In un archivio storico può capitare, talvolta, scrive Giusy Ingenito, che dalle carte polverose conservate per secoli, per una semplice casualità o dopo affannose ricerche, emergano reperti archivistici quali allegati di atti ufficiali o, più semplicemente, curiosi oggetti quali carte da gioco usate come occasionali fermafilze, punteruoli e punte di calamaio lasciati sbadatamente dagli addetti. Quindi, tra le pieghe delle carte, tra sigilli notarili e atti ufficiali, si può trovare quanto di più casuale e privo di ufficialità si possa immaginare: versi, invocazioni e massime, opera di antichi funzionari, schizzi o prove di penna tracciati da uno scrivano annoiato, componimenti poetici di un innamorato deluso, riproduzioni di armi ed estemporanei disegni di figure grottesche o di misteriosi animali.
Può per esempio accadere che, da questo mondo fatto di carte, da una filza Instrumentorum datata 1624-1625, riemerga assieme alla LETTERA O CARTELLO DI SFIDA addirittura un GUANTO SEICENTESCO, addotto a prova testimoniale in un processo per una SFIDA A DUELLO(1).
Si tratta di un guanto in morbida pelle scamosciata di color sabbia, bucherellato dalla parte del palmo, del dorso e delle dita, di media misura; considerato il tempo trascorso, si è conservato in buone condizioni, anche se mutilo del dito pollice, probabilmente ritagliato al momento dell’inserimento negli atti, per diminuirne lo spessore e infilzarlo più agevolmente; oppure (ipotesi più verosimile) mutilato volutamente per utilizzare al meglio la mano.
Esposto, in occasione delle manifestazioni per il quattrocentesimo anniversario della nascita del Padre Agostiniano Angelico Aprosio nella mostra dal titolo: "Aprosio e la Ventimiglia del Seicento: tracce archivistiche" organizzata dalla Sezione di Archivio di Stato di Ventimiglia, ha suscitato particolare interesse e curiosità. Molti hanno dato spazio alla propria fantasia portandosi in un mondo affascinante quale quello del seicento ed hanno immaginato varie ipotesi su quali fossero state le motivazioni e le modalità di svolgimento del duello stesso. Da qui è maturata l’idea di approfondire l’argomento ed effettuare una ricerca più dettagliata sull’intera vicenda: gli atti relativi al processo in questione sono annotati in un liber criminalium del 1624 con una scrittura tipica delle cancellerie delle magistrature del tempo, contenente cioè molte abbreviazioni e contrazioni, che qui si è pensato di mitigare al fine di una lettura più agile magari unformando le forme maiuscole all'uso contemporaneo: il tutto si conserva presso la Sezione di Archivio di Stato di Ventimiglia (sigla SASV) in "fondo Capitaneato" ed è liberamente consultabile. Nel XVII secolo il territorio della Serenissima Repubblica di Genova era suddiviso in Podesterie, Capitaneati, Commissariati e Commissariati Generali ( in un documento del 1665 relativo ai Capitoli del buon governo della Comunità ed alla assegnazione dei luoghi al punto 16 si legge: al Capitaneato di Ventimiglia: la città di Ventimiglia con sua Giurisdizione, e tutti i Luoghi, e Comunità in qualsivoglia modo soggette al detto Capitanato . SASV, Fondo Magnifica Comunità di Ventimiglia, filza 67).
I funzionari preposti ai suddetti uffici fino al periodo della rivoluzione francese, svolgevano contemporaneamente funzioni amministrative, giudiziarie ed esecutive.
Ventimiglia nel 1600 era amministrata da un Capitano nominato per decreto e scelto fra i nobili genovesi con incarico annuale a partire dal primo maggio: a volte però accadeva, in ragione di particolari esigenze, che il Capitano venisse riconfermato per un altro anno come nel caso del Capitano Spinola nel 1696. (SASV, "Fondo Magnifica Comunità di Ventimiglia", filza 68) o addirittura che chiedesse di stabilire la propria residenza nella stessa città (SASV, Fondo "Magnifica Comunità di Ventimiglia", filza 66).
Fra le prime incombenze del Capitano vi era la stesura di un proclama, con il quale lo stesso stabiliva divieti e sanzioni per la popolazione, affinché la pubblica quiete non venisse turbata da coloro che poco temono Iddio . Proibiva quindi di bestemmiare, di circolare armati, di giocare d’azzardo, di gettare immondizie per le strade, di lasciare libere per le vie le bestie porcine…. Il proclama veniva letto dal nunzio o dal cavallero, nelle piazze e nei luoghi soliti di ritrovo della città e delle ville, a voce alta ed intelligibile e preannunciato a suon di tamburo (vedi qui in appendice la trascrizione del documento n. 1 Proclama Armorum et aliorum , SASV, "Capitanato di Ventimiglia", filza 156).
Il Capitano, una volta insediato nominava un Cancelliere o Attuario, il quale impiantava i vari registri: un registro dei diversorum di carattere amministrativo, uno delle accuse , uno delle esecuzioni , uno delle petizioni ed infine un registro criminalium su cui si verbalizzavano le fasi dei processi di competenza del Capitano. Questo infatti amministrava la giustizia in base agli statuti Criminali di Genova del 1556 ed anche in relazione agli usi e consuetudini del luogo.
Il processo iniziava attraverso una accusa, o una querela o per delazione (denunzia segreta motivata da ragioni spesso riprovevoli). Il procedimento prevedeva l’inquisizione, di cui faceva parte l’interrogatorio delle persone accusate e dei testimoni. Se necessario, per le deposizioni divergenti ci si avvaleva del contraddittorio mediante il confronto tra le parti.
Poiché lo scopo da raggiungere con l’interrogatorio era quello di ottenere la confessione, quando si riteneva utile si poteva ricorrere alla tortura, sempre che ci si trovasse di fronte ad un reato grave.
L’inquisizione, nel caso che il crimine prevedesse una pena corporale, comportava la cattura e la carcerazione delle persone accusate.
Nella Repubblica di Genova subito dopo la massima autorità del Doge, che durava in carica due anni, agiva il Senato, o Collegio dei Governatori, di dodici membri, ed era al Senato che competeva l’esame dei processi svoltisi davanti alla Rota Criminale istituita nel 1576.
