"Perchè sentiamo pullular qualche germoglio di eresia in la città nostra, che ha avuto origine da qualche indiscreto o mal cauto predicatore, esendo l'inquisitore ordinario persona ancora da bene, fredda e alquanto timida, e per avventura anche più, per essere forestiere. Desiderosi provvedere al nascente male, et estinguerlo, et resecarlo prima chel pigli vigore e per mantenere incorrotta questa fede, che da che l'habbiam presa mai si è violata in la nostra città, vogliam pregare la vostra Reverenda paternità si contenti darci per inquisitore il venerabile fra Stefano Usodimare dell'ordine d'osservanza il quale, per la bontà di vita, costumi, dottrina et autorità et per pratica che come cittadino ha delli humori delle terra giudichemo molto atto et idoneo in questo ufficio.
Il rescritto, di duce e governatori, di Genova risale al 14 aprile 1539 e costituisce un documento importante: fu spedito al vicario generale dei predicatori di Genova il 14 aprile 1539 e, come afferma Romano Canosa, cui molto debbono queste pagine, rappresenta la prima attestazione dell'individuazione di qualche fermento ereticale in una città come la capitale della Repubblica Ligure mediamente rimasta ai margini del fiammeggiante contrasto fra Riforma e Controriforma.
Ai giorni nostri, forse per gli atti pubblici di pentimento di un pontefice grande come Giovanni Paolo II, intorno al tema dell'Inquisizione solitamente interpretato in modo orrorifico (anche per una certa illuministica enfatizzazione) si è prodotta una scuola, una linea forse di dimensionamento talora cauto (A. Prosperi) talora esasperato (R. Cammilleri): anche un personaggio come U. Eco, a riguardo della fiugura di Bernardo Guy nel suo romanzo, "Il nome della rosa" è stato tirato in ballo, quale un esacerbatore polemico di responsabilità inquisoriali ecclesiastiche.
In poche parole si è disquisito tanto ma manipolando i dati a proprio uso e consumo: qualcuno, ma non tanti, ha avuto almeno l'acutezza di distinguere tra le varie forme di Inquisizione che si sono succedute nei secoli.
Certamente l' Inquisizione spagnola ha conosciuto, anche per i suoi peculiari collegamenti con il potere regio iberico, livelli di superiore efferatezza ma il fenomeno ha conosciuto, in modi seppur variati, espressioni significative in tutto l'ecumene della cattolicità: senza nulla togliere alla pesantezza spesso obliata delle persecuzioni attuate da riformati e protestanti non si può sottacere nè dimensionare senza esser tacciabili di parzialità la portata reale di un fenomeno di cui un moderno pontefice romano si è "scusato" agli occhi del mondo, sfruttando tutta la potenza dei supporti mediatici.
E' inutile comunque dissentire, spesso sembrerebbe un parlare a sordi: in questo nonstro momento storico si può solo cercare di vagliare per quanto possibile, a fronte della dispersione di tanti documenti, la portata del fenomeno, ma non trasformarlo da "leggenda nera" in "leggenda rosea": sarebbe culturalmente e scientificamente disonesto.
Angelico Aprosio, che fu Vicario della Santa Inquisizione, e che pur tuttavia non ebbe affatto l'animo del carnefice, visse con timore e tremore questa esperienza ma la visse e vi si adeguò in un contesto in cui la sostanza basilare era il conseguimento della pubblica catarsi in un contesto di contrapposizioni e parallelamente di interazioni fra Stato e Chiesa il cui scopo finale era il controllo della coscienza delle masse esercitato attraverso l'ostentazione delle pubbliche pene dei reprobi e quindi l'ammonimento a non replicarne i reati per non patirne i castighi.
Qualche studioso (soprattutto R. Cammilleri) ha pervicacemente cercato di dimostrare che l'intervento inquisitoriale ecclesiastico era quasi sempre una forma estrema per calmierare la reale portata delle responsabilità del potere istituzionale laico: non è cosa del tutto falsa (in Liguria nel caso del "processo alle presunte streghe di Triora" Stato genovese ed Inquisizione hanno gareggiato nel perpetrare nefandezze, ed è difficile arguire chi abbia raggiunto i vertici estremi) ma neppure è argomento assolutamente vero.
I governanti di Genova ambivano alla presenza di Ebrei nel loro porto, specie quando la crisi diventava via via più corposa per la piazza commerciale di Genova: ma il Padre Inquisitore di Genova ancora nel XVII secolo si appellò ad ogni risorsa pur di perseguire e condannare Ebrei che andavano fuggendo dai paesi iberici in cui eran diventati vittime quasi sacrificali.
Come prima detto è però arduo gestire un dibattito in cui l'ideologia di parte sempra prevalere sul buon senso della ragione: meglio conviene attenersi ai fatti e notare come l'Inquisizione (di per sè discutibile, come ogni forma di controllo sulle coscienze e sulle credenze, religiose e non) si sia spesso inasprita per lo scontro temporale contro l'istituzione statale.
Mediamente si raccoglie per queste riflessioni il caso di Paolo Sarpi e del contesto veneto, eppure, analizzando la storia della Repubblica di Genova, tra XVI e XVII secolo si riscontra una serie di contenziosi che contrapposero Stato e Sant'Ufficio (e quindi Santa Sede) sul percorso di temi principalmente temporali, laddove l'autorità censoria ecclesiastica mirava costantemente di sfuggire al controllo di uno stato che, occorre dirlo, negli interventi punitivi era generalmente meno rigoroso e severo.
Dopo l'accoglimento della petizione citata a guisa di proemio, in Genova, si cominciarono ad individuare i primi atti di notai pubblici concernenti processi per eresia e subito si individuano i presupposti di un attrito, basato sulla volontà dell'Inquisizione d'operare con larga autonomia e soprattutto nel contesto di un asssoluto garantismo.
Da qui derivò la prima fonte di contenziosi: la presenza di notai laici collegiati in questi procedimenti inquisitoriali ecclesiastici (la loro presenza era sancita come inevitabile in occasione dell'applicazione della tortura come già indicato dal capitolo XV degli Statuti Criminali Genovesi del 1556 i quali parimenti già postulavano oltre che una lotta attenta contro azioni sacrileghe ed atti blasfemi in altro capo la collaborazione dello Stato con l'Inquisitore Ecclesiastico, tramite la concessione del Braccio Secolare cioè della forza di polizia statale, ferma però restando la sanzione della salvaguardia dell'autonomia statale in procedimenti avverso gli avvelenatori anche quando questi potevano esser sospettati qual frutti d' azioni diaboliche di streghe e maghi) venne evitata dai padri Inquisitori subdolamente servendosi di ben più gestibili notai frati per nulla obbligati a dar rendiconto all'autorità statale.
Dalla sostanziale acquiescenza di Genova nel primo XVI secolo il Tribunale dell'Inquisizione ottenne un potere che valicava la liceità dei fatti e presupponeva un agire giuridicio estraneo alle normative giuridiche della nazione: come già si intravvede dai primi eventi di un qualche peso sociale.
Tra i primi si trova citato il conte Giacomo Fieschi soggetto ad inquisizione per aver sostenuto, sulla pericolosa linea degli assiomi luterani, che le indulgenze altro non fossero che Furfanterie inventae ad colligendas pecunias cioè denari mentre le reliquie nulla avrebbero rappresentato di sacro sì che si sarebbero dovute inumare nei cimiteri con le altre osse e la quaresima non sarebbe stata da venerare in alcuna maniera.
Come scrive il Canosa "Il 6 giugno il Fieschi fece l'abiura davanti all'Usodimare e al vicario del vescovo, come sospetto veementemente di eresia, e dichiarò di aver espresso le opinini imputategli senza alcun animo di allontanarsi dalla santa madre chiesa e dalla comunità dei fedeli. Venne condannato ad un mese di carcere e per carcere gli venne data la città di Genova dalla quale gli venne vietato di uscire "sine licentia inquisitoris, nisi forte pro substentatione suae familiae. Nel contempo gli vennero imposte le solite penitenze salutari" (tra cui l'esame di coscienza).
Il Fieschi non era però stato l'unico inquisito, con lui quali rei erano coinvolti altri personaggi che però, essendo fuggiti dalla città il 14 aprile, erano stati giudicati in separata sede: si trattava di Giorgio Vivaldi Costa e di Bartolomeo Alesso, di professione farmacista (speziale): fu quest'ultimo ad essere colpito dalle accuse più gravi, atteso che gli erano state mosse quelle di aver ospitato nella sua bottega gruppi di uomini sospettati di eresia ed in particolare d'aver funto da cassiere per una delle primissime società di luterani attivate a Genova.
A quanto scrive il Canosa i due tornarono nella capitale e si sottomisero all'autorità della Chiesa: ma non sopravviverebbero documenti attestanti la prosecuzione della loro storia.
Un'altra persona coinvolta in accuse di apostasia fu poi il notaio G.B.Ponte che, stante l'accusa, oltre che di concetti ereticali si sarebbe macchiato di blasfemia avverso i santi: la sua posizione si sarebbe rivelata assai presto difficile atteso che non si sarebbe astenuto dal proclamare che il culto sarebbe stato da conferirsi solo verso il Cristo, onde intercedesse presso il Padre, e contestualmente si sarebbe lasciato andare a considerazioni benevele sia a pro di Melantone che Lutero.
Il notaio sostenne abbastanza bene la sua difesa affermando che, era stato frainteso dai testimoni, e che cioè mentre indiscutibilmente giammai s'era messo a patrocinare gli eresiarchi luterani, veramente aveva anteposto il culto a Cristo rispetto a quello per i santi, ma basando la sua affermazione sul principio inconfutabile che mentre Cristo costituiva la perfezione, nella vita della gran parte dei santi si potevano pur ravvisare attimi di cedimento tali che le loro azioni potevano essere da non imitare in modo assoluto: dovette esser ascoltato dagli inquirenti visto che non gli furono comminate altro che le penitenze canoniche e in dettaglio di pregare quotidianamente nella cappella dei Santi Giovanni e Sebastiano rispettando i digiuni istituzionali.
Sempre il Canosa (p.133)rammenta un caso più complesso ma di cui non è nota la conclusione per quanto si sappia che la sentenza nei suoi riguardi venne pronunciata il 24 gennaio 1541: questo caso coinvolse un certo Nicolò Casero cui furono mosse diverse e pericolose accuse. In primis di aver negato che nel sacramento dell'eucarestia vi fosse il reale corpo di Cristo, quindi che il celibato ecclesiastico rappresentava un errore ed ancora che la salvezza poteva avvenire solo per effetto della fede e non delle buone opere. A fronte di una postazione ideologica tanto vicina a quella degli scismatici l'arresto fu inevitabile e con questo la carcerazione. Il Casero si difese, giocando come molti altri sulla propria buona fede traviata e da una sostanziale semplicità intellettuale facile preda degli inganni altrui: in definitiva demandò ogni responsabilità a non meglio identificati predicatori.
Concludendo la sua selezione il Canosa registra ancora il caso di un maestro d'abaco, certo Battista da Musasco che (come risulta dai rogiti del notaio Usodimare-Granello in Archivio di Stato di Genova) si sarebbe spresso contro le indulgenze e le confessioni giudicate inutili per la salvezza a pro della quale sarebbe bastata la sola fede: nonostante la gravità delle imputazioni anche questo personaggio non subì punizioni che travalicassero la purgazione canonica, dovendo porsi in ginocchio a giurare di non aver sempre prestato ascolto alla chiesa romana e di non aver giammai considerate valide le idee imputategli.
Sempre sulla base del Canosa si può constatare l'incremento della documentazione su procedimenti dell'inquisizione ecclesiastica a partire dagli anni cinquanta del XVI secolo.
In data 4 settembre 1556 il pontefice romano inviò tre brevi di cui uno al doge di Genova, un secondo ad Aurelio da Crema, vicario degli eremitani di S. Agostino per la Lombardia ed il terzo ad Egidio Crapulano vicario dell'arcivescovo genovese.
Il contenuto dei brevi pontifici era pressoché identico e concerneva il comportamento degli eremitani di S. Agostino operanti nel loro convento di Genova.
La prima lettera del papa, dopo i ringraziamenti quasi rituali a doge e governatori di Genova, nell'operare con zelo e rispetto della fede cattolica comportava la richiesta alla Signoria di allontanare dalla loro sede in città gli eremitani di S. Agostino giudicati responsabili di aver condotto "impura e flagitiosa vita" oltre c'essersi reiteratamente macchiati di "detestabile haereticae pravitatis scelus": al loro posto sarebbero succeduti gli eremitani della Osservanza della provincia di Lombardia all'opposto ritenuti "fidei integritate simul et morum honestate probati".
Contestualmente ad Aurelio da Crema venivano date opportune istruzioni su come comportarsi in questa surroga atteso che che gli espulsi erano reputati impuri "propter tantam morum ac vitae turpitudinem haereticae etiam pravitatis labe et ispsi polluti esse et alios in ea civitate corrumpere et contaminare dicuntur.
Il rescritto al vicario dell'arcivescovo di Genova semplicemente era arricchito dalla sfiduciata considerazione papale che, essendo stati sordi ad ogni ammonimento e richiamo, gli Agostiniani genovesi da espellere erano verisimilmente irrecuperabili alla fede più pura.
I religiosi cacciati da Genova non si rassegnarono però e avendo importanti protezioni in città si adoperarono per riprendere possesso del loro cenobio: così il governo genovese, cui non erano state estranee pressioni sul pontefice per quella punizione, si appellarono a mons. Benedetto Lomellino, che curava in Roma gli interessi di Genova, spedendogli una memoria contenente le "malefatte" dei frati espulsi. Stando al rescritto della Signoria quei frati si erano pubblicamente macchiati "così di heresia come di altri difetti importanti" da portare scandalo per tutta la città ligure, con detrimento della fede e delle frequentazioni della chiesa da parte dei fedeli.
La situazione non si risolse affatto: di fronte alle insistenze degli espulsi il governo genovese tentò una mediazione chiedendo al priore del convento se non bastasse allontanare i religiosi più "discoli ma quest'ultimo rispose che non si potevano fare dei distinguo tra religiosi che avevano perduta la retta via.
L'opposizione era però forte e quello stesso priore dovette relazionare il governo che lui stesso, attesa la posizione presa, era stato accusato di eresia innanzi il vicario episcopale e l'inquisitore sì che era stato obbligato a far abiura nella chiesa di Nostra Signora delle Vigne.
La vendetta degli espulsi non fu però senza ritorsioni: essi stessi vennero processati ed in particolare un frate venne condannato alle "galere.
Sulla base di queste conclusioni processuali il governo genovese pensò d'aver via libera alla definitiva cacciata degli agostiniani genovesi, valutando che era stato accerto che da un certo arco di tempo anche "vi erano stati otto o dieci priori convinti di eresia".
Tuttavia le rimostranze genovesi nulla poterono col tempo alla volontà pontificia di riconciliare lo stato delle cose sì da reintegrare nel loro convento i vecchi occupanti: vedi G. Bertora S.J., Il tribunale inquisitorio di Genova e l'Inquisizione romana nel '500 (alla luce di documenti inediti), in "La civiltà cattolica", 18 aprile 1953, n. 2468, p. 173 e seguenti.
I fermenti non erano però destinati a cessare e vennero ad emergere altri problemi, causa di contrasti crescenti tra Chiesa e Stato.
L'abate della chiesa di San Matteo di Genova, nel frattempo, fu denunciato quale eretico alla Congregazione del S. Uffizio di Roma e come d'uso gli venne ingiunto di recarsi nella città capitolina entro il periodo canonico di 30 giorni.
La Signoria genovese, intendendo difendere la propria autonomia ed il diritto a non far giudicare in terra starniera suoi sudditi estradati, si adoprò per far revocare quell'ingiunzione.
In particolare tramite i servizi dell'ambasciatore di Genova a Roma, Ansaldo Giustiniano, si cercò di segnalare alle competenti gerachie romane non solo lo zelo e l'ortodossia dell'abate ma soprattutto il fatto che siffatta accusa era più probabilmente dovuta ai maneggi del potente cardinale Cicala desideroso di trar vendetta dell'abate che era riuscito a far valere contro di lui, amministratore apostolico di Albenga, alcune giuste ragioni di Genova (vedi anora Bertora, cit, p. 181).
