorità del Banco, non furono abili nel governo di un territorio che politicamente era di Genova e che, per “contratto”, a Genova sarebbe ritornato. Peggiorarono dal XVI secolo i rapporti fra Ventimiglia e le sue ville: la città, per le convenzioni con Genova, poteva aumentare la pressione fiscale a danno delle sue dipendenze. Ventimiglia e “ville”, oltre che a costituire un “
Capitanato” costituivano una sola cosa sotto il profilo giuridico e fiscale: ma il Parlamento intemelio, che deliberava in materia di amministrazione locale coi due terzi dei voti disponibili spettandone solo un terzo ai “villani”, cercava sempre, grazie a questa maggioranza, di previlegiare le esigenze della città a svantaggio delle dipendenze agricole (quei due terzi di voti erano peraltro controllati dalla nobiltà locale, dal clero e da una miriade di asserviti e clienti). Con questo strumento “legiferante” Ventimiglia quindi inaspriva in modo legittimo imposte di vario genere (le “
gabelle”) sui prodotti di molteplice tipo, come olio, vino, ortaggi, noci, bestiame e pescato che erano produzione quasi esclusiva delle ville (il pescato in vero stava diventando quasi esclusiva attività degli abitanti di Bordighera): per l’incremento vistoso di queste tasse, oltre che per l’obbligo di vendere i prodotti “calmierati” (cioè a prezzo “scontato” prima “in pubblica piazza” di Ventimiglia che “a prezzo libero” sugli altri mercati rivieraschi) nelle ville, verso il 1508, scoppiarono dei tumulti, pacificati con una composizione transitoria nel 1509 [peraltro nel 1502 il Parlamento intemelio era già riuscito ad imporre il nuovo trattato della gabella dei pesci col quale si imponeva che anche il pescato dovesse esser venduto a prezzi controllati in “chiappa di città” (Ventimiglia)].
Quando il Capitanato intemelio dalla gestione del Banco di S. Giorgio rientrò fra possessi della Repubblica (1562) era in condizioni precarie, presto aggravate da tragici eventi. Nel 1579-’80 evitò la peste che decimava il Dominio di Genova ma non la miseria che fu conseguenza della crisi sociale ed epidemica> del resto la popolazione delle ville (che pure pagava le tasse per il servizio sanitario) era trascurato dai “medici pubblici”: il “Parlamento intemelio” retribuiva di fatto una sorta di “medico condotto” per la città e le ville ma chi ricopriva tal carica, col tacito assenso dei ceti dirigenti, in genere si rifiutava di andare “nelle ville”, mandandovi piuttosto dei “barberii”, cioè degli “infermieri di bassa chirurgia, esperti solo a cavar denti o sangue od a praticare piccole operazioni”: i villani, se volevano un medico vero per curare i loro cari, soprattutto i bambini, se lo dovevano pagare di tasca propria e chi poteva, anche a costo del “contrabbando” e magari di far qualche delazione, pur di salvare sè e la propria famiglia non mancava di trafficare colla vendita “illegale” del pescato o con altri traffici poco leciti. Fausto Amalberti (Ventimiglia la Nuova, Ventimiglia-Pinerolo, 1985) ha riesumato, nel contesto di questa precaria situazione generale dei ceti meno abbienti, la tragica storia della ricostruzione di Portovecchio in Corsica (nominata Ventimiglia la Nuova) ad opera d’un gruppo di famiglie “ventimigliesi” che, col consenso di Genova, emigrarono in quel centro insulare, lo riedificarono e brevemente vi sopravvissero dal 1578: si apprende che molteplici calamità avevano colpito il Ponente di Liguria e il territorio di Ventimiglia e ville. La gente, prostrata da carestie, scelse spesso l’ emigrazione ed in ciò rientra l’impresa di Pietro Massa e Giacomo Palmero che, ottenuta licenza dall'"Ufficio di Corsica
", condussero nell’abbandonato centro di Portovecchio una colonia di 150 capi di casa "con loro massate, originari della riviera di ponente, per i due terzi sudditi di loro Signorie Illustrissime, i quali avendo con difficoltà il vivere in casa loro" sarebbero stati disposti a tutto, anche a sopportare i pericoli dei pirati turcheschi che già avevano desolato la base genovese di Portovecchio. In effetti 87 famiglie di Ventimiglia, 7 di Vallecrosia, 4 di Airole e Borghetto, 10 di Vallebona, 8 di Camporosso, 7 di Vallecrosia, 4 di Soldano e 3 di S.Biagio (oltre ad 11 famiglie non ascritte a località della Repubblica) rischiarono un duro viaggio, le fatiche di una ricostruzione, le difficoltà di un luogo non sicuro né salubre. Proprio il fatto che parecchi emigranti fossero artigiani, commercianti o piccoli proprietari è prova del tracollo economico, ambientale, commerciale ed anche socio-istituzionale del “Capitanato intemelio”: è soprattutto testimonianza del collasso della piccola borghesia, costretta a svendere e liquidare, di fronte alla paralisi pubblica di una Ventimiglia indebolita da eventi reali (come un terremoto di metà XVI secolo) e dall’incapacità governativa del Parlamento. L’onomastica degli emigranti rimanda a residenti dei quartieri della città per tradizione sede di piccoli imprenditori ed artigiani colpiti nelle loro strutture operative per i danni subiti, la mancanza di risarcimenti ed crescenti oneri fiscali. Il territorio intemelio, che versava alla “Camera” di Genova un gettito fiscale di 3000 e poi 5000 “lire di genovini”, fu quindi obbligato, su decreto del “Magistrato delle Galere”, a contribuire all’armamento della flotta da guerra, nonostante la previsione di spese straordinarie per la “costruzione di un ponte e di un forte alla marinara a guardia delle ville di detta città” (il Torrione di Vallecrosia, armato d’una batteria di cannoni). Ancora nel 1609 (13 luglio) il Sindaco intemelio Gio.Francesco Porro indirizzò al Senato di Genova una petizione contro l’assegnazione del “Magistrato dell’Arsenale” (con l’ingiunzione del “Capitano intemelio”) di nuovi oneri fiscali per il mantenimento di salariati “buonavoglia” o “remari” sulle navi da guerra. Su riconoscimento dei “Supremi Sindicatori” (sorta di “Revisori dei conti dello Stato”) il Senato riconobbe la giustezza di quella petizione e quanto fosse impoverito il territorio intemelio: al locale “Capitano” (o rappresentante di Genova in Ventimiglia) fu scritto in risposta “non darete agli agenti di codesta comunità molestia alcuna”. Nel 1622, alla vigilia della guerra di Genova col Piemonte, i sudditi intemeli erano arruolati in qualità di soldati locali (“militi villani” di guardia alle postazioni di frontiera ed alle cinte murarie del capoluogo) e protestavano per il regime militaresco e subordinato in cui dovevano sopravvivere: "La città di Ventimiglia ed abitatori di essa hanno per conto delle loro milizie il solito Colonnello che da Vostre Signorie Serenissime vien deputato, al quale ubbidiscono con ogni prontezza in tutto ciò possa concernere per servizio pubblico e disciplina militare. E’ vero che, pretendendo il Colonnello di fare la rassegna dei Cittadini, cosa che non si costuma nelle altre città del Dominio di Vostre Signorie Illustrissime, non vorrebbero essi essi cittadini che, per non cedere ad alcuno di fedeltà ed ubidiedenza, aver questo disvantaggio, posciaché quanto alla disciplina militare ben si sa che essi fanno tutte le funzioni ed avendo più obblighi e carichi e per la sanità e per il castello e per le guardie notturne e diurne di quello che abbino li altri Cittadini d’altre città del Dominio di Vostre Signorie Illustrissime, aggiungendosi a questo l’obbligo di assistere alla fabbrica del Ponte vorrebbero a tal risegna esser fatti esenti
" (“Petizione” dei Sindaci di Ventimiglia: si allude ai restauri di edifici pubblici, ai lavori manuali prestati dai popolari e villani per la costruzione del ponte cinquecentesco sul Roia, alla necessità di tener pulita per evitare epidemie la vasta palude che ormai congiungeva per la piana intermedia i mal arginati Roia e Nervia). Queste sparse osservazioni sono prove di una diffusa sofferenza generale: quei “militi” appartenevano in gran parte alle “ville” di Ventimiglia. Nel 1625 solo questi “militi villani” ebbero il coraggio di opporsi all’invasore Carlo Emanuele I di Savoia e la loro ira si scatenò sia contro i vili comandanti delle poche truppe di Genova (pronti ad una rapida fuga) sia contro i Nobili o “Magnifici di Piazza” (il sestiere della Cattedrale, sede dei ceti abbienti) subito disposti ad una resa anche disonorevole: fortunatamente il buon Vescovo Gandolfo pacificò gli animi inaspriti dei “villani” che s’erano riversati a centinaia nella città, depredando ogni cosa (grazie al concorso del Prelato la Repubblica sarebbe riuscita, il 14 settembre, ma con l’aiuto della Spagna, a riprendere Ventimiglia e le sue “ville”, giungendo poi ad una pace col Piemonte nel 1634). Verso la fine del XVII secolo, nell’ambito di un ulteriore conflitto tra Genova e Amedeo I di Savoia, i terreni di Camporosso, la villa agricola più importante, furono devastati dalle truppe genovesi del Comandante Prato. Gli abitanti, concluse le operazioni belliche, chiesero un indennizzo dei danni al Parlamento intemelio ma, restando privi di soddisfazione, si appellarono alle Autorità genovesi in data 14 dicembre 1682 (risultano introvabili le similari suppliche che le altre ville inoltrarono contestualmente al Senato di Genova> B.DURANTE-F.POGGI, Storia della Magnifica Comunità degli Otto Luoghi, Bordighera, 1986, pp. 283 e seguenti). Rispondendo alle petizioni dei villani, la Repubblica di Genova (timorosa di una loro defezione a vantaggio del nemico storico, il Piemonte) emise, l’11 febbraio 1683, un decreto senatoriale per la separazione delle ville da Ventimiglia rispetto all’ “economico”: in poche parole, ferma restando l’unità giurisdizionale e politica di Ventimiglia e ville nel “Capitanato intemelio”, si concedeva un’autonomia socio-economica e fiscale ai borghi rurali di modo che gli introiti di tasse e gabelle potessero andare a vantaggio esclusivo delle varie comunità rurali: per regolamentare la questione il Senato ingiunse che, al fine del processo di divisione, si redigessero dei Capitoli per la verifica dei reciproci carichi, obblighi ed introiti.
L' 1/ 2/ 1686 a GENOVA si comprovarono i Capitoli per le operazioni di divisione, con riferimento alla separazione economica per territori, stante onesta valutazione. Il 21-IV-1686, a Bordighera (nell' Oratorio di S. Bartolomeo) i deputati delle Ville stesero un DOCUMENTO che costituisce davveri l'elemento BASILARE PER LA LORO AUTONOMIA ECONOMICA:
si trattava di un atto -la SEPARAZIONE PER L'ECONOMICO DELLE VILLE DA VENTIMIGLIA E LA LORO ISTITUZIONE IN "MAGNIFICA COMUNITA' DEGLI OTTO LUOGHI" - per secoli introvabile, sin alla sua scoperta negli anni '80 di questo secolo ad opera del ricercatore d'archivio ed appassionato di storia locale Ferruccio Poggi, nel quale alla SANZIONE DI SEPARAZIONE, seguono i primi e fondamentali CAPITOLI che costituirono l'ossatura su cui, fatte salve alcune necessarie revisioni, in sostanza si governò per oltre un secolo, con autentico spirito democratico e di mutua collaborazione, la MAGNIFICA COMUNITA' DEGLI OTTO LUOGHI.
Tra '600 e '700 vennero poi gradualmente redatti tutti i documenti necessari per ratificare quel Grandioso processo di separazione economica per cui le antiche ville del contado orientale pur continuando ad essere politicamente ascritte al CAPITANATO DI VENTIMIGLIA e tramite questo connesse al DOMINIO DELLA SERENISSIMA REPUBBLICA DI GENOVA, potevano usare di una totale autonomia economica, sì da sfruttare per le proprie esigenze l' annuale gettito fiscale. Nel complesso di tante norme e statuti scritti per le esigenze della MAGNIFICA COMUNITA' DEGLI OTTO LUOGHI son da citare per importanza assoluta, coi più tardi e rivisti CAPITOLI DEL BUON GOVERNO, i CAPITOLI CRIMINALI o NORMATIVA (qui commentata) per dirimere le CAUSE MINORI [alias PICCOLA CRIMINALITA'] insorte nella Comunità [per i delitti gravi tutte i residenti delle località del DOMINIO GENOVESE e quindi tanto Ventimiglia che gli Otto Luoghi erano soggetti agli Statuti civili ed agli STATUTI CRIMINALI].
Il valore di questa documentazione consiste nella possibilità di far notare la varietà della normativa giuridica genovese dell'età intermedia, volta a separare la discussione delle CAUSE GRAVI da quelle di PICCOLA E MEDIA ENTITA': con la possibilità tuttavia -secondo i dettati di uno SPECIFICO COMMA- che un recidivo venisse alla fine surrogato dall' elenco dei PICCOLI CRIMINALI LOCALI per essere ascritto a quello dei GRANDI CRIMINALI o CRIMINALI DI RILEVANZA NAZIONALE. Importante normativa, all'interno della MAGNIFICA COMUNITA' DEGLI OTTO LUOGHI, normativa che integrava tutti i regolamenti necessari per l'amministrazione della comunità, erano poi i capitoli stesi per la salvaguardia dell'ambiente e più specificatamente delle risorse tipiche di una società rurale dell'età intermedia: per linea comparativa tutta questa documentazione, che fu già proposta in un volume, costituisce una testimonianza straordinaria per la conoscenza della cultura rurale dell'età intermedia.
Assieme agli ORDINAMENTI CRIMINALI, per quanto concerne la COMUNITA' DEGLI OTTO LUOGHI, si ricordano -e sono in primo luogo importanti da esaminare per lo straordinario bagaglio di informazioni che portano sulla REGOLAMENTAZIONE DELLA VITA SOCIO-ECONOMICA DI UNA SOCIETA' AGRICOLA FRA XVII E XIX SECOLO- i CAPITOLI PER LA SALVAGUARDIA DEL MONTENERO [che era una COMUNAGLIA cioè un BOSCO COMUNE e quindi fiscale: le comunità se ne servivano come di un bene pubblico, ne vendevano il legname, ne gestivano la fruizione sempre a favore della comunità] ed ancora il REGOLAMENTO CAMPESTRE DEGLI OTTO LUOGHI.
Nella società rivierasca ponentina tra XV e XVIII sec., una società strettamente legata per vari scopi alla fruizione del legname e comunque alla salvaguardia delle coltivazioni, una cura particolare era data alla prevenzione degli INCENDI e alla lotta contro gli stessi, utilizzando ogni sistema, anche al trasporto dell'acqua su primordiali carri cisterna, efficaci pur se non all'avanguardia come la MACCHINA DI TRADIZIONE CENTROEUROPEA che fu elaborata in questo stesso periodo.
Le pene contro i PIROMANI erano peraltro molto severe come dettano le informazioni date in materia al BRACCIO SECOLARE e soprattutto il contenuto dell'ARTICOLO DEGLI STATUTI CRIMINALI DI GENOVA DEL 1556.
A seconda del dolo e delle conseguenze penali si poteva passare da una pur severa ammenda alla PENA DEL CARCERE alla ben più temuta condanna all'ESILIO -per cui si era proscritti dalla Stato e tornando nascostamente in patria si poteva essere lecitamente uccisi dai CACCIATORI DI TAGLIE- alla "PENA DELLA GALEA" venendo cioè "incatenati" come GALEOTTI -per un tempo variabile di anni (da uno sin alla reclusione a vita)- sulle GALEE DI CATENA DELLO STATO.
Nulla toglie che in casi estremi si potesse comminare il SUPPLIZIO ESTREMO -nella Repubblica di GENOVA caratterizzato soprattutto ma non solo dall'IMPICCAGIONE LENTA-: un pò per superstizione e tradizione culturale e parecchio per convenienza poliziesca e qual macchina di dissuasione -in quei particolari ma non frequenti "momenti storici" caratterizzati da un incrudelimento della giustizia o da qualche sporadico ritorno pseudoreligioso di "CACCIA ALLE STREGHE"- gli INCENDIARI correvano pure il rischio tremendo di esser inquadrati nel panorama dei CRIMINALI DEL PARANORMALE quali PERPETRATORI DI MALEFICIO INCENDIARIO.
Vista inoltre la crescente importanza commerciale, alimentare e sanitaria dellAGRUMICOLTURA (dato che il clima favorevole agovolava la coltivazione di cedri, aranci e limoni) negli anni le ville si dotarono anche di una normativa (o CAPITOLI) idonea a regolare sin nei minimi particolari la cultura degli agrumi e l'attività mercantile loro connessa che, via via, assunse per l'economia locale un ruolo importantissimo]. In base all'ATTO DI FONDAZIONE le ville avrebbero costituito una Comunità, una sorta di "democratica confederazione", la cui amministrazione (il cui fine doveva risiedere in un'oculata ed equanime distribuzione del gettito fiscale per le esigenze diverse delle diverse località) risiedeva nell'autorità di un PARLAMENTO composto di membri di provata onestà della Comunità stessa, con ampi poteri in materia economico-fiscale locale> il PARLAMENTO non aveva peraltro una sede fissa ma si radunava, secondo un processo cronologico ben preciso di rotazione, nelle sedi delle ville principali, di modo che per consuetudini e carisma alla fine la villa sede dell'edificio del PARLAMENTO non potesse come Ventimiglia influenzare o variamente lusingare, corrompere od asservire i "parlamentari" meno decisi delle altre località. Le PROCEDURE DI DIVISIONE si protrassero sin al 1696 e continuaronono nel XVIII sec. per proteste di Ventimiglia la cui situazione degradava a vantaggio delle ville: comunque, alla fine, si tracciarono nuove linee confinarie tra le amministrazioni, fissando pietre di limite a disegno cruciforme (quelle che Ugo Foscolo durante un suo soggiorno ventimigliese, lugubremente, interpretò essere delle tombe sparse sui monti): una prova dei cippi di confine degli "Otto Luoghi" si vede sul Monte Nero di Bordighera (le pietre portano da un lato la sigla 8L [Otto Luoghi] e dall'altra la sigla S [Seborga] e SR [Sanremo].
Le procedure di divisione si protrassero (soprattutto per la delineazione dei confini fra capoluogo e ville) sin al 1696 e continuarono nel XVIII secolo, specie per le proteste avanzate da Ventimiglia la cui situazione socio-economica andava degradando a vantaggio di quella delle ville che invece presero a fiorire. In particolare Bordighera, esente da obblighi fiscali connessi un tempo ai doveri sul “pescato” e sulla “marineria” verso Ventimiglia, migliorò la propria situazione socio-economica e risentì di incremento demografico. Anche Camporosso risentì favorevolmente di questa nuova situazione, tuttavia i progressi di Bordighera (il cui porto traeva vantaggi dallo sfruttamento dei commerci oltre che dall’attività di pescatori e “coralatori”) si evidenziarono in maniera più evidente rispetto a quelli delle altre località (compresa la pur ricca Camporosso). Le ville meno fortunate, come Soldano e Sasso, presero a sospettare che Bordighera, mentre cresceva a dismisura, diventasse una novella Ventimiglia, una villa “matrigna” desiderosa di egemonizzare il Parlamento comunitario delle ville. Un momento di attrito tra gli otto borghi si verificò tra 1773 e 1787 quando si sparse la voce di “Incursioni dei Turchi” come si legge tuttora nell’Archivio Comunale di Bordighera, “Atti consulari 1759-1797. I Bordigotti ottennero da Genova che si sistemassero “Per la difesa dei bastimenti nazionali” due cannoni sul Capo della Ruota e due sul Capo S.Ampelio. I Vallecrosini in particolare (ma anche gli abitanti delle altre ville) avrebbero dovuto contribuire alle spese di mantenimento ma, non sentendosi protetti da quelle lontane batterie, si appellarono alla Repubblica per rifiutare un onere di spese che sarebbe andato, secondo loro, a vantaggio di Bordighera. Di fronte all’idea di una Bordighera
assimilata al rango di “novella rapace Ventimiglia” si giunse a ventilare l’idea di una nuova separazione, che escludesse la “città delle palme” : molte furono le discussioni, le petizioni, gli scritti pubblicati o pronunciati nel Parlamento della Comunità. La situazione si fece incandescente ma i deputati delle ville, che si apprestavano a darsi battaglia, furono arrestati sulla soglia di colossali trasformazioni che presto avrebbero trasformato la Francia e l’Europa tutta, quei fermenti rivoluzionari che avrebbero cancellato la Repubblica di Genova e le sue molteplici istituzioni, compreso il secolare “Capitanato di Ventimiglia”. Così l’esperimento della “Magnifica Comunità degli Otto Luoghi”, durato come si vede poco più di un secolo (vedi anche B.DURANTE-F.POGGI-E.TRIPODI, I “graffiti” della storia: Vallecrosia e il suo retroterra, Vallecrosia-Pinerolo, 1984, p.178, nota 10) finì coll’istituzione della “Rivoluzionaria Repubblica Ligure del 1797” restando tuttavia nella memoria di tutti come un piccolo, tormentato ma importante documento di antica democrazia rurale.
ANTICRISTO-BESTIA-DRAGO: I CENTRI MALEFICI DELL'APOCALISSE: Da qui, ancor più forse in ambito riformato che cattolico, dalla "passione luterana" per gli estremismi biblico-profetici
dell'APOCALISSE il MOSTRO-MUTANTE, frutto delle alterazioni genetiche epocali, finì per essere assimilato all' ANTICRISTO od alla BESTIA SUPREMA della giovannea APOCALISSE" [Apocalisse,
13,4-10: la Bestia che sale dal mare che è poi il DRAGO od
il SERPENTE ANTICO e quindi SATANA, l'Avversario
di Dio [pure ma non in modo esatto definito ANTICRISTO (anche detto FALSO PROFETA), a sua volta, per interferenze pagane, avvicinato a MITRA, un DIO PAGANO, dopo ROVESCIAMENTO CULTUALE, fatto partecipe della numerosissima schiera dei DEMONE dalla Cristianità), più
correttamente citato nella I (2, 18.22; 4, 3) e nella II
Lettera (7) di Giovanni. Seguirebbe a dar potere alla prima Bestia la Bestia che
sale dalla terra (Ap.13, 11-16) - più estesa interpretazione
dell'ANTICRISTO - e per cui si diffuse tra gli INQUIRENTI ECCLESIASTICI, con DENUDAZIONE, LAVAGGIO E DEPILAZIONE la caccia
allo STIGMA, marchio della CIFRA DI UN UOMO (fragile e debole quindi, cioè
composto di tre 6, cioè 7 - 1, cosa che denota imperfezione e
incompletezza ) che se scoperto ed in qualche modo neutralizzato
toglierebbe ogni potestà alle forze diaboliche ed ai loro
seguaci. Le acquisizioni variamente elaborate in forza dell'esegesi dell'Apocalisse aprirono vari sentieri alla fervente interpretazione di tanti eruditi dell'età medievale ed intermedia. Fu un peccato che B. PEREIRA, ormai settantenne e stanco, non avesse completato la sua grande interpretazione dell'APOCALISSE
mentre nello stesso tempo un altro grande teologo e giurista MARTIN ANTONIO DEL RIO (DELRIO) nelle sue "DISSERTAZIONI SULLA MAGIA" trattando delle SORTI ILLECITE e parlando di una di esse, precisamente l' ARITHMANTEIA, non osò andare oltre l'affermazione che il MISTERO DEL NUMERO 666 ERA NOTO SOLO ALL'APOSTOLO GIOVANNI MA SU DI ESSO MENTRE MOLTI SI SAREBBERO POI INUTILMENTE AFFATICATI.
Ma a ben vedere la sua ARITHMANTEIA è da connettere, quale sorta di sinonimo, alla ISOPSEFIA-esatto contrario della GEMATRIA- su cui acutamente ha scritto in tempi recenti Nicolò Palmarini: sulla linea di tale convergenza e soprattutto delle postulazioni del Palmerini si può affermare, al momento, che il NUMERO 666 (di cui -come d'altro- si è anche abusato recentemente in letteratura romanzesca ed in filmografia, con qualche palese alterazione documentaria sì da creare false interpretazioni) sostanzialmente rimanda in questa chiave di lettura all'idea prima dell'ESTREMA IMPERFEZIONE e quindi del CAOS appunto conseguente all'AVVENTO DELLA BESTIA OD ANTICRISTO.
GALENO, Claudio (Pergamo circa 130 - Roma o Pergamo circa 200). Studiò medicina in Grecia ed Alessandria poi raggiunse Roma divenendovi medico di corte. Ricercatore e pensatore poliedrico rappresentò il vertice massimo della medicina antica e nel Rinascimento rappresentò nelle scienze curative l’equivalente di ciò che Aristotele risultava in ambito filosofico. Legato a concezioni tradizionali, perfezionò il magistero del grande medico greco Ippocrate perfezionandone il principio sui quattro umori essenziali e facendo interagire queste riflessioni con quelle degli stoici sul pneuma. Perfezionò la diagnostica e diede incremento agli studi di anatomia, neurologia e fisiologia: fu un grande compilatore di proposte terapeutiche e quindi un fondamentale farmacologo. Molte furono le sue opere tra cui il trattato di medicina notissimo nel Medio Evo come Ars parva o Microtechnum o Microtechne ed il trattato di terapia conosciuto invece quale Ars Magna o Macrotechnum o Macrotechne.
PLINIO IL VECCHIO o SENIORE cioé Caio Plinio Secondo (Como? 23/24 - presso Stabia 79). Funzionario romano, erudito e profondo studioso di scienze naturali: di ricca famiglia, rimasto appartato al tempo di Nerone, si affermò pubblicamente sotto gli imperatori Flavi di cui fu amico e consigliere. Nel 79, durante la catastrofica eruzione del Vesuvio, essendo prefetto della squadra navale di Capo Miseno, accorse prontamente con una nave presso Stabia per soccorrere la popolazione e studiare il fenomeno: ma l’osservazione ravvicinata del cataclisma lo uccise. Era però già celebre per la sua monumentale Storia Naturale in 37 libri, autentica enciclopedia del sapere antico che per secoli, sin oltre il Medio Evo, costituì una pietra miliare per la conoscenza in campo naturalistico, geografico e scientifico. PLINIO IL GIOVANE o PLINIO JIUNIORE, ottimo scrittore ma di certo meno celebre del precedente, di cui fu nipote, fu autore spesso citato dal bibliofilo aprosio, specie per il principio, dai due condiviso e comunque elaborato da Plinio, che "non esiste nessun libro per quanto mediocre il quale tuttavia non comporti qualche utilità".
BRUSONI, Girolamo [Badia Vangadizza (Rovigo) circa 1614 - Torino dopo il 1686)].