La Rota Criminale era composta da tre giudici: un Presidente (Pretore o Podestà) e due Uditori, i quali restavano in carica tre anni e dovevano essere forestieri; a questi si affiancava un Fiscale, giudice istruttore che curava anche l’esecuzione dei verdetti e la riscossione delle ammende: con una delibera approvata dal Maggior Consiglio di Genova del 1660 si stabilì che gli stipendi pagati ai componenti della Rota Criminale (Podestà, Auditori e Avvocato Fiscale) fossero pagati da quanti commettevano i delitti anche se dal pagamento erano esonerati coloro che soddisfacevano la pena col subire la pena delle trazioni di corda
(vedi qui in appendice la trascrizione del documento n. 2 relativo alla Rota Criminale, SASV, "Capitaneato di Ventimiglia" , filza 165).
Nei confronti delle giurisdizioni locali la Rota aveva compiti di controllo e quasi sempre di ratifica del voto del Giusdicente Locale quando i reati prevedevano la condanna a morte, la mutilazione degli arti o la galera , cioè la condanna a remare incatenati sulle galee: in conseguenza di ciò Il Giusdicente, prima di emettere la sentenza definitiva, doveva sempre attendere la risposta della Rota Criminale). Nella vita quotidiana del seicento l’uso delle armi era alquanto diffuso come ancora scrive Giusy Ingenito. Molti erano i soldati di stanza nel forte S. Paolo e nelle altre postazioni di guardia di Ventimiglia e tanti erano anche i soldati appartenenti alle Compagnie Scelte: del resto la città intemelia che era un sito strategico aveva dovuto affrontare sul suo territorio una buona parte degli scontri con il Piemonte Sabaudo in piena espansione nelle due guerre del 1625 e poi del 1672.
I soldati originariamente mercenari ingaggiati per la guerra, furono poi assoldati da Compagnie Scelte e prestavano servizio sotto la direzione di un Capitano che a sua volta era sottoposto ad un Colonnell, anche se. spesso erano anche al servizio di famiglie private nobili: i lunghi tempi d'ozio, alternati a momenti di tensione, l'assenza di affetti di famiglia, il sentirsi estranei in un corpo demico poco permeabile finiva talora per renderli degli emarginati alla ricerca di ogni forma possibile di evasione dall'apatia.
Sotto il profilo amministrativo e burocratico ogni soldato risultava iscritto nel Rollo dè Scelti , secondo il grado posseduto e gli veniva rilasciato un foglietto ( fede ) su cui il Capitano attestava l’appartenenza alla Compagnia, l’iscrizione a ruolo e vari dati identificativi : nome, cognome, età, città d’origine (vedi SASV, "Capitaneato di Ventimiglia" , fil 164).
Le risse erano all’ordine del giorno e cosa più grave, considerando la frequenza con cui venivano emanate ed aggiornate le varie leggi sull’argomento, anche i reati più gravi come l’ omicidio non erano rari come si evince dalla Legge per gl’homicidii ferite, et altro del 1668 (in SASV, "Capitaneato di Ventimiglia" , filza, 191). La prevenzione e repressione di qualsivoglia forma di violenza era considerata una delle priorità per il mantenimento dell’ordine pubblico sì che moltissime risultavano le Gride , rinnovate ogni cinque o dieci anni , promulgate dal Doge, dai Governatori e Procuratori della Serenissima Repubblica di Genova in materia di proibizione di armi come si legge ad esempio nella Prohibitione delli Archibuggi da ruota e da focile 1658 (SASV, Capitaneato di Ventimiglia, filza 163): leggi comunque anche gli articoli dal numero 36 di ALCUNE RIFORME O CAPITOLI CIRCA LA GIUSTIZIA CRIMINALE DI GENOVA [approvato il 30 giugno 1587 in "Minor Consiglio"> nuovamente discusso e revisionato fino alla definita approvazione del "Maggior Consiglio al settembre del 1587"> 42 art. per 10 pp., "Dal Palazzo Ducale à 27 di Novembre 1587/ Nella Cancelleria del N. Gio. Giacomo Merello Cancelliere e Segretario/ pubblicati e banditi a suono di tromba in Banchi di Genova "da Gieronimo Bavastro cintraco publico" > in folio a stampa senza indicatori tipografici] ed ancora le RIFORME PER LA GIUSTIZIA CRIMINALE DI GENOVA (1605) in particolare da ultimo capoverso di pagina 8.
Contestualmente vari erano anche i proclami e le gride emanati dalle autorità locali contenenti divieti e relative sanzioni per coloro che disubbidivano.
Del resto le risse scoppiavano con frequenza, anche per futili motivi, in occasione di feste da ballo (vedi qui in appendice documento n. 3) di altre ricorrenze festose come, ad esempio, il carnevale: e di frequente, anche per l'effetto inebriante del buon vino locale, abusando della loro carica di moschettieri, cavalieri, archibugieri, ecc., i miliziani, a gruppetti e magari ebbri, facevano scorribande notturne, armati di archibugi od altre armi in cerca di un qualsiasi pretesto per dissipare l'abituale noia con qualche rissa.
In un proclama del 1619 si legge: “Presentendo noi da più persone quali ci hanno fatto lamenti che molti sotto pretesto di esser moschettierij vanno tutta la notte per la città armati con spada nuda e pugnali alcuni di archibuggio et altr’armi.......et a truppe di quatro ò cinque insieme fanno dell’incontri a chi li capita et incontro con pericolo di qualche scandalo notabile et vilipendio della Giustitia, al che volendo noi quanto possiamo procedere per le presenti note gride et proibitioni ordiniamo et comandiamo che nell’avvenire non sia persona alcuna di che stato conditione si sia ò moschettieri ò non moschettieri che passato le tre hore di notte non vadino atornio con armi di sorte alcuna ne in truppa o più di due ò tre insieme ma ciascheduno vadi per li fatti propri col suo lume come si conviene al viver pubblico et quanto altrimenti ritrovandosi armati come sopra senza lume incorrenano si come vogliamo incorrano nella pena di lire venticinque e perdita arma applicata per tre parti l’una al fisco et l’altra all’accusatore et l’altra a noi, et secondo la qualità dell’ armi in pena maggiore conforme alla prohibitione in dette armi et sott’ogni altra pena arbitraria al Ser.mo Senato et à finche alcuno non ne possi et voglia pretenderne ignoranza vogliamo le presenti nostre siano publicate conforme al solito et affisse al pallazo civico.