Genova come extrema ratio tentò di evitare l'estradizione arrogandosi il diritto di giudicare nel suo territorio il presunto reo ma i risultati non le diedero ragione: i desideri di Roma prevalsero anche se sulla vicenda sarebbe scesa un'ombra di indecifrabilità non dissipata dal Bertora e neppure da Canosa. E problemi si ebbero anche nelle colonie, per esempio nell'isola di Chio laddove sorti contenziosi fra l'inquisitore ed i rappresentanti genovesi in prima istanza si intimò all'inquisitore ma anche al commissario vescovile e a due frati domenicani di lasciare l'isola: fu una scelta che Roma rigettò ottenendo la revoca dell'espulsione. Del resto la stessa Signoria di genova non fece tanta opposizione: ci si premurò anzi di invitare le autorità di Chio di garantire non solo pacifica convivenza con l'Inquisizione ma di soccorrerla in certe necessità atteso che costituiva un antemurale della cristianità in un contesto geopolitico su cui gravitava la formidabile marea dell'espansionismo turco.
Poiché era evidente a tutti che, data la lontananza dal Dominio di terraferma, Chio come altre basi levantine di Genova poteva trovare difficoltà a risolvere eventuali dissapori tra locale autorità civile ed ecclesiastica si cercò per ogni parte di mediare e l'Inquisitore di Genova, il padre domenicano Gerolamo De Franchi, ritenne opportuno inviare agli amministratori dell'isola una sua "memoria" che riportava indicazioni per il podestà colà residente su come comportarsi in maniera di conformarsi alla procedura seguita in territorio metropolitano nel caso di procedimenti in materia di fede. Ancora il Canosa (traendo spunto dai dati del Bertora) cura di evidenziare la valenza documentaria di siffatta "memoria", che finì per costituire uno dei non frequenti punti saldi cui ci si ancorò giuridicamente nell'evenienza di controversie tra giustizia laica e inquisitoriale.
Oltre a ciò la citata "memoria" permette di cogliere i punti cardine di tutti i procedimenti che coinvolgevano il funzionamento del Tribunale dell'Inquisizione in Genova.
Se ne ricava che, formulata la denucia, si adiva ad una inchiesta segreta; poi nel caso che a giudizio dell'Inquisitore era reputata doverosa la cattura del reo si doveva farne istanza alla magistratura dei Protettori del Santo Ufficio costituita da due rappresentanti del Governo di Genova (generalmente scelti fra cittadini di alto lignaggio), ragguagliandoli delle eventuali accuse mosse al reo. Questi concedevano l'arresto in nome della Signoria e di seguito presenziavano agli interrogatori, specie se, come accadeva quasi sempre, comportavano l'applicazione dei tormenti, cioè della tortura.
Una volta che era conclusa l'istruttoria aveva luogo una "consulta" cui partecipavano vescovo ed inquisitore, i consultori e pure i due "protettori" i quali, ritenendolo opportuno i giudici (vescovo ed inquistore), potevano esprimere il loro parere, non come giudici ma quali rappresentanti del governo, parere da tenere nel debito conto ma non vincolante: "Li racordi et discretissimi consigli di lor Signorie zelantissimi dalla fede catholica, et nel consigliare providi, sono dalli predetti giudici ecclesiastici meritatamente considerati et accettati tanto quanto mirano l'honor di Dio la salute delle anime con l'edificatione del prossimo.
Inoltre i "Protettori" potevano prendere parte all'esecuzione della sentenza ed all'abiura.
Onde integrare la documentazione, poco corposa, sul funzionamento dell'Inquisizione in Genova il Canosa (p.137, nota11) risale nel tempo e recupera un rescritto custodito all'"Archivio di Stato di Genova" (Archivio Segreto, busta 1405) recante il titolo e forma che si è pratticata per il passato e che di presente si prattica circa l'amministrazione e cause del S. Uffizio dell'Inquisitione in questa Serenissima Repubblica: la redazione del documento è di metà del XVII secolo ma possiede il pregio di fare una microstoria delle vicissitudini in merito a tutela delle prerogative statali in materia inquisitoriale. In esso sono citati dei rescritti più antichi ma significativi. Due sono, rispettivamente, un decreto del Senato del 14 aprile 1539 ed una lettera della Signoria indirizzata a Paolo III il 10 aprile 1540: in merito ai "Protettori" vi si parla di "quattro cittadini" preposti alla supervisione dei procedimenti dell'Inquisizione.
Nel testo seicentesco viene quindi menzionata una lettera redatta il 9 giugno del 1548 da Cristoforo Grimaldi e Giambattista Doria, poi inviata ai cardinali componenti della Sacra Congregazione dell'Inquisizione in cui si segnalava come allo scopo di meglio tutelare l'autorità dell'Inquisizione si era ritenuto di ridurre il numero dei "protettori" a due cittadini scelti entro il Collegio dei Proconsoli della Repubblica che "havevano di continuo da essere con il reverendo Padre Inquisitore a intendere nelle cause che occorresso". Dopo queste tre citazioni, finalmente, il documento del XVII secolo menziona la "memoria" inviata al podestà di Chio.
A fronte di queste considerazione e dei casi che turbarono la vita religiosa fdi Genova nel XVI secolo un rilievo assai superiore spetta tuttavia alla drammatica vicenda dell'eretico umbro di Città di Castello Bartolomeo Bartoccio che, assieme ad altri compagni "grandemente indiziati di heresia", nel 1567 (16 ottobre) il cardinale di Pisa, per conto della Congregazione Romana del Santo Uffizio chiese alla Signoria genovese, nel cui territorio al momento si trovava.
La Repubblica fu solerte ed il 20 dello stesso mese d'ottobre accondiscese alle richieste ecclesiastiche: fu proprio in tal giorno che il Bartoccio venne arrestato dalla milizia cittadina di pubblica sicurezza.
La notizia dell'arresto fu celermente inviata a Roma, cosa che fu apertamente lodata: contestualmente, stando a quanto ha recuperato dalle fonti storiche superstiti il Canosa nella grande città ligure si procedette parimenti all'arresto di un probabile connivente del Bartoccio definito genericamente Cavaliere di Malta.
Ben presto da Roma giunse l'invito ad inviare nella città dei papi il Bartoccio assieme al suo correo avvalendosi delle galee di Giannetta Doria Atteso che il potere centrale genovese nulla oppose alla richiesta il 25 novembre i supposti eretici vennero imbarcati: però sorse un disguido imprevisto, la Doria, allegando la scusante di non avere un "passaggio pronto per Roma" ottenne che i due fossero rinviati alle carceri repubblicane: vi fu chi, probabilmente a ragione, vide in tutto ciò uno stratagemma della Signoria per dilazionare gli eventi nel tempo e preparare le difese delle sue prerogative istituzionali.
Stavano infatti accadendo eventi che non potevano passare inosservati in uno Stato che basava la sua potenza ed anche la sua stessa credibilità dulla mercatura e sulla salvaguardia dei tanti commercianti stranieri e non necessariamente cattolici che ad essa facevano capo.
Prima del fantomatico tentativo di imbarcazione coatta del Bartoccio avevano già preso ad attivarsi i cantoni elvetici di Berna e di Ginevra: peraltro proprio in questa importante città mercantile il Bartoccio da tempo aveva preso dimora congiungendosi in matrimonio con una donna che gli aveva dato dei figli e dedicandosi ad un fruttuoso commercio di sete.
Il Senato ginevrino intervenne presso la Signoria genovese con una missiva ufficiale di proteste nella quale, dopo aver preannunciato l'ipotesi che tale incidente avrebbe potuto danneggiare le importanti relazioni mercantili intercorrenti tra i due stati, sottolineava la distinzione che intercorreva tra i reciproci sudditi (sì che mentre i genovesi erano ben accolti in Svizzera prescindendo dalla loro fede mentre nel caso del Bartoccio si era agito in modo davvero sconsiderevole ed ingiusto) e chiedeva l'immediata restituzione dell'arrestato al suo ambiente ed alla sua famiglia.
Atteso che anche Berna agì poco dopo nello stesso modo, la Repubblica di Genova si trovò esposta tra due forze opposte contro le quali non voleva prendere posizione nè rischiare oltremodo: si potevano perdere fondamentali contatti commerciali ma si poteva, al punto in cui si era giunti, entrare in un pericoloso conflitto con la sempre temuta santa Sede.
La diplomazia genovese tentò la via di una mediazione basata su molteplici ragioni, attraverso una serie di distinguo davvero ben costruito.
Scelse come referente dei suoi interessi il cardinale di S. Clemente cui si esposero [al modo che riporta il documentato Canosa (p. 138)] elencandogli la sequela di ragioni che per lei comportavano prudenza in qualsiasi scontro diplomatico con gli Svizzeri.
In primo luogo venne esposto come per quel paese dovessero transitare "...forzatamente tutte le merci e gran parte del contante che si traffica verso Fiandra, Lione e l'Alemagna...".
Nella costruzione del sistema difensiva, dopo aver posto le basi dell'importanza logistica del territorio svizzero, si mirò di segnalare la difficoltà di chiarificazioni attesa la presunta inferirità culturale e la sostanziale insensibilità alle perorazioni diplomatiche di "...quella natione assai incolta di costumi civili e poco usata a regolarsi con la ragione e non meno avida che debole di facoltà...".
In definitiva la perorazione genovese, facendo leva sulla tutela dei propri interessi, interessi di uno stato sempre zelante verso la fede romana, e contestualmente basandosi sulla presunta barbarie degli interlocutori elvetici, si concludeva in una sorta di teorema sillogistico al cui terminale stava l'esigenza, per ragion di stato e vantaggio di uno stato storicamente fedele a Roma, di lasciar andar libero il Bartoccio.
La petizione non era mal costruita ma il Papato era in aperta campagna avverso le devianze ereticali: tutto risultò inutile e la risposta fu raggelante.
Il 5/XII/1567 il cardinale S. Clemente, che aveva evidenziato il caso al Santo padre, spedì alle autorità della repubblica una lettera dai contenuti inquivocabilmente chiari:
In uno stralcio della lettera cardinalizia emblematicamente si legge: "...nondimeno è tanto il zelo di questo Santissimo Pontefice et lo stimulo perpetuo intorno alle cose della eligione, et l'hodio verso li heretici, che si mostra durissimo et severissimo senza apena volermi lasciar finir di parlare, non volendo a modo alcuno lasciarsi persuadere di liberare e rilasciare un heretico di prigione, nè parendogli poterlo fare con buona coscienza con dire ancora, che Vostre Signorie potevano molto bene scusarsi appresso quelle brigate che costui era vassallo del Papa, et che ultimamente era stato in Roma, et cercato di sedurre alcune persone nella sua malstrada, et che Sua Santità lo aveva domandato a Vostre Signorie Illustrissime, qual glie l'havevano concesso et messolo su le galee del re cattolico per condurlo a Roma, et perciò non potevano mancare alla concessione et parola loro; et che quando elle fossero libere, volentieri l'hariano rilasciato".
Il cardinale S. Clemente, cercando di tranquillizzare i genovesi in merito ad eventuali contrasti mercantili con gli svizzeri, aggiunse di seguito un'affermzaione personale del Papa e che cioè non "ci era pericolo che per questo coloro dovessero violar le strade et impedire il comertio e quelle litere [di protesta] erano proforma e che si davano ad ogn'uno" [così scscrive ancora il Canosa (p. 139) aggiungendo alla nota 14 della stessa pagina: "In una successiva lettera del 12 dicembre il S. Clemente esortava la Repubblica a prendere iin buona parte la decisione del papa].
Gli auspici del Sacro Palazzo di Roma non risposero però a verità: in particolare la comunità di Berna aveva assunto contro Genova una psizione di irrigidimento e le sue autorità "havevano ritenuto ventiquattro mila scudi spettanti a cittadini genovesi, sotto pretesto che non havessero pagato a certo dacio: nella condivisibile ipotesi del Canosa la ragione concreta di tutto ciò risiedeva in una ritorsione economica antigenovese basata sugli eventi che avevano travolto il Bartoccio.
Per quanto sospesa tra due "rischi" la Repubblica, in base ad un comportamento suo usuale per tutto il XVI secolo, cedette alle ingiunzioni della Santa Sede e così al cardinale di Pisa venne spedita una lettera ufficiale con il seguente tenore:
"Può tanto in noi il zelo et l'osservanza che portiamo a Sua Beatitudine che ha vinto agevolmente ogni rispetto umano, essendo non ben rissoluti di correre ogni fortuna per servire Dio et ubedire a Sua Santità, et tutto che temiamo assai a casi nostri, sì per la natura di quei barbari poco capaci di ragione, come per esser noi nati al traffico et al commercio, che ci costringe a cadere nelle mani di quella gente, non di meno presupponiamo sì grande utile in somigliare a noi stessi nel zelo della religione che possa et debba risarcire ogni danno che sia per risultarcene...Si consegnerà dunque il Bartochio et il cavagliere insieme alla signora Ginetta d'Oria, con la prima occasione che si presenti di passaggio; sicuri che S. Beatitudine gradirà piamente il zelo della religione nostra".
La consegna del Bartoccio si ebbe il giorno 29 gennaio 1568: concluso il processo, si pronunciò la sentenza secondo cui, sulla base di una lettera documentaria (datata 15 ottobre 1568) del cardinale di S. Clemente, era definito quale "heresiarca c'he stato quasi per tutt'Italia dogmatizzando et procurando d'infettar hor questo hor quello".
Su tali basi, scrisse ancora il prelato in corrispondenza con il governo di Genova, essendosi dimostrato "talmente ostinato e pertinace nell'error suo...pensano di farlo abbrusciare et che la sua festa (sic!) verrà inanzi quelle di Natale.
Il Canosa, elaborando questi documenti [in dettaglio una lettera del medesimo cardinale del 27 maggio 1569] da fonti libresche dell'ottocento, annota: "Il S. Clemente sbagliò soltanto nella indicazione della data. Il Bartoccio fu infatti bruciato vivo nel maggio del 1569". Lo stesso moderno studioso continua la sua storia delle vicende inquisitoriali ecclesiastiche nel genovesato ricordando che ancora nel 1568 si era proceduti nella capitale ligure al fermo di un gruppo di individui, circa dieci, giudicati rei d'aver partecipato ad una commemorazione religiosa secondo la costumanza ereticale. La Signoria si premunì di contattare il solito cardinale di S. Clemente che curava gli interessi genovesi presso la Santa Sede e mirò a dar poco rilievo alla vicenda scrivendogli che la questione non aveva di fatto grande rilevanza e che in definitiva l'insieme era dimensionabile atteso il livello dei supposti correi: una cosa in definitiva "...assai leggiera, sì perchè si tiene l'autore di questa peste e non più di otto in dieci, contro i quali si procede con quel rigore che conviene alla religione nostra per purgar ben ben e spianare compitamente ogni cosa" [lettera dal governo genovese a Roma del 6 febbraio 1568].
Il pontefice venne confortato in questa interpretazione da una lettera del cardinale di Genova Lomellino del 20 febbraio 1568.
Atteso però che il pontefice romano si era eretto ad intransigente guardiano della fede contro ogni distrazione ereticale, la Repubblica di Genova cercava di procedere con ogni oculatezza mirando a dimensionare le voci di possibili movimenti di apostasia nel suo territorio e contestualmente cercando di non indurre il papa a credere che tutto ciò dipendesse da una scelta diplomatica e prudenziale volta a raffrenare la sua zelante attenzione sulla città di Genova e sul suo Dominio.
E' per questa ragione che periodicamente venivano inviate note informative piene di rassicurazioni come questa riportata ancora dal Canosa (p.140, nota 21): "Le novità seguite seguite qui in materia di heresia han dato sempre a noi poca alteratione, essendo sparsa in poco numero fra persone di bassa consideratione, seguita a caso e senza dondamento alcuno e, come ben dice S. santità, l'infermo che vuole essere curato, è quasi guarito, giontovi poi li rimedi facilmente si risana; nè noi per questo intendiamo essersi per punto maculata quella castità che habbiamo sempre mantenuta nell'intiera e inviolabile osservanza della religione, riputando quest'accidente una primavera in mezzo al verno che nel fiorir s'estingue. Questi signori dell'Inquisitione hanno atteso et attendono alla cura con somma intelligenza e noi habbiam questo negotio per principale e porgiamo tutta l'autorità et aiuto possibile per estirpare a fatto alla radice di questo male, per renderne ben purgata la città nostra, onde ne risulti il vero servitio di Dio, in molta sodisfattione di Sua Beatitudine a salute e gloria nostra.