Frate certosino in Venezia fuggì dai conventi in cerca di vita mondana mietendo successo nell’ambito degli accademici Incogniti per il suo estremismo ed il successo dell’opera prima La fuggitiva (Sarzina, Venezia 1639).
Vista anche la sua misoginia e licenziosità, ai limiti dell’eresia, fu richiamato alla Certosa di Padova dalle autorità della Chiesa.
Illecitamente abbandonato il monastero ed accusato di apostasia (apostata) fu arrestato nel 1644 e internato per un semestre nelle carceri veneziane.
Dopo la liberazione soggiornò per sei/sette anni nella Certosa del Bosco del Martello fin a quando gli pervenne l’autorizzazione ecclesiastica a lasciare la vita religiosa. Il Brusoni scrisse molto, anche di storia, ma balzò ancora agli onori della cronaca e della provocazione con "La Trilogia di Glisomiro".
Si tratta di tre romanzi [La gondola a tre remi (Storti, Venezia 1657) - Il carrozzino alla moda (Recaldini, Venezia 1658) - La peota smarrita (Storti, Venezia 1652)] incentrati su un "Don Giovanni di provincia" che agisce in ambienti non privi di squallore e degradazione morale.
Anche per tali motivi la Trilogia fu posta all’Indice dei libri proibiti: secondo il XX ed ultimo Indice dei Libri proibiti del 1948 risultavano censurate ancora La gondola a tre remi ed Il carrozzino alla moda.
Entrò in polemica con Aprosio, dopo una relazione inizialmente fruttuosa, per via di reciproche accuse al tempo della polemica aprosiana con Arcangela Tarabotti: apostrofato da Aprosio quale eretico ed apostata, anche per il fatto di averlo ingannato favorendo la Tarabotti, fu dal Brusoni ricambiato attraverso una denuncia all'Inquisizione per i contenuti dello Scudo di Rinaldo - parte II (leggi in fine di pagina a stampa).
Non più a suo agio nell’ambiente veneziano, in cui ogni sua mossa era discussa, riuscì a trovare ospitalità ben remunerata alla corte di Torino come consigliere e storico.
Si veda in particolare l’edizione torinese (per il Zappata, 1680) in cui ampliò la sua opera Della historia d’Italia già stampata in Venezia dallo Storti nel 1671.
TARABOTTI, Arcangela, suora, al secolo Elena Cassandra (Venezia 1604 - ivi 1652). Di famiglia nobile, per le severe leggi del maggiorascato, soffrendo di una malformazione fisica che la rendeva leggermente zoppicante, tale comunque da renderne improbabile un "matrimonio di interesse", venne obbligata dal padre Stefano ad entrare all'età di tredici anni nel convento veneziano di S.Anna di Castello ove passò tutta la vita.
Le imposizioni della famiglia e le esperienze degli anni giovanili (1620-’29) le ispirarono tra l’altro il volume polemico, scritto a soli vent'anni, intitolato la Tirannia Paterna destinato però ad esser pubblicato postumo e con il titolo de La Semplicità Ingannata [(sotto pseudonimo di Galerana Baritotti) edito da Sambix, a Leida, secondo alcuni nel 1651 secondo altri studiosi nel 1654]: l'opera, qui proposta informatizzata e in formato di ipertesto, che costituiva un atto d'accusa contro l'uso delle monacazioni forzate, venne comunque posta all’Indice dei Libri Proibiti (ancora nel XX ed ultimo Indice dei Libri proibiti del 1948 risultava censurata ancora tale opera)
La sua seconda opera, presumibilmente del 1650, intitolata L'Inferno Monacale, non venne pubblicata: il manoscritto originale andò perduto anche se ne esiste una trascrizione, presumibilmente settecentesca, nella collezione privata di Alvise Giustiniani (Venezia, Codice Giustiniani II 132 = 44).
L'opera però doveva esser corsa fra i dotti alla maniera usuale dell'epoca e dovette suscitare notevoli, maschiliste, avversioni atteso quanto vi era riportato; cosa che oggi si può riscontrare vista l'edizione critica fattane da Francesca Medioli, L'inferno monacale di Arcangela Tarabotti, Torino, 1990.
Già la dedicatoria comportava riflessioni sicuramente provocatorie e culturalmente d'avanguardia e fu alla radice di quella sorta di reclusione forzata nel Convento di S. Anna di Castello a Venezia che la donna patì nell'ultimo periodo della sua vita: A quei padri e parenti che forzano le figlie a monacarsi
In gratia, non mi burlate se io, con penna di candida colomba, quasi funesto corvo v'auguro nel vostro Inferno i precipici etterni: sovengavi che, ne' primi tempi, Iddio benedetto mandava li angioli dal Cielo e suoi più cari servi della Terra ad annonciar agli huomeni perversi i giusti Suoi furori. Io, più che Angela in quanto al nome e serva indegna di Sua Divina Maestà, inspirata da Lui con mottivi di pura verità, vi predico i fulmini del Suo sdegno. Non ridete per ché io sia femina per ché anco le Sibille predissero la morte di Christo e Cassandra, se ben tenuta forsenata dal populo, previde e con detti veridici esclamò e pianse per le strade la destruzione delle troiane mure. [...] Vi dedico dunque quel'Inferno a cui perpetuamente condanate le vostre visere, per preludio di quello che dovete goder etterno [..]. Tali affermazioni le erano costate angosce e persecuzioni di vario tipo in tempi pregressi e si veda ad esempio questa sua lettera
del 1642 in cui, verisimilmente intimorita da pressioni religiose, dalle interferenze inquisitoriali e da certe ambiguità di comportamento del frate ventimigliese, chiedeva ad Angelico Aprosio la pronta restituzione di quella sua menzionata Tirannia Paterna che avrebbe visto la luce solo dopo la sua morte e con altro titolo, per essere tuttavia censurata comunque dal Santo Ufficio.
La preoccupazione della donna si individua subito, nell'inizio stesso della missiva all'Aprosio:"...Si compiaccia Vossignoria Reverendissima di consignar al renditor della presente la mia Tirannia Paterna, escusando il motivo ch'è necessario...". Aprosio che aveva iniziato una relazione amicale e di collaborazione con la suora, come si evince da questa precedente
lettera
della Tarabotti, aveva sicuramente letto oltre che la Tirannia Paterna anche l'Inferno Monacale: cosa che si deduce da varie sue osservazioni in un'opera del 1644.
I reiterati atteggiamenti della suora veneziana contro l’uso delle MONACAZIONI FORZATE furono mitigate ora con forme più o meno blande di persecuzione, più intellettuale che fisica, ora grazie all’intervento diretto del cardinale Ferdinado Cornaro cui la Tarabotti dedicò poi la sua "ritrattazione" sotto titolo de Il Paradiso monacale, libri tre con soliloquio con Dio (Oddoni, Venezia 1663 errore tipografico per 1643).
La posizione di Arcangela "monaca" in qualche modo "femminista" si era complicata nel 1644 quando si impegnò in una celebre diatriba a difesa delle donne contro il misogino Francesco Buoninsegni: la Satira Menippea contro le donne del Buoninsegni fu edita nel 1644 dal Valvasense a Venezia e le venne accorpata, ancora una volta secondo una moda culturale consueta nel tempo, la polemica risposta della Tarabotti sotto titolo di Antisatira.
Nell'acceso dibattito finì per esser coinvolto anche l'APROSIO, che compose la antifemminista operetta intitolata la Maschera Scoperta..., che in qualche modo divenne punto di riferimento per una storia diversa di contatti tra il frate e la suora veneziana, una storia da questo momento fatta di ripicche e cattiverie che Aprosio in qualche modo descrisse nella sua Biblioteca Aprosiana.
L'attività culturale della suora veneziana non si fissò comunque sulla soglia di queste polemiche ma continuò sì che particolare interesse rivestono attualmente le sue Lettere (Lettere familiari e di complimento..., Venezia, per il Guerigli, 1650: entro lo stesso volume si possono leggere Le Lagrime d'Arcangela Tarabotti per la morte della Illustrissima Signora Regina Donati) che tesimoniano l'ampiezza delle sue relazioni culturali italiane e francesi.
L'ultima opera sua che la la Tarabotti vide pubblicata fu quella da titolo Che le Donne siano delle spetie delli huomini: per approfondimenti sul personaggio si può compulsare E. Cicogna, Delle iscrizioni veneziane, Venezia, 1825-1853, pp. 135 - 136
APATISTI (Accademia degli)> germinò in Firenze nel 1632 intorno ad una conversazione virtuosa inaugurata da Agostino Coltellini.
Il nome le derivò -una volta istituita- dallo pseudonimo con cui Benedetto Fioretti era solito firmare le sue opere (Udeno Nisieli Accademico Apatista): simbolo od impresa ne fu uno specchio col motto Che la figura impressa non trasmuta.
L’Accademia fu celebre per il gioco del Sibillone costituito da una ricerca di legami etimologici fra un determinato argomento ed una qualsiasi parola.
Morto il fondatore, l’Accademia passò sotto la tutela ducale e dal 1694 fu sistemata nello Studio fiorentino.
Sopravvisse sin al 1783 quando Pietro Leopoldo la fuse, con la Crusca, all’Accademia Fiorentina.
ARCHIVUM LIGUSTICUM (COLLECTANEA STUDIORUM) > La collana della cooperS editrice di Ventimiglia nominata Archivum Ligusticum si propone, sfruttando materiale raro ed inedito recuperato dalle numerose antiche biblioteche della Liguria, di prospettare ad un’utenza, non solo specialistica, alcune gemme di cultura. I Quaderni dell’Aprosiana Nuova Serie hanno inaugurata questa recente collana: la cooperS editrice di Ventimiglia ha, infatti, iniziata la pubblicazione dei numeri dei Quaderni della Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia III N.S. (ottobre 1995, pubblicazione a cura di Ruggero Marro e Giovanni Roccaforte -sotto la sovrintendenza editoriale di Bartolomeo Durante), caratterizzato da eccellente veste tipografica in formato A4 con corredo di rare immagini in bianco e nero desunte dal Fondo Storico aprosiano della biblioteca: nell’occasione si è trattato di una Miscellanea di studi in onore di Pier delle Ville (pseudonimo di Pietro Loi collaboratore esterno della biblioteca, improvvisamente scomparso nello stesso anno). Per il IV numero si edita il presente IV numero dei "Quaderni", curato da G. Roccaforte e R. Marro (Sovrintendente editoriale B. Durante) ancora per i tipi della cooperS ed. di Ventimiglia, caratterizzato da due ampi saggi (sulla storia della questione femminile), di Emilia Nanni e Bartolomeo Durante: l’edizione risulta corredata di un ipertesto informatico curato da G. Roccaforte (con l’ausilio critico e letterario di B. Durante) realizzato su supporto tecnico per computer ed allegato alla pubblicazione commercializzata.
In questa nuova collana rientra l’ampio volume Figliastri di Dio (a coda d’una bestia tratto) in cui B. Durante e F. Zara (con la collaborazione iconografica di G. Roccaforte) hanno editato in traduzione il testo della rara edizione originale (1557) degli Statuti Criminali del 1556 della Repubblica di Genova, preceduti da un’ampia Premessa e fatti seguire da un vastissimo Glossario in cui l’apparato penalisti (e civilisti) dell’età intermedia è posto, come allora era, in stretta connessione coi dettami della Santa Inquisizione e del diritto ecclesiastico [foro civile, penale, ecclesiastico, foro misto: con varia esemplificazione e trascrizione di procedimenti penali> vastissimo spazio è collegato alla letteratura magica ed antiereticale che, al tempo, concorse -in collaborazione e talora in antitesi con la procedura dello Stato- alla persecuzione di criminali ma anche di diversi nel senso più esteso del termine, da omosessuali a libertini ad intellettuali innovatori sino alle streghe ed ai presunti facitori di stregheria, come gli untori o presunti propagatori di peste: in un crescendo di deliri comportamentali, di eroismi ideologici, di lotte alla superstizione, di terrificanti paure che stanno alla radice tanto degli antichi Atti di fede, col loro bagaglio di torture ed iridescenti condanne capitali espletate in pubblico, quanto alle fondamenta delle fobie ataviche dell’animo umano, quanto ancora della letteratura orrorifica posteriore, con tutte le sue conseguenze ed influenze nel variegato campo dell’immaginario e del rappresentativo sulle scene d’ogni tipo].
L’Archivum Ligusticum, diretto da Giovanni Roccaforte, comporta varie novità culturali ideate dalla cooperS editrice di Ventimiglia. Il titolo regionalistico (Ligusticum) non vuol essere riduttivo ma semmai indicare che la collana si propone di recuperare tutto quanto di raro, prezioso, inedito e curioso si trova, ancora inesplorato a volte, nelle biblioteche liguri. Il materiale scoperto o studiato sarà quindi oggetto di studio e pubblicazione, prescindendo dal fatto che le ricerche trattino questioni liguri od affrontino argomenti di altre regioni e nazioni: per esempio nei Figliastri di Dio di B. Durante e F. Zara gli Statuti Criminali di Genova rappresentano un rarissimo zoccolo documentario su cui studiare nella completezza possibile il diritto dell’antico regime, con rimandi continui a forme penali d’altri paesi e civiltà (europea e non, riformata, cattolica e non).
Un’altra novità dell’Archivum Ligusticum è quello di predisporre, quando utile e possibile, dei supporti multimediali accostando al lavoro a stampa un prodotto informatico utilizzabile secondo i criteri più moderni, non esclusa la navigazione in rete e su Internet.
L’Archivum Ligusticum si propone altresì come veicolo scientifico per docenti universitari e studiosi di varie discipline desiderosi di pubblicare i propri lavori, di vederli anche arricchiti di supporti multimediali e soprattutto, cosa purtroppo tante volte trascurata, di curarne una distribuzione accurata in Italia ed all’estero, lavoro di cui la cooperS ed. di Ventimiglia si occupa fattivamente. Sotto questo profilo, la portata dell’Archivum Ligusticum nel settore specifico intitolato Collectanea Studiorum (diretta da G. Roccaforte, segretaria di redazione F. Zara, consulente scientifico B. Durante) si amplia ancora: l’Archivum Ligusticum-Collectanea Studiorum ha la finalità di segnalare come nell’estremo ponente ligure (intorno alla cooperS ed all’istituendo Centro Studi Aprosiani) si vada organizzando una struttura d’ampio ricetto culturale, con l’ambizione affatto modesta di costruire nel contesto di un Archivio del sapere nato ed oggi alimentato in Liguria una Raccolta di Studi variamente specialistici, con approfondito e tipograficamente curato apparato critico di vario argomento senza localistiche né provincialistiche preclusioni di contenuto, spazio e caratteristiche: e questo proprio in nome della Liguria ove non solo Genova ma, nel piccolo la stessa Ventimiglia con altre città come auspicava un antico capitolare dell’Imperatore Lotario I, siano luoghi di scambio, non solo commerciale ma anche artistico ed intellettuale, strade ideali su cui s’incammini per il mondo, alla maniera che in modo pur diverso segnalarono Colombo ed altri grandi navigatori ed esploratori liguri, un sapere ed una ricerca che partono od arrivano in Liguria ma lì non si fermano ed anzi da lì, assunta energia ed in nome delle aperture culturali auspicabili all’alba del III millennio, conducano piuttosto la conoscenza verso tutte le frontiere possibili, su questo pianeta reso sempre più piccolo dalla velocizzazione tecnologica d’idee e pensieri.
BORDIGHERA>Visti i ritrovamenti ebbe origine romana come suburbio della capitale del municipio di Albintimilium, la Ventimiglia romana di Nervia. Il suo nome attuale però compare nel 1200, tra i più antichi atti dei notai. Dapprima si trova la forma Burdigheta, la cui pronuncia in dialetto doveva essere Burdigea con esito gutturale. Con tal nome di luogo o toponimo, che ha alla base il termine burdiga, si voleva indicare un recinto di canne o giunchi in un canale o lacuna per la pesca (significato simile lo troviamo nel provenzale bordiga e nel francese bordigue). In epoca medievale con tal nome si indicava qui non tanto un borgo ma piuttosto un’area specifica (quella pianeggiante ove ora sorge la moderna Bordighera) in cui operavano pescatori e traghettatori per lavori di vario tipo: era un sito riparato e percorribile con l’ausilio di barche medievali, di basso pescaggio (copani e bauccii) adatti per acque basse e paludose (proprio nella bordiga nacque l’antica tradizione marinara dei Bordigotti). L’erezione ufficiale di Bordighera ad ottava villa di Ventimiglia, sita sul Capo, risale al 2-IX-1470 (per volontà di 32 capifamiglia delle ville di Borghetto e Vallebona), da altri documenti (3 del 1471) si apprende che in vero questa non fu autentica fondazione ma semmai rifondazione di un borgo, già distrutto ed abbandonato da tempo per ragioni che, al momento, sprofondano nel buio della memoria. Al primo insediamento di Bordighera in effetti era stato fatto cenno in un focatico o censimento provenzale (1340-1) del territorio intemelio, secondo cui alla località veniva attribuita la residenza di 15 famiglie, per un numero di poco più d’un centinaio d’abitanti. Ma su questa Primigenia Bordighera esistono anche dati che risalgono al XIII sec. quando il notaio genovese di Amandolesio stese un atto (20 dicembre 1259) su una terra agricola sita al Capo di Bordighera. Fino alla Rivoluzione Ligure del 1797 Bordighera, in un crescente sviluppo, visse all’interno della Magnifica Comunità delle Otto Ville, insieme delle ville del Capitanato di Ventimiglia che dal 1686 si erano rese indipendenti per il lato amministrativo dal controllo fiscale intemelio (Bordighera, Camporosso, S.Biagio, Soldano, Sasso, Vallecrosia, Vallebona, Borghetto S.Nicolò).
BORROMEO, Carlo, Santo [canonizzato da Pio V nel 1610] (Roma 1538-Milano 1584). Della nobile dei Borromeo e nipote di Pio IV, fu da questo nominato cardinale diacono a 22 anni nel 1560, ricevendone compensi ed onorificenze. Partecipò alle ultime sessioni del Concilio di Trento, contribuendo all’elaborazione del Catechismo romano ad uso dei parroci. Dal 1563 fu fatto sacerdote ed arcivescovo della diocesi di Milano ma ne prese possesso nel 1565, intraprendendovi una lotta tenace contro le infiltrazioni protestanti ricorrendo all’Inquisizione ma anche esercitando, tramite istituzione di Seminari, una moderna preparazione del clero, sul quale esercitò un rigoroso controllo per moralizzarne la condotta (nel contesto di queste iniziative rientra appunto la sua revisione nelle procedure della confessione e specificatamente l’istituzione dei confessionali). Ad onta di questa severità godette di grande ammirazione tra il popolo, fra il quale si adoperò con zelo ai tempi della pestilenza del 1576-’77 (P.GIUSSANO, Vita di S.Carlo Borromeo. Prete Cardinale del titolo di Santaprassede Arcivescovo di Milano, Stamperia della Camera Apostolica, Roma 1610).
BRACCIO SECOLARE, Potere civile che nell’età intermedia eseguiva sentenze e provvedimenti dell’autorità ecclesiastica quale emanazione del Braccio regio o autorità dello Stato distinta in Braccio pubblico (il governo) e Braccio criminale e civile (potere giudiziario): a titolo d’esempio su certe difficoltà interpretative si tenga conto del capo criminale 98 degli “Stat. Crim.” di Genova del 1556, “Sulla bigamia”, che comportava totale autonomia del Braccio criminale e civile contro i rei di bigamia. Concordemente a ciò il “Santo Uffizio”, in generale, riconosceva la giurisdizione del giudice dello Stato nelle cause di poligamia (e bigamia) riservandosi l’accertamento dell’intenzione (nota ad un caso del 1609 in “Bibl.Casanatense”, Ms.2653, Decreta magis praecipua, c.518r). Eppure [come trattato nel volume, in cui si son trascritti e commentati gli “Statuti Criminali genovesi del ’56", Figliastri di Dio (cooperS ed., Ventimiglia, 1996)] i rapporti fra Braccio criminale e civile/Braccio Secolare (lo Stato) e Santo Uffizio (la Chiesa) non furono mai semplici: ne è prova che mentre nel 1662 un certo Benedetto Roccatagliata di Genova veniva processato per bigamia dalle autorità civili nel rispetto del capo 98 degli “Statuti”, l’Inquisitore genovese, contro quanto prima scritto, avanzava proteste adducendo una sua priorità (R.CANOSA, Storia dell’Inquisizione in Italia dalla metà del Cinquecento alla fine del Settecento, vol. III, Torino e Genova, Roma, 1988, pp.176-177)> già in una lettera del 3-XII-1552 (prima della stesura degli “Stat. Crim. del ’56"), a riprova di contrasti tra “foro laico” ed “ecclesiastico”, il Grande Inquisitore Michele Ghislieri (creatura di Gian Pietro Carafa, il futuro “papa inquisitore” Paolo IV) scrivendo all’Inquisitore di Genova (oltre a dar ordini su modalità di tortura, trasmissione di fascicoli dei processi ecc.) precisò che l’inquisitore investigava solo su questioni di sospetta “eresia” (qui sapiunt haeresim) e “non in altri delitti, quali spettano ad crimen lesae maiestatis o ad altri errori” (da lasciare al Braccio Secolare o alla Giustizia di Stato
: v. A.PROSPERI, Tribunali della coscienza...,cit. p.148).
BRUSONI, Girolamo [Badia Vangadizza (Rovigo) circa 1614 - Torino dopo il 1686). Frate certosino in Venezia fuggì dai conventi in cerca di vita mondana mietendo successo nell’ambito degli accademici Incogniti per il suo estremismo ed il successo dell’opera prima La fuggitiva (Sarzina, Venezia 1639). Vista anche la sua misoginia e licenziosità, ai limiti dell’eresia, fu richiamato alla Certosa di Padova dalle autorità della Chiesa: illecitamente abbandonato il monastero fu arrestato nel 1644 e internato per un semestre nelle carceri veneziane. Dopo la liberazione soggiornò per sei/sette anni nella Certosa del Bosco del Martello fin a quando gli pervenne l’autorizzazione ecclesiastica a lasciare la vita religiosa. Scrisse molto, anche di storia, ma balzò ancora agli onori della cronaca e della provocazione con La Trilogia di Glisomiro: si tratta di tre romanzi [La gondola a tre remi (Storti, Venezia 1657) - Il carrozzino alla moda (Recaldini, Venezia 1658) - La peota smarrita (Storti, Venezia 1652)] incentrati su un Don Giovanni di provincia che agisce in ambienti non privi di squallore e degradazione morale> anche per tali motivi la Trilogia fu posta all’Indice dei libri proibiti. Non più a suo agio nell’ambiente veneziano, in cui ogni sua mossa era discussa, riuscì a trovare ospitalità ben remunerata alla corte di Torino come consigliere e storico: si veda in particolare l’edizione torinese (per il Zappata, 1680) in cui ampliò la sua opera Della historia d’Italia già stampata in Venezia dallo Storti nel 1671.
BUONINSEGNI, Francesco l’Incognito (Siena, sec. XVII). Di ricco casato studiò a Roma, nel Collegio Romano, le discipline letterario-filosofiche e frequentò l’Accademia degli Umoristi. Per ragioni di famiglia tornò a Siena, impiegandosi al servizio di Leopoldo e Mattia de’ Medici. Scrisse Il trionfo delle stimmate di S.Caterina da Siena (Bonetti, Siena 1640).
Gran fama gli venne dal suo ostentato antifemminismo di cui fu in qualche modo un esponente di punta e che espresse emblematicamente nello scritto misogino Del lusso donnesco (Sarzina, Venezia 1638) che suscitò la polemica con A.Tarabotti contro cui si espressero anche G. Brusoni ed Aprosio. Del Buoninsegni si conserva un’edizione della Satira Menippea contro il lusso donnesco accorpata, in una stampa veneziana del Valvasense (1638), alla vivace risposta della Tarabotti intitolata Antisatira.
CAMPOROSSO, antico centro rurale di origine romana che per primo si incontra risalendo la provinciale di val Nervia per Pigna. Fece parte del Dominio di Genova e presso di esso sorgeva dal ‘500 un rastrello di guardie armate a tutela, nei periodi di peste, contro le persone infette e, come suggeriva una tradizione contro i diabolici untori e le streghe propagatrici di peste (nei dintorni del luogo la Peirinetta Raibaudo fu accusata d’aver tenuto dei sabba con altre donne corrotte di val Nervia tra cui di Camporosso e della vicina Dolceacqua). E la Biblioteca Oberto Doria, già Biblioteca dei Marchesi di Dolceacqua, conservata nel Municipio, ricca di testi pregiati e di vari manoscritti d’interesse ligure, tra cui del ‘600 Il vago giardinello del Paneri, preziosa raccolta di memorie sulla diocesi di Albenga.
CARDANO, Girolamo (Pavia 1501 - Roma 1576). Fu autore eclettico, di impronta rinascimentale: erudito e letterato, filosofo, inventore, naturalista, indagatore dell’occulto oltre che fisico, matematico e medico. Nell’Ars Magna del 1545 affrontò a fondo il tema dell’algebra e pose le fondamenta delle teorie delle equazioni algebriche conferendo rilievo alle relazioni intercorrenti tra coefficienti e radici. Pensatore acuto (De subtilitate ) interessato alla magia naturale indagò le forze della natura (De rerum varietate del 1557) subendo però accuse d’aver condotto indagini illecite: per questo conobbe il carcere dell’Inquisizione. Il suo nome è connesso all’invezione del giunto cardanico.
