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S.PIETRO DI CAMPOROSSO

S.PIETRO DI CAMPOROSSO
[VEDI QUI LA CARTOGRAFIA SETTECENTESCA DI CAMPOROSSO]

Primitiva parrocchiale del borgo e da molto tempo sin ai giorni nostri venerata chiesa cimiteriale, che si incontra risalendo la valle del Nervia: l'abside ed il campanile sono dell'XI sec. ma l'edificio poggia su una chiesetta più antica, individuata durante i restauri del 1967-69 e che era ad una sola navata. Per quanto si ricava da rogiti notarili questa chiesa, nel XIII sec., dava nome alla più ANTICA E IMPORTANTE CONTRADA di Camporosso e già da due secoli presiedeva ad un'area cimiteriale. Per la sua realizzazione furono impiegati blocchi sagomati di pietra della Turbia, il materiale usato pei migliori edifici di Ventimiglia romana: altri blocchi di simile pietra son tuttora sparsi nelle vicinanze, impiegati in vecchi muri e persino nella piazza del paese come sedili pubblici. Su un'area radiale di 500 metri dalla chiesa sono stati segnalati 167 frammenti diversi di presunto materiale edile della Turbia. Dei 72 visti e identificati in base alle dimensioni della parte visibile, 22 superano la misura del metro, 13 hanno dimensione compresa fra il metro ed i cinquanta centimetri mentre i restanti 37 sono di misura inferiore ai cinquanta centimetri (solo 7 denunciano tracce di lavorazione a solco o cornice). Distribuzione e concentrazione degradano procedendo dal nucleo di S.Pietro (dai 180 ai 200 si trovano in genere frammenti riutilizzati nei muri più antichi): questo induce a credere che ad un'implosione avvenuta nello spazio del corpo ecclesiale verso il V-VI (quasi di sicuro una demolizione, come accaduto nei pressi di S.Rocco-S.Vincenzo ai Piani di Vallecrosia, ove nel breve spazio della chiesetta cristiana son concentrati reperti edili di un edificio imperiale alquanto più grande) sia susseguito fra VI-VII ed XI sec. un processo di espansione, per cui i blocchi maggiori, difficilmente trasportabili, furon usati in loco a differenza dei frammenti minori poi reimpiegati in complessi murari più lontani. Vista la quantità del materiale è peraltro impensabile, come ancora nel caso dell'edificio vallecrosino, che il materiale sia stato portato dai ruderi della città romana : la precarietà dei trasporti, del tragitto e dei mezzi disponibili tra VI-VIII sec. nega questa ipotesi nè altera tale giudizio una eventuale postdatazione, al IX e XI sec., quando la sabbia eolica aveva ormai coperti gli edifici romani di costa. Diversi studiosi, tenendo conto di altri ritrovamenti nelle vicinanze di S.Pietro (frammenti di tegole romane, reperti di un'anfora greco-marsigliese del IV sec.a.C. nel vallone-lato Nord della cinta muraria cimiteriale), hanno elaborata la condividibile teoria che esistesse un insediamento ligure e poi romano nella zona, geologicamente idonea alla vita di relazione (v. chiesa di S. ANDREA): ulteriori investigazioni archeologiche hanno individuato un muro d'epoca lombardo carolingia parallelo a parte della minore navata laterale (ormai tutti gli studiosi concordanno sul fatto di un'intensa romanizzazione, sotto specie di ville rustiche o pseudourbane, di tutto l'agro sin alla media valle del Nervia anche se non è universale la convinzione, che pare tuttavia confermata dai segnali archeologici prima espressi, che oltre ad insediamenti privati e ad aziende di vario tipo sin dalla romanità potessero qui trovarsi strutture di tipo pubblico calcolando l'importanza della STRADA VALLIVA.
La strada della valle del Nervia, quasi alla sue imboccatura, presentava una zone ampia e pianeggiante, nella quale esistevano da tempi antichi le condizioni ottimali per l'impianto di organismi rurali e di insediamenti umani continuativi.
Camporosso ha un toponimo latino documentato nel XIII secolo (Campus Rubeus) che può ben ascriversi alla romanità e aver preso denominazione dalle caratteristiche del colore del terreno o di qualche particolare vegetazione tipica del sito.
Il borgo, prossimo al Nervia e alla strada di penetrazione nella valle, è posto piu precisamente alla confluenza del rio Cantarana: l'area spaziosa e fertile, assai poco lontana dalla città nervina, induce a ritenere che, per la semplice ragione logistica, fosse sede di insediamenti romani e, forse, uno dei principali polmoni agricoli del municipio di Albintimilium.
L'area prospiciente l'antica chiesa di S. Pietro ebbe in tempi remoti grossa importanza rurale come ricaviamo dagli atti del notatio di Amandolesio: vi si alternavano terre poste a coltura ortile e gerbide, per pascolo od a seminagione, con ficheti e vigneti.
L'analisi del testamento di Anfosso Rainerius di Camporosso, redatto dallo stesso notaio il 5 dicembre 1260, ci informa che la chiesa era al centro di un'area cimiteriale medievale e che i residenti del borgo erano soliti fare lasciti per l'edificio sacro, secondo un'usanza che pare molto anteriore rispetto al XIII secolo.
Da un atto dello stesso notaio, rogato il 14 ottobre 1259 si ricavano ulteriori informazioni sulla località.
