cultura barocca
informatizzazione a c. di B. Durante = CLICCA QUI E LEGGI PIU' ESTESO ARTICOLO DI APPROFONDIMENTO STESO A FINE DELL'IMMAGINE DELLA PAGINA ANTIQUARIA ANCHE, OLTRE CHE A VARI ARGOMENTI, IN MERITO A TEOFILO RAINALDO/RAYNAUDI NEI TESTI ANTICHI A VOLTE SCRITTO ANCHE RAINAUDO, RINALDO O RINALDI = TEOFILO RAYNAUD (1587-1663), GESUITA DI SOSPELLO CON TESTI ANTICHI DIGITALIZZATI : NEL PROSEGUIO DELLA LETTURA SI POTRA' COMPULSARE LA LETTERA DEL GRANDE INQUISITORE DI GENOVA MICHELE PIO PASSI DAL BOSCO AD APROSIO SULLO STORNO DELL'OPERA DALL'ORIGINALE INSERZIONE NELL'"INDICE DEI LIBRI PROIBITI" VISTE LE CORREZIONI APPORTATE E LA CONCESSIONE DELL' IMPRIMATUR.

FOTO ANTIQUARIA GIA' IN ARCHIVIO PRIVATO -leggendo di seguito vedi come ludovico antonio muratori si rifece in merito al tema della QUARANTENA ALL'OPERA DI PADRE MAURIZIO DA TOLONE

Ludovico Antonio Muratori nel suo trattatello Del governo della peste (Modena, per i tipi del Soliani, 1714) [in cui affronta temi fondamentali per la lotta contro la PESTE quali i possibili RIMEDI, la terribile questione degli UNTORI, l'uso di AMULETI protettivi, il comportamento che debbano tenere i RELIGIOSI e soprattutto i PRELATI] al capitolo ESPORRE LA VITA PER GLI APPESTATI scrisse riprendendndo certe considerazioni di Teofilo Rinaldo (Rainaldo) di Sospello già corrispondente dell'intemelio erudito G. Lanteri:
"Ma il più eccellente atto di carità che possa farsi in tempo di peste verso il prossimo, e per conseguenza verso Dio, da cui vien ricevuta come fatta a sè ogni opera di misericordia che esercitiamo verso il prossimo nostro, purché accompagnata da essa carità e dall'intenzione di piacere allo stesso Dio, si è l'esporre la propria vita in soccorso degli appestati, e spezialmente nei lazzeretti, o per medicargli, governargli e cibargli, o per aiutar l'anime loro alla pazienza, ovvero al passaggio dell'eternità coi sacramenti e con altri mezzi della pietà e carità cristiana. Certo che di un sommo merito presso Dio si è ancora l'attendere con indefesso studio alla preservazione dei sani e del povero popolo e il sovvenir loro con aiuti temporali o spirituali; e massimamente perché ciò non può farsi d'ordinario senza esporsi a molti rischi di lasciarvi un giorno o l'altro la vita. Ma il vedere allora persone non solamente ecclesiastiche, ma ancora secolari, che volontariamente, e senza obbligo, rinunziano a tutte le speranze della vita terrena e, lasciata al Signore la cura della lor sorte, corrono piene d'allegrezza e di coraggio, e accese del fuoco celeste della carità, al governo e soccorso o temporale o spirituale degl'infetti: questo è uno spettacolo degno degli occhi del paradiso e che supera tutti gli altri, e che non si può abbastanza lodare da noi, ma si saprà ben premiare infinitamente ed eternamente da Dio.
Quando anche la morte accada in così eroico e santo ministero [scrive Ludovico Antonio Muratori], il morire, quantunque non sia propriamente un martirio, pure è una similitudine o spezie di martirio, siccome il p. Teofilo Rinaldo mostra in un suo trattato. E S. Bernardino coll'autorità delle scritture pruova in una delle sue prediche quaresimali che se un assassino, un ladro o altro più gran peccatore corresse in soccorso di qualche appestato abbandonato dai suoi e in pericolo di perdere per la disperazione il corpo e l'anima, a fine di confortarlo e di aiutarlo a salvarsi, mosso a ciò da vera carità cristiana, cioè da un eroico amore di Dio, e costui in sì pio ufizio venisse colpito dalla peste e tanto improvvisamente morisse che non potesse pensare a' suoi peccati, nè confessarsi, egli si salverebbe, mercè di quell'atto coraggioso di santissima carità, tanto commendata da Cristo e contenente in sè virtualmente anche la contrizione".