Nonostante la sua ricerca di benevolenza la Repubblica incappò inesorabilmente nello scontento di Paolo V, uomo peraltro caratterialmente mutevole e facile ad accessi d'ira nella sua personale crociata avverso le religioni scismatiche. Così dopo essersi mostrato addirittura riconoscente verso il governo genovese nel febbraio del 1658, a marzo mutò radicalmente atteggiamento per quanto si può con chiarezza evincere da una missiva indirizzata alle autorità genovesi, il 19 marzo dello stesso anno, sempre dallo zelante cardinale di S. Clemente.
Nella lettera di quest'ultimo si può infatti leggere: "Le novità seguite costì di eresia, sì bene sono spiaciute a Sua Santità, [che] pur si era quietata con la buona speranza di rigorosa dimostratione datali anche in nome di Vostre Signorie Illustrissime. Però, essendosi inteso la dolcezza grande con la quale si è proceduto e si procede contra i calvinisti che hanno fatto cena all'heretica [messa secondo il rito calvinista], che non si può dir peggio, ha causato alteration grande a tutto questo S. Officio, di modo che, per quanto ho inteso, hanno legato le mani a quell'inquisitore che sia tenuto consultar ogni cosa et non possa risolvere senza l'ordine di qua, finché si proveda di miglior istrumento et che con la venuta dell'arcivescovo si possa prender maggior fede di quel governo. Et per dir a loro il tutto, la liberatione di quel Marsilio che meritava la galera o una carcere perpetua, ha causato tutto questo romore, et è mancato poco che non se sia fatto venir qua per rivangar la sentenza. Scriveno poi di costì che quelle cause non si tengono nella debita riputazione et segretezza, come cause pecuniarie, et sono raccolte da huomini et donne senz'alcun freno, diversamente da quello si deve far di ragione et si osserva in questa corte, dove niuno ardisce parlarne. Io attribuisco il tutto all'esser il tribunal di costì ancora nuovo et rozzo, che Dio voglia sia così nogmanete".
A questa epistola del cardinale di S. Clemente la Signoria cercò di formulare una risposta difensiva adeguata da inoltrare al pontefice ed in cui si poteva tra l'altro leggere: "Le novità seguite qui di Heresie sono state esagerate costì più del dovere...Nè qui vi si è proceduto e procede con quella dolcezza che si dice...Nè il Marsilo era tanto gravato di colpe come si dipinge, percioché egli non intervenne alla cena, anzi disputando talvolta con costoro, sosteneva le parti catoliche, sicome li processi mandati potranno render pieno testimonio. Gi altri che hanno peccato più sono ancora priggioni e doverà risolversi il caso loro con qulla rigorosa dimostrattione che parrà convenevole" [così ancora scrive il Canosa (p. 141 e nota 23)].
Tutto risultò inutile in quanto per provvedimento pontificio venne incaricato di risolvere la questione in Genova, qual "commissario straordinario per la lotta contro l'eresia", il vescovo di Teano, monsignor Arcangelo Bianchi che, appena raggiunta Genova, procedette con rigore, istruì il processo e, al governo genovese che nonostante tutto la aveva accolto con tutti gli onori, chiese l'inusitata applicazione dell'abiura secondo quelle costumanze spagnoleggianti che imponevano ai colpevoli d'apostasia di indossare nel corso della pubblica cerimonia specifici abiti d'infamia.
Estranea a siffatte consuetudinie costumanze la Repubblica oppose chiare rimostranze di modo che il 29 maggio 1568 al cardinale di S. Clemente veniva mandata una lettera dal seguente tenore: "Le ragioni che causano le habbiamo succintamente espresse nelle lettere a Sua santità, come che in vero non pienamente nè altro ci cade in consideratione che il mero servitio del Signore Dio, non essendo dubbio che quando seguisse qui una dimostrazione tanto severa, o di galera o di quell'habito che sogliono portare in Spagna, ne seguirebbe scandalo nel volgo, e si darebbe materia alla moltitudine di maravigliarsi; e maravigliandosi, d'entrar in curiosità di sapere le cause e gli articoli ove havessero peccato quei tali. Onde verrebbe facilmente l'imperita moltitudine a malitiarsi et allentare a poco a poco quella schiettezza e sincerità di cuore derivata dai maggiori nostri, tutta fondata in spirito, e tanto accetta a Nostro Signore Dio, quanto Vostra Signoria Illustrissima ben sa".
Anche in questa evenienza gli sforzi della diplomazia genovese non portarono a risultati di rilievo: Pio V in forza di un suo breve del 5 giugno 1568 curò d'ammonire i genovesi a punire quanti si erano macchiati di siffatte colpe avverso la fede cattolica alla stessa maniera seguita con rispetto nel altri Stati italiani: a giudizio del papa non v'era ragione che le autorità di Genova temessero per l'ordine pubblico, anzi a suo parere quanto più rigorose le punizioni comminate ai rei avrebbero avuto in pubblico un effetto giovevole e soprattutto intimidatorio durevole.
E così le direttive del commissario straordinario vennero seguite alla lettera: i condannati, nella foggia prestabilita, dovettero abiurare innanzi ad una folla, curiosa e spaventata, nella chiesa di S. Domenico e, come ha recuperato l'attento Canosa (p. 142) e nota 26, "si eseguì ogni cosa conforme a quanto seppe desiderare monignor il vescovo di Theano, al quale si è data ogni sorte di soddisfattione in tutto ciò che è occorso".
Questa sarcina narrativa proviene ancora da una epistola della Signoria genovese al solito suo interlocutore il cardinale di S. Clemente: come di seguito fa rilevare il canosa sull'evento scese comunque un certo oblio, sì che mai si ebbe contezza del numero preciso dei condannati e del loro stesso nome fatta eccezione per due personaggi il medico Contardo ed il chirurgo Boero che vennero condannati al remo. anche se la durissima pena, su pressione della repubblica, finì per esser commutata in quella dell'abitazione coatta come carecere ma con l'aggravante di mai più poter esercitare le reciproche professioni. Del resto a giudizio del papa, che respinse ogni eccezione in merito, ogni ulteriore grazia, specialmente per il Contardo, avrebbe finti per vanificare qualsiasi discrimen innocentium et dannatorum atteso "quod homo ob haeresis crimen ultimo supplicio digno, primo quidem ad triremem damnatus, deinde ea quoque pena liberatus est".
Il pontefice volle piuttosto, in tale risposta, sottolinare come aveva mitigata la sua consueta asprezza avverso gli eretici proprio per favorire i genovesi insoliti ad affrontare tali situazioni e quindi renderli edotti verso una vigilanza assidua in materia di fede; ancora il Canosa intendendo sottolineare quanto peso politico avesse alla fine assunto quella vicenda scrive (p. 142, nota 28) "Fu necessario tuttavia attendere l'anno 1583 perchè uno dei condannati del 1568 il medico Contardo, fosse dall'inquisitore di genova, fra Timoteo Botonio da Perugia, liberato e purgato dall' infamia et labe che lo avevano colpito quindici anni prima e restituito allo stato, grado e qualità in cui si trovava prima di essere caduto nell'eresia per la quale era stato condannato".
Attraverso lo scorrere del tempo i contrasti non vennero meno e talora videro contrapposte anche le medesime gerarchie ecclesiastiche.
Verso il tramonto del XVI secolo si ebbe in Genova il caso di Giovanni Battista Burgo, inquisitore nella città, che ordinò l'arresto di alcuni supposti eretici entro la città di Savona.
Fra costoro alcuni, stando alle relazioni del Burgo, confessarono senza indugio le loro responsabilità in materia di devianza dalla fede ma altri, prima di far ciò, dovettero esser soggetti all'applicazione della tortura.
Cesare Ferrero vescovo di Savona, ritenendo oltraggioso per sè e comunque eccessivo il comportamento dell'inquisitore, assunse le difese degli arrestati opponendosi al loro trasferimento a Genova.
Esiste in merito una lettera dello stesso inquistore Burgo indirizzata al doge genovese in cui si legge:
"Hoggi ho avuto litere da Saona che portandosi dalla callata alla darsena il vescovo di Saona poichè mi fece quella ingiuria di serrarmi la catena, disse quelle parole che quelli che sono inquisiti da me sono homini da bene, et che io a torto li perseguito, et quello che hanno confessato lo hanno detto per tormenti et che sono homini santi. Stando la verità di questo, che già penso presto sarà posto in chiaro presso alli giuridici, può vedere la Serenità Vostra come sta quella città di pastore.
Li dui già abiurati, Stefano Casino notaro et Girolamo Thossico, li due fratelli Imperiali, e Domenico Ricci nobili di Saona, Gio. Antonio Tivello notaro al maleficio, Francesco Fontana, Nicolò Odone e Christofaro hanno confessato senza tortura tutto quello hanno confessato, et chi ha avuta tortura l'ha avuta con la consulta nostra delli dottori genoesi, et nell'ultimo de processi per la notificatione, et si sono servati li dovuti termini di giustitia non di mio capo, ma per consulta di dottori di questa città di Genova come appare negli atti giuridici. Onde tal parole non possono essere se non a fautoria d'heretici e a sollevar quella cittade allo impedimento della Inquisitione conforme alla protesta che il vescovo mi fece all'hora dicendomi che io venivo da Genova per turbare quella città di Saona; et così tanto quanto io mi affatico a sanare quella cittade da heresia, tanto fa quel vescovo in mantenergliela dentro"
(M. Rosi, Storia delle relazioni fra la Repubblica di Genova e la Chiesa Romana specialmente considerate in rapporto alla Riforma religiosa, in "Atti della Regia Accademia dei Lincei, 1898, classe di scienze morali, storiche e filologiche, vol. VI, parte prima, Memorie", p. 217).
La Signoria, allo scopo di superare il disdicevole contrasto, curò di eleggere una commissione di tre membri (Giovan battista Lomellino, Nicolò Petra e Stefano Lazania) che dovessero esaminare tutti gli atti registrati e indicare quei provvedimenti che l'autorità politica potesse prendere al fine di garantire "l'osservanza delli sacri canoni e delli ordini apostolici".
regolarmente la Congregazione romana del santo Ufficio venne avvertita di tutto ciò in data 10 giugno 1580 mentre il 15 dello stesso mese i tre commissari depositarono il loro parere che risultò a favore dell'inquisitore sì che al vescovo di savona venne poi inoltrata la seguente comunicazione:
"Li detti consiglieri hannosi dato quello breve e quelle litere che il padre inquisitore alligava et pertinenti lo breve et l'informatione che Vostra Signoria Reverendissima ha mandato et hanno sentito il dottore et secretario suo e tutti e tre unitamente sono stati di parere che lo breve dell'inquisitore, la litera dell'Illustrissimo presidente del Santo Officio li concedino potere di poter far condurre da tutto il nostro dominio in questa città li huomini per conto dell'Inquisitione, sicome più largamente le riferirà il detto secretario a cui sarà data copia del detto breve e litera, accioché persona di dignità ecclesiastica intervenga per lei secondo la continenza del breve. Et di più sono state di parere che non puossiam mancar del braccio per far condurre qui quelli dei prigioni et altri sì per la medesima ragione (lettera al vescovo di Savona del 7 giugno 1580 in M. Rosi, Storia delle relazioni fra la Repubblica di Genova e la Chiesa Romana specialmente considerate in rapporto alla Riforma religiosa, in "Atti della Regia Accademia dei Lincei, 1898, classe di scienze morali, storiche e filologiche, vol. VI, parte prima, Memorie", p. 217).
Ancora il Rosi (p. 221 e seguenti) giustifica la soluzione addotta dai commissari sulla base di considerazioni giuridiche: a sostenere la parte dell'Inquisitore concorreva un Breve di Pio IV all'Inquisitore di Genova risalente al 30 dicembre 1563 e contestualmente una lettera spedita dal cardinale di Pisa, al vertice dela Congregazione Romana del Santo Ufficio, datata 10 ottobre 1574. Il Breve pontificio comportava una premessa di geopolitica e valutava le caratteristiche del Dominio ligure, che per la longitudine, era assai vasto: quindi onde non sottoporre l'Inquisitore ad onerose migrazioni nelle varie città del Dominio di terraferma gli si concedeva di far condurre in genova gli eventuali inquisiti in materia di religione. Al processo avrebbe avuto diritto di presenziare un rappresentante della diocesi di di residenza degli accusati, indicato o nomininato dal relativo vescovo, o, in alternativa, lo stesso arcivescovo di Genova se non un suo vicario.
Inoltre il cardinale pisano contribuì ad irrigidire i contenuti del precedente Breve papale precisando nella sua menzionata lettera come "circa gl'inquisiti d'heresia le cause de quali si cognoscono in Genova, basta che in esse intervenga il vicario dell'arcivescovo di Genova senz'altro per parte dei vescovi della di cui diocesi sono gl'inquisiti".
Il Canosa, dopo aver bravamente analizzato la vicenda, scrive (p.144): "Gli eretici scoperti a Savona furono (come apprendiamo da una lettera scritta dal doge e dai governatori al cardinal Giustiniano, a Roma, l'11 febbraio 1581) in parte condannati alla galera ed in parte ad altre pene.
Ma gli "incidenti in materia di fede" erano destinati ad incrementarsi verso il crepuscolo del XVI secolo in Genova, laddove poco dopo siffatti eventi vennero fermati altri presunti eretici.
Atteso che, al modo che scrisse il cardinale Giustiniano (lettera del 24/III/1581), l'Inquisitore affermò d'aver ricevuto dalle autorità di Genova "ogni agiuto et favore et tutto quello braccio che ha saputo desiderare di maniera ch'egli resta soddisfattissimo, sicome veramente deve essere, il pontefice Gregorio XIII, sempre per mezzo del Giustiniano, fece pervenire a Genova i segni della sua legittima soddisfazione "in lode et esortatione di questa santa opera, tanto necessaria in beneficio di tutti i christiani".
Come è sua abitudine il Canosa, che molto materiale raccolto dal Rosi utilizza con competenza, mira a sottolineare come sotto l'apparente armonia già covassero i semi della discordia tra nquisizione e potere della Signoria. In merito cita il caso esemplare di tal Gerolamo Casareto che venne arrestato qual sospetto d'eresia ma che, anche in funzione delle investigazioni aperte su di lui, che era "ministro del sale", si scoprì esser stato anche uno scorretto funzionario statale al segno che commise per il passato "molte fraudi e ribalderie nella casa del sale dove era ministro".
In relazione a tale scoperta la Repubblica chiese che l'Inquisitore ecclesiastico, una volta che avesse espedita la causa di eresia, rimettesse tal reo nelle mani della giustizia ordinaria, sì da poterlo lecitamente sottoporre a giudizio.
L'inquisitore Burgo oppose però l'eccezione a tale richiesta che sussisteva il pericolo che il delinquente potesse venir codannato al supplizio estremo, cosa che che doveva comportare il consenso pontificio.
La diplomazia repubblicana, attraverso i suoi consueti canali, si mosse a Roma non intendendo veder sminuita la propria autonomia e basò l'assunto di tale richiesta su una sorta di captatio benevolentiae: venne infatti scritto al Sacro Palazzo che la riconsegna dell'inquisito era un atto pressoché dovuto atteso "lo naturale et perpetuo studio nostro di favorire quest'ufficio d'Inquisizione e la molta divotione et ossequio verso Sua Beatitudine e quella santa Sede ( (M. Rosi, Storia delle relazioni fra la Repubblica di Genova e la Chiesa Romana specialmente considerate in rapporto alla Riforma religiosa, in "Atti della Regia Accademia dei Lincei, 1898, classe di scienze morali, storiche e filologiche, vol. VI, parte prima, Memorie", p. 217).
Lo stesso Rosi, dopo aver espresso la sua convinzione che la petizione repubblicana in questo caso ebbe buona sorte con la restituzione del prigioniero, ci ragguaglia poi di altri fatti concomitanti, tra cui un ulteriore intervento genovese sulla Santa Sede allo scopo di veder commutata la pena di morte comminata dall'Inquisitore di Genova all'eretico relapso Pier Battista Botto in quella del carcere a vita: secondo il citato Rosi (p.203 e 228) l'esito della richiesta non è certo ma è ipotizzabile che la commutazione sia avvenuta non essendo mai più comparso il nome del Botto tra gli individui giustiziati.
A questi momenti di sostanziale collaborazione si contrappose però quasi contemporaneamente un incidente imprevisto quanto severo: era la fine del 1581 e Roma avanzò una nuova richiesta di estradizione a Genova ove erano stati arrestati quali sospetti di eresia certi Agostino Bianco ed Agostino Moneglia.