CONFESSIONE> A.Prosperi (Tribunali della coscienza..., Einaudi, Torino, 1996, cap.XXV e XXVI) tratta il problema di relazioni peccaminose tra preti e donne penitenti e dimostra che il problema delle Confessioni fu più complesso di quanto si creda> egli cita un’istruzione del cardinal Millino al vicario arcivescovile di Genova per cui, pur giudicandosi al solito le “donne mutevoli di carattere, ingannatrici, false ed imbroglione oltre che superficiali e corruttibili”, la loro testimonianza contro gli ormai troppi preti accusati di sollicitatio ad turpia (peccati carnali) doveva esser accolta dal tribunale. Un problema per le donne (al di là del semplice ma rigido invito a valersi solo di confessori morigerati ed anziani) era però quello di non esporsi in tribunale ed in ciò concorrevano ugualmente le leggi dello Stato e della Chiesa. Gli “Statuti Criminali genovesi del 1556” (lib.II, capo 68) ritenevano infamante per ogni donna di buona reputazione recarsi in Curia anche solo come testimone (si accettavano testimonianze segrete in casa a funzionari demandati dallo Stato). La cosa -per quanto oggi sembri strano- era piú complessa nel caso di lunghe confessioni in chiesa: la donna stuprata poteva sempre sperare, dai tribunali laici, una qualche compensazione e, per le donne umili, una forma accettabile era quella del Matrimonio riparatore. Ma la donna insidiata da un prete doveva temere pericoli sottili, dall’infamia pubblica -quasi inevitabile- all’ostilità del fronte compatto del clero mirante a salvaguardare la propria immagine, ai sospetti del regime patriarcale di cui ella costituiva un anello nello stesso tempo fragile ed importante. Non a caso il pensatore genovese di primo Seicento Andrea Spinola, negativamente impressionato da ripetute e interminabili confessioni di una “gentildonna” scrisse: “[importa] assaissimo al buon governo che le nostre donne qui della città siano pie e devote sì, ma non scrupolose a segno, che scordatesi della cura della casa perdino la lor libertà moderata e ragionevole, con pregiudicio de’ mariti e della Repubblica, della quale esse sono gran parte” (A.SPINOLA, Scritti scelti, a c. di C.Bitossi, Genova, 1981, p.245)> preoccupava lo Spinola, pur sempre uomo di uno stato oligarchico e patriarcale strutturato secondo alleanze di famiglie, l’influenzabilità delle donne e il pericolo, tramite esse, dell’incunearsi d’un potere alternativo e disgregante (non escluso quello di Pontefice e Chiesa> v. i contrasti tra Braccio civile e criminale, Braccio secolare ed Inquisizione) in questo sistema di alleanze. Il frate genovese Girolamo Trimarchi (...De confessario abutente sacramento poenitentiae tractatus unicus..., Genova, per il Calenzani ed il Farroni, 1636) proibì a donne nobili e fanciulle di denunziare personalmente la sollicitatio a commettere reati sessuali col confessore ma stabilì che si ascoltassero nella loro dimora affidando ad onesto confessore la denunzia (per iscritto, secondo altri trattati ed alcuni consigli inquisitoriali). Per le donne questi meccanismi confessionali rappresentarono un certo progresso che però urtò a lungo contro il corporativismo del clero e l’omertà (nonostante gli avvertimenti di Vescovi e S. Uffizio) oltre che contro la macchinosità dei procedimenti che pur qualche volta causarono al confessore reo severe punizioni, non esclusa l’“abiura”.
).
Fu amica e corrispondente del letterato genovese ANSALDO CEBA' che cercò senza successo di convertirla al cattolicesimo LETTERE DI ANSALDO CEBA' SCRITTE A SARRA COPIA...
[per il Pavoni, Genova 1623 = L'opera è qui proposta integralmente digitalizzata].
Sicuramente alquanto bella, visti i diversi apprezzamenti maschili che ci sono pervenuti, quasi certamente piuttosto autonoma e nel contempo tanto intellettualmente curiosa quanto intelligente la bionda Sara non si trattenne dal provocare la curiosità maschile in più di un’occasione e fu corrispondente oltre che diretta interlocutrice di parecchi letterati veneziani e non.
Curiosamente manca certezza che abbia scritto davvero qualche opera anche se -fra smentite ed affermazioni di eruditi a lei contemporanei- BALDASSARRE BONIFACIO (abate erudito [Crema 1585 - Capodistria 1659], amico e corrispondente di ANGELICO APROSIO [che di lui e della sua polemica con la Sullam (dalle ultime 6 righe di p. 504) parlò nella Biblioteca Aprosiana...] il quale accese con la colta ebrea una polemica teologica scrivendo Dell’immortalità dell’anima, discorso di Baldassarre Bonifaccio alla Signora Sara Copia) le attribuì uno scritto che avrebbe suscitato interminabili disquisizioni vale a dire il MANIFESTO DI SARRA COPIA SULAM HEBREA, nel quale è da lei riprovata, e detestata l’opinione negante l’immortalità dell’anima, falsamente attribuitale dal Sig. Abate Baldassarre Bonifaccio (per il Pinelli, Venezia 1621) operetta conservata nella raccolta ottocentesca del Gamba intitolata Lettere di donne del secolo decimosesto.
La posizione di Sara Copio Sullam era all'epoca estremamente pericolosa atteso l'irrigidimento della Santa Inquisizione avverso non solo i riformati ma gli stessi EBREI. Un fenomeno epocale a proposito dei quali non mancano TESTIMONIANZE nello stesso Ponente ligure e più estesamente sulla condizione degli EBREI DEL GHETTO DI GENOVA.
CRUSCA (Accademia della). Fu istituita a Firenze nel 1582 da Leonardo Salviati accomunando gli aderenti alla Brigata dei Crusconi, un circolo privato che s’era formato (1570-’80) per tenere nelle riunioni delle conversazioni scherzose o cruscate in contrapposizione alle pedanterie dell’Accademia Fiorentina. Già il Salviati presuppose presto una riforma in cui il termine crusca, come residuo del grano purificato, indicava l’idea di interventi selettivi sulla lingua italiana in nome di una purezza che -stendendosi il Vocabolario della Crusca- fu ristretta a canoni bembeschi ed all’uso letterario delle voci usate da scrittori toscani del ‘300 o di autori fiorentinizzati. Attraverso i secoli tale postazione subì varie modifiche e quindi la stessa Accademia venne soppressa ed incorporata nell’Accademia Fiorentina. Napoleone, con agevolazioni economiche, la ripristinò nel 1811; quindi essa divenne promotrice della Società Dantesca Italiana. La vita dell’Accademia si è prolungata fino ai giorni odierni in un pullulare di proposte scientifiche al cui vertice sta l’Opera del Vocabolario(1964) che dal 1965, su vasta scala di collaborazione, mira alla stesura di un Tesoro della lingua toscana: l’impresa è stata trasformata nel 1979 in Centro di Studi del C.N.R.- Opera del Vocabolario della lingua italiana. Attualmente la sua attività scientifica procede in tre direzioni: di filologia italiana, di Centro studi di lessicografia italiana, di Centro studi di Grammatica Italiana.
DOLCEACQUA Comune di media val Nervia a pochi Km da Ventimiglia. Di origini antiche, con tracce di insediamenti rurali romani, il paese fu capitale (simboleggiata dal castello dominante sul Borgo vecchio ad oriente del Nervia) del Dominio dei Doria. In Dolceacqua (in cui si son trovati reperti di ordine celto-ligure) si sono concretizzati sia il tema del rovesciamento cultuale (per cui supponibili elementi idolatri furono sconsacrati con l’identificazione di entità positive precristiane in elementi negativi-maligni secondo lo schema-trappola dell’ inganno demoniaco: il buco del Diavolo) quanto il processo della sovrapposizione cultuale, di modo che una qualche tradizione (o struttura) pagana, resistente nella religiosità popolare non venne combattuta quanto piuttosto assimilata nel contesto di un sistema fideistico cristiano-cattolico (il complesso ecclesiale e le leggende taumaturgiche correlate di Nostra Signora della Mota poi detta, per alterazione dell’etimologia popolare, della Muta) nel vasto sito già occupato dal Priorato benedettino medievale dipendente dal monastero di Novalesa nel circondario di Susa (R. CAPACCIO - B.DURANTE; Marciando per le Alpi... , cit., p.193 sgg.).
DRAGO> una delle definizioni consuete (specialmente, ma non solo, nella giovannea Apocalisse) dell’Anticristo o Bestia: l’orripilante definizione rientrava negli schemi dei processi di rovesciamento cui dai tempi di Gregorio Magno si rifece assiduamente la Chiesa romana per sconsacrare basi religiose pagane che ancora godevano di un certo ascendente tra le popolazioni.
Un caso si individua nell’alta valle del Nervia a riguardo della fonte Dragurigna (*fonte draconina) originata da una sorgente che sgorga sotto la cima del monte Toraggio in un anfratto della roccia.
Il Toraggio, cima rocciosa che chiude e domina la vallata a Nord di Pigna, rimanda al latino *in turrabulis che ha forse alla base un nome di divinità preromana del tipo Torevaius: le sorgenti di vette d’alpeggio tanto suggestive, in epoca celto-ligure del resto erano di frequente collegate a santuari delle Matres benevole.
La Chiesa mentre trovò frequenti difficoltà nello sradicare questo culto dalle sorgenti più frequentate in quanto più prestigiose e soprattutto agibili con una certa comodità (si ricorse mediamente all’inquadramento della pratica religiosa pagana nel sistema cristiano del culto delle Marie del Calvario secondo una tecnica di sovrapposizione dei culti, sfruttandone in genere certe convergenze ed affinità ideologico-formali: vedi DOLCEACQUA, in fine) fu quasi sempre in grado di privarlo d’ogni energia nel caso di fonti, come la Dragurigna (-na), logisticamente scomode e lontane dal consorzio civile.
In Piemonte [si veda nell'area di Susa l'EPOPEA DELLA LOTTA DI S. GIORGIO CONTRO IL DRAGO] ed in Liguria parecchie manifestazioni carsiche (grotte, sorgenti ecc.), ove era alimentato qualche culto naturalistico preromano, furono esorcizzate dal Cristianesimo (innestandovi la favola di presenze maligne, in particolare identificate in qualche demone celato sotto le vesti di un DRAGO nascosto magari nell’ombra di un antro o d’una caverna) in modo da trasformarle in tabù religiosi,: vedi ad Isoverde (Genova) la grotta del drago e, presso Testa di Alpe (Carta I.G.M.,f. 102,IV NO), una Fontana dei Draghi.
Il culto delle Matres (fra gli ultimi ad essere disperso per la ramificazione popolare) era tanto diffuso in area celto-ligure da vantare famosi santuari: tracce archeologiche esistono fin a Susa, nell’emblematica chiesa di Bardonecchia di Sancta Maria ad Lacum, in Francia, per esempio a St.Remy de Provence: secondo quanto Natalino Bartolomasi (Valsusa Antica) il culto si sarebbe espanso nel tardo Impero con l’opera di mantidi druidiche o sacerdotesse celtiche che, soppiantando la Pithia o le Sibille greco-romane, resero potente la religione delle Madri, che era poi una variante di antichissimi culti della fertilità.
FLUDD, Robert (Milgate House, Kent 1574 - Londra 1637). Medico, filosofo ed esoterista inglese. Viaggiò e studiò per varie parti d’Europa prima di esercitare la medicina in Londra ispirandosi ad indicazioni terapeutiche in qualche modo prepsicosomatiche e che risentivano dell’influsso di Paracelso di modo che nelle indicazioni curative previlegiò i rimedi a base minerale. Dal 1606 volse la sua attenzione verso l’occulto, l’esoterismo e l’ermetismo (forse per i contatti con la setta storica dei Rosacroce): questa postazione gli valse polemiche e scontri anche feroci e nello stesso tempo alimentò intorno alla sua figura la nomina di mago e di curatore cui non furono estranei i soliti sospetti di indagini proiettate nel campo dell’illecito.
INCOGNITI (ACCADEMIA DEGLI)> Aperta nel 1630 in Venezia da Gian Francesco Loredan ebbe come impresa il fiume Nilo che sbocca nel Mediterraneo col motto Ex ignoto notus.
Permeata di interessi vivaci ed anche licenziosi, ritenuta rifugio intellettuale di spiriti autonomi e quindi libertini, reputata patria pur fragile del libero pensiero creativo (anche Aprosio e Brusoni ne furono attratti) si segnalò per varie ricerche bio-bibliografiche il cui frutto più significativo sono Le Glorie degli Incogniti..., (reperibili tuttora all’ Aprosiana) probabilmente realizzate dal Loredan in collaborazione col segretario dell’Accademia G.Fusconi (Valvasense, Venezia 1647). Sulle sue vicissitudini e sul suo tramonto, dopo il grande periodo di metà ‘600, non si possiedono dati di rilievo sin alla fine dell'esperienza accademica nel 1661 vedi: Monica Miato, L'Accademia degli Incogniti di Giovan Francesco Loredan. Venezia (1630-1661),
Editrice Leo S. Olschki
, Firenze, 1999; br., pp. 298
(Accademia toscana di scienze e lettere "La Colombaria". Studi. 172).
A fronte della tiepidezza del fenomeno accademico ligure gli Incogniti finirono per risultare un importante elemento di attrazione per molti letterati ed eruditi liguri, tra cui naturalmente primeggia -per devozione ideologica e scelta esistenziale- Angelico Aprosio senza che però si dimentichino altre rilevanti figure tra cui quella del nobile letterato genovese Anton Giulio Brignole Sale.
INCUBO> dal lat. tardo [daemon] incubus (S.Agostino) che sta sopra da incubare giacere sopra (ISIDORO DI SIVIGLIA, VIII, 11, 103)> Domenico Cavalca (ca. 1270-1342) nello Specchio dei peccati (p.256 dell’ediz. milanese del 1840) definiva Demoni incubi gli spiriti importuni alle femmine nel senso di genio malefico che, assunte sembianze maschili, si congiungeva carnalmente con le femmine (in ambiente protestante, riformato e puritano l’Incubo conserva attributi simili anche se, in certe espressioni folkloriche, sotto l’influsso della sessuofobia puritana la rilevanza erotica ha ceduto ad aspetti più truculenti : attraverso i terrori di Hallowen l’uomo nero, perlopiù stupratore o assassino di innocenti, si maschera nelle forme grossolanamente orrorifiche di Nightmare). Nel Fasciculo di medicina di MANILIO (p.6) l’I. è fantasima in sogno la quale comprime ed aggrava el corpo ed il moto e perturba la favella; nel Decameron il demone notturno ispira al Boccaccio la novella VII, 1, ove monna Tessa burla il credulo marito Gianni cui, con la complicità dell’amante, fa credere di essere nottetempo visitati dalla fantasima (per alcuni un demone I. a metà fra satiro e gatto mammone). Satiri o fauni sono I. anche per Guido da Pisa (I metà del XIV sec., Fiore d’Italia, a c. di L. MUZZI, Bologna,1800): Questi cotali fauni chiamavano li greci panisci(da Pan, dio della caccia e dei boschi, corrispettivo maschile di Diana),e noi latini li chiamiamo incubi. La consuetudine dei Padri della Chiesa di dar nomi della mitologia pagana ai demoni e di personificare con essi le paure degli uomini del proprio tempo portò S.Agostino a parlare di fauni e silvani comunemente detti Incubi o Pilosi ed a porre fra essi i Dusij probabilmente i druidi, sacerdoti e capi delle società celtiche. Nel Malleus maleficarum (p. 31 dell’ediz. del 1620) si legge:...I Galli chiamavano questi incubi (fauni e silvani) dusji e quindi: Demoni Dusii, da altri chiamati Druidi, Truti o Drusi. Ulrico di Costanza nel Tractatus utilis et necessarium, (...), de Pythonicis mulieribus (integrazione al Malleus) disserta con Corrado Eschac, pretore e rappresentante dei magistrati (...) di Costanza, e con Sigismondo, Arciduca d’Austria, su tematiche circa I., angeli caduti, lamie, maghi, sirene e vari esseri fantastici o mitologici, affrontando il tema della nascita di Merlino di Britannia, forse, grazie alla letteratura arturiana, il druida più famoso . Alle pp. 46, 47, 48 e 65 i tre interlocutori trattano i misteriosi natali del druida: fra tante ipotesi si conclude che la madre di Merlino, dedita a pratiche poco ortodosse, sia stata ingannata dal diavolo, cadendo vittima della suggestione di una finta gravidanza [si ricordi però che come a M. Lutero, supposto frutto dell’incontro fra il diavolo ed una monaca, a Merlino la tradizione attribuiva nascita scandalosa, da una principessa ignara e vergine, quasi mai consenziente, posseduta nel sonno. Dietro questi deliri di fantasmi si nascose, forse, il più reale delitto dell’incesto, poi riconosciuto in un sistema di simboli dalla scienza psicoanalitica]. La questione dei rapporti carnali fra umani e demoni ossessionò le istituzioni civili ed ecclesiastiche e divise giudici e teologi in colpevolisti ( gli I. sono reali demoni che assaltano gli umani istigati dalle streghe) ed innocentisti ( gli I. sono frutto di suggestioni diaboliche o di azioni, anche involontarie, di evocazione di demoni; era questa, tuttavia, solo un’attenuante per una colpa che prevedeva penitenze sufficientemente pesanti). Nel Compendio del GUACCIO, che raccolse il pensiero inquisitoriale di Sprenger, Institoris, Delrio ed altri, l’XI cap.del Lib.I è occupato dalla trattazione degli I. Dopo l’asserzione sulla partecipazione di I. e Succubi alla copula il Guaccio passa ad una dimostrazione razionale: Infatti i demoni possono assumere i corpi dei defunti o creare corpi tangibili dall’aria o da altri elementi, e possono muovere questi corpi a loro piacere ed eccitarli, ...possono anche portare del seme preso altrove, ad esempio, da un uomo eccitato nel sonno e...conservare il calore generatore del seme e, nel momento in cui la donna è meglio disposta a concepire, immetterlo nella matrice e mescolarlo al seme femminile (lib. I,cap.XI, pp.42, 43). Ciò che è precluso ai demoni I. o Succubi, e su cui sono sostanzialmente d’accordo sia gli autori del Malleus Maleficarum e del De Pythonicis Mulieribus che il Guaccio, è il generare con la loro forza e dalla loro propria sostanza, perchè come possono avere seme, se esso è parte della sostanza corporea vivente e residuo di un cibo ottimamente digerito, e i demoni sono sostanze incorporee?(lib. I, cap. XI, pp.43, 44). Se ne deduce che la prole nata, o nascitura, da una donna ed un demone non è figlia legittima dell’I., ma del prestatore del seme, spesso sconosciuto alla donna stessa.
INDICE DEI LIBRI PROIBITI>vedi un VOLUME ECCLESIASTICO DI INTERPRETAZIONE GIURIDICA in merito.
Vedi anche Concilio di Trento - Sess.XVIII - 26/II/1562 (ALBERIGO, Decisioni dei Concili Ecumenici, Torino, 1978, pp. 628 - 629 > Decreto sulla scelta de’ libri/ Il sacrosanto concilio ecumenico e generale Tridentino, legittimamente riunito nello Spirito Santo, sotto la presidenza degli stessi legati della sede apostolica, confidando non nelle risorse umane, ma nella protezione e nell’aiuto del signore nostro Gesù Cristo, che promise di dare alla sua chiesa le parole adatte e la sapienza, a questo principalmente tende: a poter ricondurre una buona volta la dottrina della fede cattolica - inquinata e appannata, in molti luoghi, dalle opinioni di molti, che la pensano in modo contrastante, - all’antica purezza e splendore, a riportare i costumi, lontani dall’antico modo di vivere, ad un comportamento migliore e a rivolgere il cuore dei padri verso i figli e il cuore di questi verso i padri. Poiché, dunque, esso ha dovuto constatare che in questo tempo il numero dei libri sospetti e pericolosi, nei quali si contiene una dottrina impura, da essi diffusa in lungo e in largo, è troppo cresciuto, - e ciò è stato il motivo per cui molte censure in varie province, e specialmente nella città di Roma, sono state stabilite con pio zelo, senza però che ad un male così grave e così pericoloso giovasse alcuna medicina,- questo sinodo ha disposto che un gruppo di padri scelti per lo studio di questo problema, considerasse diligentemente cosa fosse necessario fare e ne riferissero poi allo stesso santo sinodo, perché esso possa più facilmente separare, come zizzania, le dottrine varie e peregrine dal frumento del vero cristiano, e con maggiore opportunità prendere una deliberazione e stabilire qualche cosa di preciso sulle questioni che sembreranno più opportune a togliere lo scrupolo dall’anima di parecchia gente e rimuovere le cause di molti lamenti.
ISOLABONA: paese dell’entroterra intemelio, lungo la provinciale che fiancheggia il Nervia sulla diramazione verso Pigna. Non privo di elementi architettonici, con tracce, in gran parte ancora da studiare, di romanità nel complesso viario e fondiario di Veonegi, il centro ha una storia antica in gran parte (sino all’epoca napoleonica) legata alle vicissitudini di Dolceacqua, capitale del Dominio poi Marchesato dei Doria che si estendeva su altri centri vallivi tra cui importante era Apricale (splendido esempio di borgo medievale) di origine tardo-romana o romano imperiale donde certamente provennero i fondatori di Isolabona. Confrontando i dati cartografici settecenteschi sul Nervia, torrente presso l’agro immediatamente ad est di Ventimiglia (vi sorse accanto la città romana) e quelli recuperati dagli atti di XII-XIII secolo si apprende che il corso d’acqua, in autunno e primavera era navigabile sin all’altezza del Portus (un approdo, di cui nel dialetto locale -assieme a vaghi reperti archeologici- sopravvive il toponimo) di Dolceacqua: le Insulae di materiale alluvionale, frequenti nei grossi torrenti del Ponente di Liguria, costituivano ripari per le imbarcazioni e attracchi per la commercializzazione dei prodotti vallivi (per tal ragione esse furono spesso al centro di controversie, procedimenti legali e, alla fine delle liti, di atti notarili che ne fissassero competenze e diritti: avevano rilievo per le colture che vi si praticavano e pei mulini che vi eran stati costruiti). Isolabona nel Nervia (come l’Isola dei Gorreti nel Roia a fianco di Ventimiglia medievale) sopravvissute ad oggi son prova dei pochi depositi alluvionali stabilizzatisi nei secoli e destinati a grandi evoluzioni. Il 3 gennaio 1287, nell’atto di annessione di Isolabona al borgo di Apricale, il toponimo oscillava tra la forma generica Insula e quella qualificativa di Insula Bona (= Isola Buona come Salda, robusta, fidabile, perenne): nei Diritti dei Doria (1523) il paese, alla confluenza fra il Nervia ed il rio Merdanzo, conservava il toponimo Insula senza altra specificazione mentre a livello di etimologia popolare il nome Insula Bona prese il sopravvento (la Signoria di Dolceacqua vi teneva un castello, una casa signorile con stalla nella pubblica piazza detta piano, terre coltivate come scrisse G.Rossi nella Storia del Marchesato di Dolceacqua> vedi Jura doriani ai docc. XVI e XXX.
MARINELLA Lucrezia (di lei all’Aprosiana si conserva La nobiltà et l’eccellenza delle donne co’ diffetti e mancamenti de gli huomini... , in Venetia, presso Gio.B.Ciotti, 1600: un'opera che sorprendentemente non dovette stuzzicare la misoginia aprosiana o che pù probabilmente il frate ritenne di controllare atteso il rilievo sociale della Marinella. Eppure in questo suo scritto l'intellettuale veneta si era destreggiata non poco contro il maschilismo epocale, sviluppando diverse sarcine di notevole valenza femminista come già nel Prologo e quindi nelle sequenze narrative rispettivamente titolate Della natura, ed essenza del donnesco sesso e Delle donne scienziate e di molte arti ornate).
Ella era nata a Venezia nel 1571 ove sarebbe morta nel 1653: fu moglie di Girolamo Vacca, ebbe notevole attività letteraria e soprattutto fu stimata dalla maggior parte degli eruditi. Si ricordano, fra i suoi lavori, Vita del glorioso e serafico S.Francesco descritta in ottava rima(Rime spirituali di diversi autori in lode del serafico P.S.Francesco raccolte da Fra Silvestro Poppi, Timan, Firenze 1606), Maria Vergine Imperatrice dell’universo descritta in ottava rima (Barezzi, Venezia 1617), il poema eroico L’Enrico (Imberti, Venezia 1635), Rime della Signora Lucrezia Marinella, Veronica Gambara ed Isabella della Morra (Bulifon, Napoli 1693). Dell’opera custodita all’Aprosiana si conosce una prima edizione omonima del 1591 a Venezia per il Sanese.
MATRIMONIO> nell’età intermedia il MATRIMONIO RIPARATORE si addice solo a borghesi e popolari.
Per i ceti aristocratici la donna, paradossalmente ma solo in apparenza, è meno fortunata, trattandosi quasi sempre di MATRIMONI D’INTERESSE concertati dai padri di famiglia per cui il ruolo delle donne nobili sposate era ben CODIFICATO.
Tra tanti casi, basti citare quello del conte Francesco Tassis fu Flaminio di Bergamo, suddito della Repubblica di Venezia, reo d’aver indotto [per passione d’amore] la Nobildonna Giustiniana Gussoni ...destinata con contratto stabilito, e sottoscritto, al matrimonio di Sposo Patrizio [altro nobile, cui era stata promessa con atto notarile avente vigore di legge]...(a) concertare occultamente la via d’una rea, scandalosa, ingiuriosissima fuga...[descritta con precisione maniacale: gli amanti si servono di una gondola a quattro remi, poi d’altre barche e quindi di un calesso per uscire dal Paese].
La condanna contro il Tassis è durissima [senza possibili forme di riparazione] ...avendo (egli) commesso scientemente, dolosamente, temeriamente, deliberatamente, pensatamente... tal (crimine).
La sentenza ed il bando dell’Eccelso Consiglio di Dieci contemplano contro il Tassis: degradazione per la discendenza dai titoli nobiliari, bando dello stesso dallo Stato, taglio della testa se assicurato alla giustizia - poi si indicano le taglie per chi agevoli o compia la cattura e condanne accessorie come l’annullamento d’eventuale contratto di nozze del Tassis e la demolizione di tutte le sue case (Plaquette di pp.8, cm.21 x 15, stampata in Venezia per S.Antonio e Almorò Pinelli il 18 Gennaio 1731).
MESMER, Franz Anton. medico e filosofo tedesco (Iznang, lago di Costanza, 1734-Meersburg 1815) laureatosi in filosofia e in medicina a Vienna con la tesi Dissertatio physicomedica de planetarum influxum (1776), provò dapprima quali effetti potesse avere sull’organismo l’applicazione del ferro calamitato. Poi si persuase che non dalle calamite, o da altre sostanze calamitate, si sprigionava l’energia magnetica, bensì dal suo stesso organismo e dalle punte delle sue dita (donde sarebbe scaturito una sorta di fluido magnetico e terapeutico). Scrisse allora la sua opera fondamentale, pubblicata in francese con il titolo Mémoire sur la découverte du magnetisme animal [Memoria sulla scoperta del magnetismo animale, 1779> gli scritti di Mesmer si leggono comunque ancora oggi, per es., in Le magnetisme animal, Parigi 1971> non bisogna dimenticare che la discussa ipotesi di Mesmer avrebbe poi tratto benefici impensabili dagli studi sull’elettricità animale, cioè dal galvanismo ovvero dalle ben piú scientifiche considerazioni di Luigi Galvani (1737-1798) espresse nel De viribus electricitatis in motu musculari commentarius (Delle forze dell’elettricità nel moto muscolare, edito prima nei Commentarii dell’Accademia delle Scienze di Bologna nel 1791 e poi divulgato come estratto con edizione modenese del 1792) ed ancora dal celebre dibattito sulla questione tra Galvani e Volta: ma qui siamo su un altro livello di conoscenze!> purtuttavia lo stesso Galvani a riguardo dell’elettricità naturale non mancò di patire critiche e sospetti né riuscì mai a sviluppare un chiaro concetto di quella che sarebbe stata definita corrente di demarcazione finendo per complicare le proprie riflessioni con argomenti di natura metafisica: eppure l’elettricità naturale esiste realmente, anche se per la sua esatta descrizione bisognerà attendere gli studi di Carlo Matteucci (1811-1868) e di Emil Heinrich Du Bois-Reymond (1818-1896)].