Dato in Vintimiglia dal pallazo di nostra solita habitatione li 30 novembre .
Gio Batta Simoni Notaio e Cancelliere (vedi: SASV, "Capitaneato di Ventimiglia" , cart. 105).
A risposta di ciò con una nota spedita dalla Signoria in Genova si invita il Capitano di Ventimiglia a proibire l’uso delle armi anche a coloro che ne hanno licenza: a tutti coloro che hanno licenza di portar armi per codesta città doppo le doe hore di notte, la qual prohibitione vogliamo che habbia a durare per tutto il giorno di Carnovale prossimo, e chi contrafara passate le dette doe hore li castigherete nonostante li privilegi e concessioni loro...../In Genova li 11 decembris 1619 (vedi in SASV, "Capitaneato di Ventimiglia" , cart. 105.).
***** Nel contesto delle tensioni di siffatto complesso demico, sociale ed esistenziale è quindi da porre il
Processo contro Gio Batta Bacigalupo appunto scoperto nella documentazione di questa intemelia Sezione d'Archivio di Stato: una sfida a duello, monomachia, singolar tenzone , che dir si voglia, la quale coinvolgeva, come tutto il diritto intermedio, sia la "legge dello Stato" che la "legge della Chiesa" (2).
I fatti accadono a Ventimiglia nella notte tra il primo e il due settembre 1624.
Tobia Pallavicino, Capitano della città di Ventimiglia per la Repubblica di Genova, a notitia forma un procedimento di inquisizione contro Gio Batta Bacigalupo di Domenico del luogo di Chiavari, in servizio a Ventimiglia nella Compagnia scelta del Capitano Michelangelo Cella. L’accusa è quella di aver sfidato a duello con poco timor di Iddio e della giustizia l’alfiere Gio Batta Bacigalupo, suo cugino, dopo una rissa avvenuta nella notte e di cui son risultati partecipi anche i fratelli dell'inquisito, tali Gio Carlo e Nicolao Bacigalupo.
Sunteggiando la vicenda si evince che, dopo le pregresse violenze, i fratelli Bacigalupo hanno percorso in lungo e largo, e con gran strepito, la città, nemmeno curandosi d'occultare i minacciosi archibugi da ruota da usare a scapito del nominato alfiere. Visto il fallimento dell'iniziativa Gio Batta Bacigalupo, infine, invia all' alfiere una lettera di sfida a duello, accompagnata da un guanto come caparra, dandogli facoltà di scegliere il luogo e il tipo di arma.
La lettera o cartello di sfida ( SASV, Capitanato di Ventimiglia, filza 128, "Lettera di sfida, 1624" ) così esplicitamente detta: Al sig. Alfiere Gio:Batta Bacigalupo
Essendome hier sera stato battuto alla porta da V. S. ritrovandomi di gia in letto subito mi levai, è inteso che era d’essa che pretendeva sodisfatione di non so che da me, venni in piassa credendome ivi trovarla mi trasferi sino à casa sua per darle iustificatione di me secondo conveniva all’honor mio onde mi fu risposto da un non sò chi che era in letto e dormeva, non sapendo questa mattina dove trovarla mi è parso bene scrivergli questi quattro righe con farle intendere che io sono pronto à dar sodisfatione a lei, e a qualsivoglia persona che la pertenda da me, lasciando l’eletione tanto de l’armi come del loco dove haverà à seguire et con questa le mando la capparra che come persona che non vorra far torto all’honor suo crederò sara ritenuta è in fede
Io Gio:Batta Bacigalupo quondam Dominico.
Il processo si svolge alla presenza del Capitano, di un notaio con funzioni di cancelliere e di uno scrivano e il tutto si conclude nell’arco di quasi due mesi all'uso celere sancito dalla normativa giudiziale seicentesca genovese.
L’autorità giusdicente convoca per rendere testimonianza, sotto pena di scudi quattro nel caso non si presentino, il Capitano Francesco de Negro Tomasino, l’alfiere Marco Abbo, i signori Andrea Peverello e Stefano Donetta in quanto persone informate dei fatti.
Il giorno 2 settembre del medesimo anno viene interrogato, con solita formula di giuramento, il Capitano Francesco de Negro Tomasino il quale fa verbalizzare la seguente deposizione:
e vero che questa notte passata ho visto che il sig. Gio:batta Bacigalupo in compagnia delli signori Gio: Carlo, et Nicolao andavano per la presente Città con loro archibuggi da rota ogn ‘uno de loro et per quanto intesi andavano cercando l’alfiere, Bacigalupo del Capitano Miche’langelo Cella, et che esso (…?) poi visto questo per oviare che non seguisse rumore li accompagnai in casa loro et poi ho inteso questa mattina che detto Sig. Gio:batta bacigalupo fratello di detti Signori Gio: Carlo, et Nicolao, ha mandato uno guanto con una lettera di disfida al detto alfiere quale lettera et guanto presento a Vs. Illustr.e d’ordine delli Notaio Sig. Gio Bernardo Giustiano Cancellierio anco nostri altri soldati che così mi ha inteso che me faria dare detto guanto et lettera et così l’ho presentata a VS quale guanto e ancho significato, con detta lettera e con sigillo in fondo sigillata e sottoscritta Io gio:batta bacigalupo q. Dominici et hoc est.
Il guanto viene tenuto in custodia dal Cancelliere della Curia ed allegato agli atti quale prova testimoniale.
Lo stesso giorno viene quindi interrogato Marco Abbo che, a domanda, risponde: è vero che heri sera venne uno che chiese alla porta delli Sig.ri gio Carlo, Nicolao, et Gio:Batta Bacigalupi miei patroni, quale mi disse mentre mi affaciai alla finestra se vi era il detto Sig. Gio:Batta et io li risposi che era in letto, et esso all’hora disse dirle che, è, uno infame se non cala dal letto che l’aspetto, et esso sentendo queste parole si vesti come anche fecce li Sig.ri Gio: Carlo, et Nicolao suoi fratelli et presero li loro archibuggi da rota et uscirono fuori, con detti armi, et poi ritornarono a casa d’ivi a un pesso et questo,è, quanto seguì .