La Signoria, avuta la lettera di richiesta nel dicembre 1581, si rivolse ai "protettori" in Roma Giustiniano, Spinola e sauli, praticamente riprendendo un luogo comune della sua diplomazia: la Repubblica cioè non avrebbe meritato dalla Santa Sede simili ingiunzioni attesa la fedeltà sempre ostentata verso la Chiesa e l'Inquisizione.
Nulla però ottennero sia tal petizione che il ricorso ad una norma giuridica, per cui i cittadini di Genova avevano diritto d'esser giudicati in patria anche se il giudice, come nella circostanza, avesse dovuto essere un, atteso, visitatore ecclesiastico.
Non è comunque che Roma non abbia mancato di comunicare al governo di Genova le ragioni della sua richiesta, in particolare il Rosi (nell'opera qui spesso già citata, a p. 229) riporta stralci di una lettera del cardinale Savelli (6/I/1582) al collega, intermediario per gli interessi genovesi, Giustiniano in cui tra l'altro si legge: "...essendo stati denunciati li detti Agostino Moneglia et Agostino Bianco in questo Sancto Tribunale et per la complicità di molti altri della quale non si può venire in chiare senza la presenza dell'uno e dell'altro Agostino, non si può compiacere quella Signoria in questo particolare senza grandissimo disservitio del Signor Iddio".
La Repubblica non potè opporsi significativamente, anche perché solo una ventina di giorni dopo la lettera del Savelli il cardinale Giustiniano direttamente al doge scrisse una sua missiva in cui precisava con estrema attenzione come alla radice di tale scelta a Roma fosse stato il parere dello stesso papa, che non solo voleva che il procedimento si tenesse in Roma ma neppure concesse ai due inquisiti di esser giudicati liberi dietro cauzione ma in vinculis (Rosi, cit., p. 230).
Sempre nell'anno 1582 si posero però i presupposti di uno scontro più ampio destinato a contrapporre la Repubblica genovese e lo stesso suo Inquisitore generale, padre Burgo, di cui si chiese ed ottenne l'allontanamento: in effetti i suoi atteggiamenti erano andati caricandosi vieppiù di severità ed intransigenza, creando gravi scontenti ad ogni livello sociale.
La Signoria che indirizzò quindi un suo "memoriale" a monsignor Sauli (20/XI/1520) concernente non solo il carattere arrogante del Burgo ed il suo arbitrario procedere, ma, più specificatamente, soffermantesi sulla di lui assenza di riguardo verso i "protettori laici" quasi che volesse alterare i rapporti istituzionali tra controllo governativo ed Inquisizione ecclesiastica genovese.
Se al Burgo era rimprovata la consuetudine di modificare in rapporto ai casi il suo atteggiamento, procedendo arbitrariamente a seconda degli inquisiti, ora ostentando mitezza melliflua ora dando prova di estrema severità e tracotanza, la parte più significante della "memoria" comportava l'ipotetica intenzione di alterare da parte dell'Inquisitore le ormai storiche relazioni tra Governo ed Inquisizione riducendo ai minimi termini la funzionalità della magistratura dei "Protettori del Santo Officio".
Nella "memoria" registrata dal Rosi (p. 211 dell'opera citata), e per stralcio trascritta dal Canosa, si può, tra l'altro, leggere:
"...Et essendosi accorto che le sue attioni meritamente erano aborrite dal Senato, non contento dei torti et ingiurie che faceva a nostri cittadini che havea nelle mani, procurò anche di pregiudicare al publico, tentando di privarlo dell'assistenza de doi Illustrissimi Procuratori che giornalmente si formano contra i rei per conto di eresia, della quale siamo al possesso dell'institutione del detto ufficio, con presupposto che oltre al vendicarsi secondo lui contra di noi, per tal mezzo venisse ad occultare le ingiustizie et ingiurie che faceva di continuo a chi li accomodava...Fra gli altri abusi introdotti, dall'inquisitore passato uno ve ne è di molto rilievo et è tale ch'egli in sua camera solea tener tutti li processi e scritture che si formavano contra gl'inquisiti per conto di heresia; donde è avvenuto che nel dar fuori copia di dette scritture a rei perchè si difendessero, egli dava e riteneva ciò che le tornava a conto, e non intieramente quello che stava in fatto, sì come è anche seguito nelle copie de' processi che mandò in Roma, ne' quali solo si contenevano quelle cose che dovevano servire al proposito et intention sua et il rimanente soppresso...Haveva parimente introdotto esso inquistore il prender possesso dei beni de' rei confiscati et imborsare i denari delle condanne, cosa dannosissima alla camera nostra et insolita, poiché tutte le confiscationi per qualsivoglia delitto ordinariamente spettano al principe et non al giudice che le fa. Torna anco questo a danno delle opere a quali talvolta avviene che siano applicate esse condanne perchè difficilmente si cavano dalle mani di chi una volta le ha imborsate".
La "stravaganza" di padre Burgo era evidente ed illecita; per esempio aveva proibito sotto pena della scomunica, a Domenico Conforto ed al di lui figlio, che erano notai laici del Santo Ufficio, di relazionare i "Protettori" Nicolò Doria e Paolo Sauli su qualsiasi atto relativo all'Inquisizione. Per risolvere l'omertosa situazione il Doria ed il Sauli convocarono i due notai e questi dissero: "...Non vi possiamo rispondere di cosa alcuna concernente il Santo Uffizio dell'Inquisizione, nè in particolare nè in generale, senza incorrere in scomunica, stanti due inhibitioni che ne ha fatto lo reverendo padre inquisitore che vi presentiamo".
Si trattava di uno stato di cose pieno di irregolarità (il verbale di interrogatorio dei due Conforto si trova presso l'Archivio di Stato di Genova [A.S.G.], fondo Archivio segreto, busta 1406 A) ; verismilmente, per quanto hanno dedotto gli studiosi sin qui citati, i due "Protettori" dovettero riuscire ad aggirare l'ostacolo interposto da padre Burgo: essi stavano in particolare sondando alcune pratiche concernenti vecchi procedimenti trattati dall'Inquisitore, visto che furono poi in grado di ragguagliare correttamente i magistrati laici ( e del resto il documento Stile e forma prima menzionato riporta l'esame di Domenico Conforto avvenuto col consenso del padre inquisitore l'8/XII/1583).
La Signoria genovese, stante questi vari difetti personali e comportamentali del Burgo, ne chiese non soltanto l'allontanamento ma avanzo altresì la richiesta che venisse punito.
Sull'allontanamento Roma non fece eccezioni e provvide a soddisfare la richiesta del governo genovese ma non fu parimenti conciliante in merito all'ipotesi di un'eventuale punizione del padre inquisitore; in particolare il cardinale Gambara rispose al Sauli che il pontefice non era favorevole "a mandar commessario per sindicare l'inquisitore passato nè che laici assistessero alle cose del Santo Uffizio et per la cosa in sè et per la conseguenza et effetto.
Il "memoriale" del 20 novembre 1582 studiato, primo fra tutti dal Rosi nella sua ciata opera (p.212 e seguenti), facendo riferimento alle malefatte dell'inquisitore Burgo annotava:
"...Li mali offitii fatti in Roma dal sudetto inquisitore han dato occasione al Santo Officio di quella città d'ordinare espressamente all'inquisitor novo che non admetta l'assistenza delli doi Illustrissimi Procuratori nelle cause d'heresia cosa che meritatamente ci preme più che molto, poichè non solo si tratta di levarne lo possesso di detta assistenza che habbiamo dall'institutione di detto Officio sino ad hora, ma di privarne di quella noticia che è propria del Prencipe di saper tutto quel che si tratta nel suo Stato. Per questo è molto necessario d'ottener provisione e rimedio a questo fatto, la quale, trattandosi causa giusta, non doveva mancare. Poichè essendo la nostra Repubblica statta in tutti i tempi sì come è adesso zelosissima della fede cattolica, prontissima con gli effetti a favorire lo Santo Officio et estirpare gli eretici: non è ragione che senza alcuna causa sia priva di questo privilegio non meno honesto che necessario alla conservazione e sicurezza del suo stato, e non è dubio che andando innanzi tal prohibitione seria causa d'alentare et intiepidire quel zelo e prontezza che si sono havuti fin hora di protegere et favorire in ogni maniera questo santo Ufficio".
Per evitare che l'Inquisizione potesse gestire senza controllo statale i suoi procedimenti, come erano parse volere le mire del Burgo, il "memoriale" del 1582 continiava richiedendo alla Santa Sede che gli atti del tribunale inquisitoriale fossero sì custoditi dall'inquisitore in essere "ma chiuse in una cassa con due chiavi differenti l'una de' quali tenga il pade inquisitore, l'altra il cancelliere dell'Inquisitore, il quale sia nottaro pubblico collegiato di questa città, con obligo quando occorrerà trar copia de' processi, cavarla intieramente, acciò si veda fuori tutto quello che realmente è seguito in effetto".
In definitiva la Signoria non chiedeva nulla di straordinario ma solo la replicazione di norme usuali, sulla collegiale custodia di eventuali chiavi di serrature di sicurezza, altrimenti applicate in altri casi, tra cui in ambito giuridico in merito all'uso della cassa delatoria avverso eretici ed apostati.
Roma tuttavia si rivelò sorda alle richieste, peraltro motivate, come si evince da questa lettera del cardinale Sauli, del 2 marzo 1584, spedita alle autorità genovesi ed ancora registrata dal Rosi a p. 212 dell'opera citata:
"Sono stato a longo ragionamento col signor cardinale di gambara sopra quanto si trattò in Congregatione davanti di Nostro Signore del particolare dell'assistenza de Signori Protettori. Quello che ho ritratto da Sua Signoria Illustrissima è che fu fatta diligentissima relatione a Sua Beatitudine in Congregatione di tutti processi che si sono ritrovati nell'inquisitione di Genova, et che si è ritrovato che dal 1540 sino al 1564 solo in tre di li processi sono intervenuti li Signori Protettori, et che dal 1568 quando fu mandato il vescovo di Thiano che poi fu cardinale sono intervenuti li Signori protettori solo in nove o dieci processi, et non sono intervenuti in tutto il processo ma solo in alcuni constituti, et che dal detto anno 1540 fino al 1572 in trecento settanta processi, mai in alcuna parte d'essi sono stati presenti et che fu disputato, et che Sua santità volse intendere il parere de signori cardinali del Santo Officio se da questa assistenza de Signori protettori nel modo scritto si poteva pretendere solito o consuetudine, et che fu concluso col parere di tutti li signori cardinali che non si poteva pretendere perciò solito o consuetudine alcuna, et in conseguenza che da Sua santità non si faceva in questo particolare novità alcuna, ma che la novità era della repubblica di genova a voler pretendere assistenza, la quale è contra la libertà del Santo Officio et contro li sacri canoni. Mi accennò però detto signor cardinale di gambara essere stato di parere d'alcuno di loro che in processi d'importanza o per rispetto di persone, o per altro fossero dal Padre Inquisitore chiamati li Signori protettori come s'era fatto alcuna volta per il passato, et che credeva che Sua santità dovesse inclinare anco a questa parte, però che altra resolutione non fu fatta in Congregatione, et che Sua santità disse che la resolutione l'haverebbe data quando fosse stato il tempo...Et perchè io m'era anco molto doluto di novità del padre inquistore a far ricevere[registrare] gli esami dei rei o d'altri da un frate, et non da notaro publico ordinario, Sua santità Illustrissima mi rispose che ciò non era nuovo, ma che era in tutti li tempi stato fatto così in alcuni casi per degni rispetti, et che esso lo sa molto bene in diciotto o venti anni d'esperienza a questo Santo Uffitio. Io le risposi che ciò doveva essere vero altrove, ma non in Genova".
Il Sauli, peraltro confortato dal parere dei cardinali Farnese e Spinola, giunse alla corretta convinzione dell'irremovibilità sulla questione dei cardinali della Congregazione del santo Ufficio e per questa ragione curò di avvertire la Signoria genovese di non continuare in quel contenzioso ma d'accontentarsi delle plausibili concessioni ottenibili, che cioè "in processi di qualche importanza, e dove loro premino, saranno sempre chiamati li Signori Protettori dal padre Inquisitore, poichè questa è l'intimazione di Sua Santità e dei Signori cardinali dell'Inquisizione" (Rosi, cit., p 192)
Stando alla lettera del Sauli (31/XII/1583) a Genova era stata fatta un'unica, apparentemente, sostanziale concessione, che le carte inquisitoriali venissero custodite entro una cassa fornita di due serrature di sicurezza, con due chiavi di cui una spettante al notaro dell'inquisitore e l'altra al Padre inquisitore stesso.
La concessione, stando ai giudizi del Canosa (p.149) e del Rosi p. 189, fu in definitiva più formale che sostanziale: soprattutto nel XVII secolo quando Genova temerà meno gli strali inquisitoriali saranno frequenti le lagnanze su come il Padre Inquisitore riuscisse ad eludere siffatta normativa rigettando di frequente l'uso di un notaio collegiato e preferendogli un a lui ben più fido e servile frate notaio.
Comunque le cose procedettero su questa direttrice anche nel crepuscolo del '500 quando il territorio repubblicano fu colto da quello che fu forse il caso più clamoroso che coinvolse tanto la giustizia dello Stato che la santa Inquisizione: la caccia alle streghe.
Nel libro del Canosa come in quello più antico del Rosi si fa cenno esclusivamente al fatto delle presunte streghe di Triora ma poiché il fenomeno ebbe maggiore ampiezza giova qui proporre un breve indice che oltre a menzionare il caso eclatante, appunto di Triora nell'imperiese, citi altri episodi, con opportuni riferimenti ad aree circonvicine come alle empiriche difese messe in atto sia dalle istituzioni, laiche e religiose, quanto dalla cultura popolare: -"STREGA, STREGHE E STREGONERIA": IL DRAMMATICO PROCESSO DI TRIORA (LE STREGHE DI TRIORA)
-[I - CONTRADDIZIONI DEL DIRITTO INTERMEDIO NEL PROCEDIMENTO AVVERSO LE STREGHE DI TRIORA: IL GOVERNO DI GENOVA ARROGA A SE' OGNI AZIONE DI LEGGE]
-[II - CONTRADDIZIONI DEL DIRITTO INTERMEDIO NEL PROCEDIMENTO AVVERSO LE STREGHE DI TRIORA: L'INQUISITORE ECCLESIASTICO DI GENOVA ARROGA A SE' OGNI AZIONE DI LEGGE]
-[III - CONTRADDIZIONI DEL DIRITTO INTERMEDIO NEL PROCEDIMENTO AVVERSO LE STREGHE DI TRIORA: URTO IDEOLOGICO E CORPORATIVO NEL CONTESTO DELLA VICENDA TRA MEDICINA ALLOPATICA E MEDICINA SPAGIRICA]
-[IV - CONTRADDIZIONI DEL DIRITTO INTERMEDIO NEL PROCEDIMENTO AVVERSO LE STREGHE DI TRIORA: GOVERNO GENOVESE ED INQUISITORE ECCLESIASTICO DI GENOVA RAGGIUNGONO UNA CONCILIAZIONE DI COMPETENZE CON IL CONSCORSO DEL SACRO PALAZZO ROMANO ALLO SCOPO D'EVITARE CONFLITTI GIURISDIZIONALI]
-["STREGA, STREGHE E STREGONERIA": IL CASO DI GIOVANNETTA OZENDA DI BAIARDO]
-["STREGA, STREGHE E STREGONERIA": IL PROCEDIMENTO CONTRO GIOVANNI RODI DI MONTALTO] -"STREGA, STREGHE E STREGONERIA": STREGHE E STREGONERIA NEL TERRITORIO INTEMELIO [IL CASO DI "PEIRINETTA RAIBAUDO DI CASTELLAR"]
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e Tribunale della Santa Inquisizione e, per seguire un certo ordine cronologico, si può riandare con le considerazione ad una prima serie di contrapposizioni, connesse alla peculiare condizione degli EBREI.