NANNI, Emilia, nativa di Taggia ha svolto gli studi superiori al Liceo Classico G.D.Cassini di Sanremo. Si è quindi laureata in Lettere Classiche presso l’Università di Genova con la dissertazione di laurea sulla cosmesi ovidiana essendo relatore l’illustre latinista Francesco Della Corte. Dal 1972 si dedica eminentemente all’insegnamento negli Istituti Superiori della Provincia di Imperia essendo Ordinaria di Letteratura Italiana. Appassionata studiosa di latino classico riempie il tempo libero dedicandosi ai suoi hobby preferiti, dell’antiquariato e della botanica. Il saggio di questo Quaderno dell’Aprosiana, preludio di una più vasta e attesa pubblicazione dedicata dal De cultu feminarum di Ovidio, è un’elaborazione di parte della sua tesi di laurea, discussa nel febbraio 1972.
PALME - Bordighera è nota come la città delle palme per la ragione d’esser sede del più settentrionale (43° di latitudine quando la pianta cresce perlopiù fra i 15°-20°) areale di sviluppo di Phoenix dactylifera, l’autentica palma africana (alta fino a 20 m. e dalla corona variabile da 20 a 40 foglie verdi) riconoscibile per il fusto sottile detto stipite e per le tracce geometriche delle vecchie foglie cadute.
PARACELSO, pseudonimo di Filippo Teofrato Bombasto von Hohenheim (Einsiedeln, presso Zurigo 1493 - Salisburgo 1541) alchimista e filosofo tedesco, discepolo a Brema e dell’abate Tritemio. Studiò alchimia, chimica, mineralogia e coniò il suo nome dal medico latino Celso cui si ispirò in contraddizione a Galeno di cui pubblicamente bruciò le opere per testimoniare la sua discordanza dalla dominante linea tradizionalistica delle corporazioni mediche che da Ippocrate portava appunto a Galeno: secondo una tradizione, data per sicura da U. Weisser in una voce dell'Encyclopedia Iranica ma riferita con più prudenza da Siraisi [come ha scritto il Vercellin (p.38, nota 55)] nel 1527 a Basilea Paracelso avrebbe altresì bruciato pubblicamente il Canone di Avicenna dando inizio a quel periodo di disistima per le scienze arabo-musulmane, di ascendenza classica, che prese il via dal '500.
Secondo Paracelso (che pur essendo cattolico praticante si occupava di astrologia ed esoterismo al punto da esser ritenuto un mago) l’Universo tutto risuonava (secondo la teoria d’un confronto perenne tra macro e microcosmo come specchi reciproci) in forza dell’Archeus, lo spirito vitale che avrebbe plasmato forme e forze ad ogni livello possibile del reale. Tra gli innumerevoli scritti attribuiti a Paracelso, ideatore della medicina spagirica, basti ricordarne alcuni, estremamente profondi e rivoluzionari editi dopo la sua morte, quali l’Opus paramirum del 1562, il Paragranum del 1565 ed il Volumen paramirum del 1575.
PARINI, Giuseppe (Bosisio oggi Bosisio Parini 1729 - Milano 1799). Sacerdote di profonda formazione classica e di spirito liberale, già membro dell’Accademia milanese dei Trasformati, frequentò la nobiltà milanese esercitandovi la sua attività di ricercatissimo precettore ma ebbe anche degli scontri per la greve ottusità e l’altezzoso comportamento della grassa nobiltà locale. Di qui derivarono il Dialogo sopra la nobiltà (che per lui era di cuore e non di sangue od ereditaria), di qui alcune delle sue Odi ispirate ad un neoclassicismo moderatamente illuminista, da qui soprattutto la stesura del poemetto didascalico-satirico Il Giorno col quale, sotto apparente forma di insegnamenti di vita sociale ad un Giovin Signore milanese, non mancò di colpire la pavida e pigra nobiltà di Milano e della Lombardia.
SCHENCKIUS, Joahannes Georgius di lui, medico fisico (cioè diagnostico e terapeuta per via clinica) di gran nome nel tempo, si trova all’Aprosiana di Ventimiglia l’opera (ricca di incisioni molto belle ed estremamente ben conservate) Monstrorum Historia Memorabilis, Monstrosa Humanorum Partuum Miracula...edita a Joanne Georgio Schenckio a Grafenberg filio, Ex Officina Typographica M.Beckeri, Francufurti 1609. Quest’opera si coniuga con un’altra preziosità medico-chirurgica parimenti custodita all’Aprosiana, vale a dire l’Armamentarium Chirurgicum...di Johannes Scultetus [Typis et impensis Balthasari Kunen, Ulmae Svevorum 1655] in cui si descrivono, e si rappresentano con splendide incisioni purtroppo in qualche caso un pò oscurate danneggiate da un processo di ossidazione legato alla qualità della carta, vari strumenti chirurgici e numerose tecniche, per l’epoca innovatrici, di intervento chirurgico senza escludere la trapanazione del cranio.
STATUTI (CRIMINALI GENOVESI DEL 1556) > esemplificazione delle normative medie del diritto dell’età intermedia: gli “Statuti genovesi”,editi nel 1557, sono ora pubblicati tradotti e commentati da B.Durante e F.Zara, sotto il titolo di Figliastri di Dio/ “a coda d’una bestia tratto”, pei tipi della cooperS di Ventimiglia (ed. dicembre, 1996)>La caratteristica di questi statuti (titolo per esteso Criminalium Iurium Civitatis Genuensis Libri Duo, come quelli di tutti i consimili ordinamenti del diritto intermedio, era quello che “ognuno fosse da ritenersi reo una volta accusato....non provandosi la sua innocenza”> notevoli, ma sempre difficili per la difesa dei rispettivi interessi le relazioni tra “tribunale laico” (foro dello Stato) e “tribunale ecclesiastico” (foro dell’Inquisizione) in merito a processi contro accusati di eresia e stregoneria (il braccio dello Stato, cioè la forza pubblica ordinaria, in teoria avrebbe dovuto eseguire le sentenze proposte dal tribunale dell’Inquisizione in occasione di siffatti procedimenti: l’uso del condizionale si deve alla titubanza dello Stato a soggiacere, in casi di giustizia interna per qualsiasi genere di reato, agli ordinamenti dell’Arcivescovo e dell’Inquisitore di Genova). Per un piccolo refuso il tipografo, autore dell’edizione originale, nella recente citata pubblicazione della “cooperS ed.” a p.2 viene indicato come Antonio Belloni anziché Antonio Bellone. Marco Antonio Bellone (questo il nome per esteso), “tipografo dogale”, apparteneva ad una società di stampa cui concorrevano il nobile Antonio Roccatagliata e Luigi Portelli. Ottimo artigiano, non privo di interesse per gli sperimentalismi poetici ed i motti arguti, il Bellone lasciò Genova nel 1579, allo scioglimento del consorzio editoriale che pure aveva prodotto opere di pregio ed ora di estrema rarità: si sistemò quindi in Carmagnola ove eresse una nuova stamperia in società con Giacomo Novarese mentre la vecchia, rinomata tipografia genovese -in base a precedenti accordi societari- fu retta dal 1579 al 1585 da Luigi Portelli [N.GIULIANI, Notizie sulla tipografia ligure sino a tutto il secolo XVI con primo e secondo supplemento, Bologna, Forni, 1980 (ristampa anastatica dell’edizione del 1869 apparsa negli “Atti della Soc.Ligure di Storia Patria”)]. A giustificazione di possibili mende (ed a consolazione di futuri scrittori) in fine della sua edizione degli “Statuti Criminali” il tipografo gustosamente fece scrivere (trad. dal latino): "Antonio Bellone il Bibliopola così ha scritto per il lettore/ Caro lettore, per quanto era nelle mie possibilità, mi sono impegnato sì che quest’opera sulla Legge Criminale uscisse priva d’ogni difetto ed al fine che tu non vi trovassi in seguito neppur una lacuna. Ma sono soltanto un uomo, ho appena due occhi, non son come Argo il cane infernale dai cento occhi. Per quanto ci si impegni con estrema diligenza a volte nulla esce dai torchi così perfetto che non vi si riscontri qualche lieve menda, sfuggita anche ai correttori più attenti. Pertanto non stupirti e non adirarti se, per caso, qualche cosa ti risulti stampata meno nitidamente d’altre o se qualche nevo affiori per caso. Concedimi la tua indulgenza ed il tuo perdono: sappi che quanto abbiamo riscontrato ci siam fatti premura di annotare qui sotto, leggi con cura queste correzioni ed apporta le necessarie migliorie al testo” (seguono 5 linee di “Errata/Corrige”: per ben pochi termini in verità)..
Ad integrazione del testo editato e commentato nell’opera Figliastri di Dio si riportano qui i tre carmi latini adespoti:
Ad lectorem
Persarum Regis non plureis arcula gemmas
Clusit: quam varias hoc breve cludit opus.
Lex datur hoc cunctis: sua quenque est facta sequuntur:
Dantur Iura bonis: & sua iura malis.
Principibus fortuna solet concedere Regna:
Sed non: qua fuerint lege regenda: docet.
Supra fortunam est sanctissima pagina legum:
Quae bene regnandi pandit ad astra viam.
Hoc opus ergo omnes discant Iuvenesque: Senesque:
Quique domi cupiunt vivere: quique foris.
Discant: nam frugi est: & divite maxima culmo
Cuiusque implebit horrea culta seges
Aliud
Cedite furta: doli: caedes: incendia: rixae:
Poena manet: nulli spes sit in aere suo.
Ad librum: ut exeat
Exi iam liber: ocyus recede:
Terris iura daturus: Oppidisque:
A Macra ad Monichum: iugumque: & ultra:
Clara quae Urbs Ligurum regit potenti
Sceptro. ac Iudicijs: pijsque iussis.
Prodi audentius omnibus libellis:
Quos olim ediderit sagax Senatus:
Eiusque auspicijs: ope; & favore:
Sospite Imperio ipse & usque sospes:
Terris iura daturus: Oppidisque.
La “dedicatoria” poetica è rivolta al pubblico ed al libro perché abbia gran credito come emanazione del diritto della Signoria: pregnante, seppur d’un ottimismo esagerato, risulta il distico laddove ci si augura che non solo grazie alle nuove direttive penali cessino i furti, gli inganni, le stragi e le risse ma anche (e forse soprattutto) che la pena avverso un reo sia sempre eseguita e che non più come in passato (il concetto è sottinteso quanto chiaro) la ricchezza personale rappresenti una garanzia di immunità e di salvezza: concetto poetico (destinato a restare come tale nella dimensione delle speranze forse irrealizzabili) ma comunque concetto che costituisce espressione della soluzione ad un disagio sociale strettamente connesso ad un’ingiustizia di trattamento penale collegata allo stato censitario ed al prestigio delle casate, anche ben al di là delle pur considerevoli concessioni fissate dagli stessi nuovi statuti criminali per gli aderenti ai gruppi egemonici di Genova e Dominio.
TARABOTTI, Arcangela, suora, al secolo Elena Cassandra (Venezia 1604 - ivi 1652). Di famiglia nobile, per le severe leggi del maggiorascato, soffrendo di una leggera malformazione fisica, tale comunque da renderne improbabile un matrimonio di interesse, venne obbligata dal padre Stefano ad entrare nel convento veneziano di S.Anna ove passò tutta la vita. Le imposizioni della famiglia e le esperienze degli anni giovanili (1620-’29) le ispirarono tra l’altro il volume polemico, poi messo all’Indice, La semplicità ingannata (sotto pseudonimo di Galerana Baritotti) edito da Sambix, a Leida, secondo alcuni nel 1651 secondo altri studiosi nel 1654. I suoi reiterati atteggiamenti contro l’uso delle monacazioni forzate furono mitigate ora con forme più o meno blande di persecuzione, più intellettuale che fisica, ora grazie all’intervento diretto del cardinale Ferdinado Cornaro cui la T. dedicò poi la sua ritrattazione sotto titolo de Il Paradiso monacale, libri tre con soliloquio con Dio (Oddoni, Venezia 1648). Pochi anni prima aveva comunque in qualche modo aggravata la sua posizione di monaca femminista impegnandosi in una celebre diatriba a difesa delle donne contro il misogino Francesco Buoninsegni: comunque, poco prima di morire, nel 1651 ancora sotto pseudonimo di Galerana Baritotti scrisse una Difesa delle donne (edita ufficialmente per il Cherchenbergher, in Copenaghen ma in realtà stampata a Venezia) contro Orazio Plata (da alcuni identificato con G.F.Loredan)> Di interesse emozionale notevole sono le sue Lettere familiari e di complimento edite a Venezia nel 1650 per il Guerigli.
Astronomo, matematico e geografo alessandrino, CLAUDIO TOLOMEO (che visse in Alessandria nel II secolo d.C. al tempo, dell'imperatore Adriano) raccolse e sistematizzò nell' Almagesto i risultati della ricerca astronomica precedente (Ipparco ecc.), creando un SISTEMA GEOCENTRICO basato su una serie di circonferenze (epicicli), il cui centro si muoveva su un'altra circonferenza eccentrica rispetto alla Terra. Nel sistema di Tolomeo soltanto il Sole e la Luna, considerati pianeti, avevano il proprio epiciclo centrato direttamente sulla Terra.
Tale sistema di TOLOMEO fu considerato valido fino alla RIVOLUZIONE COPERNICANA del XVI secolo.
Di Tolomeo è importante anche l'opera di geografo descrittivo che utilizzava latitudine e longitudine per l'identificazione dei luoghi sulla superficie terrestre.
Una delle sue opere più importanti si intitola, appunto, la Geografia.
La parte più consistente di questo libro è costituita da una lista di luoghi citati con le loro coordinate geografiche, latitudine e longitudine, insieme con una breve descrizione delle caratteristiche topografiche salienti di ciascuno di essi.
Certamente questo elenco di luoghi doveva essere accompagnato, nel manoscritto originale, da alcune carte geografiche, che non sono giunte sino a noi.
Tolomeo, tuttavia, ben prevedendo che le carte da lui disegnate sarebbero state irrimediabilmente copiate male, fino a diventare illeggibili nelle successive copie del suo manoscritto, si preoccupò di fornire il metodo per riprodurle correttamente, ovvero descrisse il sistema di PROIEZIONE da lui adottato per rappresentare la sfera terrestre su una superficie piana .
Il libro I della Geografia è difatti dedicato a descrivere il METODO DI DISEGNO di una carta di tutte le terre emerse, mentre il libro VIII spiega come fare a ottenere, da questa carta generale altre sei carte più dettagliate.
Secondo Tolomeo il MONDO ABITATO, od ECUMENE ( dalla parola greca oikomene che significa appunto abitato), al cui centro ideale sta l'ITALIA, copre un'estensione di 180° in LONGITUDINE, dal meridiano 0, quello delle isole Fortunate (ovvero le isole Canarie), e in LATITUDINE si estende da 16° 25' Sud fino a 63° Nord.
Naturalmente le descrizione dei luoghi e le posizioni date da Tolomeo in alcuni casi risultano grossolanamente sbagliate o molto approssimate.
Perfino i confini dell'impero romano erano molto incerti a quel tempo, ed anche la forma dei continenti allora noti, Europa, Africa e India era errata.
Prima di Tolomeo, solo l'astronomo IPPARCO aveva dato liste di luoghi con le loro coordinate geografiche e le conoscenze non erano molto aumentate ai tempi di Tolomeo.
Sia le misure di latitudine che di longitudine richiedevano accurate osservazioni astronomiche che, raramente, venivano compiute.
Le misure di longitudine erano basate su osservazioni contemporanee di eclissi lunari che dovevano essere organizzate con ampio anticipo.
Sembra che di queste osservazioni Tolomeo ne abbia avuta a disposizione una sola.
Si tratta dell' ECLISSI DI LUNA del 20 Settembre del 331 a.C., osservata ad Arbela in Assiria e a Cartagine.
Sfortunatamente un errore nell'osservazione di Arbela fece concludere a Tolomeo che, tra i due siti, esisteva una differenza di tre ore invece delle due reali.
Questo errore portò ad una distorsione del Mediterraneo, ovvero ad un allungamento della parte orientale di questo mare.
Per il resto Tolomeo dovette fidarsi dei resoconti dei viaggiatori e dei carovanieri, stimando le distanze in base ai giorni di viaggio necessari per raggiungere le località riportate nella carta.
Nonostante tutti questi problemi, il testo della Geografia di Tolomeo rimane uno delle grandi manifestazioni dell'ingegno umano. NIKOLAJ KOPERNIK (latinizzato in Nicolaus Copernicus) nacque a Torùn (Pomerania) nel 1473.
Nel 1491 si iscrisse alla facoltà delle Arti dell'Università di Cracovia, che lasciò nel 1496 per giungere in Italia, a Bologna, dove si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza.
Fu nell'anno successivo che cominciò a seguire le lezioni dell'astronomo italiano Domenico da Novara.
Per il Giubileo del 1500 raggiunse Roma, dove tenne alcune lezioni di matematica e astronomia.
Nel 1501 tornò in Polonia, a Frauenburg, in qualità di canonico, ma quello stesso anno ripartì per studiare medicina a Padova.
Nel 1503 si laureò in diritto canonico a Ferrara e tre anni dopo fece definitivo rientro in Polonia.
Nel 1512 cominciò a far circolare tra amici e corrispondenti un manoscritto intitolato Commentariolus, in cui venivano esposti i fondamenti del sistema eliocentrico.
Consapevole delle implicazioni e delle conseguenze di tale sistema, Copernico esitò per molti anni a pubblicare la propria opera, anche quando, nel 1538, l'astronomo tedesco Georg-Joachim Retico (1514-1476), venuto a fargli visita, ed entusiasmatosi alla nuova cosmologia, lo esortò a rendere il sistema eliocentrico di pubblico dominio.
L'unico risultato che Retico riuscì a strappare a Copernico fu il permesso di poter esporre le idee centrali della teoria copernicana in una pubblicazione uscita a Danzica nel 1540 con il titolo di Narratio Prima.
Fu solo a seguito dell'interesse suscitato da questo lavoro e delle ulteriori insistenze di Retico e di altri estimatori, che Copernico si decise finalmente a pubblicare il De revolutionibus orbium caelestium (di cui è utile leggere la Dedicatoria a Papa Paolo III: ma giova anche scorrere la Confutazione degli argomenti in favore dell'immobilità della terra), che venne stampato a Norimberga nel 1543, che fu anche l'anno della morte del suo autore.
*** Sentenza del Sant'Uffizio contro Galileo Galilei
[nel testo aprosiano della Grillaia compare erroneamente l'anno 1635, 22 di Giugno: verisimile errore di stampa]
"Roma, 22 giugno 1633.
Noi Gasparo del tit. di S. Croce in Gerusalemme Borgia;
Fra Felice Centino del tit. di S. Anastasia, detto d'Ascoli;
Guido del tit. di S. Maria del Popolo Bentivoglio;
Fra Desiderio Scaglia del tit. di S. Carlo, detto di Cremona;
Fra Ant.o Barberino, detto di S. Onofrio;
Laudivio Zacchia del tit. di S. Pietro in Vincoli, detto di S. Sisto;
Berlingero del tit. di S. Agostino Gesso;
Fabricio del tit. di S. Lorenzo in Pane e Perna Verospio: chiamati Preti;
Francesco del tit. di S. Lorenzo in Damaso Barberino; e Marzio di S.ta Maria Nova Ginetto: Diaconi;
per la misericordia di Dio, della S.ta Romana Chiesa Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l'eretica pravità Inquisitori generali dalla S. Sede Apostolica specialmente deputati;
Essendo che tu, Galileo fìg.lo del q.m. Vinc.o Galilei, Fiorentino, dell'età tua d'anni 70, fosti denunziato del 1615 in questo S.o Off.o, che tenevi come vera la falsa dottrina, da alcuni insegnata, ch'il Sole sia centro del mondo e imobile, e che la Terra si muova anco di moto diurno; ch'avevi discepoli, a' quali insegnavi la medesima dottrina; che circa l'istessa tenevi corrispondenza con alcuni mattematici di Germania; che tu avevi dato alle stampe alcune lettere intitolate Delle macchie solari, nelle quali spiegavi l'istessa dottrina come vera; che all'obbiezioni che alle volte ti venivano fatte, tolte dalla Sacra Scrittura, rispondevi glosando detta Scrittura conforme al tuo senso; e successivamente fu presentata copia d'una scrittura, sotto forma di lettera, quale si diceva esser stata scritta da te ad un tale già tuo discepolo, e in essa, seguendo la posizione del Copernico, si contengono varie proposizioni contro il vero senso e auttorità della Sacra Scrittura;
Volendo per ciò questo S.cro Tribunale provedere al disordine e al danno che di qui proveniva e andava crescendosi con pregiudizio della S.ta Fede, d'ordine di N. S.re e degl'Eminen.mi e Rev.mi SS.ri Card.i di questa Suprema e Universale Inq.ne, furono dalli Qualificatori Teologi qualificate le due proposizioni della stabilità del Sole e del moto della Terra, cioè:
Che il Sole sia centro del mondo e imobile di moto locale, è proposizione assurda e falsa in filosofìa, e formalmente eretica, per essere espressamente contraria alla Sacra Scrittura;
Che la terra non sia centro del mondo ne imobile, ma che si muova eziandio di moto diurno, è parimente proposizione assurda e falsa nella filosofia, e considerata in teologia ad minus erronea in Fide.
Ma volendosi per allora procedere teco con benignità, fu decretato nella Sacra Congre.ne tenuta avanti N. S. a' 25 di Febr.o 1616, che l'Emin.mo S. Card.le Bellarmino ti ordinasse che tu dovessi omninamente lasciar detta opinione falsa, e ricusando tu di ciò fare, che dal Comissario del S. Off.o ti dovesse esser fatto precetto di lasciar la detta dotrina, e che non potessi insegnarla ad altri ne difenderla ne trattarne, al quale precetto non acquietandoti, dovessi esser carcerato; e in essecuzione dell'istesso decreto, il giorno seguente, nel palazzo e alla presenza del sodetto Eminen.mo S.r Card.le Bellarmino, dopo esser stato dall'istesso S.r Card.le benignamente avvisato e amonito, ti fu dal P. Comissario del S. Off.o di quel tempo fatto precetto, con notaro e testimoni, che omninamente dovessi lasciar la detta falsa opinione, e che nell'avvenire tu non la potessi tenere ne difendere ne insegnar in qualsivoglia modo, ne in voce ne in scritto: e avendo tu promesso d'obedire, fosti licenziato.
E acciò che si togliesse affatto così perniciosa dottrina, e non andasse più oltre serpendo in grave pregiudizio della Cattolica verità, uscì decreto della Sacra Congr.ne dell'Indice col quale fumo proibiti li libri che trattano di tal dottrina, e essa dichiarata falsa e omninamente contraria alla Sacra e divina Scrittura.
E essendo ultimamente comparso qua un libro, stampato in Fiorenza l'anno prossimo passato, la cui inscrizione mostrava che tu ne fosse l'autore, dicendo il titolo Dialogo di Galileo Galilei delli due Massimi Sistemi del mondo, Tolemaico e Copernicano; ed informata appresso la Sacra Congre.ne che con l'impressione di detto libro ogni giorno più prendeva piede e si disseminava la falsa opinione del moto della Terra e stabilità del Sole; fu il detto libro diligentemente considerato, e in esso trovata espressamente la transgressione del predetto precetto che ti fu fatto, avendo tu nel medesimo libro difesa la detta opinione già dannata e in faccia tua per tale dichiarata, avvenga che tu in detto libro con varii ragiri ti studii di persuadere che tu la la sci come indecisa e espressamente probabile, il che pur è errore gravissimo, non potendo in niun modo esser probabile un'opinione dichiarata e difìnita per contraria alla Scrittura divina.
Che perciò d'ordine nostro fosti chiamato a questo S. Off.o, nel quale col tuo giuramento, essaminato, riconoscesti il libro come da tè composto e dato alle stampe. Confessasti che, diece o dodici anni sono incirca, dopo esserti fatto il precetto come sopra, cominciasti a scriver detto libro; che chiedesti la facoltà di stamparlo, senza però significare a quelli che ti diedero simile facoltà, che tu avevi precetto di non tenere, difendere ne insegnare in qualsivoglia modo tal dottrina.
Confessasti parimente che la scrittura di detto libro è in più luoghi distesa in tal forma, ch'il lettore potrebbe formar concetto che gl'argomenti portati per la parte falsa fossero in tal guisa pronunziati, che più tosto per la loro efficacia fossero potenti a stringer che facili ad esser sciolti; scusandoti d'esser incorso in error tanto alieno, come dicesti, dalla tua intenzione, per aver scritto in dialogo, e per la natural compiacenza che ciascuno ha delle proprie sottigliezze e del mostrarsi più arguto del comune de gl'uomini in trovar, anco per le proposizioni false, ingegnosi e apparenti discorsi di probabilità.
E essendoti stato assignato termine conveniente a far le tue difese, producesti una fede scritta di mano dell'Emin.mo S.r Card.le Bellarmino, da te procurata, come dicesti, per difenderti dalle calunnie de' tuoi nemici, da' quali ti veniva opposto che avessi abiurato e fossi stato penitenziato dal S.to Off.o, nella qual fede si dice che tu non avevi abiurato, né meno eri stato penitenziato, ma che ti era solo stata denunziata la di chiarazione fatta da N. S.e e publicata dalla Sacra Congre.ne dell'Indice, nella quale si contiene che la dottrina del moto della terra e della stabilità del sole sia contraria alle Sacre Scritture, e però non si possa difendere ne tenere; e che perciò, non si facendo menzione in detta fede delle due particole del precetto, cioè docere e quovis modo, si deve credere che nel corso di 14 o 16 anni n'avevi perso ogni memoria, e che per questa stessa cagione avevi taciuto il precetto quando chiedesti licenza di poter dare il libro alle stampe, e che tutto questo dicevi non per scusar l'errore, ma perché sia attribuito non a malizia ma a vana ambizione. Ma da detta fede, prodotta da te in tua difesa, restasti magiormente aggravato, mentre, dicendosi in essa che detta opinione è contraria alla Sacra Scrittura, hai non di meno ardito di trattarne, di difenderla e persuaderla probabile; né ti suffraga la licenza da te artefìziosamente e calidamente estorta, non avendo notificato il precetto ch'avevi.
E parendo a noi che tu non avessi detto intieramente la verità circa la tua intenzione, giudicassimo esser necessario venir contro di te al rigoroso essame; nel quale, senza però pregiudizio alcuno delle cose da te confessate e contro di te dedotte come di sopra circa la detta tua intenzione, rispondesti cattolicamente.
Pertanto, visti e maturamente considerati i meriti di questa tua causa, con le sedette tue confessioni e scuse e quanto di ragione si doveva vedere e considerare, siamo venuti contro di te alla infrascritta diffinitiva sentenza.