Ancora interrogato lo stesso personaggio poi risponde: è vero che questa mattina sono andato d’ordine del sig. Gio Batta con una lettera, et uno guanto a casa del detto S. Alfiere Bacigalupo.
Nel contesto dell'interrogatorio di seguito poi afferma : non so cosa vuol dire detta lettera ne detto guanto. Sollo ho fatto quanto mi e statto ordinato da detto mio patrone ed ancora, rispondendo ad una precisa domanda, ribatte: quello che picho alla porta io non lo conobbi ma questa mattina ho inteso che era l’alfiere del Capitano Michel ‘Angelo Cella ; alla fine comunica gli estremi della sua maggiore età, con tutte le connesse responsabilità penali, dicendo: sono d’ettà de anni 25.
A questo punto, il Capitano ritiene il detto Marco Abbo colpevole perché latore consapevole della lettera all’alfiere Bacigalupo e lo condanna alla pena di scuti quingenti : inoltre condanna i fratelli Bacigalupo alla stessa pena di scudi 500.
Viene quindi sottoposto ad interrogatorio anche Antonio Peverello il quale, a domanda, risponde: e vero che questa notte come che io ero guardia ho visto passare qua……la lobbia li signori Gio: Carlo, Nicolao, et Gio: Batta fratelli Bacigalupi con li loro archibugi da rota et li conobbi perché era chiaro di luna .
Il giorno 3 del mese di settembre detto anno il Capitano di Ventimiglia viene a conoscenza che detto Gio Batta Bacigalupo detiene presso la sua abitazione un’arma proibita e quindi ordina al suo famelio di requisirla; ma la perquisizione risulta negativa in quanto nessuna arma si rinviene nell’abitazione.
Viene allora interrogato Stefano Donetta fu Antonio il quale, a domanda, risponde:
e vero che vidi passare dalla presente piassa tre con l’archibuggi da rota et non conobbi chi fussero quelli che li havessero perché vi era in di mezzo il Capitano Francesco Denegro Thomasini et altri soldati et se li havessi conosciuti lo direi et hoc est.
Martedì 10 settembre il Capitano forma quindi processo contro Gio Batta, Gio Carlo e Nicolao fratelli Bacigalupo alla forma dell’Inquisizione, giudicandoli rei secondo i Capitoli Criminali e fa notificare la decisione dal suo Cancelliere ai diretti interessati.
L'11 settembre viene ancora sentito Marco Abbo il quale, a domanda, risponde: è vero che portai una lettera con un guanto che mi diede il sig. Gio:Batta Bacigalupo fratello del sig. Carlo et Nicolao così quali stano in casa al s. Alfiere et non sapevo quello che in essa lettera fosse ne cosa volesse significare detto guanto se vedessi il guanto lo conoscerei la lettera per non saper leggere ne scrivere non la conoscerei altrimenti . Gli viene allora mostrato il guanto e l'interrogato risponde: il guanto è l’istesso che li portai che mi diede il detto sig. Gio:Batta ma la lettera non so se sia essa per non saper legere ne scrivere et hoc est.
Il 12 settembre l'Alfiere Gio: Batta Bacigalupo viene finalmente esaminato, alla presenza del Capitano Michelangelo Cella, e così risponde: e vero che li giorni passati essendo statto trattenuto in casa nostra di ordine delli sig.ri capitani… mi fu portato una lettera di disfida con sigillo et uno guanto da parte del sig. Gio:Batta Bacigalupo q. Dominico et se li vederò li conoscerò . Gli vengono allora prontamente mostrati sia la lettera che il guanto e l' interrogato risponde senza esitare: Signore la lettera et il guanto sono li stessi che mi portarono in casa da uno giovane di Vintimiglia di ordine di detto Sig. Gio:Batta Bacigalupo de Dominico mio cugino.
Il 16 ottobre 1624 il Capitano, considerati gli atti, emette una sentenza di condanna, avverso lo sfidante Gio Batta Bacigalupo, che detta: ha in prima dichiarato per il convenuto in detto processo contumace et come contumace l’ha condanato in pena di morte et all’ultimo suplicio et in exilio perpetuo da questo serenissimo dominio et confisca de beni , con solita cominatione se comparirà ……nella forma della giustizia fra giorni quindici dal giorno della pubblicatione………della sententia in pubblico luogo…:
condanna inoltre i di lui fratelli Gio Carlo e Nicolao al pagamento di una ammenda per detenzione di armi proibite. La sentenza viene quindi inoltrata alla Rota Criminale di Genova per l’approvazione con la seguente motivazione: Si e fabbricato l’incluso processo contro Gio: Batta Bacigalupo del q. Dominici del luogo di Chiavari et per la causa contenuta in esso sono di parere in contumacia condennato come si conviene sotto il predetto processo sotto benigna corretione di V.Ill.mi a quali priego l’espeditimi et li baccio le mani.... . Di seguito poi si legge: Alligato mando a VV. SS. Ser.me uno processo contro di Gio: Batta Bacigalupo de Dominico del luogo di Chiavari per haver sfidato a duello con lettera guanto Gio: Gatta Bacigalupo alfiere del Cap. Michel’angelo Cella ........ alla m.ca rota accio possi vedere il fatto et il voto in esso ho fatto e li faccio riverenza pregandoli dal Cielo ogni colmo di felicità/ di Vintimiglia li 16 ottobre 1624 .
La Rota Criminale risponde dopo una settimana circa: In causa processus formati contra Joannem Baptam Bacigalupum de Dominici approbat votum, addito ad formam statuti, de duellis ex auditoris Rotali die XXI octobris 1624.
Franciscus Seta Pretore
Augustus Hab …….Auditore
Bernardus ……Auditore
Iulius Castellinus Notaio.