Il collegamento qui appena proposto permette di visualizzare problematiche di vario tipo connesse all'insediamento di ebrei, alla loro rilevanza mercantile, all'istituzione dei ghetti, alle salvaguardie toscane loro concesse in Livrno e Pisa, al graduale mutamento nei loro confronti assunto dagli Stati Italiani e soprattutto da quello della Chiesa nel passaggio tra '500 e '600: fenomeno di irrigidimento istituzionale che sulla base di alcune investigazioni e con quale doveroso distinguo può essere individuato anche nell'estremo Ponente ligure
Per quanto concerne il genovesato non si può comunque far a meno di risalire nel tempo, precisamente sin aluglio del 1587, allorquando un decreto del governo impose a tutti gli ebrei, sotto la pena di un'immediata espulsione, l'esigenza di uniformarsi a certe restrizioni di indubbia ascendenza spagnoleggiante atteso che mai s'era veramente spento il ricordo della drammatica vicenda del "Maestro d'Epila", il Grande Inquisitore Pietro Arbues assassinato da membri di quella comunità ebraica che lui stesso andava ferocemente perseguitando.
La comunità ebraica genovese oppose al provvedimento le sue ragioni ottenendo una parziale soddisfazione nel volgere di 7 giorni: venne infatti concesso che il segno dovesse non venir più portato sul capo o sul cappello ma sul vestito e che da ciò venissero esentate le donne (ma non le ragazze) e che piuttosto coll'espulisone si punissero i contravventori all'ordinanza tramite un'ammenda di venti soldi.
Nell'età intermedia la segnalazione di un particolare stato sociale era uno dei mezzi fondamentali per permettere l'immediata distinzione di persone dalle caratteristiche sociali diverse: era comunque, sempre, un provvedimento restrittivo e colpevolizzante, che giammai si poteva accettare se non a malincuore e per estrema ragione, atteso che possedeva in se stesso punti di contatto innegabili con quell'ostentazione di una nota d'infamia con cui erano marchiati vari tipi di criminali, di modo che potessero venire immediatamente ed inequivocabilmente riconosciuti.
In merito agli Ebrei in Genova si ritornò a discutere, secondo questi parametri di differenziazione ostentata, verso la fine del XVI secolo allorquando si pensò di pubblicare un "decreto di espulsione" a carico di tutti gli aderenti alla "nazione ebrea" residenti nel genovesato.
Tale decreto in effetti non ebbe una pratica applicazione (Canosa (p. 157 e nota 1)) ma questa soluzione compromissoria in alcun modo equivalse ad un ridimensionamento dell'atteggiamento antisemita delle autorità governative (vedi anche: G. Musso, Per la storia degli ebrei nella Repubblica di Genova tra il Quattrocento e il Cinquecento, in "Miscellanea storica ligure, 3°, Feltrinelli, Milano, 1963, p. 105 e seguenti oltre a C. Brizzolari, Gli ebrei nella storia di Genova, Sabatelli, Genova - Savona, 1971)
Ad esse peraltro si affiancava l'agire spesso vessatorio delle gerarchie ecclesiastiche che imponevano agli ebrei genovesi l'obbligo di andare ad ascoltare la predica ogni sabato in periodo di quaresima procedendo tra i lazzi di un popolo abbastanza eccitato avverso gli ebrei: a ciò poi si accompagnava, inevitabilmente, la vigilanza asfissiante dell'Inquisizione, pronta a cogliere il minimo segnale di apostasia.
Padre Giovanni Battista Noceto della Compagnia di Gesù in merito a siffatta situazione ebbe a scrivere 1l 22 aprile del 1656:"...i frati inquisitori sogliono pretendere su di essi [gli ebrei] maggiore autorità di qullla che permetta la ragione canonica onde molte volte prendono occasione per travagliarli e smunger denaro ancora a titolo di multa, in casi che non toccano al Santo Ufficio (vedi: M. Staglieno, degli ebrei in Genova in "Giornale ligustico di archeologia, storia e belle arti", 1896, p. 394 e seguenti). Le cose ebbero una svolta imprevista allorquando Genova per tutelare la propria attività mercantile prese la decisione di istituire un portofranco, iniziativa onerosa che comportò svariati interventi governativi si a decorrere dal 1590 passando per vari decenni del XVII secolo.
Per la regolamentazione della fruizione del portofranco si dovettero attivare delle cautele di ordine giuridico ed istituzionale: così il Canosa (p.158, nota 2) cita (dall'Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, busta 1401) una delibera, poi data alle stampe, con cui nel 1658, al primo suo capitolo, si sarebbero indicati i leciti fruitori del portofranco: in base a siffatto capitolo era disposto "che era consentito ad ogni persona di qualsivoglia nazione, stato, grado o condizione, di venire in genova ad abitare con la famiglia e di potervi negoziare in cambi, merci, vettovaglie ed ogni altra cosa".
Gli ebrei (ma anche gli "infedeli") erano indicati fra coloro che potevano godere di siffatte autorizzazioni a condizione di rispettare degli appositi capitoli ancora da emanare.
Per questa ragione, come ancora scrive nello stesso luogo il Canosa, nel giugno del 1658 si provvide alla stesura e pubblicazione dei "Capitoli relativi alla natione hebrea".
L'essenza di ogni successiva considerazione era demandata al capitolo I in cui però, in nuce, risiedevano le motivazioni di futuri scontri e dissapori: esso peremtteva agli ebrei di entrare in possesso di un peculiare salvacondotto, una patente in grado di consentire loro di trafficare per l'intiero Dominio senza venire in alcun modo molestati "...etiamdio che fossero vissuti sotto nome di christiani o fatto qualsivoglia atto o demostratione da christiano in qualsivoglia luogo e tempo".
Eccezioni significative riguardavano i delitti di Lesa maestà ed i debiti degli ebrei contratti con i sudditi della Repubblica, per i quali avrebbero potuto essere convenuti e molestati, sì come avrebbero avuto diritto di convenire e molestare.
Anche nei capitoli successivano comparivano distinguo a riguardo degli ebrei, ma non così sottilmente interpretabili: ad esempio essi potevano prendere a servizio delle donne cristiane, assumere quali servitori dei cristiani o "giovani di scagno" solo a patto d'aver superato i 40 anni d'età: inoltre i cristiani non potevano battezzare in segreto dei fanciulli ebrei senza che questi avessero compiuto i 13 anni d'età, nemmeno era dato agli ebrei di comperare un campo di cui valersi quale cimitero oppure di erigere una sinagoga: per verificare che tutto ciò fosse puntualmente rispettato i "capitoli" comportavano l'istituzione di una nuova magistratura, di durata decennale, quella dei "Protettori degli ebrei" composta da 2 senatori. Non molto tempo era trascorso dalla stampa dei capitoli in merito agli ebrei, che Agostino Franzone, residente a Roma per Genova e suo curatore di vari interessi presso la Santa Sede, ebbe la visita dell'assessore al Santo Ufficio monsignor Vissani che, a nome del pontefice, gli precisò come siffatti capitoli contenessero "alcune particolarità troppo pregiuditiali alla Chiesa et all'autorità pontificia".
Il Franzone tentò di assumere le difese del governo genovese asserendo che la Repubblica non si sarebbe peraltro comportata, in merito alla questione ebraica, diversamente da Venezia: tuttavia l'emissario di Genova maturò il giudizio che alla Santa Sede fosse soprattutto dispiaciuto che certe concessioni agli ebrei fossero state sancite in atti scritti e pubblicati e che, appena secondariamente, alla Chiesa fosse risultato difficile da accettare non tanto l'insieme dei capitoli quanto piuttosto il contenuto del citato Capitolo I.
Tuttavia il Franzone cercò di appellarsi ad ogni variante sul tema di cui fosse a conoscenza: per esempio all'assessore fece rimarcare come in Livorno si fossero sistemati parecchi ebrei di origine portoghese e che lì si fossero apertamente dischiarati ebrei senza incorrere in alcuna ritorsione governativa od ecclesiastica.
La risposta dell'assessore Vissani lo mise però in difficoltà: costui aveva costruito un proprio teorema, sostenendo che l'Inquisitore di Livorno, al contrario di quanto si pensasse, aveva attivato molti procedimenti ma si era imbattuto in un muro di difficoltà atteso soprattutto il fatto che gli era stato pressoché impossibile conseguire la prova documentaria che gli inquisiti fermatisi a Livorno si fossero realmente battezzati in Prtogallo, atteso che, per scelta strategica e prudenziale, eran soliti far ciò assumendo nomi falsi.
Il Franzone comunicò alle autorità genovese il senso di una corposa resistenza romana a come gli ebrei eran stati trattati a Genova in forza dei "Capitoli" loro concessi e parimenti, sulla scia delle sue affermazioni, si pose il cardinale Raggi.
Le relazioni romane furono discusse a Genova sotto la presidenza del Doge essendo presenti sia i procuratori che i governatori e ne derivò una discussione non priva di calore.
Dopo proposte varie ma non passate ai voti si scelse la strada di scrivere a Roma comunicando che la questione era complessa e non poteva esser risolta seduta stante, almeno in occasione dell'imminente partenza del corriere latore del documento ufficiale.
Le autorità genovesi si assunsero comunque l'onere di soppessare al meglio i fatti sì da esaudire quanto sostanzialmente richiesto dal papa: contestualmente al residente ligure in Roma si comunicò in prima istanza che il governo ligure si sarebbe adoprato al massimo perchè si mantenesse "fermo e stabile" ciò che "ai Sacri canoni, apostoliche costituzioni et universali concilii non ripugna in quella forma che a detti hebrei è permesso ovunque ne' stati de' principi cattolici, ove hanno privilegio di stanziare".
Allo stesso residente si concesse comunque una meno gradita ma comunque fattibile alternativa, quella di proporre alla Chiesa di Roma che, se ritenuto necessario, si potevano "ristampare gli istessi capitoli, senza quel paragrafo del quale si stima offeso il Sant'officio".
Che comunque Genova intendesse difendere il suo operato lo si intende bene dalla lettura della parte finale di quanto scritto al menzionato residente, una sarcina narrativa in cui lo si esortava a mediare astutamente "per via di discorso e con la destrezza ch'è vostra propria ogn'un di questi modi, con chi vi parerà più convenire, per riferirne la disposizione, nella quale si trovano cotesti prelati d'acquietarsi. A noi pare verosimile che debba seguire con loro piena soddisfattione nell'avvertenze fatte agl'altri capitoli, noi non intendiamo persistere gagliardamente come non vediamo tampoco che codesti Prelati insistano più di tanto; perciò vogliamo credere che debba anche bastare una verbale protesta che Voi a nome nostro li facciate della sincerità della nostra intentione" (A.S.G., Archivio Segreto, busta 1390 = Canosa, p. 160 e nota 4).
Obbedendo ai mandati della Signoria Agostino Franzone si recò addirittura dal papa onde esporgli le varie preoccupazioni della Repubblica atteso il rigetto da parte dell'autorità ecclesiastica di alcuni "capitoli della natione hebraica".
Alla formale per quanto benevola accoglienza del Santo Padre non corrispose però alcuna concessione: egli rigettò tanto l'ipotesi di una "dichiarazione" del governo genovese quanto l'avanzata ipotesi di ristampare i "Capitoli" sopprimendo o meglio modificando il capitolo I: il fatto che i detti "Capitoli" fossero stati pubblicati e divulgati, a differenze di quanto era capitato altrove, costituiva a suo dire un "motivo di scandalo per tutti i popoli cristiani". E non a caso il Franzone, poco dopo, nel mese di settembre del 1658 ricevette una nuova visita, per ordine papale, di monsignor Vissani il quale mentre lo rassicurava che il testo dei "capitoli" per gli ebrei in Genova era stato zelantemente studiato e comparato lo ragguagliava della loro inaccettabilità per la Chiesa, viste le tante "oppositioni" riscontratevi, al segno che il Santo Padre era giunto alla conclusione di incaricare sia il cardinale arcivescovo di Genova quanto il padre inquisitore della città di addivenire ad un incontro con le autorità in modo da discutere l'abolizione dei capitoli controversi (Canosa, p. 160).
[ TRA XVII SECOLO E XVIII SECOLO
UNA SUMMA DEGLI INTERVENTI DELLA CHIESA A RIGUARDO DEGLI EBREI
LEGGIBILE SOTTO LA VOCE
HEBRAEUS
QUI DIGITALIZZATA DALL'OPERA DI LUCIO FERRARIS BIBLIOTHECA CANONICA, JURIDICA, MORALIS, THEOLOGICA....]
La Repubblica organizzò un suo schermo difensivo affidandosi alle competenze giuridiche di Giovanni Battista De Ferrari e di Agapito Centurione: l'arcivescovo prferì abbandonare la tenzone, evidentemente per il quieto vivere, e lasciò l'onere di trattare per la parte ecclesiastica all'inquisitore di Genova Agostino Cermelli, il primo inquisitore genovese di cui Angelico Aprosio ricoprì la carica di Vicario per la diocesi intemelia.
I punti dolenti della questione erano sostanzialmente due; il primo concerneva la revoca dei "Capitoli" pubblicati mentro il secondo verteva sul contenuto del primo capitolo che comportava la concessione del salvacondotto per il portofranco parimenti agli ebrei già cristiani. A giudizio del Cermelli questa sembrava una autorizzazione governativa all'apostasia, un delitto che per natura istituzionale era da sempre stato di competenza del foro ecclesiastico e non dell'autorità governativa laica.
Il Canosa, p. 161 e nota 161 a titolo documentario registra questa intitolazione di documento custodito nell'Archivio di Stato di Genova (Archivio Segreto, busta 1401): "Ristretto di quello è stato aggiustato con il padre inquisitore di S. Domenico intorno a quelli hebrei che fossero vissuti da christiani in quelle parti dove non è permesso di professare liberamente l'hebraismo non ostante che nel primo capitolo de pubblicati ultimamente per la natione hebrea si dica restar esclusi dal salvacondotto quelli che havessero apostato, quale ristretto è stato formato acciò per ogni tempo appaia per la verità del seguito".
I deputati laici incaricati dalla Repubblica obbiettarono contro le postulazioni del Cermelli che non era necessaria una cassazione completa dei capitoli ma che sarebbe stata sufficiente una dichiarazione a stampa tramite cui lo Stato genovese avesse sancito che, qual mai fosse la sostanza dei capitoli, nonera in alcun modo sua intenzione contravvenire ai sacri canoni ed alle costituzioni apostoliche di modo che agli ebrei operanti o residenti in Genova giammai si sarebbero concessi privilegi che travalicassero quelli concessi ai loro correligionari dagli altri principi cattolici.
In merito al temibile discorso sulla apostasia i due rappresentanti di genova sostennero che era necessario formulare due ipotesi ben distinte. Una che riguardasse gli ebrei che avessero abbracciato il cattolicesimo risiedendo in Stati ove potessero liberamente praticare il loro credo ed una invece che riguardasse altri ebrei, quelli meno fortunati che fossero stati obbligati alla conversione, abitando ed operando in Stati, come Spagna e Portogallo in primis, ove la pratica della loro fede fosse proibita e colpita severamente dalla legge tanto laica che ecclesiastica.
Secondo gli interpreti laici si poteva effettivamente parlare di apostasia nella prima evenienza ma non nella seconda atteso che la conversione degli ebrei al cattolicesimo era stata estorta con la violenza ed il terrore di maniera che, abbandonata l'area iberica, essi avevano potuto riprendere le loro pratiche religiose senza molestie da parte del foro ecclesiastico: la postulazione del De Ferrari e del Centurione, per quanto dettata dalla logica, non era però assolutamente esatta stando alle giuste considerazione del Canosa, p. 161.
I teoremi giuridici dei deputati laici di genova non incisero sull'intransigenza del Cermelli, che peraltro seguiva le indicazioni di Roma: sulla direttrice degli ordini della Santa Sede e del santo Ufficio egli continuava a reclamare la revoca dei capitoli mentre ribadiva, in una sorta di litania, che se in altri Stati gli ebrei fuggiaschi dai paesi iberici non erano perseguitati ciò dipendeva da uno stato di tolleranza tacita senza che nulla fosse mai stato verbalizzato e stampato da altri governi che non quello genovese. Per venire incontro ad un processo di conciliazione lo stesso Cermelli precisò, usando un'immagine popolareggiante e colorita, che qualora la repubblica avesse scelto la strada, abbastanza ambigua comunque, della tacita tolleranza il S. Ufficio, come in altri casi, "non avrebbe cercato il pelo nell'uovo.
A fronte di queste resistenze e delle minime concessioni ottenute i deputati di Genova non ebbero altra scelta che quella di appellarsi ai Collegi e quindi avvalersi del giudizio di alcuni teologi di fiducia leali alla Repubblica: questi ultimi, sostanzialmente vanificando le resistenze del Cermelli diedero il responso che la citata declaratoria a stampa da parte genovese sarebbe stata garanzia bastante per le autorità ecclesiastiche.