Teofilo Rinaldo = Teofilo Raynaud (1587-1663), gesuita di Sospello, fu autore di molte opere (vedi A. DE BACKER, Bibliotheque de la Compagnie de Jesus, coll. 1518-50) fra le quali De martyrio per pestem ad martyrium improprium et proprium vulgare comparatum (Lione 1630), messa all' Indice dei Libri Proibiti nel 1648 e tolta da esso nel 1664 dopo alcune correzioni: le sue riflessioni vennero recuperate e condivise da Ludovico Antonio Muratori nel suo trattatello Del governo della peste.

LUDOVICO ANTONIO MURATORI fu storico, erudito, letterato (Vignola 1672-Modena 1750).
Sacerdote, ricercatore di una verità storica basata solo sui documenti e quindi non tacque i torti della Chiesa.
Fu inoltre il primo studioso ad avere una visione unitaria della Storia d'Italia.
Lasciò tre opere monumentali: Rerum Italicarum scriptores (1723-1751), raccolta delle fonti della Storia d'Italia dal VI al XVI sec.; Antiquitates Italicae Medii Aevi (1738-1743, ripubblicate dal 1751 al 1755 in italiano col titolo Dissertazione sopra le antichità italiane), in cui il Muratori prende in esame questioni di Storia medievale, dando così impulso agli studi su questo periodo; Annali d'Italia dal principio dell'era volgare al 1749 (1744-1749).

Ludovico Antonio Muratori nel suo trattatello Del governo della peste (Modena, per i tipi del Soliani, 1714) al capitolo [IL RIMEDIO PIU' EFFICACE, LA QUARANTENA]
"Ma ponghiamo che il morbo, superato ogni riparo ed entrato in una terra o città, non si possa colle vie suddette" [fin qui il Muratori ha parlato dei mezzi più efficaci per tenere lontano il contagio, come le fedi di sanità, le guardie speciali, le limitazioni al commercio, i bandi, l' isolamento degli infetti] "soffocare e che oggi uno, domani due e tre, e in luoghi diversi della città, comincino a morir di peste, in guisa che resti solo il gran pensiero di salvare da così fiero incendio i più che si potranno del popolo: allora e necessario che i magistrati con una pronta e ben pesata consultazione propongano l'ultimo de' rimedi, che son per accennare. Non e gia esso da mettere in disputa, essendo efficacissimo e tale che si dee, purché si possa, tosto abbracciarlo; ma solo e da esaminare, se si abbiano, o possano aversi mezzi per mettere in opera questo ripiego, il qual pure fu insegnato e praticato in vari luoghi con felicissimo successo dal p. Maurizio da Tolone cappuccino, siccome egli narra nel suo trattato politico della peste, opera molto utile, stampata in Genova l'anno 1661" [ trattato . . . anno I66I: Narratio compendiosa de Fratribus Capuccinis qui in civitate Genuensi et suburbiis peste infectos ministraverunt anno I656 et pro fratribus suis animas posuerunt tradotto e pubblicato presso Giovanni Callizzano in Genova nel 1661 dal cappuccino Ambrogio da Genova].
"Consiste esso nel mettere in quarantena almeno tutto il basso popolo della città, dal quale, e non dai nobili e dalle persone comode, la sperienza fa troppo spesso vedere che il male e facilmente disseminato e introdotto anche nelle case de' più guardinghi. Cioè, dopo avere ordinato che chi vorrà in termine di alcuni giorni partirsi dalla città possa farlo, si ha assolutamente da rinserrare nelle proprie lor case il volgo e i poveri tutti sotto pena della vita, con interdire ogni commerzio fra una casa e l'altra e con provveder poscia al rinserrati bisognosi il vitto ed altro che occorra. Scorgendosi dipoi infetta alcuna d'esse case, quella colle robe sue, e non l'altre, si dovrà purgar coi profumi, avendo buona cura delle persone che o ivi restano o si conducono altrove siccome sospette del male. Che se anche nell'ordine più civile de' cittadini fosse penetrata la peste, i medesimi si dovrebbono obbligare a questa medicinal prigionia.