Invocato dunque il S.mo nome di N. S.re Gesù Cristo e della sua gloriosissima Madre sempre Vergine Maria; per questa nostra diffinitiva sentenza, qual sedendo pro tribunali, di consiglio e parere de' RR. Maestri di Sacra Teologia e Dottori dell'una e dell'altra legge, nostri consultori, proferimo in questi scritti nella causa e cause vertenti avanti di noi tra il M.co Carlo Sinceri, dell'una e dell'altra legge Dottore, Procuratore fiscale di questo S.o Off.o, per una parte, e te Galileo Galilei antedetto, reo qua presente, inquisito, processato e confesso come sopra, dall'altra;
Diciamo, pronunziamo, sentenziarne e dichiararne che tu, Galileo sudetto, per le cose dedotte in processo e da te confessate come sopra, ti sei reso a questo S. Off.o veementemente sospetto d'eresia, cioè d'aver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, ch'il sole sia centro della terra e che non si muova da oriente ad occidente, e che la terra si muova e non sia centro del mondo, e che si possa tener e difendere per probabile un'opinione dopo esser stata dichiarata e diffinita per contraria alla Sacra Scrittura; e conseguentemente sei incorso in tutte le censure e pene dai sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Dalle quali siamo contenti sii assoluto, pur che prima, con cuor sincero e fede non fìnta, avanti di noi abiuri, maledichi e detesti li sudetti errori e eresie, e qualunque altro errore e eresia contraria alla Cattolica e Apostolica Chiesa, nel modo e forma che da noi ti sarà data.
E acciocché questo tuo grave e pernicioso errore e transgressione non resti del tutto impunito, e sii più cauto nell'avvenire e essempio all'altri che si astenghino da simili delitti, ordiniamo che per publico editto sia proibito il libro de' Dialoghi di Galileo Galilei.
Ti condaniamo al carcere formale in questo S.o Off.o ad arbitrio nostro; e per penitenze salutari t'imponiamo che per tre anni a venire dichi una volta la settimana li sette Salmi penitenziali: riservando a noi facoltà di moderare, mutare, o levar in tutto o parte, le sodette pene e penitenze.
E così diciamo, pronunziamo, sentenziamo, dichiariamo, ordiniamo e reservamo in questo e in ogni altro meglior modo e forma che di ragione potemo e dovemo.
Ita pronun.mus nos Cardinales infrascripti: F. Cardinalis de Asculo. G. Cardinalis Bentivolus. Fr. D. Cardinalis de Cremona. Fr. Ant.s Cardinalis S. Honuph-rii B. Cardinalis Gipsius. F. Cardinalis Verospius. M. Cardinalis Ginettus". Abiura di Galileo Galilei letta il 22 giugno 1633
[nel testo aprosiano della Grillaia compare erroneamente anche in merito alla Sentenza del S. Ufficio l'anno 1635
, 22 di Giugno: verisimile errore di stampa]
"Io Galileo, fìg.lo del q. Vinc.o Galileo di Fiorenza, dell'età mia d'anni 70, constituto personalmente in giudizio, e inginocchiato avanti di voi Emin.mi e Rev.mi Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l'eretica pravità generali Inquisitori; avendo davanti gl'occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l'aiuto di Dio crederò per l'avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la S.a Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma perché da questo S. Off.o, per aver io, dopo d'essermi stato con precetto dall'istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e che la terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere ne insegnare in qualsivoglia modo, ne in voce ne in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d'essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l'istessa dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente sospetto d'eresia, cioè d'aver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo e imobile e che la terra non sia centro e che si muova; Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze V.re e d'ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non fìnta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla S.ta Chiesa; e giuro che per l'avvenire non dirò mai più ne asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d'eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all'Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò.
Giuro anco e prometto d'adempire e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Off.o imposte; e contravenendo ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da' sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate.
Così Dio m'aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie mani.
Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione e recitatala di parola in parola, in Roma, nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633.
Io, Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria".
TORTURA
[clicca sulla voce TORTURA evidenziata in color rosso per accedere all'elenco delle tipologie di tortura in vigore nel XVII secolo] B. DURANTE - F. ZARA, Figliastri di Dio - a coda d’una bestia tratto..., cooperS ed., Ventimiglia 1996, Glossario voci varie> Da una sentenza pubblicata dalla Stamperia Reale di Torino nel dicembre del 1777 si apprende come il diritto intermedio sopravvisse a lungo anche nelle forme più atroci. In questo documento si contempla il caso della pena inflitta a persona d’umile condizione, tal Giacomo L.[cognome in parte cassato, in parte illeggibile] il quale sotto tortura
aveva confessato l’assassinio di un prete che abitualmente provvedeva di vettovaglie e d’aver rubato 8 galline. La condanna avrebbe dovuto consistere nella pena della morte col mezzo del supplicio della ruota [il boia avrebbe frantumato con una mazza gli arti dello sventurato e questi sarebbero poi stati fatti passare fra i raggi d’una ruota comune da carro in pubblica vista], precedente l’applicazione delle tenaglie infuocate ai luoghi e modi soliti nell’essere condotto al patibolo, e fatto il di lui corpo cadavere manda ridursi in quarti da affiggersi ai luoghi soliti... (forse pei fermenti del nuovo diritto illuminista la barbara pena venne quindi commutata nell’impiccagione).
VENTIMIGLIA> Altura degli Intemeli (come detta il nome ligure-romano Albintimilium) si sviluppò a Nervia sull’altura di Colla Sgarba. Dopo la conquista romana si eresse una città quadrata e cinta da mura al terminale del Nervia (grosso torrente che formava prima d’entrare in mare un porto canale per l’attracco delle navi). Con l'integrazione tra Liguri e Romani la città si espanse, con suburbi o periferie che si estendevano verso Sanremo e Mentone. Vi si costruirono ville, case condominiali, acquedotti e fontane, un foro pubblico, un teatro e una struttura termale. Dopo i secoli bui del Medio Evo (quando la popolazione abbandonò la città romana
per rifugiarsi sull’altura ben protetta della città medievale) e dell’epoca feudale (caratterizzata dall’egemonia dei Conti di Ventimiglia, sui ruderi del cui castello sorge dal 1668 il convento delle Canonichesse Lateranensi) si ebbe la fase comunale. Nel XIII sec. la città fu conquistata da Genova e ne diventò base di frontiera, purtroppo anche tormentata da guerre ed invasioni (si veda I Castelli di Ventimiglia).. Divenne quindi "Capitanato di Ventimiglia e distretto" nel Dominio di Genova ed il ceto dominante dei nobili locali o "Magnifici" risiedeva nel quartiere, poi sestiere, "Piazza" di Ventimiglia medievale il cui locale Parlamento, importante per l'amministrazione economica del territorio, fu spesso in disaccordo coi "popolari" e soprattutto coi "rustici" delle "ville rurali" che a fine '600 avrebbero, dal Senato genovese, ottenuta l'autonomia economica e fiscale da Ventimiglia ritenuta troppo esosa. Ventimiglia seguì quasi sempre i destini di Genova, tra guerre, periodi di fortuna e di difficoltà: sarebbe diventata Comune autonomo dopo la "Rivoluzione Ligure" del 1797 e, caduto Napoleone, dopo il Congresso di Vienna (1815) per cui la Repubblica di Genova fu soppressa ed il suo territorio venne assegnato al Piemonte sabaudo. Lo sviluppo urbano e demografico di Ventimiglia nella piana tra i corsi d'acqua del Nervia e del Roia si ebbe dall''800 ed in particolare dalla II metà dopo la realizzazione della "Strada della Cornice" (oggi "Aurelia") e della "Strada ferrata" con la "Grande Stazione ferroviaria internazionale" che resero intensi i traffici e potenziarono il ruolo frontaliero della città. Nuove attività economiche (a fianco di quelle tradizionali della olivicoltura e floricoltura) tra cui, per ultima e gloriosa, la floricoltura fecero la fortuna di Ventimiglia [la celebre Battaglia di Fiori (anche detta Battaglia dei Fiori) con splendidi carri fioriti, lavorati soprattutto coi pregiati garofani locali, divenne un appuntamento mondano ed internazionale, recentemente riproposto nonostante la gravezza dell'impegno e dei costi]. La vicinanza della Francia e, sin a tempi recenti, la congiuntura favorevole del cambio lira/franco ha fatto di Ventimiglia un enorme emporio commerciale il cui apice è costituito dal monumentale mercato ambulante di ogni Venerdì, diventato di rinomanza europea. Molte associazioni culturali e la stessa Amministrazione comunale stanno tuttora operando per una sempre più vasta qualificazione turistica di Ventimiglia (non limitata alla fruizione del pur splendido mare) con varie iniziative: alcune di carattere "storico", come la festa di fine estate per il Patrono S.Secondo (con fuochi artificiali e corollario di manifestazioni) altre più recenti come l'Agosto Medievale nel corso del quale numerosi figuranti celebrano uno dei tanti aspetti dell'antica storia della città [grande sagra folkloristico-culturale che si esalta tramite parecchie altre manifestazioni sportive (corsa a staffette di squadre dei "sestieri" o contrade cittadine storiche per esempio ma ancor più con le sfide del bravissimi Balestrieri intemeli) ed in particolare con un Palio marinaro o competizione nautica di velocità tra "gozzi -tipiche imbarcazioni liguri a remi- con equipaggi dei sestieri "Burgu", "Campu", "Cuventu", "Ciassa", "Auriveu", "Marina"]. Di questo importante centro commerciale (cui non è però estranea una serie di iniziative culturali importanti: vedi la manifestazione Mediterraneo) è utile dar ora la rassegna di alcuni dati utili per una fruizione ottimale, di turisti e visitatori in particolare ma anche di residenti.
DATI STATISTICI GENERALI
-Superficie comunale: 53,92 Kmq.
-Abitanti: 25.978 u.c.
-codice di avviamento postale: 18039.
-prefisso telefonico: 0184,
La città è sita a circa 40 km. da Imperia (suo capoluogo di Provincia) ed è collegata a Savona ed alla Francia dall'Autostrada A 10 ("dei Fiori"), dalla Statale n.1 ("Aurelia") e dalla Statale n.20 per il Colle di Tenda.
INDIRIZZI DI VARIA UTILITA'
1-Pronto Soccorso: "Croce Rossa" (via Dante 12, tel.25.07.22), "Croce Verde" (Piazza XX settembre, tel.35.11.75).
2-Soccorso in mare: "Capitaneria di porto, tel.35.11.01.
3-Carabinieri: via Chiappori, tel.35.72.35.
4-Polizia stradale: Piazza della Libertà 1, tel. 34.902.
5-Polizia di Stato: Piazza della Libertà 1, tel. 34.75.75
6-Vigili del Fuoco: gruppo operativo di Ventimiglia, tel.115.
7-Vigili Urbani: via S.Secondo 9, tel. 35.25.25.
8-Comune-Municipio: Piazza della Libertà, centralino 2801.
9-Poste-Telecomunicazioni:Piazza Battisti (poste ferrovia) tel.33.809; "Centrale"-Corso Repubblica, tel. 35.13.12[Dettatura telegrammi: tel.35.11.23, Bancoposta: tel.35.51.90]; Ventimiglia Alta, tel. 351735; Succ. di Grimaldi, tel.38010; Succ. di Latte, tel.34.040.
10-Stazione ferroviaria: centralino tel.35.67.77.
11-Ospedale-Guardia Medica, via Basso, centralino 2751.
12-U.S.S.L. 1: corso Genova 88, tel.35.75.57.
13-Autostrada dei Fiori: Area del Roia, tel. 35.12.03.
14-Azienda di Promozione turistica:"IAT-Ufficio informazioni", via Cavour 61, tel.35.11.83; "Forte dell'Annunziata-Mostre/Convegni", via Verdi 15, tel.35.28.44.
15-Alliance Francaise della Riviera dei fiori: (scambi socio-culturali italo francesi) via Martiri Libertà 1, tel.35.25.68.
16-Agenzia Giornalistica Alpazur, via Asse 53, tel.239177.
17-Auto-pubbliche/Taxi: Piazza Stazione Ferroviaria, tel.35.11.25.
18-Autobus-servizi pubblici: "Riviera Trasporti", via Cavour 61-Biglietteria tel.351251.
19-Ambulatorio Veterinario U.S.S.L.1 via Peglia 231649 ("Consultorio familiare servizio veterinario" tel.2751-"Veterinario di confine", via S.Secondo, tel. 35.56.86).
20-Camera del Lavoro, via Roma 23, tel.239199.
21-Confederazione Nazionale Artigianato:Corso Genova 50, tel.34891
22-Confederazione nazionale dei coltivatori diretti: via Asse 3, tel.351627/ 351417.
23-Ufficio Provinciale del lavoro-Ufficio collocamento, via Lamboglia 14, tel.254822.
24-Distretto Scolastico n.1: via Martiri Libertà 2/a, tel.356355.
25-Civica Biblioteca Aprosiana: Ventimiglia alta-v.Garibaldi 19, 35.12.09
25-Museo Preistorico: Balzi Rossi, tel.38.113.
26-Museo Archeologico G.Rossi: Forte dell'Annunziata, via Verdi, tel.35.28.44.
27-Giardini Hanbury: "la Mortola", tel.39.852.
ITINERARI TURISTICO-CULTURALI DA VENTIMIGLIA
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1-Sito archeologico di Ventimiglia Romana a Nervia (Teatro, terme, mosaici, Insulae o case condominiali romano imperiali, villa signorile presso il magazzino ENEL: possibile escursione a Colla Sgarba ed all'oasi faunistica del Nervia).
2-Visita a Ventimiglia medievale: Chiesa Cattedrale - Battistero - Convento Canonichesse Lateranensi(edificio) - Porta Medievale della cinta muraria - case signorili del quartiere/sestiere "Piazza" - Biblioteca Aprosiana - chiesa romanica di S.Michele con cripta - Area del "Funtanin: possibile escursione a "Porta Canarda" simbolo con la torre e la porta doppia ad arco gotico delle difese di Ventimiglia verso ponente sulla "strada romana".
3-Visita alla città moderna : giardini pubblici, oasi faunistica del Roia e Convento di S.Agostino.
4-Escursioni verso la val Roia (Airole in particolare, con la diramazione per la val Bevera: siti interessanti per le supposte e leggendarie valenze "magiche") od il o ai ruderi di Castel d'Appio
5-Escursione: Ventimiglia - Latte - Giardini Hanbury - Balzi Rossi - Frontiera (Km.8,500).
6-Escursione: Ventimiglia - Porta Canarda - Calandre - S.Lorenzo - Castel d'Appio - Ventimiglia.
7-Escursione: Ventimiglia - Bevera - Torri - C. del Bricco - M.Grammondo (Km.8,500-ore di percorso standard 6).
8-Escursione: Ventimiglia - S.Michele - Olivetta - C. delle Rove - M.Grammondo (Km.18).
9-Escursione: Ventimiglia - Ciaixe - M.Abellio (Abeglio) - Gola di Gouta - Pigna - Ventimiglia (Km.71).
10-Escursione: Ventimiglia - Vallecrosia (da visitare il Tempio-Museo della Canzone Italiana realizzato da Erio Tripodi, ricchissimo di rari strumenti e testi riguardanti la cultura musicale italiana: è sede di convegni importanti e vi si premiano le migliori tesi di laurea, a livello internazionale, sulla canzone italiana) - Apricale (autentico gioiello architettonico di paese medievale di val Nervia)- Dolceacqua - Ventimiglia (Km.71).
11-Escursione: Ventimiglia - Pigna - C.Langan - Molini di Triora (assolutamente da visitare il museo etnografico dedicato alle streghe, in memoria del famoso processo di Triora di fine XVI sec.) - Arma di Taggia - Ventimiglia (Km.96,800).
ZARA, Franca, nata a Sanremo , residente in Ventimiglia, laureata in Lettere Moderne presso l’Università di Genova, ha svariati interessi sulla letteratura minore d’ordine esoterico ed astrologico donde deriva in particolare la sua collaborazione alla stesura del volume Figliastri di Dio edito per la CooperS ed. nel 1996. Già in precedenza, per iI numero miscellaneo dei Quaderni dell’Aprosiana, aveva redatto un ampio saggio dal titolo Credenze popolari nella Francia Nord-orientale di fine XV secolo nelle pagine di un manoscritto anonimo. Negli ultimi tempi si è specializzata, relativamente ad argomenti connessi allo studio della stregoneria e della cultura femminile popolare dell’età intermedia, nel tenere conferenze e lezioni sia per l’aggiornamento dei docenti delle scuole di ogni ordine e grado sia nel corso di Anni Accademici dell’UNITRE di Ventimiglia-Bordighera.
VALLECROSIA è SITA nella VALLE DEL CROSA, distinta nei 2 centri dei PIANI DI VALLECROSIA, spesso tormentati dalle piene alluvionali del Nervia e VALLECROSIA ALTA di cui è estremamente arduo ricostruire in maniera chiarissima l'ORIGINE ma di cui è estremamente importante analizzare l'evoluzione tra BORGO MEDIEVALE e PIANI o CITTADINA MODERNA DI COSTA tenendo in CONTO ASSOLUTO la vicenda antichissima ed estremamente importante di ARCAICI INSEDIAMENTI AI PIANI DI VALLECROSIA destinati però dalla II metà dell''800 ad unoSTRAORDINARIO SVILUPPO tanto che, con case, strutture industriali, aziende ed insediamenti vi fu realizzato anche un "PORTO". La valle del torrente CROSA [-crosia rispecchia il dialettale ligure krösu forse da un lat. corrosus> "valle angusta, stretta", ma il rio ebbe anche nome di Vervone/ Verbone], che conferisce il suo nome alla cittadina di VALLECROSIA, a est di quella del Nervia, ebbe antica tradizione di insediamenti che risalgono alla romanità, da cui forse deriva il nome Armantica, che dal medioevo si estendeva a oriente del rio Batallo, verso Vallebona e Borghetto S.Nicolò. I PIANI DI VALLECROSIA, area costiera della valle, son stati sede dei rinvenimenti più importanti in particolare presso la chiesa romanica di S.Vincenzo/S.Rocco [eretta, sui resti di qualche struttura o tempietto romano, in un'area ove persiste tuttora il nome di luogo LUCUS (= bosco sacro)e che ha fatto pensare ad una importanza religiosa del luogo anche per i pagani: un sito ove non a caso fu eretta una struttura cenobitica molto antica nella località VIGNASSE]: nel secolo scorso vi si rinvennero monete romane, in seguito vicino alla chiesetta, immersa nel verde di un uliveto oggi scomparso, gli archeologi individuarono sepolcri romani, ma anche di epoca posteriore, un' arula votiva romana al dio Apollo protettore dei viaggiatori (tuttora conservata nell'edificio religioso), grandi blocchi di pietra della Turbia ben sagomati.
Vennero pure scoperti muri romani, tombe, materiale da costruzione (tegoloni e laterizi in particolare) nelle località Valgioi e Bronzina e altri avanzi di costruzioni e sepolcri oltre a tre tombe tardo romane di cui una a "cappuccina", una seconda ricavata entro un'anfora ed una terza fatta con ciottoli di fiume ed in cui stavano i resti scomposti di uno scheletro (azienda "Tonet": sui resti di una struttura estrattiva argillosa romana).
Dopo la decadenza dellImpero di Roma e la distruzione della via Giulia Augusta la zona dei "Piani" venne abbandonata dalla popolazione per il timore di predazioni barbariche: solo nel 1800 tal zona dei AVREBBE RIPRESO VITA con l'edificazione della STRADA DELLA CORNICE (grossomodo la VIA AURELIA di oggi] ritornando ad essere un CENTRO POPOLOSO ED IMPORTANTE.
La popolazione dal VI secolo ca. prese quindi sempre più a ritirarsi nel sito interno e protetto di VALLECROSIA MEDIEVALE, borgo murato in un'ansa a levante del torrente Crosa (la popolazione poteva accedere sul percorso dell'attuale provinciale superando il torrente per mezzo di un guado a pedate.: un quadro della cittadina murata si trova tuttora nella parrocchiale del sito medievale: B. DURANTE - F. POGGI - E. TRIPODI, I graffiti della storia: Vallecrosia e il suo retroterra, Vallecrosia-Pinerolo, 1984, p.72.
Dopo la paura dei Saraceni e le guerre feudali, verso il XIII sec. l'area dei "Piani" cominciò a ripopolarsi. Dagli atti del notaio del duecento G. Di Amandolesio sappiamo che in effetti presso la chiesa di S.Vincenzo/S.Rocco non fu mai del tutto abbandonata. Il notaio ci informa che il sito era percorso dalla "STRATA", cioè dai resti dell'antica via romana che si congiungeva ad un ponte sul torrente Nervia, per immettere il traffico, davanti al castello di Portiloria, verso Ventimiglia e per la valle del Nervia.
Il notaio usò ancora il termine STRATA per indicare (atto del 7-XI-1259) i resti di altro frammento di percorso romano, nel luogo "alla bocca [foce] del Vervone", torrente il cui arido alveo la Giulia Augusta superava con un guado di cui si son conservate tracce fino ad una recente distruzione.
Procedendo verso occidente, a riguardo dello stesso percorso, il notaio ricorse al termine più modesto di via con cui si indicava un percorso tipicamente medievale: alla sponda sinistra del Nervia, i siti vallecrosini erano sempre più ricchi di occupazioni rurali che avevano comportato ripascimenti del terreno.
La "via", una mulattiera che correva a lato della chiesa di S.Vincenzo/ S.Rocco, nel XIII sec. era fiancheggiata da fondi privati soprattutto delle famiglie Giudice e Curlo oltre che da terreni di proprietà del Vescovado di Ventimiglia: tra questi vi era anche una "terra agricola" dell' Ospedale de Arena .
Vallecrosia alta o medievale si sviluppò come una delle otto "ville rurali" del territorio di Ventimiglia, sino a quando entrò a formare (1686) la "Magnifica Comunità degli Otto Luoghi". Il comune di Vallecrosia naturalmente conobbe anche la Rivoluzione francese e la dominazione napoleonica: il
Bonaparte, facendo realizzare una efficiente via costiera tra Italia e Francia (la "via della Cornice") permise il ripopolamento dei "Piani": che si intensificò ancor più con la realizzazione della strada ferrata.
Il caratteristico borgo murato medievale di Vallecrosia alta (ove è la grande e bella chiesa di S.Antonio Abate e dove predicarono prima S.Bernardo e molto dopo padre Segneri) prese a spopolarsi a vantaggio dell' insediamento ai Piani" ove, ai primi di questo secolo venne realizzato uno scalo marittimo per commercializzare il legname estratto dal monte Ceppo e qui trasportato attreverso una "ferrovia" costruita fra le montagne.
La crescita (anche per il rapido sviluppo della floricoltura che in tempi recenti finì per sostituire la tradizionale Coltura degli olivi) divenne così intensa che la piccola chiesa di S.Rocco non bastò più per la popolazione e dovette essere ampliata nel 1909: anche se intanto l'educazione spirituale e culturale dei vallecrosini venne garantita ai "Piani" dagli insediamenti di una casa salesiana di Don Bosco (1876) e da una di suore di Maria Ausiliatrice (18-XII-1887).
Col tempo, specie in questo secolo, sfruttando un certo facile destino naturale di stazione climatica e balneare, Vallecrosia è diventata una cittadina con molteplici attività e scuole di ogni grado, pubbliche o private. A livello culturale in Vallecrosia è specialmente da citare oggi il "Tempio Museo della Canzone Italiana" realizzato da Erio Tripodi vero luogo culto per la tutela della musica leggera tradizionale italiana: l'associazione culturale che gestisce il Museo, ricco di pezzi pregiati di ogni sorta per ricercatori nel campo della musicofilia, cura altresì un Premio internazionale, ormai di rinomanza mondiale, nel corso del quale si premiano le migliori dissertazioni di laurea aventi per tema ed argomento la Musica leggera italiana.
SASSO: la più piccola delle VILLE della "Comunita' degli Otto Luoghi" documentata da tempi remoti e di natura agricola è stata in seguito, con Borghetto S.Nicolò ascritta al Comune di Bordighera: il nome di luogo dipende da "sasso" come "roccia, luogo roccioso".
VALLEBONA: L'antichità di VALLEBONA, che tuttora è comune autonomo, risulta testimoniata dalla chiesa parrocchiale che nella parte inferiore conserva qualche resto di un edificio di culto molto antico: verso il 1174, in un documento, si riscontra il nome attuale Vallebona, per segnalare l'esistenza di un nucleo urbano, mentre già nel 1064 il toponimo ("valle buona") veniva attribuito al torrente (fosato quod dicitur de Vallebona) che in origine doveva nominare tutto il bacino vallivo. La bontà dell'ambiente (la "valle buona", cioè aperta in contrapposizione alla vicina e meno ricca valle crosa" = "valle stretta, incavata") induce a pensare che il territorio facesse parte dell' ARM'ANTICA (ARMANTICA/ ALMANTIQUA), l'area su cui nella romanità erano forse disseminate diverse proprietà fondiarie.
Per tutto il periodo medievale Vallebona (il cui territorio era delimitato da una grande Pineta citata nei documenti duecenteschi) costituì una delle ville agricole più importanti del contado intemelio: al pari di tutte le altre ville del contado orientale, seguì le sorti del capoluogo Ventimiglia, sia che fosse libero comune sia che, dopo la definitiva conquista genovese, venisse eretto in Capitanato.
A livello architettonico si presenta come un borgo forte dall'ACCESSO pressoché obbligato: al suo interno le viuzze (i ligustici "carruggi") si intersecano tra muraglie di case addossate fra loro.
Ben si capisce come i forti MILITI VILLANI che caratterizzavano questa VILLA potessero dar prova del loro valore in questi spazi chiusi, usando micidiali armi da taglio o da getto come dapprima balestre e quindi pistole e fucili: la tattica era sempre la solita, il nemico non poteva avanzare in forze per quelle vie strette e lo si aspettava per sorprenderlo, magari bloccandogli la via da un PORTALE A SESTO ACUTO o comparendogli quasi dal nulla al centro di una di quegli antichi PERCORSI interni al paese.
Per i rapporti non facili di tutte le ville col Parlamento intemelio che, controllato dalla nobiltà locale e cittadina, angariava con tasse varie contadini e marinai, si arrivò
alla separazione delle ville dalla città entro la "Magnifica Comunità degli Otto Luoghi" (1686) che sopravvisse sino alla Rivoluzione francese.
Dopo la conquista napoleonica e la
Restaurazione del 1815, con l'ascrizione della Liguria, al Regno di Sardegna prima ed a quello unito d'Italia dal 1860.
Pagina nota, per quanto concerne il rapporto delle ville intemelie coi turcheschi, è soprattutto quella di Vallebona quando a metà XVI sec.come detto, la flotta imperiale "turchesca" o "barbaresca", ritardata dall'accanita difesa che opponeva Nizza, per approvvigionarsi di vettovaglie inviava le sue galee a devastare la costa ligure, compreso il Capitanato di Ventimiglia e ville. Vallebona [assieme a Seborga (con cui però insorgeranno gravi liti confinarie) , la Colla, Bordighera, e Ospedaletti] fu
saccheggiata da marinai e miliziani "turcheschi" una prima volta il 5 settembre 1543.