I vertici dello Stato, cui pervennero gli atti del contenzioso, non ebbero il coraggio di trascinare oltre la questione e volendo interporre una accettabile conclusione, menzionando la necessità di cedere alla "somma pietà e religione", formularono l'ordinanza di redigere nuovi capitoli ed il primo di questi , in definitiva il più discusso, venne rivisto in siffatta maniera dai nuovi estensori: "Concedesi ampio salvacondotto alla natione hebrea per le loro persone e beni nella forma istessa che godono nelle altre città d'Italia per il quale salvacondotto però resteranno esclusi per debiti che detti hebrei avessero contratto con nostri cittadini e sudditi in qualunque parte del mondo per i quali potranno essere convenuti" (A.S.G., fondo Archivio Segreto, 1390 A = Canosa, p. 162, nota 6). Padre Agostino Cermelli cui venne rimesso il tetso non lo accettò, come prevedibile: lui pretendeva, seguendo la propria logica, che del salvacondotto in alcuna maniera potessero godere gli ebrei che avessero apostatato dalla fede cristiana cui si fossero convertiti risiedendo in Stati estranei all'idea di persecuzione (e per questo dovette reiterare la promessa di non molestare gli ebrei che avessero ripreso la propria fede dopo esser stati costretti ad una conversione forzata in Spagna ed in Portogallo).
La Repubblica a questo punto, visto l'oltranzismo ecclesiastico, si trovò abbastanza inerte e non trovò altra via che appellarsi a questione economiche, precisando cioè quanto per lei fosse vitale l'attivismo degli ebrei giungenti da Spagna e Portogallo atteso che lo Stato di Genova, per la sua sterilità costituzionale, esigeva un attivismo mercantile cui gli ebrei erano necessari e che a sua volta era necessario per il sostentamento di "tante popolazioni" che diversamente "non potrebbero mantenersi".
In pratica, questa disperata protesta, aprì la strada al trionfo di Agostino Cermelli; ed il primo capitolo alla fine risultò modificato in questa guisa:"Concedono ampio salvacondotto alla natione hebrea per le loro persone e beni nella forma stessa che godono nelle altre città d'Italia; dal quale salvacondotto però resteranno esclusi quelli che havessero apostatato dalla nostra fede quei debiti che delli hebrei havessero contratto coi nostri cittadini".
Le distinzioni a pro degli ebrei provenienti da Spagna e Portogallo non comparivano e qualsiasi protezione statale contro eventuali processi per apostasia veniva meno: non restava che affidarsi alla promessa del Cermelli che egli "Non avrebbe cercato il pelo nell'uovo.
In effetti era un po' poco e ed allora , affinche "detta natione hebrea non s'adombrasse per la pubblicazione di nuovi capitoli riduttivi e ciò non comportasse l'interruzione dell'arrivo di ebrei spagnoli e portoghesi, venne "d'ordine pubblico fatto intendere a detta natione come, nonostante la publicatione di detti nuovi capitoli, detti hebrei vissuti in Spagna e Portogallo potevano liberamente venire perchè per detto capo non le sarebbe data molestia dal Foro ecclesiastico, havendo la Repubblica così concertato con esso".
ma gli eventi successivi contribuirono a vanificare questa ultima asserzione.
Nel 1660 approdò nel porto genovese una nave dello Stato che aveva caricato in Spagna due famiglie ebree "assai ben stanti di fortuna, per un totale di 12 persone: esse in Spagna "erano vissute e avevano fatto ogni atto da christiani e lo stesso havevano continuato a fare in tutto il tempo del viaggio": Genova, di questo viaggio, costituiva solo una tappa, perchéè la loro meta finale era la città ducale toscana di Livorno.
Nonostante ciò il Cermelli si attivò e, lungi dalla tolleranza di cui aveva lasciato intravedere le possibilità concrete, intervenne sulla base della delazione di un confessore domenicano, parimenti imbarcato su quella nave, cui quegli ebrei avrebbero confidato la loro volontà di raggiungere la relativamente sicura base di Livorno onde non solo mercanteggiare ma pure ritornare alla loro fede ed anzi farsene apostoli, prendendo a "giudaizzare".
Non ci soffermiamo a discutere sulle ambiguità del delatore domenicano, basti evincere come il Cermelli, senza discutere la notizia, abbia fatto richiesta allo Stato del braccio al fine di arrestare tutti e 12 gli individui.
Ottenne quanto voleva e li fece rinchiudere nelle carceri dell'Inquisizione di Genova: si trattava di una violazione palese delle promesse che il potere civile aveva appena fatto agli esponenti di tutta una "natione; fu questa la motivazione per cui lo Stato decise di assumere verso l'Inquisizione un atteggiamento più deciso di quanto fosse solito.
L'Inquisitore venne convocato personalmente dalDoge che non lesinò rimproveri specie perché il Cermelli nel procedere agli arresti, chiedendo il braccio secolare nulla aveva detto in merito alla condizione di ebrei delle persone in questione. Padre Agostino Cermelli, con alle spalle Santa Sede e congregazione del Santo Ufficio, si sentiva però sicuro e non andò oltre a delle scuse di circostanza promettendo unicamente che "haverebbe fatto una consulta sopra del seguito".
Appena conclusa l'udienza il Cermelli sicuro della propria posizione fece sparegere la voce che le sue giustificazioni eran state accolte: di conseguenza i Collegi ritennero opportuno inviare al convento di San Domenico il segretario che, a fianco dei due deputati, aveva già partecipato alle discussioni con l'Inquisitore in merito ai "Capitoli per gli Ebrei". Costui dopo avergli rammentato le sue promesse non rispettate, tra cui quella di "non cercare il pelo nell'uovo" soprattutto lo disingannò dalla maturata credenza di aver data soddisfazione al doge e contestualmente alle massime autorità governative di Genova.
Il Cermelli assunse un atteggiamento abbastanza riottoso sostenendo di essersi attenuto al rispetto degli accordi: addirittura precisò che, in merito alla sua gergale postulazione di "non cercare il pelo nell'uovo", ne aveva fatto un principio concreto ed applicato, atteso che in Genova egli aveva tollerato la residenza e l'operato di quattro o cinque individui che professavano senza problemi l'ebraismo dopo essersi comportati da cristiani in Spagna e Portogallo.
Aggiunse, a giustificazione del suo operato, che invece quanti aveva fatto arrestare sulla nave non erano da reputarsi ebrei visto che non erano circoncisi ma battezzati ed erano vissuti nei tempi pregressi da cristiani, al segno di comportarsi come tali anche sul vascello genovese, dove non avevano mancato neppure di far la confessione (Canosa, p. 164 e nota 8).
I teologi di fiducia della repubblica reputarono superficiali e pretestuose queste giustificazioni del Cermelli ma lo Stato genovese non prese altre iniziative: si preferì attendere che dopo gli arresti e gli interrogatori degli ebrei fermati dall'Inquisitore Roma pronunciasse il suo parere, prendendo finalmente una qualche posizione.
Il Cermelli, verso il 19 giugno 1660, si premunì di trasmettere alla Congregazione del Santo Ufficio in Roma i documenti in suo possesso e soprattutto i verbali degli interrogatori (tuttora custoditi in A.S.G., Archivio Segreto, busta 1401) esemplarmente studiati dal Canosa, p. 164 e seguenti di cui sono debitrici le seguenti sarcine narrative.
L'Inquisitore genovese fecce accompagnare il materiale da una sua epistola nella quale metteva in evidenza come le autorità genovesi, in questo caso tanto restie ad accettare il suo operato, si fossero altrimenti, pressoché nello stesso tempo, comportate sì da agevolarlo vistosamente: gli si riferiva al fatto che trovandosi nella necessità di far arrestare una donna "fuggiasca dal Santo Officio di Piacenza" e temendo che per il contenzioso in atto a ragion degli ebrei fermati il governo genovese non intendesse soccorrerlo aveva preferito rivolgersi ad alcuni "ministri" dell'arcivescovo genovese per fermare la donna in oggetto. Ed invece, con sua sorpresa, aveva poi potuto constatare che le autorità di genova, saputo ciò, avevano spedito celermente un loro segreterio presso il vicario dell'arcivescovo, invitandolo a desistere dalla concessione del "braccio" dato che il governo stesso e le autorità laiche tutte "erano pronti ad ogni suo cenno per servirlo.
Il Cermelli non aveva colto o più probabilmente non aveva voluto cogliere la distinzione: le autorità genovesi con questo gesto verisimilmente intendevano pubblicizzare come non fossero tanto contrarie all'operato legittimo dell'Inquisitore ma semmai come non ammettessero che questi operasse violando gli accordi e soprattutto l'autonomia dello Stato, come appunto nel caso degli ebrei arrestati.
L'anali dei verbali di interrogatorio degli ebrei è illuminante, come si evince ancora dalla lettura del citato Canosa.
La cosa che balza subito agli occhi è che l'Inquisitore operò autonomamente senza ricorrere in alcun modo all'ausilio dei "Protettori del Santo Uffizio" giammai citati nei documenti.
la lettura delle verbalizzazione è poi chiarificatrice della triste condizione degli ebrei in Spagna e Portogalle ove per vivere o meglio sopravvivere erano essi costretti a vari inganni ed espedienti, sì da professare nell'ombra quella fede che avrebbero desiderato professare pubblicamente e senza tema di atroci ritorsioni.
L'inquistore nel corso degli interrogatori battè più volte il tasto della propria inchiesta su una linea monotematica: se cioè quegli ebrei fossero battezzati o no, sposati con rito cattolico e se si fossero sempre comportati da cristiani.
Le risposte degli interrogati, per quanto talora abbastanza fumose, ed è arduo dire se per volontà o reale ignoranza, finirono comunque sempre per concludersi verso un'unica meta, che cioè la loro condizione nei Paesi iberici era stata ardua e realmente difficile da sopportare.
Ad esempio Beatrice Aries affermò d'aver avuto i natali in Portogallo ma d'essersi quindi trasferita in Spagna a Malaga dove rimase sempre ebrea, nella vita e nelle pratiche di fede, pur ammettendo che, per ragioni di sicurezza, qualche volta si era confessata e comunicata nell'ambito di una messa.
Isabella Diaz fu più drastica: negò d'essersi mai comportata da cristiana in Spagna, dove pur era sempre vissuta, e d'essersi costantemente mantenuta fedele al giudaismo pur non potendo dire nulla sul fatto se da piccola gli fosse stato amministrato il battesimo: anche in merito ai propri figli nulla seppe dire. Dopo che gli aveva dati alla luce qualcuno li aveva portati via per breve tempo: la donna non poteva giurare che in quel breve tempo a loro fosse stato o no impartito il battesimo ma, comunque, pure essi eran stati cresciuti secondo le costumanze ebraiche.
Gaspar Arbares sostenne con decisione d'esser sempre stato ebreo nel proprio animo ma si lasciò andare all'ammissione d'aver in qualche caso ceduto alla pratica del rito cattolica per motivi di tranquillità esistenziale. Sostenne peraltro di non poter dir nulla sull'eventuale battesimo della figlia Beatrice, allorché fu partorita dalla madre in Estremadura, anche se la donna gli aveva aveva una volta confidato che la neonata era stata battezzata. Lui era partito alla volta dell'Italia sperando di trovarvi la pace che non aveva riscontrato nel mondo iberico; concluse il suo interrogatorio dicendo :"Io son nato in Portogallo in Castel Blanco e tutti sono christiani e tutti si battezzano. Vi sono delli hebrei, ma occulti per timore del castigo e questi ancora fanno battezzar i suoi figli e non può essere altrimenti perchè sarebbero castigati rigorosamente.
Manuel, un altro degli ebrei fermati ed inquisiti, fece scrivere al verbalista:"Tutti li miei di casa, in casa con l'atri che eravamo, vivevamo secondo la legge hebraica e procuravamo osservar tutte le leggi e precetti, fuori di quello della circoncisione per non essere scoperti...Io mi partii di Spagna per andare a vivere conforme la legge hebrea in Livorno, ma sopra la nave l'istessa gente del vascello mi disse che gli hebrei vivevano liberamente e che il principe le aveva dato salvacondotto e che tutti potevano vivere conforme volevano, onde io risolsi di fermarmi in Genova essendo città grande e quando non havessi trovato a far bene il mio negotio di mercante, me ne sarei andato in Livorno e questa è la causa perchè mi partii si Spagna".
Analizzando con la solita competenza questa questione il Canosa p. 166 e seguenti mette in rilievo alcuni aspetti fondamentali:
1 - Si trattava di ebrei convertiti a forza in Spagna o Portogallo.
2 - Fuor di dubbio essi si erano indirizzati alla volta d'Italia per giudaizzare.
3 - In base alle leggi ecclesiastiche avendo siffanto intento di giudaizzare essi ricadevano sotto l'autorità del Tribunale dell'Inquisizione.
4 - Gli stessi "Capitoli" genovesi per la "natione hebrea" che ran stati contestati dalla santa Sede sancivano che dal salvacondotto si dovevano escludere gli ebrei giunti a Genova con la volontà di giudaizzare.
5 - Su queste basi l'intervento inquisitoriale di Padre Cermelli rientrava formalmente nel campo della legalità.
La Repubblica tuttavia eccepiva su questa linea, vi individuava forzature e costrizioni e opponeva all'Inquisitore una resistenza mai prima ostentata.
Genova in definitiva attendeva che si chiarisse ben bene la posizione di Roma e della santa Congregazione.
Che la resistenza genovese avessein qualche modo inciso sulle autorità ecclesiastiche romane, magari in concomitanza con l'agire troppo decisionista del Cermelli, si intuì vagamente da una lettera a quest'ultimo scritta dalla santa Sede dal cardinale Barberini.
Egli il giugno 1660 comunicò al Cermelli che il papa approvava sì i suoi sentimenti ed il suo agire deciso ma che lo esortava a non assumere alcuna decisione senza prima aver avuto ordini espliciti dalla Congregazione.
A questa missiva, nello stesso giorno, il cardinal Barberini notificò all'Inquisitore di Genova de il ministro residente in Roma allo scopo di curare gli affari di Genova aveva ribadito quell'emblematica e gergale frase, pronunciata dal Cermelli in occasione della "querelle sui "Capitoli per gli ebrei", che cioè all'atto pratico si sarebbe astenuto dal "cercare il pelo nell'uovo".
Per siffatta poco chiara ragione l'alto prelato romano invitò il Cermelli ad "avvisare sinceramente come sia passato questo negotiato [dei "Capitoli"] acciò si possano prendere le deliberationi che saranno convenienti".
Ed ancora il 23 giugno del 1660 il Barberini reiterò le sue raccomandazioni all'Inquisitore genovese invitandolo sì ad agire "virilmente e con prudenza e destrezza, potendo sperare che la pietà di codesti Signori non vorrà che il giusto" ma, emblematicamente, gli fece presente che per sanzione della Sacra Congregazione si riteneva opportuno che fossero liberati "li putti che non eccedono li dieci anni, quando oltre un'idonea sigurtà venga essa assicurata dalla parola del doge che non siano per essere sottratti altrove e che saranno collocati in casa di qualche christiano sin che termini la causa.
Obbiettivamente il Cermelli era subissato dalle comunicazioni provenienti da Roma ma, giustamente, il < ahref="bibliog.htm#canosa">Canosa, p. 167, nota 10 giudica embblematica questa altra lettera del 26 giugno (firmata "fra Vincenzo Preti ed ancora custodita all'Archivio di Stato di Genova , Archivio segreto. busta 1401):
"Il Residente di Genova è stato da tutti questi Signori cardinali, da Monsignor Assessore e si lamentava assai della sua persona e la sostanza consisteva che avea dato parola e fede di sopportare simili ebrei e sotto questa parola la Repubblica si era impegnata a farli venire. Io risposi che l'ebrei che hanno professato Christianità sono di due sorte, alcuni che non sono mai battezati, et hanno fatto nell'esterno atti da christiani per poter habitar e trafficare in paesi de christiani, dove non gli è permesso l'habitare e di questi haverà inteso Vostra Signoria; altri sono battezati e nell'interno hanno professato e professano la legge ebraica e nell'esterno si mostrano christiani et a questi non si può permettere inganno in pregiuditio della nostra Santa Fede, essendo essi apostati come li ebrei portughesi; di questi Vostra Signoria non haverà mai inteso d'imegnar e nella congregatione dei cardinali, il cardinale Albizi disse che ancor lui gli ha risposto con detta distintione, e perchè il detto residente mi lesse una longa lettera nella quale si replicava più volte queste parole, cioè che non haverebbe cercato il pelo nell'uovo, io gli dissi che per dette parole non si poteva raccogliere che essa havesse data fede publica di poter ricevere gli hebrei apostati e tutto il suo operato in cotesto negotio è stato ben inteso e lodata la sua diligenza, onde proseguisca pure virilmente". Padre Cermelli non mancò di rispondere alla corrispondenza romana, mirando a giustificare quanto gli era imputato, specialmente d'aver pronunciato quella "famigerata" frase che dettava "non cercherò il pelo nell'uovo": dicendo così egli, per quanto scrisse, non intendeva certo lasciar passare tranquillamente il fatto che avrebbe concesso autonomia di giudaizzare "come dicono questi perfidi" (A.S.G, Archivio Segreto, lettera del 3 luglio 1660).