Grazie a questa vendita, che un certo Desiderato Visconte fece a Nicola Visconte di un mulino con due ruote, cum omnibus aquariciis sive aqueductibus (doc. 105), apprendiamo che un grosso edificio si trovava a meridione rispetto alla chiesa di S. Pietro, e che era delimitato, a levante, dalla rive del Nervia, a ponente dall'antica via del torrente: anche qui esistevano vari appezzamenti agricoli, per lo più posti a colture di viti, fichi e alberi di qualità non specificata.
La via è pure citata in un atto del 22 aprile 1260, sempre redatto dal di Amandolesio, per cui una Raimonda, moglie di Ottone Bursa, vendeva a tal Oberto Genzana una terra situata in Camporosso ubi dicitur Ruvoira (doc. 228).
I due ultimi documenti si riferiscono a proprietà poste più a mare rispetto alla chiesa di S. Pietro.
Questa è invece molto bene inquadrata in un altro rogito, del 17 luglio 1260, quando una pezza di terra campiva, posta nelle adiacenze, venne venduta a Fulcone Curio, per parte di Desiderio Visconte.
L'edificio religioso si affacciava, come oggi, sulla via del Nervia che saliva verso Dolceacqua, a nord-ovest della quale esistevano proprietà del ricco latifondista intemelio Ardizzone Giudice; gli altri limiti erano costituiti, come al solito, dal torrente e verso meridione dai terreni di Oberto Intraversati (doc. 270).
L'impressione generale è che la via e il corso d'acqua racchiudessero lo spezio più significativo per gli insediamenti di Camporosso, e che l'area di S. Pietro (atto del 6 novembre 1259, doc. 125) fosse caratterizzata prevalentemente da proprietà rurali (a ficheti e vitigni), di cui si indicarono diversi padroni (Nicola e Aidela Baria, Burbonico de Turca, Matilde di Rezzo, Iacobus Moiranus, Richelenda moglie di Gentile , Guglielmo Giudice).
Il notaio infatti, mentre nominò più volte la (solita) via per indicare i punti topografici, in questo atto definì la località oltre che ad Sanctum Petrum quale contrata o contrada.
L'intensità degli insediamenti suggerì al notaio forse questa denominazione anche se il borgo residenziale era indubbiamente identificabile con quello attuale (più a sud rispetto alla chiesa di S. Pietro, lungo la stessa via) dove sorgeva, con altre, la domus o casa residenziale di Anfosso Rainerio.
Costui, per redigere il testamento di cui si è parlato, accolse, col notaio, numerosi testimoni residenti in Camporosso, uno dei quali, Obertus Bellinus, conservava nel cognome i relitti dell'onomastica latina che, senza esitazioni, si può ricondurre al ceppo di una gente Billenia di origine ligure, con un'onomastica latina di adattamento.
Di modo che, dall'etimo ligure arcaico *Belen, prese prima il nome, nella romanità, un Billenius Onesimus: compare quindi nel XIII secolo questo Obertus Bellinus e poi, in epoca moderna, il cognome Beglia, secondo una linea di continuità onomastica di un ceppo di famiglia, antichissimo, di Camporosso, peraltro passato attraverso il quattro-cinquecentesco adattamento Bellia.
Il testamento del 5-XII-1260 di Anfosso Rainerio di Camporosso (di Amand., doc. 324) è un documento di civiltà medievale.
Secondo la consuetudine dei compaesani, come primo punto, il testatore stabilì di essere sepolto presso la chiesa di San Pietro.
A pro della sua anima lasciò tre lire (libras) di cui 15 soldi per la manutenzione del ponte ligneo sul Roia.
Per terzo punto sancì che 4 lire spettassero a un pellegrino che per la sue anima si recasse ad Sanctum Iacobum de Galicia (è una testimonianza dei "pellegrinaggi su committenza" al celebre Santuario spagnolo di S. Jacopo di Compostella, secondo una tradizione di £ede testimoniata anche da Giovanni Boccaccio. Vedi U. Formentini, L'ospedale dei SS. Giacomo e Cristoforo di Massa e gli itinerari per S. Jacopo di Compostella..., in "Atti e mem. della Deput. di storia patria per le antiche prov. modenesi", s. VIII, 5, 1953, pp. 48-53).
Col IV punto lasciò 5 soldi individualmente per le chiese di Santa Croce e di S. Pietro.
Col V punto lasciò 56 soldi "per doversi provvedere di vestiti i poveri", secondo una tradizione cristiana assistenziale connessa in particolare all 'opera di Congregazioni e Ospedali.
Dopo una serie di lasciti minori a privati e congiunti e prima di stabilire che la principale porzione dei suoi beni, mobili ed immobili, toccasse a Flandineta, figlia del fu Iacobus Rainerius (evidentemente sua nipote), egli lasciò a Petro Tempeste, Anfossinus Rainerius, Guillelmus Rainerius e Iacobinus del fu Fulcone Tempeste ".. la mia terra che risulto avere in Cassogno, coltivata a viti, fichi e ulivi, che confina di sopra e per un lato con la terra de Merlis, di sotto col vallone e per il restante lato con la terra di Iacobus Rainerius... " (dichiarazione importante perché riprova, come altrove si vedrà e contro antiche convinzioni, una sufficiente diffusione dell'olivicoltura in agro intemelio dalla prima metà del 1200).