Il borgo corse tuttavia il suo massimo pericolo quando, nel contesto di nuove guerre e razzie, l'ammiraglio turchesco Ulugh-Alì -un rinnegato calabrese meglio noto come Chialì od Occhialì - lo fece assalire,
con uno sbarco ai "Piani di Vallecrosia" di oltre mille soldati (provenienti da 7 "galeotte" ancoratesi sul braccio di mare antistante i luoghi circonvicini e che, nonstante le razzie perpetrate mel sito di Vallecrosia, avevano soprattutto come meta la fertile e popolosa terra di Vallebona.
Un servo del capitano Giulio Doria, ad Antibo, era però riuscito ad apprendere i piani di quell'operazione da uno schiavo turchesco originario di Dolceacqua, a servizio sull'ammiraglia di Ulugh-Alì.
Grazie a ciò i paesani di Vallebona, preavvertiti, mandarono le famiglie al sicuro nella più ritirata villa di Sasso ed un buon manipolo di capifamiglia, inquadrati come militi villani, attesero l'arrivo della colonna "turchesca" riparati all'INTERNO della CHIESA FORTIFICATA DI S.LORENZO.
Un fuoco serrato accolse in Vallebona gli invasori che si ritirarono verso mare limitandosi a saccheggiare sparsi casolari o gruppi non organizzati di villani: i predoni se ne tornarono alle
navi portando 19 prigionieri -tre originari di Vallebona e fra cui due soli uomini e 17 fra donne o bimbi destinati al "commercio degli schiavi".
Onde premunirsi da queste aggressioni la Repubblica di Genova provvide a far edificare, per tutto l'arco ligure, una rete di fortificazioni per difesa e combattimento contro assalti navali dal mare: un esempio imponente sulla costa di Vallecrosia fu il Torrione antiturchesco xhe, con altre simili strutture, operava come schermo difensivi provvisto di artiglieria con un vasto sistema di torri meno grandi e con funzioni diversificate, sparse per tutto il Ponente ligure.
SAN BIAGIO DELLA CIMA CON UN'IPOTESI SULLA TOPOGRAFIA DELLA SCOMPARSA NONA VILLA O VILLA COLLE DE COY
DEL CONTADO INTEMELIO
S. BIAGIO DELLA CIMA è un bel nucleo medievale della valle del Crosa dominato dal massiccio del Monte S. Croce o Cima della Crovairola (da cui il centro prese parte del suo toponimo e da un cui insediamento tardoromano od altomedievale non è escluso che si sia evoluto).
La volontà con cui gli abitanti difendono il toponimo romano di Villa Martis, citato da eruditi locali del XVII e XVIII secolo, induce a meditare e a rispettare le opinioni altrui specie se difese con ragionevolezza.
La moderna scienza storica tende a negare che in questa villa Martis di S. Biagio sia nato l'imperatore romano Publio Elvio Pertinace (1/I/193-28/III/193), le cui origini sono piuttosto attribuite ad Alba in Piemonte mentre le industrie di legname che lo resero ricco avevano il loro terminale negli importanti scali marittimi del territorio di Savona. La presenza, radicata, di questo toponimo o nome romano di luogo fa però ipotizzare che nella località (dove si è avuto il secolo scorso qualche ritrovamento di romanità) sia esistita qualche struttura romana: senza escludere la possibilità di un tempio o di un edificio pubblico, si è pensato che nel luogo sorgessero una o più ville pseudorbane.
Dagli atti del notaio genovese di Amandolesio abbiamo parecchi dati utili sullo sviluppo medievale di S.Biagio.
Vi si legge per es. che il 3-V-1259 tal Flandina Gapeana vendette a Giovanni Curto una "pezza di terra posta nel territorio di Ventimiglia dove si dice Sanctus Blasius, che superiormente confina con la terra della chiesa Sancti Blasii, di sotto col fossato e da un lato col vallone...in detta terra vi è pure un casale degli eredi di Rubaldo Cravauna".
Oberto e Marineto Giudice (ancora in un atto dello stesso notaio, del 1 settembre 1260), per una divisione di beni, fecero scrivere:"...terre che risultarono possedere presso Sanctus Blasius, stendentisi dal fossato del Vervone verso Ventimiglia, terre che attualmente occupano Guglielmo Rafa, Martino e Anfosso de Sancto Blasio..." e poi " ...terre che sono presso Sanctus Blasius oltre il fossato del Vervone verso Ventimiglia...".
Oggi come oggi sono questi i dati più antichi su S.Biagio dove non viene citata espressamente una "villa medievale" ma dove si menzionano diverse proprietà agricole e soprattutto la chiesa che ha dato nome alla località, chiesa intitolata a S.Biagio (morto nel 316) il vescovo di Sebaste in Armenia che è protettore dei malati di gola visto che la tradizione gli attribuisce il merito d'aver pensato a salvare, proprio mentre lo si conduceva al martirio, un ragazzo che stava per essere soffocato da una lisca di pesce.
La storia del borgo, è poi molto simile a quella delle vicine località di Vallecrosia e Soldano.
Come esse ha fatto parte della Contea di Ventimiglia e poi divenne "villa agricola" del Capitanato intemelio (ormai soggetto
a Genova) dovendo sopportare le pesanti tasse che il capoluogo imponeva ai suoi abitanti. Per questo il paese si ribellò a Ventimiglia, con le altre 7 ville, ottenendo da Genova di costituire la "Magnifica Comunità degli Otto Luoghi" entro cui prese a fiorire fino ai tempi della Rivoluzione francese e della conquista di Napoleone. Passato, dopo il congresso di Vienna del 1815, ai Savoia, S.Biagio della Cima ne seguì le sorti vittoriose
fino all'Unità italiana ed oltre.
Nel '900 continuò a mantenere la sua caratteristica di villa agricola (produttrice di un ottimo vin Rossese, sviluppatosi sulle "macerie" dei "vini antichi" e dei "vecchi vitigni" distrutti a metà '800 dalla fillossera e dalla peronospera e già produttori di un pregiatissimo muscatellinus già celebrato da Aprosio) anche se gli abitanti presero ad integrare la produzione agricola con la floricoltura, nell'ambito della quale si affermò sempre più la "FESTA DELLA ROSA" col nome preso dal prezioo fiore qui coltivato con successo e lusinghieri risultati Durante il ventennio fascista la località subì varie trasformazioni amministrative che la unirono in un "supercomune" con Vallecrosia e Soldano, per poi renderla nuovamente autonoma ed ancora riunirla al solo borgo di Soldano.
Finalmente, dopo il II conflitto mondiale, il paese riconquista la sua unicità e si afferma come una ridente località valliva (dalla buona gastronomia) la cui estate è sempre allietata da importanti manifestazioni folkloristiche ed artistiche tra cui la mostra-gara di pittura, il cui primo premio - una "Rosa d'oro" - che dà il titolo al prestigioso appuntamento culturale diventa di anno in anno sempre più ambito dai tanti artisti che vi concorrono. Tra le personalità artistico-letterarie del borgo di SAN BIAGIO DELLA CIMA si segnala come patria del poeta ed erudito settecentesco GIUSEPPE BIAMONTI [di cui pare opportuno qui riprodurre, da un'ANTOLOGIA DEL XVIII SECOLO un suo celebre quanto oggi trascurato CARME NEOCLASSICO che fu alla radice dell'ispirazione foscoliana del DEI SEPOLCRI] e del romanziere contemporaneo FRANCESCO BIAMONTI una delle voci narrative più autenticamente liriche dell'attuale letteratura italiana.
La CHIESA DELLA S.CROCE svolse per anni la funzione sacra di SANTUARIO molto venerato dalla popolazione di S.Biagio.
Dopo il suo abbandono a San Biagio della Cima crebbe la fede per il superstite settecentesco SANTUARIO DI NOSTRA SIGNORA ADDOLORATA (ad una sola navata) che ora si può ammirare su un poggio, tra le colture (rose, viti ed olivi per cui il paese è celebre) nella veste che ha assunto dopo i restauri del 1852.
BORGHETTO S. NICOLO': Il piccolo BORGO (ora frazione di Bordighera) già facente parte delle 8 ville rurali del contado intemelio è sito nella val di Vallebona alternativamente detta anche "valle del rio Batallo".
L'antichità di Borghetto (detto poi "S. Nicolò" dal Santo patrono) risulta testimoniata da diversi documenti e in antico, almeno fino al XVII secolo fu una villa rurale di una certa importanza: nel passato "Borghetto" fu anche confuso col borgo principale della valle, cioè Vallebona, da cui ebbe comunque in antico una sua autonomia: una certa confusione terminologica si deduce già da un censimento o "focatico" provenzale del 1340 secondo cui il piccolo nucleo abitato e rurale che, poco più a Sud, si era evoluto in una insenatura della valle fu nominato Vallebona inferiore mentre invece aveva da tempo un suo toponimo: infatti in un atto, steso "entro il Capitolo di Ventimiglia" il 3-XI-1257, dal notaio de Amandolesio, per volontà del giudice Bartholomeus Ferrarius, i pubblici estimatori valutarono una proprietà di
una certa Verdaina, vedova di Ugonis Vitalis, che erano situate quasi tutte nell'area di Vallebona vera e propria, mentre tuttavia una "pezza di terra" risultava sita super Burgetum appunto Borghetto (S.Nicolò). Il toponimo della valle (almeno la forma vallebona) [di cui Borghetto costituisce ancora oggi il primo significativo nucleo abitato risalendo dal mare (il cui LITORALE nell'ottocento, come anche risulta da una fotografia di C.H.Brown era abbastanza spopolato) e sfruttando la STRADA VALLIVA ottocentesca parimenti riprodotta dal medesimo fotografo] indubbiamente allude alla bontà dell'ambiente (la "valle buona", cioè "la valle aperta" in contrapposizione alla vicina e meno ricca valle crosa" = "valle stretta, incavata"): ciò induce a pensare che il territorio possa aver goduto di un'antica visitazione umana (specie ai tempi della lunga civiltà romana visto che agrimensori, architetti e ingegneri di Roma istituzionalmente per insediamenti ed aziende privilegiavano sempre i luoghi più agevolmente raggiungibili, aperti e solatii, ben forniti di risorse naturali) facesse parte dell'ARM'ANTICA, l'area su cui nella romanità erano forse disseminate diverse proprietà fondiarie romane soprattutto di epoca imperiale.
Per tutto il periodo medievale Borghetto costituì una delle ville agricole più importanti del contado intemelio Al pari di tutte le altre ville del contado orientale e seguì le sorti del capoluogo Ventimiglia, sia che fosse libero comune sia che, dopo la definitiva conquista genovese, venisse eretto in Capitanato. SOLDANO: Un prezioso DOCUMENTO del notaio de Amandolesio del 1257 (in Arch.Stato di
Genova, cartulare 56, cc.13-14) ci informa che SOLDANO esisteva
già nel 1257 ma che non si trattava di una villa di agricoltori come
molti pensano ma di un castrum cioè di un centro fortificato cinto
da mura (si è anche pensato che lo stesso nome di luogo sia dipeso dall'
esservi stati in un primo tempo rinchiusi Saraceni od "uomini del Sultano"
-allora meglio detto "Soldano"- resi prigionieri dai Cristiani dopo i fatti
d'arme di Almeria (1147) e Tortosa (1148). Dallo stesso atto si apprende che
l'attività primaria del borgo di Soldano era legata, nel XIII secolo, alla coltura di fichi e viti.
Tra XIII e XVI secolo si nota la diffusione di queste colture in diversi siti, il cui toponimo dava spesso il nome al vino che se produceva, la costa, fola vini, pastamola, lo pian, la cima de la lovaira e lo bao de li monegi.
Spesso le due colture nei documenti notarili sono associate a quella di altre piante non specificatamente citate vitibus, ficubus et alij arboribus aggregate: tra questi alijs arboribus si trovano spesso citati alberi da frutta di vario tipo ma in particolare avellanarum rotundarum e avellanarum longarum (cioè nocciole e mandorle) [in un caso, seppur nel contesto di una terra ortile cioè ad uso famigliare, è menzionata la coltura dei limoni (Archivio di Stato di Genova, Notai Ignoti, nn. 357, notaio Giovanni Gibelli, atto del 6-XII-1537: fassiam una terre ortive cum uno fassione cum uno arbore citronorum).
Non si hanno molti dati per il periodo dal XIII al XV sec., un'epoca
caratterizzata dagli scontri fra le fazioni e le grandi famiglie del
genovesato come gli Adorno, i Fregoso, i Grimaldi di Monaco, i Doria
di Dolceacqua.
Comunque ancora nel 1486 Soldano era classificato quale
luogo fortificato (A.S.G., Not.Ignoti, Bernardo Aprosio, a.1487, c.84).
Da un altro documento di quest'anno (17 aprile) compare intanto la
menzione di S.Giovanni qual patrono del paese.
Forse esisteva già
la chiesa vecchia dedicata a questo Santo, oggi trasformata in abitazione e
di cui si vede il campanile e poche tracce della facciata. Finalmente dal 1499 la denominazione di villa sostituisce per sempre, per Soldano,
quella di castrum.
Ciò attesta uno sviluppo del paese con l'espansione
delle case oltre la linea muraria difensiva e l'occupazione di terreni
agricoli da mettere a coltura.
Da questo stesso anno si ricava che a Soldano,
come in tutta la vallata fiorisce la pastorizia e che nel borgo si trova anche
un macello (A.S.G., Notai Ignoti, Bernardo Aprosio).
Inoltre da un
altro documento del 3 gennaio 1528 (A.S.G., Not. Ignoti, Stefano
Berruto) scopriamo che nel paese aveva finalmente preso a funzionare un
frantoio per l'olio: lo sviluppo dell' olivicoltura prese comunque a crescere solo dalla seconda metà del '500 [nel 1541 sono registrate coltivazioni di olivi in località San Martino (Archivio di Stato di Genova, Notai Ignoti, nn.357-358, notaio Giovanni Gibelli, anni 1537-1541) e nel 1560 se ne trovano pure in località la gomba, luorascha, li rossi e lo balso (Archivio di Stato di Genova, Notai Ignoti, nn.360, notai Stefano e Gio.Batta Berruti)].
Per tutto il XVI sec. il paese risente di un certo progresso demografico
ed economico. Nel 1500 compaiono le prime indicazioni sull'onomastica della popolazione di Soldano nella Valle del Crosa (che comunque ha enormi riscontri con l'onomastica di tutto il ponente) e buona parte di questa ricerca è da attribuire a F. Amalberti, Popolazione e territorio di Soldano nel XVI secolo: i cognomi più frequenti sono, in ordine decrescente per valenza numerica, Amalberti, Soldano, Conte, Anfosso, Anselmi, Araigo, Barone, Biamonti, Casanova, Cassini, Durante, Gallo, Guercio, Maccario, Molinari, Muratore, Raimondo.
Nel '600 si assiste ad un repentino degrado viste le
tante guerre e le pestilenze. La decadenza, di questa come delle altre
ville del contado, è anche dovuta alle forti gabelle imposte dal
capoluogo di Ventimiglia. Finalmente dopo le rivendicazioni avanzate da
Camporosso nel 1673, si arriva alla separazione dei centri rurali da
Ventimiglia nel 1686 e all'istituzione della "Magnifica Comunità degli Otto
Luoghi" nel 1686, che permette a Soldano una graduale rinascita economica.
Le cose non cambiano fino al 1797 con la costituzione della rivoluzionaria
Repubblica Ligure del 1797 e poi (1805) con l'unione della regione tutta
all'Impero di Napoleone.
A ciò poi segue la Restaurazione di Vienna del
1815 e l'acrizione della regione ai possessi del Regno di Sardegna.
La popolazione del paese subisce un graduale incremento passando dai
432 abitanti del 1848 ai 561 del 1901: non vi mancano però le calamità. Il paese non spicca per l'architettura pubblica comunque, come scrisse Teofilo Ossian de Negri merita di essere segnalato il complesso religioso che fa perno sulla scenografica piazza in capo al borgo.
"La CHIESA BAROCCA [di S. Giovanni Battista] con alta facciata a paraste e, sopra la cornice, una moderata cimasa a timpano e spioventi si inserisce entro una grande costruzione frontale porticata; l'oratorio sincrono con prospetto liscio e cieco, salvo il bel portale in pietra e la lunetta centrale, e la graziosa cimasa con campana che ripete in miniatura quella della parrocchia, conchiude lo spazio della piazza, che è una soluzione urbanistica interessante, dominata dalla chiesa che la natura del pendio costringe su un piano più elevato: vi si accede per una bella scala poligonale".
Fra le due guerre mondiali (6-XII-1923) il comune di Soldano, assieme a quello di San Biagio della Cima, viene soppresso:
i loro territori sono quindi assegnati a quello di Vallecrosia.
Il 7
agosto 1925 viene poi ricostituito il comune autonomo di Soldano ed in
seguito risulta ancora unito con quello di S.Biagio.
Tale situazione
permane sino al 22-XI-1946 allorché il borgo ritorna singola
circoscrizione comunale, come oggi è.
Il paese non ha risentito di particolare sviluppo turistico ed insediativo
conservando gli antichi connotati agricoli.
In questo secolo (particolarmente
dopo il II conflitto mondiale) si è assistito ad una graduale riduzione delle
colture tradizionale dei fichi, della vite e dell' olivo per conferire sempre
maggior spazio alla floricoltura che oggi rappresenta l'attività primaria.
Una visita turistica e spirituale importante è quella al SANTUARIO DI N.S.DEL CARMINE eretto nel 1855 per volere degli abitanti di Soldano come ex-voto per averli liberati da una malattia che colpiva la pianta cui era legata tutta la loro economia, cioè l'olivo.
L'edificio di piccole dimensioni si trova sulla provinciale per Perinaldo un poco dopo il borgo di Soldano: la devozione è grande e nel 1985 la popolazione ha potuto festeggiare l'incoronazione dell'immagine custodita nel Santuario.
APRICALE In questo borgo [il TOPONIMO presenta più difficoltà di interpretazione di quanto si creda] i Doria avevano assimilato beni che erano alla CHIESA DI S.PIETRO ma su cui sussistevano controversie per stabilirne gli autentici diritti. I Signori nel 1523 possedevano in Apricale una "terra aggregata" in località "gunter", parte di un campo "in luogo li Rossi", una terra aggregata nella "fascia la grassa", una pezza di terra aggregata a la canavayra "(il cui toponimo rimanda ad una coltura di canapa), due gerbidi a "la croixe" ed uno in zona "lantigho".
I Doria avevano poi terreni coltivati in luogo "lo bral", due castagneti nelle località "lo sangue" e a "le conzynaire", quattro altri campi, uno a "lo campeto", due a "fori".
Altri beni immobili eran costituiti da 4 castagneti (località "S.Giovanni, Ortomoro, faxia de carletto sive giraudo, faxia curla").
Oltre ad un campo nel luogo la grassa e terreni presso S.Pietro, il Signore esercitava diritti sul contratto per cui Dioniso Fiore era conduttore della terra de lo chioto de portaver.
Gli spettavano altresì, in Apricale, una stalla o casa , già concessa alla locale Confraternita per ricompensa di alcuni danni materiali subiti.
La Signoria deteneva poi tre frantoi di cui uno detto "l'edificio soprano che ha la sua ruota, latrina e mola con tre botti, una tina con un solo cerchio, due grandi tini per l' olio, uno più piccolo per trasportare l' olio" (il secondo era detto edificio mezzano, l' ultimo edificio nuovo). Dai "Diritti dei Doria" del 1523 si ricavano, in latino qui tradotto, le seguenti rubriche:
"...APRICALE e ISOLABONA
30- La Comunità di Apricale ed Isolabona deve (quanto segue) al Reverendissimo Signore Agostino de Grimaldi Vescovo di Grasse, di Monaco, Dolceacqua e dei restanti luoghi:
31- Dapprima alla festa di S.Lucia deve versare a titolo di omaggio la somma di 45 lire di moneta corrente.
32- Alla Natività di Nostro Signore Gesù Cristo deve dare due montoni giovani.
33- In detta festa i consoli del posto devono donare un allevato di carne ovina.
34- Inoltre detti consoli sian tenuti a versare al reverendissimo Signore 150 uova a titolo di tassazione sugli introiti della loro carica in occasione della festa della Purificazione della Beata Maria, che vien celebrata al 2 od al 7 di Febbraio.
APRICALE e ISOLA
35- Alla Festa di Pasqua le suddette Comunità versino al nominato Signore due capretti.
36- I consoli in detta festività diano pure un allevato di capra.
37- Detti consoli sian tenuti a dare al Signore la quarta parte delle esazioni peuniarie di condanne, accuse e pene, su cui si estende la loro autorità, di cui il Signore potrà far remissione ai pentiti od a quanti avran saldata la multa secondo la discrezionalità di siffatti consoli sul doversi quietare, esigere, procedere stabilendosi che la quarta parte delle riscossioni coatte spetti al Signore e che gli venga assegnata per mezzo dei consoli a titolo del loro officio.
38- Il Signore avrà inoltre ogni autorità sulla giurisdizione criminale e penale, come si stabilirà con opportuni capitoli e convenzioni.
39- I consoli dei luoghi non possono nè debbono adunare il Parlamento se non per consenso del Signore o di chi per lui tiene il luogo se non fino alla quantità ed al numero del Consiglio di detto luogo sicché costituiscano il consiglio tanti uomini quanti sono i Consiglieri.
40- Altresì predetto Signore alla festa della Purificazione elegga nel luogo di Apricale quattro consoli che abitino colle famiglie nel sito di Apricale e due residenti nel luogo dell'Isola i quali debbano reggere il diritto in siffatti luoghi.
41- Il Reverendissimo Signore ha inoltre la giurisdizione dei mulini ad Apricale ed Isola alla sedicesima ( o sedicesima parte del macinato da pagarsi come decima): tiene in affitto questi mulini, per centocinquanta scudi all'anno, tal Giacomo Cane.
42- Il Signore possiede la Bandita detta Oltrenervia coll' erbatico (tassa da pagare per il pascolo) di buoi e capre, e precisamente dei buoi (pagando) dal numero di tre in su per la ragione di due soldi e mezzo per ogni bue e da due capre in su (pagando) per la ragione di sedici denari a capra a prescindendo dalle prime due. Da dieci capre in su si paghi per detta ragione senza l'esclusione di alcun animale. Non tenendosi bestie in estate poichè come dice la sentenza a riguardo delle bestie da pascolarvi da quindici giorni dopo la festa di S.Michele al I maggio e dal I maggio sin a quindici giorni dopo tal festa, detto erbatico e Bandita spettano alla Comunità come dispone l'atto scritto a sua mano da Luchino Capone, fedefaciente: questa bandita il Signore per quel tempo che è sua ha l'autorità di venderla ogni anno ed a chiunque intenda comprarla, al prezzo convenuto tra questo ed il Signore colle solite servitù. Quelle per cui i compratori sono tenuti a dare al Signore un montone alla festa della Natività e tre forme di formaggio grasso: il prezzo della Bandita vien pagato per metà al giorno del Natale e la restante somma alla fine del mese di aprile, la qual Bandita nell'anno in corso si vendette al prezzo di settantatrè fiorini con le servitù di cui si disse.
43- Il Signore ha inoltre la completa giurisdizione delle acque affinché nessuno edifichi o costruisca mulini o edifici o qualcun altro edificio ad acqua.
44- Il Signore percepisce la dodicesima parte delle olive colle sanse, riservati i diritti delle comunità.
45- Riceve inoltre la decima del vino: precisamente in Apricale un quartino di vino per 20 quartini ed oltre i venti non si paga altro, da dieci a diciannove quartini si paga per dieci, da dieci a cinque si paga per cinque e sotto i cinque sol a rata.
46- La Comunità di Apricale e Isola è tenuta a versare al Signore per le decime del Vescovo venticinque mine, sotto la forma dei due terzi di mistura e un terzo di frumento.
47- Inoltre i pastori di dette bandite di Apricale ed Isola ed i caprari di tali luoghi sian tenuti al pagamento delle decime. I pastori paghino sulla misura di 41 bestie passando verso valle, di cui il nominato Signore ha diritto ai due terzi ed il Rettore della Chiesa al restante, mentre i caprai di detti luoghi di Apricale ed Isola del numero di quaranta capre debbano pagare tre bestie per decime, di cui due al Signore ed una al Rettore per singola sorta (sciorta dial.=gregge), mentre da quaranta in su non debbono versare altro e se il gregge è da quaranta in giù son tenuti per singola sorta.
.................
55- Nessuna persona accetti lettere monitoriali se non su licenza del Signore o di chi per lui tiene il luogo.
56- Il Signore da chiunque sia riconosciuto spergiuro abbia a titolo di bannalità la somma di sessanta soldi.
57- Lo stesso Signore a riguardo delle bannalità che giungono alla somma di 5 lire abbia e debba avere quattro parti mentre i consoli ne ottengano la quinta parte.
59-Lo stesso reverendissimo Signore nel luogo di Isola annualmente riceva la decima del vino per il reverendissimo Vescovo intemelio, precisamente su dieci metrete ha diritto ad un quartino di vino o mezza metreta, oltre le dieci metrete nulla di più ha diritto di ottenere e nel caso di un quantitativo inferiore alle dieci metrete gli spetta solo un pagamento a rata da uno a dieci.
60- Inoltre il Signore deve al Vescovo suddetto una determinata somma annuale, di cui gli uomini debbono ignorare la consistenza.".
La PIAZZA MEDIEVALE è il coronamento di questo gioiello di conservazione architettonica.
Non ha invece più molto rilievo il CASTELLO DEI DORIA altamente modificato, arricchito da un giardino pensile, ed ormai trasformato in abitazione civile: il suo degrado fu determinato dall'impresa militare di Agostino Grimaldi che lo devastò nel corso della sua campagna militare contro la casata dei Doria, in particolare dopo che vi si rifugiò Bartolomeo Doria dopo aver assassinato Luciano Grimaldi, fratello proprio di Agostino.
La CHIESA DI S. PIETRO IN ENTO di APRICALE, di cui restano solo delle rovine, sorge in un pianoro, in situazione logistica buona e capace di sostenere un discreto insediamento rurale.
L'edificio, al pari della CHIESA DELL'ASSUNTA, vecchia parrocchiale di CASTELVITTORIO e di tante altre CHIESE DI VAL NERVIA, fu eretto in tempi remoti dai BENEDETTINI.
Resti di colonne protoromaniche suggeriscono l'idea che il complesso religioso abbia subito degli ampliamenti se non una cera e propria riedificazione verso l'XI-XII sec. nel grande programma di recupero ambientale dopo le devastazioni causate dai SARACENI.
Non è ipotesi impossibile sostenere un ampliamento di un modesto, primitivo edificio: un insediamento monastico alquanto antico in questa zona è peraltro suggerito, oltre che dalle ragioni prima esposte, dal fatto che l'organismo religioso si trovava in una zona importante sotto il profilo degli scambi viari: per questa contrada un percorso medievale, tra l'altro, collegava APRICALE con ISOLABONA e quindi con PIGNA, seguendo la linea viaria della riva sinistra del torrente Nervia.