Un gran bene si ricava da tal rinserramento, perché così vien tolta l' occasion di conversare e di vicendevolmente imbrattarsi . I magistrati più facilmente esercitano le loro incumbenze, e si schivano le ladrerie costumate in simili tempi, ne' quali la vil plebe si fa lecito ogni disordine, e coll'appropriarsi le robe degli appestati tira addosso a se la morte e la comunica ad altri. Basta il tempo di quaranta giorni per recidere e soffocare il male, mentre chi e sano si fa conoscer tale dopo tal pruova; e chi tale non era o avea in casa i semi del male o manca di vita o guarisce, ed espurgandosi immediatamente la sua casa e robe, si taglia la via al male di passare ad infettar altre persone e case. Il sequestrar la plebe minuta nella forma suddetta, può conservar la vita a loro e a tante altre migliaia di persone, le quali, per conversare, potrebbono contrarre un morbo che si facilmente si comunica pel commerzio o delle persone o delle robe. Dopo i suddetti quaranta giorni, scorgendosi che non muore alcuno di peste ed espurgati i luoghi e le robe o sospette o infette, si può rimettere come prima il commerzio interno della terra o città.
Il punto sta, come dissi, in consultar bene se vi sia nerbo per provveder di vitto il popolo rinchiuso. Ma si osservi essere di spesa ed impegno maggiore il mantenimento delle capanne e dei lazzeretti, i quali in fine non difendono la gente dalla morte, anzi talvolta servono a far morire chi non sarebbe morto o ad affrettargli i1 passaggio, e certamente non sono atti ad estinguere il male già penetrato ed allignato in una città. Né la spesa di tal quarantena si troverà insoffribile alle prove, sì perché moltissimi cittadini si saran già ritirati alle ville, e di quei che restano in città buona parte sarà provveduta di vettovaglie, senza che i magistrati abbiano da pensare al loro sostentamento. Io per me non so precisamente come riesca e fosse per riuscire in pratica, e massimamente in città grandi, questo rimedio, che in teorica mi comparisce sommamente utile, per non dir anche necessario. Ma so bene che nelle due pestilenze che tanto afflissero la popolata città di Milano negli anni 1576 e 1630, dopo esser morte tante migliaia di persone, non cessando i1 male, altro rimedio non si trovo per vederne il fine (e si noti bene) che quello di mettere in quarantena, cioè di rinserrar nelle sue case per quaranta di, tutto il popolo sì nobile come ignobile, a riserva de' magistrati, ministri e serventi necessari: dopo di che resto oppressa e cesso affatto la pertinace mortalità, mantenuta fin allora dal commercio de' cittadini e spezialmente da quello della plebe e de' poveri. Ma se in fine bisogna ridursi alla quarantena, o sia a tal rinserramento, per salvare le reliquie del popolo fin allora preservate dal comune incendio, quanto più gioverà e sarà convenevole, quando mai si possa, il tentare lo stesso rimedio e scampo sui principi, per vedere di mettere in salvo la cittadinanza tutta? Per compimento di ciò aggiugnerò le parole stesse del soprammentovato cappuccino il quale, dopo aver consigliato e commendato questo ripiego, come atto a purgare dal contagio qualsivoglia città, così conchiude: La lunga pratica ed isperienza e quella che m'ha insegnato non potersi dare rimedio né più facile, né più efficace, né più presentaneo di questo.