E lo stesso inquisitore si difendeva davvero con vigore dall'accusa governativa di aver quasi estorto con inganni e sotterfugi il braccio secolare onde perseguire gli ebrei giunti via nave a Genova: in effetti non aveva torto, stando anche a quanto ha ricostruito il solito Canosa, pp. 167-168 e nota 12: stando alle note documentarie del governo di Genova alle ore 22 di un lunedì un frate domenicano inviato dal Cermelli sarebbe comparso innanzi al Senato mentre si andava discutendo, in seduta segreta, un argomento affatto semplice, e con una sollecitudine che avrebbe generato fretta nociva avrebbe chiesto la concessione del braccio onde fermare alcuni individui scoperti sopra una nave appena giunta in porto e che si sarebbero macchiati di atrocissimi crimini avverso la Santa Fede. I Senatori avrebbero prontamente aderito alla richiesta, anche per ritornare senza intoppi al loro delicato lavoro: ma, a rigor di logica, pare poco credibile che, attesi i dati forniti dal frate spedito dall'Inquisitore, non si fosse da alcuno perlomeno pensato agli ebrei giunti su un vascello di Genova, cosa che era stata abbastanza già divulgata per la città.
L'inquisitore era stato eccessivo ma a rigor di legge non aveva mancato dei dovuti rispetti: passò dalla parte del torto solo perchè la Santa Sede, influenzata dalla inusuale resistenza del governo genovese, pensò di risolvere con affettazione, come si suol dire al modo barocco, le cose, da un lato concedendo e dall'altro riuscendo a compensare.
Così il Barberini , il 3 luglio del 1660, scrisse ancora all'Inquisitore comunicandogli che per ordine del papa e della Congregazione gli ebrei erano da liberare e di rimettere su un vascello alla volta di Livorno. In questa maniera non si sarebbe "offesa la fede pubblica che imprudentemente i genovesi avevano dato pubblicando i primi "Capitoli per gli ebrei", capitoli la cui revoca verisimilmente non poteva esser pervenuta a conoscenza degli individui fermati. Conclusa così la questione all'Inquisitore sarebbe, per il futuro, rimasta la piena autorità di far incarcerare tutti coloro che si fossero portati a Genova per giudaizzare: ben s'intende compresi quegli stessi ebrei che al momento, per un cavillo, erano scampati alla giustizia del Tribunale dell'Inquisizione.
Il 10 luglio del 1660 l'Inquisitore si presentò al doge rassegnadogli la volontà romana: ad un primo momento il doge diede prova di grande soddisfazione atteso il fatto che il pontefice aveva dovuto riconosscere la"buona giustizia della Serenissima Repubblica" ma i suoi entusiasmi furono presto raggelati dal Cermelli pronto a ribattere che quella era stata una soluzione eccezionale visto che, per volontà della Santa Sede, la Repubblica da ora in poi mai più avrebbe dovuto permettere che "gente così perfida e scelerata come sono essi [gli ebrei] giudaizzanti" potesse prendere residenza nel territorio repubblicano al fine di far proselitismo. Il doge piccato ribattè che Genova non la cedeva ad alcun stato in materia di difesa della fede e che personalmente si augurava giungesse a tempo debito la chiarificazione su tutta la vicenda one render di pubblica ragione "l'infinite bugie e falsità che sono state riferite alla corte di Roma".
Non fu un incontro d'estrema cordialità: Padre Cermelli, quasi il suo fosse un ammonimento congendandosi, espresse l'auspicio che per l'avvenire Genova prestasse all'Inquisizione il braccio secolare secondo le vcchie costumanze ed il doge, congedandolo,ribattè con un'assicurazione acida, che faceva leva ancora una volta sull'affermazione dello zelo repubblicano in materia di fede, al punto che lo Stato cui era a capo non solo non era inferiore nella tutela della Chiesa ad altri Stati ma neppure ai religiosi, all'Inquisitore ed agli stessi signori cardinali".
Sostanzialmente nessuno era stato sconfitto, come nessuno era uscito vincitore dalla spiacevole vicenda: per quanto Genova si fosse dovuta avese ottenuta la liberazione degli ebrei arrestati e processati dovette però piegarsi ad espellerli. Contestualmente però non pagò, per l'avvenire, un peso troppo rilevante all'Inquisizione: anzi lo Stato divenne gradualmente meno cedevole nel concedere il braccio secolare all'Inquisitore, gli ebrei non ebbero a sopportatre vessazioni particolari e globalmente si finirono per accettare comportamenti in genere proibiti dalle costituzioni apostoliche.
Come ancora ricorda e scrive il Canosa, p. 169, nota 13 in varie note Roma fece notare come lo Stato di Genova, alla resa cei conti, risultasse più tollerante del Granducato di Toscana che "non ostante li privilegi concessi dalla casa Medici alla Natione Ebrea in Livorno più ampli di quelli di codesta Serenissima Repubblica sempre però òa pietà dei Granduchi ha lasciato il Braccio al Santo Officio di carcerarli e massime quando si è trattato di giudaizzanti, essendo cosa certissima di non avere la giurisdizione laicale alcuna podestà di permettere sicurezza e franchigia ne' delitti di lesa maestà di Fede, essendo cosa abominevole lo sentire fugire battezati e per conseguenza cattolici da paesi stranieri e venire a vivere apostati all'ebraismo in faccia a Roma nelle città più cattolizzanti d'italia e vivere in esse sfaciatamente nella loro apostasia" (passo da una lettera dell'Inquisitore di Pisa fra Giacomo Serra a quello di Genova fra Domenico Bassi il primo febbraio del 1718: ancora in A.S.G., Archivio Segreto, busta 1390 A).
Ma queste sono vicende del XVIII secolo che presuppongono il lento declino dell'Inquisizione anche per gli effetti dei nuovi pensieri e dell'approssimarsi sia del secolo dei lumi che delle trasformazioni epocali datatare sia dai presupposti ideologici della lotta all'Antico regime sia dall'avvento della Rivoluzione francese: per un approfondimento, che riguarda un periodo estraneo a quello in cui Aprosio espletò la sua carica di Vicario dell'Inquisizione, si rimanda il lettora interessato alla lettura del qui citatissimo Canosa, p. 169 - 172 e note). Ritornando al XVII secolo è opportuno fare qualche passo indietro rispetto alle vicende che coinvolsero padre Cermelli e soffermarsi sui rapporti tra Stato genovese ed Inquisizione come vennero a delinearsi sin dai primi decenni del XVII secolo.
Volendo scegliere una data emblematica di un cambiamento di atteggiamenti e di una minore sudditanza psicologica del Governo di Genova all'Inquisizione si deve obbligatoriamente citare l'ottobre del 1631 allorquando capitò un caso che generò non poco scompiglio e causò non lievi contrasti tra Inquisizione genovese ed autorità governative.
Il bargello di Genova stava con la sua scorta o "famiglia" girando intenti a "svolgere il loro ufficio allorquando sorpresero un individuo che procedeva in modo furtivo dando da credere che nascondesse qualche cosa di proibito: era così, una volta fermato, si scoprì che l'uomo portava celati tra le vesti una "terzetta" od "archibugio da ruota", con il "cane tirato e pronto ad attivare l'innesco: armi che gradualmente erano state proibite da varie ordinanze criminali tra il 1587 ed il 1605. Oltre a ciò lo stesso aveva con sè un'arma bianca, un coltello di tipo proibito per la lunghezza.
Non v'era scampo, l'arresto era inevitabile ma proprio mentre il piccolo corteo procedeva alla volta delle prigioni ecco sopraggiungere a cavallo un personaggio di grande rilievo ed autorità, si trattava dell'Inquisitore in persona Pietro Martire Ricciardi che, sceso dalla cavalcatura, aggredì i miliziani verbalmente ed anche coi fatti, urlando che l'arrestato era un uomo di sua fiducia, da rilasciare subito. Il bargello, come i suoi uomini, di fronte all'importanza del personaggio fu preso da sgomento e non potè impedire che l'arrestato si dileguasse rifugiandosi nella vicina chiesa di S. Matteo.
Presto la voce del popolo trasmise per ogni dove la notizia dell'incredibile evento. sStando alla narrazione sempre ben documentata del Canosa, p. 173Padre Ricciardi non si scusò dell'intempestivo intervento ma reagì con decisione a quello che riteneva un oltraggio, anzi un "affronto e strapazzo" che aveva colpito sia la sua persona che la sua altissima carica.
Le sue postulazioni vertevano su una considerazione di fatto abbastanza semplice: egli stava in quel frangente tornando alla città procedendo dalla Badia e, avvalendosi delle costituzioni apostoliche, si era fatto accompagnare, come lecito, da un suo servitore armato per ragioni della di lui incolumità.
Sulla base di queste ragioni egli passò presto al contrattacco verso le istituzioni e chiese che si dovesse "procedere a cattura e a censure nella persona del bargello al quale, contestualmente, tramite un proprio nunzio si premunì di fare le proprie intimazioni, sotto pena di scomunica e carcere.
Ma il bargello per nulla intimorito, ritenendo giustamente d'aver rispettato gli ordini connessi al suo servizio pubblico, provvedette ad arrestare il messo dell'Inquisitore.
A fronte di questa "offesa" l'Inquisitore fece applicare alla porta dell'arcivescovado genovese un "cedolone" e contestualmente ordinò che si distribuissero per la città alcune copie di una bolla di papa Giulio III sotto cui si tennero le Sessioni XII - XV del Concilio di Trento: contestualmente il Ricciardi avanzò la richiesta delle armi sequestrate al suo servente e specificatamente "per fare certe esecutioni" la concessione all'Inquisitore di un bargello.
I Collegi, a fronte di simili richieste, scelsero la via diplomatica ed inoltrarono lettere di protesta al cardinale Barberini in merito agli eventi registrati, chiedendo un correttivo papale avverso le intemperanze dell'Inquisitore: ma gli stessi Collegi non fecero opposizione alla concessione del "bargello", a condizione però che questi non espletasse nessun incarico dell'Inquisitore medesimo senza prima averne datat comunicazione ai "Protettori".
Alla radice di questo ultimo vincolo risedeva il non ingiustificato timore delle autorità genovesi che il Ricciardi potesse far arrestare il bargello Masino: quest'ultimo aveva interposto ricorso contro il procedimento intentatogli dell'Inquisitore, ma visto il rifiuto dello stesso, si era poi appellato al tribunale dell'arcivescovo di genova, proprio qualche giorno prima che il messo dell'Inquisizione venisse rilasciato dalle carceri.
Sulla scia di un tempo relativamente breve giunsero anche le risposte della Santa Sede e della Congregazione del Santo Officio.
Le richieste erano pressoché scontate: si voleva che le armi sequestrate fossero rese al servo delll'Inquisitore.
Oltre a ciò venne avanzata l'ingiunzione che il bargello Masino dovesse presentarsi al Santo Ufficio di Genova mentre le autorità cittadine fossero tenute ad imporre ai loro agenti di agire sempre con prontezza di zelo a pro dello stesso Santo Officio "tenendo per fermo che in questa occasione vorranno mostrare la medesima veneratione che hanno sempre havuto a questo sacro Tribunale e il zelo hereditato dalli maggiori che si mantenghi la dignità di quello" (questa espressione, invero piuttosto contorta, si può leggere in una lettera del cardinale di S. Sisto a Genova, datata 7/XII/1631).
Si passò comunque all'impegno concreto solo nel 1632, a partire dal 28 febbraio, allorquando in Genova arrivò padre Maculano da Fiorenzuola, colui che sino a due anni prima aveva ricoperto la carica di Inquisitore in Genova e che al momento era Vicario generale di s. Domenico.
Dapprima le autorità genovesi mostrarono risolutezza e sancirono assolutamente il divieto perpetuo per i famigli dell'Inquisizione di recare con sè delle armi ma poi, specie al fine di soddisfare il Maculano, si deliberarono alcune importanti concessioni.
In primo luogo venne ordinato di rendere al servitore dell'Inquisitore il coltello (ma non l'archibugio sequestrato), quindi fu sancito che il bargello Masino comparisse innonzi, non all'Inquisitore od al suo Vicario, ma a padre Maculano che l'avrebbe fatto esaminare da persona designata dall'inquisitore, persona che quasi immediatamente lo fece rilasciare come si legge in A.S.G., Archivio Segreto, buste 1402 e 1406a.
Contestualmente si ammise la concessione all'Inquisitore di un proprio bargello, secondo l'uso che era stato in vigore al tempo del maculano: quest'ultimo, in conclusione del contenzioso, avanzò personali riserve sulla condanna alla galera del bargello Bonfiglio accusato e condannato per aver catturato un eretico olandese su ordine del Santo Officio, olandese che su ordine dello stesso Santo Officio fu poi scarcerato a Roma ed espulso nel dicembre del 1631. Alle contestazioni del maculano le autorità civili di Genova risposero che la Signoria aveva agito correttamente dato che il bargello era venuto meno alle leggi della Repubblica.
A questo punto giova rammentare come il Canosa, p. 175, nota 2, al fine di chiarire le interazioni tra Inquisizione e Signoria in Genova, si sia valso, giustamente, di una "Informatione" allestita dalle autorità liguri nel 1631 e di una lettera del cardinale di S. Sisto, redatta ed inviata da Roma a Genova a nome della Congregazione, custodita presso l'Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto busta 1406 A.
Secondo le menzionata "Informatione" nel "foro dell'inquisitione si camina per termini diferenti dal solito et usitato per longhi e longhi anni: il documento pubblicato dalla Signoria mirava a segnalare e colpevolizzare certe alterazioni che erano sopravvenute nel contesto dei rapporti fra Stato e Tribunale ecclesiastico contro l'uso, cioè contro una tradizione sancita dall'uso attraverso i secoli.
Nella succitata "Informatione" specificatamente si legge "E si può dire veramente non senza scandalo poichè si vede manifestamente che in molti e molti casi di delitti conosciuti in quel foro contra quello che di rarissime volte sia seguito, o si sia inteso, si redimino le pene di delitti gravi con danari e per quello s'intende si opera anche con belli modi dai ministri dell'Inquisitione che li carcerati e condannati etiamdio di pena di Galera, o mentre sono in carcere, poi faccino supplica di tramutatione di pena o di liberatione, e poi oferendosi di pagar danari, sosì facilmente d'ottengono".
Nell'"Informatione" in particolare erano elencati alcuni casi ritenuti emblematici di un comportamento a dir poco per nulla lineare.
Uno di questo concerneva un certo Agostino Panatero che a suo tempo, con altri, era stato condannato per aver perpetrato alcuni sortilegi: il personaggio in questione era poi stato liberato, evidentemente per aver pagato e quindi avuta la trasmutazione della pena, mentre i suoi complici continuava a languire in prigione.
Si ricordava altresì tale Benedetto Mossino di Rapallo che era stato condannato per un reato di estrema gravità all'epoca, vale a dire la poligamia, a scontare in catene sette anni di remo ma che, contro ogni dettato giuridico, era stato praticamente subito liberato "per denari.
Un caso ulteriore registrato nell'"Informatione concerneva poi un certo numero di nobili i quali erano stati condannati per quel tipo di sortilegi gergalmente definito "ad amorem": nonostante la gravità del reato commesso costoro eran presto stati rilasciati per aver sborsato "centinara de scuti".