Sull'ipotesi di un insediamento monastico concorre peraltro la sopravvivenza per l'area di un toponimo emblematico quello di u Cunventu grossomodo alla stessa stregua di quanto l'etimologia popolare fece in merito alla chiesa abbaziale di Dolceacqua quella benedettina novaliciense di NOSTRA SIGNORA DELLA MOTA.
Esistono tuttavia alcuni dati sull'edificio e si ricavano dai repertori degli antichi STATUTI DI APRICALE.
L'edificio religioso risulta citato nel 1276 nella rubrica De eundo cum mortuis ad ecclesiam Sancti Petro de Ento (l'obbligo di portarvi i defunti per le esequie è attestato di una persistente importanza religiosa ma anche socio-economica della struttura, cosa che spesso si riscontra in Italia centro settentrionale in rapporto a strutture abbaziali che innervano da tempo antico una contrada).
Sempre in data 1276 un'altra rubrica degli STATUTI, dettante "De ire ad ecclesiam Sancti Petri in suo festo, fa intravedere un'altra sorta di obbligo contratto da una comunità agreste con una comunità di tipo religioso collettivo e preferibilmente monastico.
Le citazioni della chiesa cessano invece completamente dal XIV secolo età in cui mediamenyte il fenomeno del MONACHESIMO ANTICO comincia a risentire di una certa crisi in rapporto allo sviluppo degli Ordini canonicali e dei NUOVI ORDINI REGOLARI: la zona dal pieno '300 viene molto più semplicisticamente citata come CAMPUM senza la specificazione de Empto o de Ento precedentemente usata.
BREGLIO (OGGI BREIL): nell' antichità l'AREA DI BREGLIO costituiva
un punto d'incontro fra la civiltà dei liguri costieri e le popolazioni dell'interno, di tradizioni montanare
e nominate genericamente dai romani come Genti Alpine.
Dopo la conquista romana del I sec. a. C., questa località fu inserita nel
municipio di Albintimilium e godette di un periodo di prosperità in cui la
civiltà rurale si sviluppò in vere aziende agricole e zootecniche da cui, come ancora
nel medioevo secondo atti notarili del XIII sec., i pastori portavano le loro mandrie sulla costa, per
mercanteggiare nelle città.
Caduta Roma e passati i barbarisi venne affermando in queste terre il potere
dei Franchi che, sotto Carlo Magno, costituirono il Sacro Romano Impero (IX secolo). Dopo la decadenza della dinastia carolingia e le invasioni saracene del X sec,, si affermò in valle Roia la dinastia dei conti di Ventimiglia, vassalli della
marca Arduinica.
Dal loro castello di Ventimiglia i conti crearono un vero stato in queste contrade e Breglio
divenne un loro feudo.
Trastormazioni si ebbero nel XIII sec. quando la
Repubblica di Genova conquistò il libero comune di
Ventimiglia che, intanto. si era liberato dei conti il cui potere
feudale si era esteso. grossomodo, su un'area non dissimile da quella di Albintimilium. Mentre Ventimiglia cadeva sotto Genova, i discendenti dei conti
si rifugiarono nell'alta val Roia, ricostruendovi parte
del loro feudo come conti di Tenda.
La media valle con Breglio e Saorgio (oltre a Pigna in val Nervia), il capoluogo Sospello
sulla Bevera e tutta l' alta valle del Varo, sotto il titolo di "Bailaggio della Contea di Ventimiglia e Val Lantosca", pervennero
poi ( 1257) a Carlo d'Angio che aveva occupato il Nizzardo da
dov'era entrato in Piemonte occupando Cuneo.
Nel 1355 Ventimiglia divenne capoluogo di una
Vicaria provenzale comprendente anche Breglio: nel 1388 Breglio, con Nizza, si diede al
conte di Savoia, principe francese di Chambery.
La Repubblica di Genova creò allora due postazioni fortiticate (Piena e Libri)
ai confini colla contea sabauda.
L'alta e media val Roia, Tenda, Briga, Saorgio, Breglio continuarono a costituire
un complesso unitario che "sboccava" in Ventimiglia seguendo il flusso delle acque (in particolare dalla conca di Breglio la via del Roia
per Ventimiglia risale la
dorsale su cui stanno Penna e Olivetta per scendere alla confluenza del torrente Bevera).
La storia procedette nelle sue alterne vicende: quando per es.
Luigi XIV di Francia entrò in guerra col duca di Savoia,
annettendo Nizza e Breglio al suo regno sotto il
titolo di Contea di Nizza.
Poi, attraverso la guerra di successione al trono d'Austria, il nizzardo tornò ai Savoia: poi nel 1792 le truppe della
Rivoluzione Francese, in guerra col re di Sardegna (nuova tito-
latura della dinastia piemontese) conquistarono Nizza mentre la guarnigione reale sabauda si
ritirò a Saorgio.
Occorse oltre un anno prima che i francesi occupassero Saorgio che
sbarrava lor la via per Torino. In tale circostanza
(26-IV-1794) Napoleone, aiutante di campo del generale Massena si recò a Breglio per valutare la situazione: anche grazie al suo senso strategico,
dopo poco, i francesi presero la piazzaforte di Saorgio.
L'area del Roia entrò a far parte della Repubblica Francese e successivamente dell'impero napoleonico, ma,
dopo la caduta di Napoleone e la Restaurazione del Congresso
di Vienna (1815), Nizza e la Savoia vennero restituite al casato
di Savoia.
Poi, data l'insistenza dei suoi abitanti, Breglio seguì le sorti di Nizza, assegnata alla Francia cogli accordi di Plombiers a compensazione dell'intervento armato di Napoleone III a fianco di Vittorio Emanuele III nel corso della II Guerra d'lndipendenza italiana contro l'Impero di Francesco Giuseppe d'Austria, quando il regno di Sardegna conquistò
tutta la Lombardia. Al contrario Tenda, Briga e Ventimiglia rimasero a far parte del nuovo regno d'Italia.
Le cose non mutarono fino al 10-VI-1940, quando il regime fascista italiano di Mussolini, entrato in guerra a fianco della Germania nazista, riprese queste contrade.
Dopo la sconfitta nazi-fascista e la ratificazione della
pace, Tenda (Tende), Briga(La Brigue), Piena (Piene) e Libri
(Libre) vennero unite alla Francia.
A livello architettonico il paese non manca d'interesse:
nella chiesa di SANTA MARIA IN ALBIS (barocca, ma con architettura
a croce greca) si conserva un antico organo da poco restaurato. La Cruella è un'antica torre d'avvistamento
genovese e Les Crottes sono edifici per far seccare i fichi.
E' da visitare la cappella di Santa Caterina, sede storica dei Penitenti
Bianchi da mettere a contronto con la cappella della Misericordia della Confraternita
dei Penitenti Neri (XVII sec.): sono meritevoli però di una visita anche
altre chiese e cappelle private.
Sul territorio sono fattibili escursioni varie (un centinaio circa). Sul lago-bacino idrico del luogo si svolgono attività acquatiche (kayak. mini-raft, tubing. hot dog o canoa a due posti), mentre molto
praticato è il canyoning dalle sorgenti alla foce degli affluenti
del Roia.
Gite a cavallo vengono offerte nella zona del Mercantour con guide. Con altre si
raggiungere a piedi la valle delle Meraviglie e contemplarne le incisioni rupestri preistoriche.
Si tratta dell'ultimo nome (del 1862 in onore di Vittorio Emanuele II di Savoia) del borgo murato di "Castel Dho" o "Doy" detto nel XIII sec. Castrum Dodi dal personale Dodo, di origine germanica, riferito al fondatore od al capo dell'originario presidio militare.
Già castello dei conti intemeli nel 1261 passò sotto Genova e quindi sotto la Podesteria di Triora: la popolazione, fida a Genova, fu esentata da alcuni obblighi fiscali ed il paese prese nome di "Castelfranco" da "franco" cioè "libero" da doveri fiscali. Era difeso da un castello centrale e da mura con 4 torri: fu Sentinella di Genova contro Pigna dopo che questa passò sotto gli Angioini e quindi i Savoia (VIV sec.).
Al pari di Triora il borgo dava degli ottimi combattenti, irregimentati nella condizione di militi villani, saldi combattenti sui cui a lungo la Repubblica fece conto per salvaguardare i suoi confini, come si ricava da relazioni periodiche di magistrati delegati ad ispezionare questo (ed altri) quartieri di disciplinate milizie popolari.
Osservato dalla "Colla" di Pigna ha aspetto di borgo imprendibile sito su uno sperone di calcare marnoso a 420 m. di altezza. Visto da Sud il paese denota la sua conformazione a cuneo, completata da un'asse che risale il colle sino alla diruta chiesetta di S.Lucia. Nel borgo si riconoscono tracce d'architettura difensivo-militare medievale (specie in via Roma, vicolo che collega la zona alta dell'insediamento con piazza XXSettembre (l'antica "piazza pubblica fuori mura") dove si scoprono diversi portali d'ardesia. Qui in antico esisteva una via ad anello su cui si son poi edificate le costruzioni della parte più recente dell'abitato: le case che son state erette in questa area sorgono sui resti di una seconda cinta di mura poi abbattuta per l'ingrandimento della località.
Per individuare il nucleo del borgo originario, di case di pietra senza intonaco e fra loro addossate, è necessario risalire ad un piccolo centro murato poi fasciato da mura seicentesche: è il paraixu, detto in luogo l'astregu derivato forse dal latino astricum, che comprende la piazzetta ai cui margini stavano la casa comunale, la chiesa e le residenze più antiche che son collegate con la piazza tramite vicoli spesso coperti ad arco, in pendenza o fatti di scalinate (nel XVII sec. si entrava nel paese da 4 porte tuttora esistenti nella cinta muraria: bella è quella sita presso la chiesa di S.Caterina che guarda verso Pigna).
Alludendo alla lunga e complessa vicenda delle PARROCCHIALI DI CASTELVITTORIO scrive N.Allaria Olivieri (Castel Vittorio, notizie storiche-religiose-politiche dal 991 al 750, Chieri [s.d.], p.9) "La vecchia chiesa di N. S. DEL NOGARETO MARIA ASSUNTA che dal 955 era stata la PARROCCHIALE di CASTEL DI DHO, non era in posizione logistica di ottimalità; abbandonata e diruta per azioni vandaliche, aveva cessato di funzionare; ritirati nella cerchia di mura fortificate il nucleo castellese allora potè usufruire della piccola chiesetta costruita nel 1330 alla sommità dell'agglomerato sull'area del giardinetto di casa Rebaudi. La chiesa sorse sulle rovine di un oratorio gentilizio della stessa famiglia e venne dedicata a S. STEFANO PROTOMARTIRE. Nel 1650 si rovinò e sulle sue fondamenta nel 1749 fu costruita la NUOVA CHIESA per opera di Don Giuseppe Rebaudi"
Alle pp.8-18 del citato suo lavoro N. Allaria Olivieri riporta dati e documenti essenziali per intendere i rapporti della popolazione sia con lo Stato genovese che con la Chiesa ligure, stretta collaboratrice dello Stato; lo zelo e la precisione dell'autore fanno pensare che possa esser cosa giusta, onde rendergli merito, piuttosto che far uno scialbo riassunto delle sue ricerche, registrare compiutamente (anche con rispetto delle scelte grafiche) quanto da lui scritto:
" [dall'inoltrato XIV sec.] Le decime e gli emolumenti, una volta dovuti ai capitani e a chi faceva giustizia, restano nella comunità; vengono versati per determinati servigi; una parte di essi vanno al rettore spirituale, il quale vive già in mezzo alla comunità di CastelFranco.
Sono gli stessi consoli a redigerne il minuzioso elenco e, in nome dell'autorità che viene loro dalla "munifica [ma forse è da intendere secondo l'uso "magnifica"] comunità" , a tutelarne l'osservanza scrupolosa.
La considerazione dei "focolari" [nuclei di famiglia], in quel primo tempo, non era certo numerosa; si pensi che quattrocento anni più tardi, per l'esattezza il 30 aprile 1631, Gian Vincenzo Imperiale, commissario delle Armi di Genova, in visita all'avamposto genovese aveva a scrivere: "mi fermai in Castel Franco opposto a Pigna, a frontiera al nostro stato, loco da 200 uomini da combattere... ed io stimo il mantenerlo in questa forma presidiato, custodito da guardie di paesani giacché in questo modo essi conservano la disciplina".
Sebbene ristretti nelle cerchia delle vecchie mura, il tenore dei decreti accennati lasciano credere, che già allora, una parte della comunità, comprendeva uomini sparsi nelle campagne circostanti, rese libere dall'ingerenza di Triora.
A questo popolo di contadini e di militari era imposto più che dall'autorità religiosa, dall'autorità della Repubblica un rettore, sacerdote o frate. Da qui l'imposizione da parte dei consoli di una parte delle decime dovute e dei censi.
Le notizie riportate e la costruzione della nuova chiesa per la comunità di CastelFranco chiudono un periodo di circa trecento anni. Non è affatto errato pensare che in detto lasso di tempo in CastelFranco, di volta in volta, si siano avvicendati sacerdoti o frati alla direzione spirituale del popolo.
Erano i tempi di rigurgito religioso; ordini religiosi di stretta osservanza, frati o laici passavano di contrada in contrada e non pochi uomini del luogo preferivano il sacerdozio alle armi...
Lo storiografo di Triora, P. Francesco Ferraironi a suo dire, riconosce come obbligo di detta comunità l'inviare in CastelFranco uno dei qualsiasi frati dai locali conventi. E' dunque certo che dal 1280 in poi vi fu una certa continuità di assistenza religiosa e per conseguenza mai furono tolte le decime a cui la comunità di CastelFranco si era sottoposta.
Allora le decime prendevano svariati nomi: la prediale o del grano, dei capretti, del companatico, di Langano, ecc...
Dal documento:
" Cominciamo l'emolumenti dovuti al rettore protempore dal popolo di CastelFranco abimemoraibile consuetudine e si pratica continuamente come si descrive appresso.
Decima Prediale
Chi semina o fa seminare con bovi sui o partecipi di essi, tanto quelli del luogo di CastelFranco, come forestieri nel territorio di detto luogo tanto in
terre proprie, quanto in terre comuni sian tenuti, obbligati, costretti pagare il giorno di San Rocco ogni
anno al rettore pro tempore moturali tre di fromento alla misura del moturale che tiene il rettore appresso di sé sigillato col sigillo comune.
Ma quelli che seminano o fanno seminare senza bovi siano tenuti a pagare in detto giorno un moturale e mezzo fromento ad esclusione però della canepa et hortaglie; e chi niente semina, niente paga: chi semina e fa seminare fascicoli è tenuto a pagare la decima di fromento; così è stabilito ogni capo di casa.
Decima dei Capretti
Li signori sindaci pro tempore della presente comunità di CastelFranco sono tenuti ogni anno al tempo di detta decima a consegnare al rettore la 4.a parte delli capretti e agnelli che vi esigono da quelli che sogliono pascere bestiame minuto e da norigo sopra il territorio di CastellFranco; è questo sempre praticato senza contradizione alcuna.
Decima del Companatico
Sono tenuti li signori sindaci pro tempore consegnare al rettore etian pro tempore libre due companatico fresco in tutti li giorni festivi, che saranno nel mese di maggio, senza contradizione alcuna.
Decima di Langano
Ogni anno il giorno di S. Gio Batta a di 24 giugno li signori sindaci della comunità di CastelFranco vendano in pupplica collega la decima di Langano, dove seminano o fanno seminare homini di Triora, con obbligazione che il collettore di detta decima sia
tenuto consegnare al rettore la quarta parte di quelle vettovaglie che sogliono esigersi dai debitori di detta decima".
Chi ben osserva, si accorgerà come fossero quantomai onerose dette decime per il popolo non sempre proprietario di terreni e costretto a vivere col solo provento delle terre. Ben presto sorsero contrasti; gli stessi sindaci rifiutarono i loro servizi e la consegna delle decime.
Sorge una vertenza: da un lato il rettore e per lui il senato di Triora, dall'altro i sindaci della comunità a nome del popolo.
Ne è animatore Don Giustino de Beghini, preposito protempore; è un uomo di elevatura intellettuale.
Con lunghissima petizione rivolta ai consoli della comunità in data 1720, a di 30 marzo, il De Beghini rivendica i diritti, immemorabili, del rettore; traccia la storia e ne richiama la ragione.
I consoli a di 30 del mese di aprile, alla ora del mezzogiorno, dalla sede di riunione, rispondono riconoscendo leggi e diritti del Rettore.
Sarà per breve. Lo stesso petizionario dovrà spuntare altre armi in avvenire.
Trent'anni dopo, un certo prete, Nicolò Luppi, annotterà in calce alla risposta dei consoli: "Siamo giunti a tempi, nei quali non solo negano di pagare la decima i contenuti nella controscritta supplica, ma saltano anche la medesima decima la maggior parte, che realmente partecipano ne boi, con dire, in tempo delle raccolte, che non partecipano, conforme è seguito a me in un anno e pochi mesi che mi sono qui trattenuto per non essere a cognizione delle casate del Paese, che però procurino i parroci di star occulti, perchè siamo in tempi di Caino, e sua discendenza".
Particolare menzione richiede per la sua natura
e per la sua origine la decima detta della "Casa".
Col passaggio della Valle ai Doria, nel periodo di lotte di parentela, s'era organizzata una specie di associazione di mutualità detta "Confraternita dello Spirito Santo".
Anche CastelFranco ebbe la sua "Casa". Sono incerte le origini. Il Rossi in "Storia del Marchesato", per sommi capi ne riferisce le formalità; vi dovevano figurare i notabili del luogo e gli uomini del borgo, a cui era fatto obbligo versare contributi sociali in cereali, grano, avena e una certa quantità di vino e castagne in ottobre. La presiedevano i priori e i massari per la custodia del denaro e i magazzinieri per la conservazione dei prodotti. Col denaro si faceva elemosina ai poveri a domicilio; con i prodotti si allestivano banchetti detti "Fraternità".
Documenti da noi ritrovati dimostrano quanto mai incerta fosse la giustizia nella distribuzione dei beni e quali sottrazioni avvenissero in nome di chi fosse più in alto nel borgo di CastelFranco.
Al Rettore si passava annualmente un emolumento quasi a volerlo tacitare e gli si imponevano obblighi d'ufficio, sia di capella che di ministero.
Si legge nel manoscritto: "Ab immemorabili li priori della Casa di Santo Spirito, ogni anno cominciando la vigilia della Pentecoste sono obbligati portare sopra le cancella pani cinque di fromento e una pinta, o sia boccale di vino ad uso del rettore del
presente luogo di CastelFranco parimente sono
obbligati portare detti pani cinque con boccale di
vino sulle cancella della chiesa la prima, seconda e
tertia festa di detta solennità et ancora il primo giorno feriale, si che sono in tutto venticinque pani di
fromento e cinque di vino.... il rettore in detti tre
giorni delle solennità sarà obbligato andare nella
casa di S. Spirito a benedire castagne e pane da
distribuirsi al popolo terminata la messa grande".
E' indiscusso che questo dare e ricevere trova ostacoli; da parte dei priori si venne meno ai patti del capitolo 5.
L'anno 1650 interviene d'ordine l'autorità pretoria, in favore del rettore di CastelFranco.
Si è di martedì, a di 25 del mese di ottobre; alla presenza del Magnifico Signore "Sanignonus Pretor" "Triore Iudex" di Don Francesco Maria Bodino, rettore, di Giacomo Rebaudi e di Francesco Mauro, sindaci del luogo, stanti e udite le parti contendenti "sub crotis platee colle dicti loci et consules dicere, opponere, et contradicere noluerunt" il pretore conferma "consignari debere annualiter quo descriptum capitolo 5".
I contendenti si placano. Resta loro due mesi prima di adempiere gli obblighi "nisi intra duos menses venturos aliquid in contrarium deluxerint dicti D.D. Sindaci et ni aderit ordo in contrarium Ser.Mi Senatus sive aliorum d.d. superiorum".
Sono testi Pietro Giorgio Fiormaggio e il Signor Reimondo di Giacomo.
Trascorsi i due mesi e non essendo insorte nuove contestazioni copia del decreto venne inviato alla Corte Vescovile di Ventimiglia essendo Vescovo Lorenzo Gavoto.
Oltre alle decime, sopra descritte, le quali avevano un crisma di autorità, i rettori e prevosti poi, ricevevano aloune particolare elemosini per il servizio prestato al singolo della Comunità.
Di dette elemosini una parte veniva, a libera scelta del rettore, sottratta e devoluta per il decoro del tempio: incenso, banchi, biancheria ecc.
Il susseguirsi di tanti sacerdoti nella cura e la loro encomiabile onestà, in breve temlpo fece sì che la Chiesa [parrocchiale] fosse dotata non solo del necessario, ma di molti oggetti di un enestimabile valore artistico. Fa fede a tale nostra affermazione un minuzioso elenco di beni in data 1513; e ben sarebbe se tanti oggetti fossero pervenuti ai nostri giorni. E' tramite ad un simile elenco che si può stabilire la provenienza e il costo di alcune opere; quadri, crocefisso, lampade, tutt'ora esistenti.
Sebbene l'elemosini fossero libere, per chiarezza e perchè "il fedele non avesse a dire ingiustizia", nella Chiesa, una domenica, vennero stilpulati alcuni Capitoli e sottofirmati dai capi famiglia e dal parroco. Ne è incerta la data; è pur tuttavia certo che il rettore confirmante resse la Comunità fino al 1513.
I Capitoli portano i seguenti titoli: Cap. 6 Li matrimoni; Cap 7 Donne di parti. Cap. 8 Sepultura de li defunti. Cap. 9 Circa li defunti che non si Comunicano.
Stimo di riportarli nella loro integrità per non snervare la meticolosità genovese di quei tempi; anche una sola virgola tralasciata potrebbe uccidere lo spirito che da essi emana.
Capitolo Sesto
"Li sposi sono obbligati il giorno del contrato matrimoniale al Rettore soldi sei, denaro otto monettacorrente, et Chierico denaro otto dare.
Capitolo Settimo
Donne di Parto
"Quando le donne si levano di parto hanno da offerire pani cinque co' un bocale di vino con denari quattro al Rettore, et al chierico una candela con un denaro: (ma per la negligenza dell'illustrissimo mio predecessore è smarrito tale offerta, e solamente pagano al fettore presentemente soldi sei, denari otto monetta corrente).
Capitolo Ottavo
Intorno alla sepoltura di defunti adulti.
"Nella sepoltura di persone adulte tanto homini, come donne, che si comunicano, sono obligati li parenti, o chi ha cura d'essi defonti portare sopra le concella della Parochia o veramente in casa del rettore una minetta di fromento, et offerire a detto rettore una candela con denari sedici, o piu secondo la divotione, e possibilità de parenti di più si fa l'offerta, e l'homini offeriscano pane, quali si contano tre a denaro, e le donne offeriscono candele, e restano al rettore.
Nel giorno della settima chi ha cura del defunto è obligato portare sopra le cancella pani numero sette co' boccale di vino et un moturale farina con alcune grane di sale; di più li parenti offeriscono pane come sopra e le donne candele ad placitum.
Nella trigesima si deve portare sopra le cancella pani cinque di fromento come sopra et un boccale
di vino, e le donne solamente offeriscono candele.
Nell'annata si costuma come nella settima, gli homini offeriscano pane et le donne candele e portano sulle cancella pani numero cinque fromento e un boccale o pinta di vino.
Capitolo Nono
Circa li defunti che no' si comunicano.
"Nel giorno della sepoltura de figlioli incapaci di Comunione sono obligati li congionti d'essi portare sopro le cancella della Parrocchia due tasse una di fromento, e l'altra di mistura con alquanti grani di sale, et offerire al Rettore una candela con denari otto, e nell'offerta sei candelle o più secondo la possibilità. Al Chierico che porta la croce sei candele in numero, a quello che porta aspersorio candele quattro, il che si costuma anche nella sepoltura delle persone adulte e così sempre si costuma senza contradizione alcuna da tutti".
Emozioni procura la chiesa benedettina di S. MARIA ASSUNTA già detta di Nostra Signora di Nogareto (del "noceto") eretta presso la fonte terapeutica di LAGO PIGO per eventi giurisdizionali e poi sismico-tellurici rientrata nell'agro pignasco caratterizzandone il sito.
AVVOCATO [vedi DIGESTO = III, 3] : BATTAGLIA s.v.>"Colui che nell'azione giudiziaria presta assistenza a una delle parti (all'attore, al convenuto o all'imputato): sempre dal BATTAGLIA si apprende che nel medioevo era in auge anche la forma CAUSIDICO (CAUSIDICI) poi caduta in disuso ed evolutasi in senso prima scherzoso e quindi spregiativo ad indicare AVVOCATI di basso profilo od incompetenti.
Per un inquadramento della postazione ecclesiastica maturata ai primi del XVIII secolo vedi la voce
ADVOCATUS nella monumentale BIBLIOTHECA CANONICA... del padre francescano Lucio Ferraris.
NOTAIO: il notaio (o, nella dizione antica, tuttora usata, notaro = attuario = cancelliere) è un libero professionista e contemporaneamente un pubblico ufficiale, figura speciale prevista dall'ordinamento per favorire la registrazione capillare degli atti (in genere di diritto privato) stipulati fra i cittadini, a complemento e strumento, ed in delega generale, della funzione di registro provveduta dallo stato.
Nel diritto italiano, infatti, secondo quanto recita l'art. 1 della legge 16 febbraio 1913, n. 89 ("legge notarile"), "I notari sono ufficiali pubblici istituiti per ricevere gli atti tra vivi e di ultima volontà, attribuire loro pubblica fede, conservarne il deposito, rilasciarne le copie, i certificati e gli estratti".
L'etimo della parola "notaio" deriva dal latino "notare" ossia "annotare, prender nota". Il notaio è in pratica colui che, per conto dello Stato, non solo ha la funzione di accertare l'identità delle parti e attribuire pubblica fede a quanto stipulato avanti a lui ma altresì di compiere un vero e proprio controllo di legittimità degli atti e curarne tutti i successivi adempimenti, tra cui la corretta registrazione e trascrizione nei pubblici registri. Inoltre, il notaio è delegato anche alla riscossione di certe imposte relative ad alcuni tipi di atti rogati. L'atto pubblico è anche detto rogito ed è propriamente "atto di notaio" in quanto non si tratta di un semplice atto sottoscritto dalle parti dinanzi al notaio, bensì di un atto che è stato redatto dal notaio riducendo nella forma giuridica più appropriata la volontà delle parti; pertanto l'atto si perfeziona solo con la firma del notaio. Peraltro anche nelle scritture private autenticate, il notaio non si limita ad accertare che le parti abbiano sottoscritto in sua presenza, ma effettua il medesimo controllo di legittimità e cura ugualmente tutti gli adempimenti successivi.