A questo punto il Capitano, ottenuta l’approvazione della Rota Criminale, notifica gli atti al Gio Batta Bacigalupo, e il 29 ottobre pubblica la sentenza: In nomine Domini Amen Prefatus M. D. Capitaneus sedens… visis omni mod… consideratis anti… videlicet quia sentenziando et pronunziando condemnavit et condemnat eius Io Batta Bacigalupum… secondo il voto della rota criminale.
NOTE 1 - Il capo sui "Duelli" ("LV, libro II") degli "Statuti genovesi" (Gli Statuti genovesi, del 1556 editi però nel 1557, sono ora pubblicati tradotti e commentati da B.Durante e F.Zara, sotto il titolo di Figliastri di Dio/ "a coda d'una bestia tratto" , pei tipi della cooperS di Ventimiglia, ed. dicembre, 1996) ha molti punti in comune colla condanna dei Duelli pubblici registrata nel G. Alberigo, Decisioni dei Concili Ecumenici, ed. UTET, Torino, 1978, pp.745-746) dei Deliberati del Concilio di Trento , pur se in ambito ecclesiastico si insiste sull' origine demoniaca della pratica e la pena pei duellanti non comporta la morte sul patibolo ma scomunica, proscrizione e confisca dei beni mentre in chiave criminalistica, oltre al suppizio estremo dei rei e la menzione critica avverso le vendette private mascherate sotto forma di duelli, si allude ancor più apertamente all'esasperazione della criminale usanza, ricorrendo in sovrappiù da metà Cinquecento non solo l'abuso di messaggeri di morte, padrini e consiglieri di vario tipo (funzione condannata colla scomunica, la proscrizione e l'infamia perpetua nel capitolo conciliare) ma anche l'innovazione di sfide lanciate per via di lettere se non addirittura con cartelli ed iscrizioni offensive di sfida disposte in mostra per le pubbliche vie all'attenzione non solo dei contendenti ma anche della morbosità popolare. Il duello , di cui esistevano tra l'altro molte codificazioni letterarie, anche per gesuitico accondiscendimento, non venne estirpato mai del tutto nel genovesato: visto anche quanto ancora detta 150 anni dopo questo capitolo criminale, il "capo 13" della "Parte I" degli "Istituti Militari" dello Zignago: Chi sfiderà, chiamerà a duello sarà condannato per due anni in Galera, e chi chiamato vi anderà, vi sarà condannato per un anno e seguendo per cagione di detto duello qualche ferita, saranno condannati alla Galera in vita, tanto il Ferito che il Feritore, e se succedesse la morte d'uno di quelli due, quello che sopravviverà, se cadrà nelle forze della Giustizia, sarà archibugiato (fucilato) = L. M. Zignago, Instituti et Ordini militari da osservarsi dalle truppe della Serenissima Repubblica di Genova approvati da' Seren. Collegi per loro Decreto de' 22 Genaro 1722 , in Genova, per G.B.Casamara, Nella Piazza delle cinque lampade, 1722). Peraltro la Chiesa di Roma si trovò quasi subito nella condizione di vanificare un espediente escogitato per aggirare la proibizione contro i duelli del Concilio di Trento , ricorrendo i contendenti al Duello privato cioè svolto fuori della codificazione storica (per esempio senza la pubblica dichiarazione di sfida o l'uso di padrini) attraverso la Bolla pontificia di Gregorio XIII, Ad tollendum detestabilem del Dicembre 1582 [Gregorius XIII, Ad tollendum, in Bullarum privilegiorum ac diplomatum Romanorum Pontificum amplissima collectio IV.4 (Romae 1747), 1582, p. 19b] con cui le pene della scomunica, della proscrizione e della confisca dei beni venivano estese a quanti ricorrevano a tal forma di Duello , come ad eventuali complici ed a quanti concedessero uno spazio di loro proprietà per duellare . Il grande teologo Martin Del Rio al Lib. IV, Cap.IV, Quest. IV, Sez. II (della sua opera Sei libri di dispute sulla magia (I ed. del 1593) definita miracol del secol nostro per la completezza, la profondità e la varia erudizione ) ritiene però che i Principi o comunque lo Stato non siano tenuti a reprimere od impedire i Duelli tra Pagani visto che i dettati del Concilio di Trento condannano questa forma di contesa solo nel caso che avvenga tra Cristiani: argomento comunque sottile e controverso per ogni Stato, che non poteva sul suo territorio far simili distinzioni, come si intuisce leggendo il "capitolo sui Duelli" degli Statuti Criminali Genovesi che giova qui riprodurre: Capitolo LV (55)/ Dei duelli/ Duello è espressione d'origine latina ed equivale grossomodo, pei significati, al concetto espresso dall'etimo bellum, sempre latino, corrispondente del nostro bellare, che vale guerreggiare. A tal punto prevalse e tuttora predomina l'uso di chiamar "duello" l'azione, più propriamente definibile "monomachia" in greco e "singolar tenzone" in italiano, che noi, estensori di questi capitoli criminali, stabiliamo, perché non sovvengano controversie sul nome e quindi su ciò che esso rappresenta e significa, d'usar sempre e soltanto, nei succitati ordinamenti, la parola "duello". E' malauguratamente fin troppo nota, e ben oltre quanto occorra rammentare, la rovina che l'abuso di duelli va suscitando nelle città e fra le genti. Volendo estirpare dal tessuto sociale dello Stato questa autentica peste apportatrice di note sciagure, sentenziamo che nessun suddito della Repubblica né alcun straniero possano provocare a duello chicchessia entro i confini del dominio genovese, valendosi, come oggi è divenuto usuale, di lettere di sfida, di padrini e messi o di qualche altro espediente ancora: resti di conseguenza ben chiaro il divieto di sfidare qualsivoglia individuo col mezzo nuovo d'appiccare o far affiggere manifesti in piazza o per le pubbliche vie, senza esplicita concessione dell'Illustrissimo Doge o dei Magnifici Procuratori. Chiunque abbia infranto questo capitolo o norma paghi colla morte per impiccagione ed abbia a patire la confisca dei beni. Allo stesso modo, qualora abbia fatta tenzone