Ludovico Antonio Muratori nel suo trattatello Del governo della peste (Modena, per i tipi del Soliani, 1714) al capitolo [GLI UNTORI]
"Hanno in oltre i magistrati da invigilare, non solamente per impedire che il morbo non si comunichi e dilati inavvertentemente per lo commerzio delle persone e robe infette o sospette, ma ancora per vedere che non sia esso accresciuto dalla malizia e diabolica ingordigia degli scellerati. E cosa che fa orrore, anzi può comparir tosto come incredibile, cioè che si dieno delle pesti suscitate o dilatate per via di veleni, polveri ed unzioni pestifere. Alcuni negano che ciò sia avvenuto mai o possa avvenire, ma superiori in numero e più accreditati son quelli che asseriscono e citano i casi. Raccontano essi che nella peste di Casale del 1536 furono giustiziati molti, i quali in numero di 40 s'erano congiurati per moltiplicare la mortalità con unguenti e polveri pestilenziali. Niccolo Polo scrive succeduto lo stesso in Franchestein l'anno 1606. Ercole Sassonia e il celebre nostro Falloppia attestano il medesimo della peste de' lor tempi ed altri narrano fatta la medesima scelleraggine in diverse pesti di Genevra, Parma, Padova ed altre città. Non importa ch'io citi gli autori. Mattia Untzero nel lib. I, cap. 17 del suo Trattato della peste ne ha raccolto molti. Ma nessun caso è più rinomato di quel di Milano, ove nel contagio del 1630 furono prese parecchie persone che confessarono un sì enorme delitto e furono aspramente giustiziate. Ne esiste ivi tuttavia (e l'ho veduta anch'io) la funesta memoria nella Colonna infame, posta ov'era la casa di quegl'inumani carnefici. Il perché grande attenzion ci vuole affinché non si rtrovassero più simili esecrande scene.
Tuttavia avvertano i saggi magistrati e lettori che una tal vigilanza non degenerasse poi in superstizione e in timori ed apprensioni spropositate, dalle quali potrebbono poi nascere altri non men gravi disordini. Il punto è di particolare importanza, e però bisogna pesar bene e tenersi a mente anche le seguenti riflessioni. Egli è facilissimo secondo me che sia accaduto spesso, ed accada spessissimo anche di nuovo ne' tempi di peste, ciò che veggiamo tante volte accadere ne' mali straordinari o non molto usitati delle donne e de' fanciulli del volgo, mentre con gran leggerezza s'attribuiscono quasi tutti a malie e stregherie e ad invasioni di spiriti cattivi, giungendosi anche talvolta non solo a sospettare, ma a credere streghe certe povere donne che altro delitto non hanno se non quel d'essere vecchie. Molto più senza paragone possono occorrere tali sospetti nell'inusitato ed orrendo spettacolo d'una pestilenza, al mirar tante morti e tanti, che di sani che erano, restano all'improvviso estinti. Basta che un solo cominci a sparger voce, benché dubbiosa e timida, che quella misera e non mai più veduta carneficina proceda da stregherie, unguenti o polveri di veleno artefatto, affinché tal voce prenda gambe e corpo, e diventi una indubitatissima verità in mente dei più del popolo. Il solo aver letto o inteso a dire che si danno e si son date dilatazioni di peste per empia e crudel manifattura d'alcuni, e bastante a cagionare in molti una fiera apprensione della stessa, e che l'apprensione gagliarda ad ogni picciol romore o osservazione passi in ferma credenza. In que' tempi sì calamitosi, ne' quali per attestato di chi n'ha veduta la pruova non si può dire quanto sia il terrore del popolo, passando esso insino a farne molti stolidi ed insensati, egli e troppo facile il concepir simili spaventi, e che alla fantasia sembri poi di trovar qua e là fatucchierie, e unti i martelli delle porte o le panche o i vasi dell'acqua santa nelle chiese, e sparse polveri pestifere e simili altre visioni.