Antonio Olivieri in una sua brillante recensione on line all'opera di
G. Tamba intitolata Notai, Regno d'Italia, in Federico II. Enciclopedia fridericiana ( vol. II, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2005, pp. 396- 401) scrive:"
nella sua breve ma densa sintesi sul notariato nel Regno d'Italia nell'età di Federico II Giorgio Tamba ha affrontato alcuni fra i temi di maggior rilievo per la storia notarile del periodo: il sorgere di formulari di nuova concezione e dei primi trattati di ars notarie, limitando il suo discorso all'opera di Ranieri da Perugia; il problema della nomina dei notai, con particolare attenzione per la politica tenuta a riguardo da Federico II; i provvedimenti delle autorità comunali a tutela della correttezza nell'esercizio dell'officium notarie, con un accenno brevissimo alla produzione documentaria comunale, ovunque affidata ai notai, e alla sua crescita esponenziale proprio negli anni di Federico II; il controllo della preparazione dei notai da parte dei comuni cittadini e la scelta conseguente di istituire esami di notariato di fronte a commissioni nominate dai comuni stessi; commissioni che in alcune città risultarono, in tutto o in parte, affidate al controllo delle società dei notai.
L'argomento che più ha impegnato Tamba è stato, tuttavia, quello delle procedure mediante le quali venivano nominati i notai e, ancor più, quello delle autorità in grado di procedere a tali nomine; delle autorità pubbliche, quindi, che potevano fare della persona che riceveva la nomina a notaio una publica persona, in grado di redigere publica instrumenta. Sebbene la prassi, come ben dimostrano alcuni dei privilegi di nomina che Ranieri da Perugia comprese nella parte finale del suo Liber formularius, conoscesse soluzioni diverse, appare tuttavia chiaro come la coscienza giuridica del tempo non ponesse dubbi sul fatto che la potestà di nomina dei notai fosse una regalia, ovvero che fosse prerogativa dell'imperatore e dei suoi delegati la capacità di nominare i notai.
Al principio dell'età fridericiana era ancora attivo un certo numero di notai nominati dagli imperatori precedenti al momento delle loro discese in Italia; altri erano stati nominati da alti dignitari imperiali; altri ancora da persone che avevano ricevuto la facoltà di nomina dall'imperatore stesso. I più erano stati nominati dai membri delle famiglie dei conti palatini, come quella dei conti palatini di Lomello, per intenderci. Vi erano poi, come Tamba bene ricorda, notai nominati da autorità ecclesiastiche, cui la capacità di nomina era stata concessa dagli imperatori stessi (Tamba cita notai nominati per antica concessione da autorità ecclesiastiche [utile tuttora la BIBLIOTHECA CANONICA, JURIDICA di L. Ferraris: alla voce NOTARIUS si disquisisce, tra altre cose, dei NOTAI DI NOMINA PAPALE E IMPERIALE, dei NOTAI DEL SANT'UFFICIO, dei
NOTARI APOSTOLICI E PROTONOTARI APOSTOLICI, delle RESPONSABILITA', DOVERI, COLPE EVENTUALI DEI NOTAI]). Esistevano anche città e magistrature cittadine che si erano viste concesse dagli imperatori, in forme diverse, la potestà di nomina dei notai: tutti ricorderanno Genova, grazie al libro di Giorgio Costamagna, ma alla città ligure va aggiunta Pavia, ai cui consoli il privilegio fu concesso da Enrico VI nel 1191.
Fuori da tali due privilegi, unici per quel che si sa, sembra che già prima della fine del XII secolo alcuni comuni avessero preso a nominare notai. I notai di nomina comunale – fenomeno che si direbbe marginale ancora nel terzo decennio del Duecento, come sembra indicare il caso di Bologna – non ottenevano però una licentia ubique exercendi. La loro facoltà di rogare instrumenti validi era limitata alla città e al suo distretto, come precisa, per esempio, uno degli instrumenti che Ranieri incluse nella parte finale del suo Liber formularius, che documenta l'investitura del podestà di Bologna Guglielmo Rangoni a un certo Leuzo Arduini de officio notarie.
Federico II nominò notai nel Regno d'Italia già prima della incoronazione imperiale del novembre 1220. Riguardo alla concessione dei poteri di nomina dei notai fu assai prudente: confermò concessioni divenute ormai tradizionali (ai conti di Lomello, a Genova, a Pavia, ecc.), ma non ne aggiunse altre.
Effettuata nelle forme dell'investitura feudale, la nomina dei notai risultava da una procedura, adombrata dai privilegi di investitura, nella quale era previsto formalmente l'accertamento della fidelitas e probitas (o della peritia et industria, come si legge in un privilegio di nomina di Ottone IV inserto nel citato Liber formularius) del futuro notaio. Tuttavia, l'ironia di Odofredo sulla preparazione dei giudici di nomina imperiale può bene, per analogia, indurre a nutrire qualche sospetto sull'accuratezza di tali verifiche delle capacità dei candidati. Sarà bene, tuttavia, non generalizzare.
L'acuirsi dello scontro con i comuni della Lega lombarda, pur di là dalle punte massime che videro l'emanazione di provvedimenti estremi, tra cui la privazione inflitta alle città dell'officium tabellionatus, ebbe conseguenze anche nel campo ristretto del notariato. Lo dimostra il rarefarsi delle nomine di notai da parte di Federico II e dei pochi suoi diretti rappresentanti. Esse vennero ristrette alle città alleate o non ostili alla parte imperiale, come Cortona, mentre nelle città antimperiali i notai nominati dell'imperatore o da suoi delegati si ridussero molto. A queste ultime città, come testimonia ancora il caso ben documentato di Bologna, restavano i notai nominati dai conti palatini e quelli che le stesse autorità cittadine provvedevano a nominare.
È ancora il più volte citato Ranieri da Perugia a fornirci un esempio delle soluzioni pratiche, fortemente innovative, adottate dai comuni cittadini per risolvere il problema del reclutamento dei notai: venne tagliato il nodo gordiano della nomina e fu il giudice del podestà a disporre, con una semplice sentenza, l'iscrizione del candidato, che aveva già superato l'esame comunale di notariato, nel libro della matricola dei notai della città. Il notaio così abilitato poteva esercitare nella città e nel suo distretto anche senza procurarsi un tradizionale privilegio di nomina rilasciato dall'imperatore o da suoi delegati.
Di là dagli scontri politici tra l'Impero e le città italiane, pure importanti, la nuova politica notarile dei comuni si rese necessaria per la forte crescita della domanda documentaria. Essa generò un analogo aumento del numero dei notai. Gli agenti e le procedure di produzione e uso della documentazione acquisirono, insomma, nelle società cittadine dell'Italia centro-settentrionale un rilievo complessivo inusitato rispetto al recente passato. Fu allora che le esigenze comunali di controllo sulla professione notarile condussero, come è noto, alla creazione di procedure d'esame degli aspiranti notai gestite dai comuni stessi o dalle società notarili cittadine".
, contrapposto a Cortona ed adagiato su di un monte prospiciente la valle del torrente Esse, si erge MONTE SAN SAVINO, antichissimo borgo nel quale sono stati rinvenuti molti segni di civiltà etrusca nel corso degli scavi condotti a fine '800 (loc. Castellare, Pastina e Vertighe) dall' insigne archeologo G.F. Gamurrini. Fecero seguito - come ricorda l' illustre poeta savinese Giulio Salvadori: "il paesello romano di Area Alta, indizio dell' impero di Roma distesosi sulla Penisola; lo stanziamento dei barbari Goti sulle due colline di ponente contigue al Castellare; la pieve che raccolse in un solo popolo queste genti diverse sotto il comune nome cristiano...tutto fino all' albore della civiltà nuova, a Carlo Magno e alle sue donazioni, e il fatto palese che segnò il nuovo giorno col trasferimento della pieve sul colle già occupato da Roma". Ciò accade sul finire del secolo XII, mentre la storia di MONTE SAN SAVINO va progressivamente assestandosi lungo quel cammino che fu comune a molti paesi toscani: diviso anch' esso nelle due fazioni di guelfi e ghibellini, questi ultimi vi ebbero il sopravvento allorchè Monte San Savino venne in potere degli Ubertini signori di Arezzo. Ma, una volta passato sotto la giurisdizione fiorentina e guelfa nel 1306, gli aretini, delusi del perduto potere su quel fondamentale avamposto che si incuneava nel sud dello Stato di Siena, incalzarono sempre più da presso Monte San Savino, finchè il Vescovo d' Arezzo Guido Tarlati, per vaer il Monte dato asilo ai guelfi, ne fece abbattere, nel 1325, come si legge nella Cronica del Villani, le mura castellane: "... nell' anno dopo agli 11 maggio vi cavalcò il vescovo medesimo con le sue genti e trasse dal castello tutti gli abitanti, che erano più di mille, e fece disfare la terra". Già dall' anno 1337 Monte San Savino era di nuovo abitato e passò dapprima sotto il dominio di Perugia, poi sotto quello di Siena e quindi (1384) di nuovo sotto quello di Firenze che vi mandò potetstà e vicari per l' amministrazione della giustizia.
Monte San Savino conobbe il suo massimo splendore nella seconda metà del '400 e nel '500 quando fiorì in questa Terra il nobile ramo della famiglia Ciocchi-Di Monte, originaria di Firenze e ricca di famosi giureconsulti e prelati come il cardinale Antonio, uno dei più influenti porporati del Rinascimento, carissimo a Giulio II e intimo dei papi di casa Medici. Al nostro paese questi cercò ognora di assicurare la protezione medicea, finché suo nipote Giovanni Maria Di Monte fu eletto pontefice nel 1550 assumendo il nome di Giulio III. In seguito a questo evento il duca di Toscana Cosimo I De' Medici donò la città di Monte San Savino - assieme a Gargonza, Alberoro e Palazzuolo - col titolo di contea al fratello del papa Balduino di Monte. Estintasi nel 1569 con il figlio di Baldovino, Fabiano, la famiglia Di Monte, la cittadina tornò, pur continuando a mantenere diversi privilegi, sotto Firenze e nel 1570 divenne sede dell' importante vicariato di Valdichiana. Una nuova infeudazione vide passare Monte San Savino a partire dal 1604 sotto i marchesi Orsini che lo tennero fino al 1643 allorché esso divenne feudo personale (fino al 16679 di Mattias De' Medici, fratello del granduca Ferdinando II. Ne divenne quindi principessa la stessa consorte di Ferdinando II, la granduchessa Vittoria della Rovere. Alla morte della "magna ducissa" (1694) seguì un periodo di reggimento autonomo di Monte San Savino. La cittadina passò definitivamente sotto il diretto dominio granducale nel 1748: il motu proprio dell' 8 febbraio di quell' anno ne faceva una nuova comunità con residenza di un vicario regio. Quindi, con il Regolamento del 14 novembre 1774, Monte San Savino aggregava alla propria comunità, oltre ai "popoli" di Alberoro, Gargonza e Palazzuolo anche quello di Montagnano. In epoca napoleonica, allorchè la Toscana venne divisa in tre grandi dipartimenti - dell' Arno, dell' Ombrone e del Mediterraneo - governati da un prefetto e da alcuni ufficiali, Monte San Savino fu compreso nel dipartimento dell' Arno. Al plebiscito del 1860, su 1635 elettori savinesi, 1594 si dichiararono a favore dell'annessione della Toscana al Piemonte, 23 contrari, mentre i voti invalidati furono 18.
Al referendum istituzionale del 2 giugno 1946, i voti per la repubblica furono 3231, quelli per la monarchia 1758, i non validi 481, tra cui 413 schede bianche. Con proprio decreto (22 luglio 1991) il Presidente della Repubblica ha concesso a Monte San Savino l' ambito titolo di Città, che viene accordato "a comuni insigni per ricordi, o monumenti storici... che abbiano convenientemente provveduto ad ogni pubblico servizio ed in particolare modo all' assistenza, istruzione e beneficenza".
"Questa cotanto antica, e per tutti i riflessi rispettabilissima Terra", scriveva il cronachista locale R. Restorelli nella seconda metà del '700, in un elenco forse alquanto arido e tedioso ma significativo del gran numero di nobili personaggi e dell'illustre passato che Monte San Savino poteva già vantare a quella data "ha dato alla luce una continuata e non interrotta serie di conti e nobili personaggi che, celebri per dignità ecclesiastiche, per armi e per lettere, viePpiù la illustrarono e degna la resero di eterna memoria.
Si leggano i suoi Annali, ed in essi troveremo un pontefice, tre eminentissimi porporati, diciasette prelati, quattro vicari generali, un decano, sei canonici, due generali, con due abbati mitrati, un gran maestro, un commendatore e tre cavalieri dell'ordine gerosolimitano, un internunzio di Francia, due conti e signori di questa Terra e suo territorio, coll'impero mero e misto cum gladio potestatis, un generale dell' Armata imperiale ed ecclesiastica, un gentiluomo di camera del serenissimo Gran Duca di Toscana, uno scultore ed architetto, quattro pittori, un pubblico precettore dell'Archiginnasio di Roma maestro dell'E.mo Francesco cardinale Barberini, due bravissimi giureconsulti e celebri avvocati in Roma, un auditor fiscale del serenissimo principe Mattias governatore di Siena, ed altri pressochè innumerevoli".
Lo scultore ed architetto cui accenna il Restorelli è il celebre Andrea Contucci, detto Il Sansovino, formatosi artisticamente a Firenze alla bottega del Pollaiolo e, dal 1513, sovrintendente alla costruzione della basilica della Santa Casa di Loreto.
Opere d'arte del Sansovino si conservano anche a Monte San Savino, in particolare nella chiesa di Santa Chiara.
Resta da fare cenno ad almeno quattro altri importanti personaggi che, ovvi motivi cronologici, restano fuori di questa elencazione: Salomone Fiorentino (1743-1815) "il primo ebreo che figuri nella letteratura italiana", poeta del quale la critica moderna celebra soprattutto le tenere elegie scritte in memoria dell' amata moglie Laura; lo scienziato Giuseppe Sanarelli (1854-1940), senatore del regno, cui si devono fondamentali studi sul morbo della febbre gialla o tifo itteroide; Gian Francesco Gamurrini (1835-1923), aretino ma operoso a lungo in Monte San Savino e per Monte San Savino, uno dei fondatori della moderna etruscologia, ordinatore delle prime raccolte etrusche di Arezzo e di quella del Palazzo della Crocetta a Firenze (attuale museo archeologico) e di Villa Giulia a Roma; e Giulio Salvadori (1862-1928), poeta e studioso di letteratura, critico e giornalista, educatore e docente universitario presso la Cattolica di Milano, tra le cui più importanti produzioni poetiche si segnalano Minime (1882), il Canzoniere civile (1889) e Ricordi dell' Umile Italia (1918).
GliEBREI sono stati presenti a MONTE SAN SAVINO in due periodi distinti: dal 1421 al 1571 con banche di prestito su pegno, e dal 1627 al 1799 inizialmente con un banco di prestito su pegno e subito dopo con una comunità vera e propria.
Il documento più antico in nostro possesso che attesta la sottoscrizione di "capitoli" ovverosia di una convenzione per l'apertura di un banco di prestito risale al 1427: in quell'occasione Firenze, facendosi interprete delle esigenze esposte dalla comunità savinese, concede a Bonaventura da Terracina la "condatta" (si trattava, in sostanza, di una filiale dei da Terracina) di un banco di prestito al Monte per sei anni, poi rinnovata successivamente. Quindi, con ogni evidenza, gli ebrei prestatori giungevano - di mercoledi, giorno di mercato settimanale - a Monte San Savino dalle loro comunità di Prato, Firenze o Pisa, per ivi fare ritorno al termine del mercato. Non avevano perciò - di regola - dimora stabile in paese, fatta eccezione per il periodo della condotta di Laudadio De Blanis e figli (seconda metà del XVI sec.) che, portati dai Di Monte, ebbero stabile residenza.
Dopo che un decreto granducale del 1570-71 ghettizzò tutti gli ebrei della Toscana facendoli convergere a Firenze e a Siena, anche quelli montigiani furono costretti al lasciare il paese e solo nel 1627 - Monte San Savino era allora feudo di Bertoldo Orsini - torneranno a stabilirvisi: in quell'occasione la famiglia Passgli e soci sottoscrissero dei "capitoli" specifici che li autorizzavano al prestito, a costruire un luogo di culto e a tenere un cimitero proprio.
Si formò allora la vera e propria comunità.
Alcuni studiosi di storia ebraica italiana hanno sottolineato, per spiegare l'insediamento degli ebrei a Monte San Savino e il suo sviluppo, come quella savinese - al pari di altre (Pitigliano, Sorano, Lippiano) - fosse una comunità di confine, una specie di luogo-rifugio in cui gli ebrei dell'Italia centrale riuscivano a mettersi al sicuro dalle vessazioni di cui erano fatti oggetto da parte della Controriforma.
La comunità montigiana si svilupperà progressivamente e prospererà fino al "Viva Maria", movimento reazionario di tipo sanfedista che, inneggiando al ritorno del granduca, vedeva con profonda avversione l'occupazione francese nella quale la comunità ebraica aveva invece riposto speranze di emancipazione. Costretti a lasciare il Monte , gli ebrei si diressero alla volta di Firenze e Siena: in quest'ultima città alcuni ebrei savinesi si trovarono coinvolti nell'eccidio che fu perpetrato ai danni degli ebrei ivi residenti o rifugiatisi, ed alcuni vi perirono. Due nomi di ebrei montigiani illustrarono la nostra cittadina: l'uno il già citato Salomon Fiorentino, l'altro Giuseppe ebreo: quest'ultimo, convertitosi alla fede cristiana nel 1559 assumendo il nome di Fabiano Fioghi, divenne, sotto la protezione dei pontefici dell'epoca, professore di lingua ebraica nel collegio dei neofiti (cioè dei convertiti) di Roma e fu autore di un saggio teso a confutare la falsità dell'ebraismo in nome della verità cristiana.
Sull'antico Palio savinese, detto di Santa Maria d'Agosto perchè si svolgeva il 15 di questo mese, si hanno notizie documentate solo dal 1471, anche se la manifestazione è certo più antica. Questa non era una corsa contradaiola, aperta bensì a cavalieri provenienti da diverse località il cui bando avveniva nella piazza ialta donde moveva la sfilata lla volta della Ruga Maestra.
In uno splendido insieme di colori, di addobbi e di movimento - in cui risaltavano, oltre ai cavalieri e al popolo infesta, i maggiorenti della comunità, i trombetti, i tamburini e i soldati tenuti a mantenere l'ordine - al suono del campanone della torre del palazzo pretorio i cavalieri si portavano quindi alle mosse slanciandosi su un percorso che comprendeva quasi sicuramente la costa del Mulino.
La consegna del palio al vincitore concludeva la gara, mentre la festa continuava per tutta la giornata.
Anche il Gioco del pallone col bracciale, che è assai probabile che fosse praticato a Monte San Savino già verso la fine del '500, incontrò il favore di numerosi appassionati praticanti.
Proprio a Monte San Savino, ove nacquero giocatori di fama anche nazionale come Agostino e Augusto Frullani e Dante Ulivi, fra gli altri.
Sport di tipo sferistico, si svolgeva in un campo apposito provvisto di un muro d'appoggio in cui si incontravano due squadre (ciascuna composta da terzino, spalla e battitore).
Dopo la battuta il pallone veniva colpito al volo o al primo balzo alternativamente dalle due squadre fino a quando il palleggio cessava per un fallo o per volata (in quest'ultimo caso la palla, di battuta o di rimessa, andava di là dalla linea di fondocampo, resa imprendibile agli avversari.
Inizialmente praticato nella Piazza Ialta, il gioco del "pallone grosso" si svolse a partire dalla fine del '700 in un apposito campo costruito fuori porta San Giovanni lungo le mura castellane. Veri e propri specialisti erano gli artigiani savinesi che fabbricavano i palloni ed i bracciali (i cosidetti "pallonari") ben presto conosciuti ed apprezzati in campo nazionale" [NOTIZIE DESUNTE DAL SITO INFORMATICO UFFICIALE DEL COMUNE DI MONTE S. SAVINO].
Le ADUNANZE cui qui si fa riferimento non è termine aprosiano ma lemma moderno utilizzato per dare un senso logico agli incontri parti sospesi tra l'otium negotiosum di oraziana memoria e le visite di cortesia che l'Aprosio riceveva di quando in quando a Ventimiglia.
Questi incontri amicali si trasformavano spesso in dispute letterarie od in veri e propri lavori eruditi ma non avevano il carattere istituzionale di un'accademia e del resto la partecipazione all'accademismo ligure di Angelico Aprosio è abbastanza nota come pure la sua scarsa propensione per organizzare in modo programmatico i pur reali fermenti eruditi del ponente ligure durante la sua epoca.
Sarà piuttosto il successore d'Aprosio a tentare l'istituzione ben codificata di un'Accademia intemelia.
Ciò non toglie tuttavia che Aprosio avesse fatto della sua Biblioteca non solo uno splendido contenitore di libri ma anche un ruolo di pubblici incontri e di fruizioni culturali cui egli stesso partecipava: cosa di cui peraltro ha lasciato evidente traccia nella sua volontà di far della "Libraria" un luogo aperto al pubblico e agli scambi culturali.
BRUGUERES MICHELE : fu oratore e autore drammatico, fu conteso dalle maggiori istituzioni culturali dell'epoca.
Brugueres, Michele, Dal tradimento le nozze opera scenica del signor Michele Brugueres romano, In Bologna: Longhi [Brugueres, Michele , Dal tradimento le nozze opera scenica, del sig. Michele Brugueres romano. .. , In Roma, per il Tinassi, 1680]
Brugueres, Michele, La principessa straniera, ouero disauuenture nell'allegrezze. Opera del signor Michele Bugreres romano. Dedicata al molto Ill. signore il signor Andrea Morena, In Napoli, per Giacinto Passaro: Massari, Francesco Passaro, Giacinto, 1671.
Brugueres, Michele, Il vero amore non vuol politica fauola tragicomica di Michele Brugueres academico vmorista. Consagrata all'ill.ma ... D. Flaminia Pamfili, prencipessa di Venafro, Roma, Leone, Francesco - Tizzoni, Francesco, 1676[ristampa: Brugueres, Michele, Il vero amore non vuol politica, fauola tragicomica di Michele Brugueres Academico Vmorista, In Bologna: Longhi, 1701 ]
nella Grillaia, Aprosio aveva consapevolezza di chi fosse l'autore e se con più probabilità, volutamente, ne manteneva l'anonimato: di certo ne era coinvolto atteso che della Satira in causa ne riprodusse ampi stralci come la sarcina in pp. 160 - 161
ed ancora quella alle pp. 500 - 501
.
Tuttavia un sillogista a lui di poco posteriore Johann Jacob Hofmann (1635-1706) [nel suo Lexicon Universale, Historiam Sacram Et Profanam Omnis aevi, omniumque Gentium; Chronologiam Ad Haec Usque Tempora; Geographiam Et Veteris Et Novi Orbis; Principum Per Omnes Terras Familiarum [...] Genealogiam; Tum Mythologiam, Ritus, Caerimonias, Omnemque Veterum Antiquitatem ...; Virorum ... Celebrium Enarrationem ...; Praeterea Animalium, Plantarum, Metallorum, Lapidum, Gemmarum, Nomina, Naturas, Vires Explanans. - Editio Absolutissima [...] Auctior [...], Leiden: Jacob. Hackius, Cornel. Boutesteyn, Petr. Vander Aa, & Jord. Luchtmans, 1698. 2° - T. 1: Literas A, B, C, = [6] Bianche, 1072 pagine; - T. 2: Lettere D, E, F, G, H, I, K, L, = [1] Bianca, 900 pagine; - T. 3: Lettere M, N, O, P, Q, = [1] Bianca, 994 pagine - T. 4: Literas R, S, T, V, X, Y, Z, = [1] Bianca, CXXVI, 743, 116 pagine] registrava le due Satire indubitamente quali opere di N. Villani
(p.319 del T. III, e facendo riferimento ad una bibliografia di autori notissimi ad Aprosio come l'Eritreo e Lorenzo Crasso)
Aprosio parla di JACOPO o GIACOMO PIGHETTI come di un amico personale, specialmente a pagina 168 e pur essendo cognato della Tarabotti sembra giudicarlo ben saldamente dalla sua parte: cosa che del resto doveva fare la suora vaneziana atteso quanto gli scrisse in una sua lettera in relazione alla polemica su femminismo ed antifemminismo in pratica da lei, e non a torto, suscitata: a precindere dalle citazioni de La Biblioteca Aprosiana Aprosio aveva avuro importanti contatti letterari con il Giacomo Pighetti che gli scrisse lettera nel 1643 atteso che era stato gratificato dal frante intemelio della dedica del capitolo II de la Sferza Poetica in cui, tra altre cose, l'avvocato bergamasco fu definito eccellente elogiografo.
Questo avvocato bergamasco dopo i successi forensi si sarebbe dedicato all'attività letteraria, in ispecie al genere epidittico, meritandosi l'appellativo di Principe degl'Elogisti (DONATO CALVI, Scena letteraria de gli scrittori bergamaschi Bergamo, Figli di Marcantonio Rossi, 1664, pp. 194 - 195).
Guidobaldo Benamati però, corrispondente d'Aprosio per oltre un ventennio, in una lettera al frate ventimigliese non datata ma probabilmente del 1644 scrisse verso la fine della stessa :"Ho visto ne' suoi libri nominare il Signor Pighetti. Se quel Signore havesse pensiero di restituirmi una dozzina e più di ducatoni, che mi restò, per più somma che gli prestai in Venetia l'anno 1620, farebbe ciò che deve. Dicagliene Vostra Paternità per gratia una parola, e con la prima sua mi avisi ciò che le havrà risposto".
In effetti sulla presunta scarsa affidabilità del Pighetti ha fatto riferimento Maurizio Slawinski che ha riportato queso inedito assieme alle lettere del Benamati all'Aprosio nel lavoro Gli affanni della letteratura nella corrispondenza di Guidubaldo Benamati ad Angelico Aprosio (1629-1652) in "Aprosiana - rivista annuale di studi barocchi", X, 2002, p.61) riportando altresì un decettivo giudizio sul Pighetti del Loredan che ironicamente si congratulava Pighetti (Opere, VI, p. 335) perché "havendo con la Signora Angela seminati pochi denari, ha raccolto una messe di mal Francese [...] mi consola [...]che lasciate le dissolutezze del senso si darà tutto alle penitenze,& alle quarante [...] anzi tutta pietà, e tutta divotione abbraccierà il Santo Legno".
Però resta il fatto, non notato dallo Slawinski, che nel tardo repertorio bibliografico del 1673 Aprosio continui a parlar bene del Pighetti e citi una sola volta il Benamati relegandolo al ruolo di comprimario entro la sua disputa con lo Stigliani, senza nulla dir di più nonostante il corposo carteggio intercorrente fra i due personaggi.
i testi di questo sito sono stati scritti dal Prof. Bartolomeo Durante
Si precisa inoltre in particolare che questo lavoro non è a scopo commerciale ma di divulgazione culturale e per uso documentario - Professor Bartolomeo Durante