con un suddito genovese o con un forestiero pur dimorante nel nostro Dominio, resti sempre condannato chi si sia recato da altro Principe o Senato per ottenere con suppliche luogo e grazia di duellare, a prescindere dall'eventualità che il colpevole abbia o meno in seguito ottenuta quella particolare facoltà o concessione. Così di seguito si proceda alla punizione di chi abbia controbattuto alle provocazioni, di cui sopra si è scritto, o comunque abbia comunicato alla controparte la propria accettazione del duello e non si risparmi chi, per la stessa motivazione, si sia valso, firmandoli o presentandoli di persona se non addirittura affiggendoli in pubblico, di lettere e manifesti di sfida e lo stesso valga avverso quanti ad altrui titolo abbiano sfidato chicchessia a duello o tenzone oppure abbiano prestato aiuto e fornito pareri su cose pertinenti l'arte vietata del singolar certame: detengano inoltre pari responsabilità di fronte alla legge criminale tutti quelli che, sfidato a tal vergogna e delitto qualcuno, senza far conto se sia Genovese, suddito o forestiero residente nella capitale od in terre del suo Dominio, abbiano da sé o con altrui complicità, affisso qualsiasi immagine, generalmente dipinta su quadro o tela che possa alludere con offese alla sfida ed al duello. Nel caso poi che qualcuno di questi delinquenti non sia stato assicurato alla giustizia resti sempre condannato a morte in qualità di contumace, risultando altresì bandito come esule dallo Stato. 2 - Alla ventimigliese Biblioteca Aprosiana si conserva : Marozzo, Achille, "Opera noua de Achille Marozzo bolognese, mastro generale de l'arte de l'armi , Stampata in Venetia : per Gioanne Padouano : ad instantia de Marchior Sessa, 1550 - Descrizione fisica: [8], 148 c. : ill. ; 4° - Note Generali: Rom. - Segn.: [croce]8 A-S8 T4 - Iniziali e cornice xil. - Numeri: Impronta - pol- o.s- e,la inin (3) 1550 (R) - Altre ocalizzazioni: Biblioteca comunale dell'Archiginnasio - Bologna - Biblioteca Provinciale Nicola Bernardini - Lecce - Biblioteca universitaria - Pisa - Biblioteca universitaria Alessandrina - Roma.
A prescindere dalla ragione puramente biblioteconomica la presenza di questo famoso libro sull'arte del duellare "cavallerescamente" con armi bianche nella biblioteca allestita da un frate dipendeva dal fatto che Aprosio, quale Vicario della Santa Inquisizione per la Diocesi intemelia, non poteva non tenersi aggiornato sull'usanza del Duello che attraverso gli anni, ed a causa della presenza di tanti armigeri ed avventurieri, era divenuta, nonostante i provvedimenti delle autorità (formulati sulla base di PROFONDE INTERPRETAZIONI GIURIDICHE OBBLIGATE PERO' A SOPPESARE MOLTEPLICI ECCEZIONI) una piaga storica peraltro, come detto, da tempo già condannata oltre che dallo Stato anche dalla Chiesa di Roma: ed anche se Aprosio non era all'epoca in Ventimiglia a titolo esemplificativo giunge assai pertinente questo bel saggio curato da Giusy Ingenito su un processo tenutosi proprio in Ventimiglia, sede degli eventi, ***********in merito ad una sfida a duello***********. Il portare ed usare armi (ed ormai non solo armi bianche ma anche armi da fuoco) al di là della specificità del duello (di cui non mancano IMPORTANTI RISCONTRI PER IL TERRITORIO DI VENTIMIGLIA) comportava però problematiche giurisdizionali tra Stato e Chiesa di non poco conto.
Da un lato con ripetute integrazioni degli STATUTI CRIMINALI del 1556 (in particolare relativamente alla piaga dei
predoni da strada espressione di rapinatori catalogati fra i ladri) la Signoria di Genova in merito alla gestione della giustizia era intervenuta via via con varie RIFORME ED AGGIUNTE [basti qui rammentare
ALCUNE RIFORME O CAPITOLI CIRCA LA GIUSTIZIA CRIMINALE DI GENOVA del 30 giugno 1587 -in cui si dissertava anche di armi proibite-
e poco dopo con le RIFORME PER LA GIUSTIZIA CRIMINALE DI GENOVA del 1605 parimenti comprendenti norme ben precise sulla messa al bando di alcuni tipi di armi]: : contestualmente però, a Genova come altrove, il potere statale mirava a salvaguardare la propria autonomia dalle intromissioni dei GRANDI INQUISITORI ECCLESIASTICI che anziché seguire la prassi della richiesta del BRACCIO SECOLARE (sancita già dagli STATUTI del 1556 = LIBRO II - DELLE PENE = Capitolo LXXXIX - Sulla necessità di perseguitare tutti gli eretici) per espletare le loro funzioni od anche al fine di salvaguardare la propria incolumità talora si avvalevano autonomamente di PROPRIE ARMI E DI SERVITORI ARMATI.
La situazione fu spesso alla radice di rotture diplomatiche tra stati e Chiesa Romana e lo stesso Aprosio come Vicario dell'Inquisizione per la diocesi intemelia dovette esperimentare la complessità di tal conflitto di competenza. Nel XVII secolo la VIOLENZA LOCALE e la VIOLENZA POPOLANA costituivano un fenomeno gravissimo che, pur sotto forme diverse, coinvolgeva con GENOVA tutti gli STATI ITALIANI: per i religiosi (specie per i PREDICATORI DI QUARESIMALI, costretti a muoversi spesso, coi compensi ricevuti per le loro prestazioni, in VIAGGI LUNGO STRADE DESERTE E MAI FACILI, TALORA SEGNATE DA BETTOLE E MALFAMATI RITROVI) era spesso un PERIGLIOSO AZZARDO spesso in bilico tra un numero crescente di BANDITI e DISERTORI ed ancora MARCHIATI DI INFAMIA (INFAMI) sempre disposti a tutto. Ed, in contestazione con le norme statali seppur in forza di sottili giustificazioni, la CHIESA ROMANA come si legge alla
VOCE = ARMA (e in dettaglio ai punti 9 - 10 - 11 - 12 del Sommario che rimandano alla trattazione testuale) della BIBLIOTHECA CANONICA... del francescano L. Ferraris allestì un sistema di motivazioni sul fatto che gli uomini di chiesa potessero portare o non delle armi [dalla stessa opera vedi la VOCE = CLERICUS all'ARTICOLO VI].