Da questo stravolgimento di fantasmi nasce poi un'incredibil miseria di molti, che temono la morte anche dove non l'hanno da temere, e alcuni si muoiono anche senza peste, di pura apprensione e spavento. Anzi si giunge ad imprigionar delle persone e per forza di tormenti a cavar loro di bocca la confession di delitti ch'eglino forse non avranno mai commesso, con far poi di loro un miserabile scempio sopra i pubblici patiboli. Questa malattia dell'immaginazione è vecchia in altri simili casi, ed è curioso quanto abbiamo dal famoso arcivescovo e scrittore Agobardo, il quale nel libro De grandine et tonitruis, al cap. xv, narra che, insorta a' suoi tempi, cioè nell'anno 810, la mortalità de' buoi, quale ancor noi abbiam provata, si ficcò nella mente a molti che tal disavventura procedesse da Grimoaldo, duca di Benevento, il quale, per esser nemico di Carlo Magno imperadore, avesse mandato in Francia persone a spargere polveri micidiali pe' campi, monti e prati. Furono presi non pochi su questo sospetto ed ancora alcuni trucidati; e il mirabile era che taluno confessava questo delitto, senza mai porsi mente come potesse formarsi una polvere sì giudiziosa e discreta che desse la morte al soli buoi e non agli altri animali. Così Agobardo. Ma i tormenti (torno a dirlo) hanno il segreto di far confessare misfatti anche agl'innocenti. Ho trovato gente savia in Milano, che avea buone relazioni dai lor maggiori e non era molto persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti velenosi, i quali si dissero sparsi per quella città e fecero tanto strepito nella peste del 1630. Anzi, ho osservato esserne stato in dubbio lo stesso cardinal Federigo Borromeo, arcivescovo allora di Milano, personaggio di santa ed immortal memoria e gran filosofo ancora, il qual fece insigni azioni durante quella pestilenza, e poté parlarne con fondamento. Fu anche più orrida la scena nella terribilissima peste del 1348 poiché, sparsa voce che alcuni, e spezialmente i Giudei, fossero quegli che con vari veleni e malie avessero introdotta e dilatata quella incredibile mortalità, furono trucidati molti cristiani e moltissime poi migliaia d'Ebrei per la Francia e per la Germania, di modo che lo stesso Clemente VII fu mosso dalla carità cristiana a soccorrere e proteggere con varie bolle quella povera gente, al certo non rea di questo delitto. Bisogna dunque andar adagio in profferir sentenze e in avvalorar sospetti allorché si spargono tali voci. Nel presente anno 1713 abbiam co' nostri occhi veduto nella nostra città che romori, che paure e cavate di sangue abbia cagionato la voce disseminata che si mirasse di notte una fantasima per le contrade. Oh molti la videro, ma loro la fece vedere la sola precedente apprensione e paura, la quale e un'industriosa dipintrice, massimamente in tempo di notte. Quel solo che si può credere senza veruna difficultà essere avvenuto qualche volta, e poter di nuovo avvenire, si è che qualche scellerato possa in tali occasioni valersi di veleni o d'unguenti pestiferi per incamminare all'altro mondo qualche particolare e determinata persona, la quale non avesse gran fretta o voglia d'andarvi, per isperanza di cogliere i loro danari o saccheggiar le loro case: il che avrà anche dato motivo a più larghi e generali sospetti, e al che si dee ben por mente, invigilando spezialmente alla condotta de' beccamorti, gente ingordissima, e di chi volesse fare il medico e il cerusico allora senza le legittime licenze ed approvazioni della sua abilità e fedeltà. Per altro, che si dieno congiure di gente la quale con simili unti e veleni si metta a far morire il popolo alla rinfusa, lo non m'indurrei a crederlo se non dopo una grande evidenza".

Ludovico Antonio Muratori nel suo trattatello Del governo della peste (Modena, per i tipi del Soliani, 1714) al capitolo [GLI AMULETI]
"Prima però d'inoltrarmi nel gran caos de' preservativi farmaceutici, che si prendono in bocca o per bocca, mi sbrigherò dagli esterni. Che non fa l'intenso natural desiderio che ha ognuno di conservare la sanità e la vita in mezzo ai gran pericoli? Esso ha anche inventato non pochi antidoti esteriori ed amuleti contra la peste, con dar loro o buonamente o maliziosamente un credito e spaccio considerabile. Gli astrologi e i superstiziosi hanno inventato molti sigilli, medaglie, bullettini, anelli, carte e simili cose con figure, segni, numeri e parole anche sacre. Alcuni, e massimamente in Germania, esaltano e danno per un preservativo maraviglioso il portare in tempi di contagio sospeso al collo un rospo seccato o bruciato e ridotto in cenere e chiuso in un sacchetto. Altri nella stessa guisa consigliano il portare argento vivo ben chiuso e sigillato con cera in una noce o in una penna da scrivere, e ne raccontano mirabili effetti. Per parere d'altri lo smeraldo, lo zaffiro, il giacinto ed altre gemme appese al collo, in maniera che tocchino l'esterna region del cuore, atteriscono talmente la peste che non osa accostarsi. Più celebri degli altri sono gli amuleti d'arsenico cristallino puro, o varie paste e composizioni di polveri ed erbe, nelle quali entra arsenico o sublimato, da portar chiuse in uno zendado o sacchetto di tela vicino al cuore. Anche i nostri medici italiani, e fra essi alcuni de' primi, commendano forte questo segreto, citando massimamente l'esempio di papa Adriano VII che dicono preservato dal contagio per mezzo d'una lamina d'arsenico, portata sopra la region del cuore, e sostenendo che l'un veleno resiste all'altro.
Io lascio altri simili curiosi antidoti e mi ristringo a dire che i precetti della religione infallibile son chiari contra que' rimedi che vengono manipolati dalla superstizione, essendo non men delitto presso a Dio che follia presso gli uomini il prestar fede a tali invenzioni. E per conto degli amuleti velenosi, creduti contraveleni, i più saggi tra i medici li vogliono sbanditi dall'uso; e ciò perché la ragione fa intendere che o non sono atti a giovare, come si crede, o possono anche nuocere. In fatti la sperienza adduce vari casi funesti, che qui non importa riferire, avendo essi avvelenato chi veniva a sudare e chi per mezzo loro si credeva sicuro dall'altro veleno, e non avendo essi difeso tanti altri dalla peste, che pur deridevano i medici con portar simili amuleti. Io per me non oserei affatto riprovare l'uso di questi pretesi rimedi, ma dirò bene che non saprei fidarmene molto. E se talun rispondesse che per attestato d'insigni medici hanno essi giovato e giovano nella peste, se gli vuol rispondere essere più che difficile in molti casi (e possono in ciò prendere abbaglio anche le prime teste) il decidere qual cagione o rimedio abbia precisamente preservato dal male o salvato dalla morte un uomo. Ne' tempi di contagio può essere che si sieno preservati molti, portanti simili velenosi amuleti, non per cagione d'essi amuleti, ma per altre circostanze, ed anche talora per la gran fede che appunto aveano riposta in essi, e che li riempieva d'intrepidezza e coraggio, due già da noi dichiarati buoni preservativi contra la pestilenza. All'incontro, sapendosi che rospi, ragni, arsenici, argenti vivi ed altri di questi almeno sospetti ritrovamenti sono stati avvertiti per inutili ne' medesimi contagi da altri più attenti e men creduli medici, egli è difficile che la sperienza di questi abbia preso abbaglio; e perciò bisogna qui andar cauto per non cadere nel cerretanismo, da cui pur troppo non sanno talvolta tenersi lontani alcuni ancora che fanno strepito nella medicina".

Ludovico Antonio Muratori nel suo trattatello Del governo della peste (Modena, per i tipi del Soliani, 1714) al capitolo [L'ESEMPIO DEL VESCOVO]
"Quindi rivolga il prelato il suo studio a levar dagli animi del popolo la costernazione e la stupidezza che spesso allora assalisce quasi tutti ed impedisce non solamente l'esercizio de' vari ufizi, ma eziandio la buona cura di se stesso, non che degli altri. Anch'egli esorterà ciascuno alla costanza e al coraggio, dandone prima, per quanto potrà, egli medesimo esempio a tutti. A ciò contribuirebbe assaissimo s'egli potesse di quando in quando lasciarsi vedere per le contrade e piazze della città a cavallo, come hanno costumato in simili occasioni i cardinali S. Carlo e Federigo Borromei, arcivescovi di Milano d'immortale memoria, Gianfrancesco di Sales, vescovo di Genevra, successore e fratello dignissimo di S. Francesco, e tanti altri cardinali, vescovi e principi. Non si può dire che consolazione e che gioia inspiri ne' cuori o mesti o abbattuti della gente il poter mirare allora dalle porte o dalle finestre o pure a cielo aperto il volto del loro sacro pastore o di chi li governa. Quell'osservare che personaggi tanto loro superiori non paventano la peste è una grande scuola di non paventare anche agli altri; e quel chiarirsi che i governatori dati loro da Dio si prendono in persona tanta cura d'essi e si sforzano di rimediare alle loro miserie e pericoli, accresce a tutti il conforto e il coraggio per non disperar da lì innanzi e per sopportare con più tolleranza gl'incomodi di quella misera congiuntura. Utilissimo pertanto al popolo, e glorioso ai vescovi e ad altri superiori, sarebbe allora il portarsi sino alle porte dei lazzeretti e il passeggiar talvolta per le contrade, informandosi eglino stessi dello stato degl'infermi e di qualunque altro bisognoso, con ascoltargli o dalle finestre o in una convenevole lontananza, tenendo poi registro di tutto per soccorrere, come si potrà il meglio, alle necessità da cadauno. A questo atto d'eroica fortezza e d'insigne carità cristiana certo è che terranno dietro le benedizioni non meno di tutto il popolo che di Dio. Qualora non sia loro possibile il farlo, almeno mandino i lor primari ministri o altre accreditate persone, che in loro nome s'informino e confortino e rincorino chi ne ha bisogno, soccorrendo poi con gli effetti alle indigenze altrui".