Naturalmente accanto alle motivazioni morali e spirituali nel caso del duello o monomachia risiedevano ragioni pratiche: per esempio lo sconfitto specie se era un militare costituiva un carico per lo Stato e comunque abbisognava di un intervento assistenziale che parimenti finiva per essere a carico dello Stato atteso che il medico che lo avrebbe curato quasi sempre avrebbe dovuto essere un medico vulnerario cioè un medico militare, che finiva per essere sottratto seppur momentaneamente ai suoi obblighi con le guarnigioni.
Gli interventi chirurgici, però, in assenza di forme efficienti di anestesia [sempre che - anche al fine di evitare problemi con autorità varie e giustizia - non si ricorresse segretamente a piante allucinogene o soporifere col rischio però di cadere, assieme a chi ne faceva uso come parecchi ciarlatani o mercanti di meraviglie (più esattamente il medico empirico Fioravanti per i ciarlatani dediti alle terapie, da lui non sempre ritenuti incompetenti, usa il termine canta in banco) o ad altrettante medichesse e/o curatrici esperte d'erbe nell'accusa di stregoneria] erano dolorosissimi e demolitori e, ricorrendosi di frequente all'amputazione, si poneva la necessità di ricorrere all'uso di protesi che lasciavano il paziente in condizioni miserrime e certamente lo escludevano da qualsiasi impiego di ordine militare.
Sotto questo profilo erano certamente superiori le tecniche chirurgiche dell'antichità classica "figlie" di una celebre quanto antica tradizione diagnostica e terapeutica: il principale ostacolo era la mancanza di una valida anestesia, ma per quanto gli attuali principi di antisepsi e asepsi non fossero noti, l'uso della purificazione al fuoco degli strumenti, la ricerca di igiene sempre scrupolosamente prescritta ecc. rendevano le complicazioni settiche un evento che aveva discrete probabilità di non verificarsi: tutto questo ancora nel XVII secolo era mediamente poco praticato e questo spiega la gran quantità di infezioni e di ascessi da curare di cui parlano medici empirici come il Bovio ed il Fioravanti. Sempre in epoca classica, quando l'anestesia non era fondamentale, sono attestate operazioni di un certo livello, come quelle intracraniche.
Le dissertazioni sull'argomento dei "Duelli" da parte di teologi, ecclesiastici ed inquisitori del Sant'Ufficio continuarono a lungo ma il duello, in ogni contrada d'Italia e comunque dell'ecumene cattolico, fu sempre inteso quale un malum come si evince ancora ai primi del '700 dall' Examen Ecclesiasticum di Felice Potestà, canonista e giurista palermitano, nella sezione Examen Confessariorum, tomo I, parte II, n. 2130, alla voce Duellum = argomento poi sublimato in pieno XVIII sec. da Sant’Alfonso Maria de Liguori nel suo celeberrimo Homo Apostolicus, specificatamente nel Tractatus VIII. De quinto praecepto decalogi, Caput III. De duello et bello laddove leggesi: PUNCTUM I. De Duello./27. Duellum est pugna inter duos aut plures ex condicto praecedenti de loco, die et armis. Duellum non est licitum nec ad veritatem indagandam, nec ad lites finiendas, nec ad obiecti criminis purgationem, et tanto minus ad timiditatis notam (ut permittebat propos. 2. damnata ab Alex. 7.), aut ignominiae vitandam, licet tantum apparenter fieret; ita tenendum cum communi contra alios. Et advertendae hic sunt 5, propositiones novissime damnatae a Benedicto XIV. 10. nov. anni 1752. in Bulla Detestabilem, et sunt sequentes: I. Vir militaris qui nisi offerat et acceptet duellum tanquam formidolosus, timidus, abiectus, et ad officia militaria ineptus haberetur, indeque officio quo se suosque sustentat privaretur, vel promotionis alias sibi debitae ac promeritae spe perpetuo carere deberet, culpa et poena vacaret, sive offerat, sive acceptet duellum. II. Excusari possunt etiam honoris tuendi vel humanae vilipensionis vitandae gratia, duellum acceptantes, vel ad illud provocantes, quando certo sciunt pugnam non esse sequuturam, utpote ab aliis impediendam. III. Non incurrit ecclesiasticas poenas contra duellantes latas dux vel officialis militiae acceptans duellum ex gravi metu amissionis famae, vel officii. IV. Licitum est in statu hominis naturali acceptare et offerre duellum ad servandus cum honore fortunas, quando [176 ]alio remedio eorum iactura propulsari nequit. V. Asserta licentia pro statu naturali applicari etiam potest statui civitatis male ordinatae, in qua nimirum vel negligentia, vel malitia magistratus, iustitia aperte denegatur./ 28. In duobus casibus tantum duellum erit licitum. I. Ad finiendum bellum commune, et iustum cum minori damno, aut, ut aliqui dicunt, ad servandum honorem exercitus ab inimicis oppressi. II. Si inimicus determinatus est ad te occidendum, et ex sua petulantia tibi arma concedit ad te defendendum; nam tunc pugnatio tua est vera defensio, modo pugnam aufugere non valeas. Tres vero sunt poenae quas Trident. (Sess. 25. c. 19. de ref.) imposuit duellatoribus: 1. Infamia cum bonorum confiscatione. 2. Privatio sepulturae ecclesiasticae quoad eos qui in conflictu decedunt, licet Sacramentis ante mortem praemuniti fuerint, ut ex cit. Bulla Detestabilem. 3. Excommunicatio papalis ipso facto incurrenda tam ab ipsis duellatoribus, quam a patrinis, consilium dantibus (modo consilium fuerit efficax, ut notat Elbel), et insuper a praebentibus favorem aut locum, et etiam a spectatoribus, non quidem ab illis qui per transitum ibi reperiuntur, sed ab iis qui data opera assistunt, ut explicavit Gregorius XIII, in Bulla Ad tollendum, sic dicens, ex composito spectantes; imo addunt communiter Tourn. Salmant. Elbel, et alii, comprehendi proprie solos socios duellatorum, aut eos qui sua praesentia illos ad pugnam acuunt. Quocirca advertenda sunt 1. praedictas poenas, et excommunicationem non incurri, nisi ob duellum stricte acceptum, nempe praemeditatum (ut dictum est) cum designatione loci, temporis, et armorum (licet caeteroquin sine patrinis conficeretur, ut declaravit Gregorius XIII. in cit. Bulla); secus vero si pugna ex inopinato accideret, licet gladiatores ex rixae impetu ad locum magis aptum se reciperent, uti communiter dd. 2. Quamquam ex verbis Concilii videatur requiri, ut duellum sit secutum, tamen ex Bulla Clementis VIII. Illius vice, etiamsi duellum non sequitur, tam principales quam omnes alii cooperantes excommunicationem incurrere. Notandum 3. si duellum non est notorium nec ad forum deductum, Episcopos posse absolvere a praefata excommunicatione ex cap. 6. Liceat, Trident. sess. 24.; sed non iam Regulares, nisi Romae, et extra Italiam .