GASTALDI, Girolamo(ART.DI Marcella Marsili in "Dizionario Biografico degli Italia" - Volume 52 (1999)] - Figlio di Pietro Giovanni, facoltoso giureconsulto, e di Nicolosa Calvo, nacque a Taggia, nella Riviera di Ponente, nel 1616. Ammalatosi di vaiolo in età infantile, rimase con il volto deturpato e cieco da un occhio. La famiglia fu ascritta nel 1655 alla nobiltà di Genova nella persona di Benedetto, marchese di Serra Nuova e di Carovigno, fratello del Gastaldi. Si addottorò in giurisprudenza nello Studio pisano il 21 marzo 1638, quindi si recò a Roma per intraprendere la carriera ecclesiastica; qui entrò al servizio dei marchesi Costaguti, nobile famiglia ligure, tra i cui componenti si annoverava Vincenzo, eletto cardinale nel 1643, per conto del quale il G. si recò in Spagna per una missione di carattere finanziario. >Grazie all'appoggio dei Costaguti il GASTALDI poté ottenere la prelatura e, all'elezione di Alessandro VII, nell'aprile 1655, fu aggregato ai referendari delle due Segnature, poi nominato commissario generale dei Lazzaretti (1656-57). Al primo sospetto che la peste, già diffusa a Napoli, stesse per contagiare Roma, il pontefice Alessandro VII delegò la congregazione sopra la Sanità alla sorveglianza e custodia di Roma e affidò al G., commissario generale di Sanità per lo Stato della Chiesa, la direzione dei provvedimenti necessari alla difesa della città. I provvedimenti adottati per contenere e vincere l'epidemia sono riportati nel "Tractatus de avertenda et profliganda peste politico-legalis" (Bononiae 1684), iniziato dal G. mentre era arcivescovo di Benevento e stampato allorché Gorizia fu colpita dalla peste, per essere utilizzato come manuale igienico-sanitario. Il G., che non aveva esperienze medico-sanitarie, si avvalse dello studio degli scritti sulle pestilenze di Alessandro Massaria, Gian Filippo Ingrassia e Ludovico Settala. Accreditato fra le migliori opere di medicina del tempo (Haller), nella prima parte il Tractatus spiega i metodi usati per contenere la diffusione della peste: proibizione di accesso in città a quanti provenivano dai paesi infetti o sospetti; istituzione e obbligo di presentazione delle patenti di sanità; sorveglianza delle porte di Roma - ne erano rimaste aperte solo otto - e delle vie d'accesso; ispezione delle mercanzie e delle vettovaglie; istituzione di luoghi di isolamento dei sospetti (case contumaciali) e di luoghi di disinfezione dei nuovi arrivati; istituzione dei lazzaretti e reclutamento forzato del personale medico e di servizio. Il trattato descrive inoltre il ritorno alla normalità, dalla riapertura delle comunicazioni con i paesi e le città limitrofe alla chiusura graduale dei lazzaretti e delle case contumaciali, fino alla decisione di permettere la partecipazione del popolo alle feste civili. Queste notizie sono corredate da una completa raccolta dei bandi, grida ed editti del biennio dell'epidemia. La seconda parte del "Tractatus", di tema più strettamente clinico, descrive la fenomenologia della peste bubbonica, le sue vires contagii, i singoli segni del morbo. Circa le origini del contagio il G., pur rifiutando le influenze astrali, non si sottrae alla suggestione della letteratura medica del tempo, che poneva tra le cause della malattia le azioni magiche di demoni, streghe e untori; descrive i presagi che allora si riteneva precedessero l'epidemia e lo stile di vita e, addirittura, gli amuleti ritenuti utili per allontanare il morbo. ice L'opera è corredata di tavole rappresentanti piante di ospedali, lazzaretti e case contumaciali, le difese utilizzate nelle diverse parti della città, lo sbarramento del Tevere e dei suoi sbocchi al mare, i mezzi per sterilizzare e disinfettare lettere e panni infetti. ca La stima conquistata nel biennio 1656-57 valse al G. importanti riconoscimenti e incarichi: il pontefice Alessandro VII lo nominò chierico di Camera (1662); con Clemente IX fu commissario generale delle Armi (1668-69) e tesoriere generale, carica che gli fu rinnovata nel 1670 sotto Clemente X. Il 12 giugno 1673 fu creato cardinale da Clemente X e il 17 luglio gli fu assegnato il titolo di S. Pudenziana, titolo che il successore, Innocenzo XI, mutò in S. Anastasia (13 sett. 1677). Lo stesso pontefice lo nominò nel maggio 1678 legato a latere a Bologna e due anni dopo, il 19 febbr. 1680, arcivescovo di Benevento, ove il G. però non poté risiedere per la carica che contemporaneamente lo tratteneva a Bologna (l'arcivescovado fu amministrato da un vicario, il vescovo di Ischia Girolamo Rocca). Nel 1684, prima dello scadere della legazione, dinanzi all'inasprirsi dei contrasti tra il G. e settori dell'aristocrazia bolognese, Innocenzo XI lo richiamò a Roma e lo fece camerario del S. Collegio con nomina 15 genn. 1685. A Roma il G., che aveva in animo di ritirarsi nella sua arcidiocesi, fu trattenuto da una grave malattia, che lo portò alla morte l'8 apr. 1685. Fu sepolto nella chiesa di S. Maria dei Miracoli, alla cui erezione, iniziata da C. Rainaldi e compiuta da G.L. Bernini, aveva contribuito (parallelamente al finanziamento della chiesa gemella di S. Maria in Monte Santo) allorché, dopo la morte di Alessandro VII, erano stati interrotti i lavori di costruzione. Due monumenti funebri, opera di A. Raggi, ricordano il G. e il fratello Benedetto. Lasciò il suo patrimonio all'Ospizio apostolico dei convertendi. et Fonti e Bibl.: Roma, Biblioteca dell'Accademia nazionale dei Lincei e Corsiniana, Corsiniano 171, cc. 157-161 ("Discorso di monsignor G "Arch. segreto Vaticano, "Ospizio de' convertendi", bb. 42-149 (Eredità del card. G.); M. Giustiniani, "Gli scrittori liguri", I, Roma 1667, pp. 436 s.; A. Oldoino, "Athenaeum Ligusticum, seu Syllabus scriptorum Ligurum", Perusiae 1680, p. 245; P.P. Arrighi, "Memorie istoriche della vita del venerabile servo di Dio Pierfrancesco Scarampi", Roma 1746, p. 129; A. von Haller, "Bibliotheca medicinae practicae", III, Basileae 1779, p. 617; P.S. Pallavicino, "Della vita di Alessandro VII", II, Prato 1840, p. 99; G.P. Pescetto, "Biografia medica ligure", I, Genova 1846, p. 286; S. Fraschetti, "Il Bernini la sua vita, la sua opera, il suo tempo", Milano 1900, pp. 399-401; L. von Pastor, "Storia dei papi", XIV, 2, Roma 1932, pp. 4, 6, 26; P. Capparoni, "La difesa di Roma contro la peste del 1656-57 come risulta dall'opera del cardinale G. "ractatus de avertenda et profliganda peste".

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