Achille Marozzo (1484 - 1553), maestro di scherma, fu forse il celebre esponente Scuola Bolognese di scherma. La famiglia, di San Giovanni in Persiceto in provincia di Bologna, prese dimora nel capoluogo verso il 1385. Achille vide la luce da Lodovico ed ebbe qual maestro Guido Antonio de Luca. Tra i condiscepoli conobbe i due futuri condottieri Giovanni dalle Bande Nere (Giovanni de' Medici) e Guido Rangoni. Presso la sede in via Riva di Reno avuta in concessione dai frati della chiesa dei Santi Naborre e Felice insegnò scherma: qui peraltro aveva preso dimora gestendo un filatoio per la seta. Da vecchio nel 1536 pubblicò un trattato di scherma dal titolo Opera Nova Chiamata Duello, O Vero Fiore dell'Armi de Singulari Abattimenti Offensivi, & Diffensivi. Nel lavoro sono citati i nomi di due suoi allievi quali Giovanni Batttista dai Letti e Giacomo Crafter d'Agusta. Tale opera considerato la maggiore composizione schermistica del XVI secolo, sono descritti diversi tipi di combattimento per il duello a due: con spada, spada e pugnale, spada e cappa, spada e rotella, spada e targone, spada e targa, pugnale, pugnale e cappa, ronca, partigiana, partigiana e rotella, picca, spiedo. grossa parte del lavoro è però dedicata al combattimento di spada e brocchiero, spada a due mani e tecniche di autodifesa da disarmato contro armato di pugnale. Vi si trova pure una parte significativa trattante il regolamento del duello in sé. Al figlio Sebastiano l'autore si rivolge nell'introduzione: quasi certamente presso di lui si formarono maestri di scherma quali Giovanni delle Agocchie, Angelo Vizzani o del Montone e il tedesco Joakin Mayer. L'opera fu ristampata numerose volte nel corso degli anni.
Probabilmente la versione definitiva e più completa è l'opera postuma (dal titolo solo apparentemente mutato: all'interno ricompare il titolo vero Opera noua de Achille Marozzo bolognese, mastro generale de larte de larmi) che sul frontespizio reca la dicitura Arte dell'armi di Achille Marozzo bolognese. Ricorretto, et ornato di nuoue figure in rame In Venetia : appresso Antonio Pinargenti, 1568 (In Venetia, 1569) - 12, 194, 2 p. : front. e ill. calcogr. ; 4° [ Localizzazioni: Biblioteca comunale dell'Archiginnasio - Bologna - Biblioteca civica - Mondovi' - CN - Biblioteca comunale Labronica Francesco Domenico Guerrazzi. Sezione dei Bottini dell'olio - Livorno - LI - 1 esempl. - Biblioteca nazionale Braidense - Milano - Biblioteca Estense Universitaria - Modena - Biblioteca centrale della Regione siciliana - Palermo - Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II - Roma - Biblioteca sportiva nazionale - Roma - Biblioteca Reale - Torino].
Il lavoro (corredato di indici tematici) si divide nel libri I - II - III - IV - V che, dal lato giuridico, è il più interessante, specie per un giusdicente come l'Aprosio, atteso che tratta i vari cerimoniali del duello e la sua o meno liceità.
L'Editio Princeps invece fu: Marozzo, Achille, Opera noua de Achille Marozzo bolognese, maestro generale de larte de larmi, Mutinae : in aedibus venerabilis d. Antonii Bergolae sacerdotis ac ciuis Mutin., 23. Idus Maii 1536, - 8, 148 c. : ill. ; 4° - Sul verso del front.: Opera noua chiamata duello, o vero fiore dell'armi - Rom. - Segn.: 8 A-S8 T4 - Numeri: Impronta - po&a e-o. e.la tain (3) 1536 (R) - Localizzazioni: Biblioteca nazionale centrale - Firenze - Biblioteca Palatina - Parma - Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II - Roma - Biblioteca sportiva nazionale - Roma
Altre edizioni ancora sono: Marozzo, Achille, opera noua de Achille Marozzo bolognese, maestro generale, de l'arte de l'armi, 1568, (In Venetia : appresso gli heredi di Marchio Sessa, 1568). - 131 c. : ill. ; 4 - Impronta - o.i- reen a.ua pera (3) 1568 (A) - Localizzazioni: Biblioteca nazionale centrale - Firenze - Biblioteca nazionale Braidense - Milano
Marozzo, Achille, Opera noua de Achille Marozzo bolognese, maestro generale, de l'arte de l'armi Pubblicazione: , [1540?], [4], 131 c. : ill. ; 4° - Probabilmente stampato a Modena nel 1540, cfr. Sander, v. 2, p. 750, n.4384 - Front. in cornice xilogr. - Segn.: 2*4 A-Q8 R4(-R4) - Numerosi errori nella numerazione delle c., tra i quali: c. 4 numerata 11, c. 6 numerata 14 - Impronta - o.lo ren- a.ua race (3) 0000 (Q) - Localizzazioni: Biblioteca Estense Universitaria - Modena - Biblioteca Reale - Torino.
i testi di questo sito sono stati scritti dal Prof. Bartolomeo Durante
Si precisa inoltre in particolare che questo lavoro non è a scopo commerciale ma di divulgazione culturale e per uso documentario - Professor Bartolomeo Durante