La citata "Informatione" aveva acceso l'attenzione di Roma e come leggesi nella menzionata lettera di risposta del cardinale di S. Sisto si era predisposta una sequela di accertamenti che tuttavia erano sfociati in un nulla di fatto e come previsto dalle autorità genovesi avevano esentato l'Inquisizione di Genova da ogni responsabilità, vizi o colpe. Rispetto ai fatti che avevano contrapposto negli anni '30 del XVII secolo il governo genovese all' Inquisizione, fu tuttavia eclatante lo scontro istituzionale avvenuto molto tempo dopo, ben oltre la metà dello stesso secolo, quando furono contrapposte le stesse autorità centrali di Genova e fra Michele Passi dal Bosco (originario dell'Alessandrino) fatto Iquisitore di Genova il 14 febbraio 1661 per gli effetti di un breve di papa Alessandro VII (il "breve" si custodisce presso l'Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, busta 1401)
Conscio dell'altissimo rilievo della carica conferitagli il padre domenicano Michele Pio Passi dal Bosco, nulla mai fece per nascondere gli estri del suo carattere autoritario e decisionista che gli causarono una storica ostilità popolare ed istituzionale: non era comunque un uomo di poco conto, nè sotto l'aspetto caratteriale nè sotto la prospettiva culturale: oltre che diretto superiore del vicario inquisitoriale Angelico Aprosio ne fu non solo corrispondente ma dall'erudito di Ventimiglia venne ascritto (p. XLV) tra i "Fautori" della Biblioteca Aprosiana: mediamente sfugge ai lettori che Padre Passi, nel 1673 Inquisitore Generale di Bologna, fu colui che concesse l'autorizzazione alla stampa (imprimatur) del repertorio bibliografico di Angelico, vale a dire l'erudito catalogo intitolato La Biblioteca Aprosiana.
Nel "Fondo Aprosio" presso la Biblioteca Universitaria di Genova si conservano nell'epistolario dei corrispondenti dell'Aprosio le seguenti e qui trascritte 25 lettere del Passi all'Aprosio.
Non ci è dato sapere, vista la loro dispersione, i contenuti delle lettere dell'Aprosio ma, tra le righe, nelle epistole a questo come agli altri inquisitori, si intuiscono, a prescindere dalla serietà ed efficienza dell'agostiniano, vere e proprie insicurezze peraltro giustificate ancor più che dall'ormai pressoché superato problema della caccia alle streghe dal problema mai veramente risolto, e forse risolvibile, dei libri proibiti ed ancor più della lotta ad eresiarchi, innovatori, apostati ecc. e quindi dalla posizione giuridica da tenere soprattutto in dipendenza del proliferare delle PROPOSITIONES DAMNATAE
vale a dire gli interventi pontifici spesso maturati in sintonia con la Congregazione del Sant'Ufficio in merito a proposizioni non accettate dalla Chiesa Romana, ritenute blasfeme e da condannare, portatrici di disordine ma anche divulgate da scrittori non privi di talento e competenza, fenomeno che continuerà attraverso il tempo per tutto il settecento e con punte di rilevante acredine.
L'intransigenza caratteriale indusse il Passi ad entrare pure in questioni estranee alla sua giurisdizione o nel contesto delle quali avrebbe dovuto agire con estrema circospezione, cosa che raramente o praticamente mai fece: agendo per eccesso mise quindi la Signoria genovese nella condizione di tentare di ridimensionare definitivamente la già controversa autorità del Sant'Ufficio.
Secondo l'interpretazione del Canosa, p. 177, nota 4 già nel 1661 allorquando il Passi si insediò nella sua carica potevano intuirsi i futuri contrasti istituzionali. L'Inquisitore, come tutti i suoi predecessori e seguendo la prassi in uso, dovette pubblicare un proprio editto: dall'analisi della stampa gli Inquisitori laici di Genova ne colsero un imprevisto difetto, che cioè il documento risultava sottoscritto da un frate notaro e non da un notaio laico, fatto giudicato assolutamente necessario per offrire il destro alla Signoria d'essere al corrente di quanto accadeva tra le mura del Tribunale dell'Inquisizione.
Contestualmente l'Inquisizione, facendo leva sui contenuti della bolla emessa nel 1561 dal Pio IV e titolata Pastoralis Officii, aveva spesso cercato di evitare i servigi di un notaio laico, anche servendosi, quando proprio le era stato impossibile avvalersi d'un frate notaro, dell'opera sì di un notaio laico ma non collegiato e quindi sostanzialmente meglio gestibile.
Il Passi a fronte delle contestazioni mossegli nulla oppose che il suo editto fosse rivisto e che portasse parimenti la firma di un notaio laico quasi che nulla fosse avvenuto, dovendo far pubblicare altro editto, con cui si segnalava la falsità di alcune indulgenze, egli nuovamente si servì di un notaio frate, salvo poi ancora correggersi, come nel caso precedente.
Erano segnali non incisivi, ma avrebbero potuto costituire un preavviso per la Signoria al fine di sondare l'imprevedibilità del nuovo Inquisitore ecclesiastico e soprattutto la sua costante ricerca di autonomia.
Il vero innesco a futuri contenziosi venne dato tuttavia, nel luglio dell'anno 1662, da un processo per bigamia.
Ne fu inquisito certo Benedetto Roccatagliata che aveva contratto un primo matrimonio in Corsica.
Costui, lasciata la consorte e riparato in Terraferma, contrasse nuovo matrimonio con certa Caterina Dal Palazzo.
La prima moglie, abbandonata la Corsica e raggiunta Genova, non impiegò però gran fatica a decifrare i contorni della vicenda e subito denunciò il caso alla giustizia: di conseguenza il Capitano del Bisagno, certo Torriglia, fermò il bigamo e Caterina, contro cui celermente si iniziò un procedimento penale.
A questo punto però il Passi, ragguagliato degli eventi, scrisse al Torriglia reclamando la giurisdizione sul caso.
Il Capitano ritenne però con giustezza suo dovere avvertire le autorità laiche che, per tutta risposta, gli ordinarono di "...tirare avanti il processo e di terminarlo quanto prima...": a questo imperativo fu aggiunta una postilla abbastanza decifrabile che dettava:"...acciò lo possiate fare con ogni brevità maggiore, vi habbiamo concesso bracchio regio et autorità straordinaria nel procedere sino alla sentenza esclusivamente e fatto che haverete il voto, ce lo farete pervenire e non essendovi officiatura lo farete havere a Sua Serenità...".
L'Inquisitore Passi non rimase ozioso et intendendo rivendicare le proprie prerogative intimò alla genovese rota criminale di non procedere: ma le cose non andarono secondo i suoi voleri e già il giorno 18 agosto fu emessa la condanna capitale avverso il Roccatagliata, commutata comunque subito in dieci anni di remo.
Fu a questo punto che padre Passi inviò due intimazioni al capitano del Bisagno: una di queste venne consegnata a mano direttamente da un padre olivetano ed una seconda fu redatta in due copie di cui una affissa alla porta dell'abitazione del capitano mentre l'altra venne esposta sul portale della chiesa di San Martino in Albaro.
Le postulazioni del Padre Inquisitore non erano complesse: per un verso sosteneva che bigamia, o comunque poligamia, non costituivano un reato di foro misto ma di foro ecclesiastico(cosa notoriamente contestata), per altro lato il Passi reiterava il concetto asserendo che giammai, come si sosteneva, egli aveva ipotizzato che quel reato potesse esser di foro misto, sì da comportare l'esame anche del giudice laico che per primo fosse intervenuto, ma che riguardava esclusivamente la giurisdizione del foro ecclesiastico come lui stesso aveva sottolineato innanzi alla Giunta di Giurisdizione di Genova.
I consulenti giuridici della Signoria giudicarono pretestuose ed infondate le affermazioni del Passi: come ancora scrive il Canosa, pp. 176 - 177 fu quindi attivato il "Residente" per Genova in Roma, lo Spinola, che coinvolse nella questione Santa Sede e Congregazione di maniera che le autorità ecclesiastiche romane fecero pressione su padre Passi onde non esarcebare una situazione già tesa: l'Inquisitore obbedì ed il padre olivetano venne espulso dallo Stato salvo poi venirvi reintegrato dopo una conciliante petizione dello stesso Residente Spinola.
Si ebbe un periodo di tranquillità in Genova nei rapporti fra istituzioni statali e Chiesa, fino a quando nel 1667 i vecchi contrasti riesplosero in maniera violenta.
La base del contenzioso è da individuare nel fatto che padre Passi decisamente avanzò la richiesta di avvalersi dei servigi di un notaio frate e non di un notaio collegiato laico, cosa che sembrava ormai acclarata per quanto sempre discussa dall'Inquisizione.
La ragione sostanziale di queste richieste stava in un nuovo modus operandi del passi, via via sempre più interventista, al segno di voler svolgere il suo ufficio di Inquisitore sia a bordo delle galere o triremi che all'interno delle carceri dello Stato.
In merito alle investigazioni a bordo delle galere le autorità genovesi gli concessero di valersi del Cancelliere laico Tommaso Testa (cosa che comunque venne rigettata): quando però il Passi, sempre sulla base della bolla di Pio IV, si servì di un frate notaio in occasione dell'interrogatorio di due detenuti entro le prigioni statali, la reazione dei Collegi fu immediata e l'Inquisitore venne convocato innanzi ai Protettori del Santo Uffizio onde essere ufficialmente ammonito a recedere per sempre, in futuro, da siffatto suo modo di agire. Padre Passi nella sua ricerca d'assoluta autonomia per l'Inquisizione genovese era anche giunto a travalicare i limiti del Dominio di Terraferma e ad estendere la propria attenzione sull'isola, sempre turbolenta, della Corsica.
Verisimilmente informato dalla sua crescente attenzione verso l'isola il Senato aveva ordinato al Magistrato della Corsica di aver cura che non si concedesse all'Inquisitore genovese od ai suoi vicari locali alcuna azione giudiziaria senza che prima si fosse fatto ricorso alla Signoria al fine d'ottenere la concessione del braccio.
Il Magistrato di Corsica non fu del tutto soddisfatto dell'ordine e il 21 giugno 1667 rispose all'ingiunzione senatoriale in maniera decisamente interlocutoria facendo presente che in base a tali deliberazioni senatoriali nell'isola si sarebbero potuto verificare episodi piuttosto gravi attesa la paralisi operativa del Sant'Ufficio e contestualmente vagliando il fatto che si operava "in un regno abitato da gente barbara, incolta, nodrita di vizi, di vendette trasversali, di spergiuri, d'incesti et altri che arguiscono una grandissima alienazione da' principi cattolici".
La risposta del Senato di Genova non tardò (23 giugno 1667) e fece leva sull'autonomia operativa del Magistrato cui si diede ordine, nel caso di crimini così gravi di non esser passabili di dilazione, di far le catture in suo nome e quindi trattenere i criminali nelle carceri locali a disposizione del Senato stesso.
Tutto sarebbe forse passato in sordina, atteso che trattavasi di corrispondenza segreta, ma uno dei componenti dei Collegi che aveva partecipato a siffatta deliberazione comportante un'innegabile limitazione dell'agire inquisitoriale ecclesiastico in Corsica, forse preso da reverenziale timore e paventando una scomunica a suo danno, ritenne opportuno di informare l'Inquisitore Passi che a sua volta scrisse a Roma per segnalare sia le "stravagnaze" delle autorità genovesi quanto le "angustie" operative in cui siffatte autorità lo andavano relegando.
A questa prima protesta il Passi fece seguire altre comunicazioni alla volta di Roma e della Congregazione: neppure si astenne dal chiedere un atteggiamento più deciso del papa in persona avverso le intromissioni della Repubblica genovese e forgiando tutto il suo castello accusatorio contro questa sulla base di un irrigidimento che contravveniva le pregresse accondiscendenze repubblicane a favore dell'Inquisizione.
Di questo può darci contezza il contenuto di una lettera del Passi datata 8-X-1667, idirizzata all'assessore del Santo Ufficio in Roma e puntualmente registrata dal Canosa, p. 178:
"...questi Signori [le autorità di Genova] allegheranno d'haver un concordato con il S. Ufficio e se non lo fingono io so da buona parte che no si trova cosa tale. Produrranno facilmente una lettera scritta al Podestà o Governatore di Scio da questa Repubblica nel modo che si doveva governare con l'inquisitore o vicario del S. Ufficio che risedeva nell'isola avanti che fosse soggetta a turchi, nella quale vi sono diverse esorbitanze contro la libertà del Santo Ufficio e da questa lettera a mio giudizio non si scorge se non che questi Signori hanno sempre avuto mal'animo verso il S. Ufficio al quale non tocca a loro di dare regola. Facilmente ancora produrranno una lettera di un inquisitore, credo dell'anno 1582, il quale fa una narratione delle norme da tenersi nel S. Ufficio, ma che auttorità ha un inquisitore particolare di fare statuti pregiudiciali alla Santa Inquisitione?".
Recuperandone il contenuto dall'Archivio di Stato di Genova (Archivio Segreto, busta 1401) il Canosa, pp. 178 - 179 e nota 6) trascrive un'emblematica lettera di padre Passi datata 10 ottobre 1668 ed in cui si legge:
"Dirò a Vostra Signoria Illustrissima [l'Assessore del S. Ufficio di Roma] che se Nostro Signore Papa Clemente IX dirà ancora due parole risentite circa del notaro regolare, che questi Signori [il Governo di Genova] finalmente piegheranno il capo, non complendoli di disgustare Sua santità dal quale possono ricevere gravissimi danni, spirituali e temporali, tanto più nella presente congiuntura de' danni ricevuti da francesi e dalle borrasche del mare...L'inquisitione non li usurpa giurisditione, havendo da Pio IV la facoltà di far notari etiam regolari, quali però non si estendono fuori della criminalità del Santo Tribunale. Non fa novità essendo in possesso da 98 anni, e ciò che dicono del 1582 e del 1602 non apparisce e dato che fusse vero il Santo Ufficio è in legittimo possesso per anni 65 almeno, ne quali senza contradditione alcuna ha adoprato notari regolari in atti pubblici e nelle firme di tanti editti stampati e publicati...Non è il solo notaro frate che intervenghi a tal fontione, ha sempre l'assistenza dell'Inquisitore, del vicario del vescovo, del fiscale giurista laico e con tal'assistenza certo è che non può fallare e in undici anni che indegnamente essercito l'ufficio di Inquisitore, alcun mio notaro frate in tal fontione non ha mai errato...Sicché li mottivi di questi Signori riuscendo così deboli, quasi necessariamente si deve presumere che li loro fini siano li accennati e che desiderino sapere ogni cosa. Io lo provo quotidianamente non parlandomi alcuno che non mi facci cento interrogatori per indagare ciò che si fa nel Sant'Ufficio, nè il giuramento al notaro laico sarà bastante per farli serbare il silentio con questi Signori, tanto più che qua corre questa dottrina che in ordine al Principe non tenghi sacramento o giuramento di segretezza in alcun suo suddito et io sono avvisato che il bargello e il tarlietta o sia mandatario del S. Uffitio non eseguiscono alcuna mia commissione, non ostante il giuramento, che non la partecipino ad alcuno dei Protettori del Santo Ufficio e specialmente al signor Gio batta Centurione, e se facessero altrimenti, guai a loro, sotto qualch'altro pretesto piglieriano la strada delle galee, dal che si vede ancor il loro desiderio di soggettarsi il S. Ufficio et impedirlo al loro beneplacito....
Concludendo l'analisi critica della lettera il Canosa, p. 179 cita la perorazione finale del Passi, vale a dire che nel caso la Sacra Congregazione ritenesse di allontanarlo dalla sede genovese gli venisse concesso il tempo di curare i propri interessi ed in particolare di "togliere l'opinione", sopraggiungendo un successore, che "fosse levato in pena.
In merito alla gravità della situazione assume un rilievo notevole quanto (recuperando il materiale dall'Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, busta 1406 B: "Lettera del cardinale Barberini del 7 luglio 1668") ancora scrive il Canosa, pp. 177 - 178 e note: "Il contrasto in merito al notaio arrivò a tal punto di acutezza che, nel luglio del 1668 la S. Congregazione temette che le autorità genovesi effettuassero una perquisizione all'interno del S. Ufficio al fine di rintracciare nel suo archivio documenti antichi che potessero comprovare il loro assunto. La Congregazione dispose che nel caso in cui questo malaugurato evento si fosse verificato l'inquisitore genovese non avrebbe dovuto muovere e nascondere nulla e fare altre novità che potessero indurre le autorità laiche a pensare che sia stata occultata alcuna scrittura e ristrettala più di quello che porta la solita cautela del Tribunale. All'Inquisitore fu soltanto ordinato di tenere pronti due testimoni ed un notaio i quali potessero testimoniare La violenza che i SS. Ministri bisognerebbe che facessero nell'aprire l'Archivio e cassette che sono in esso et in presenza dei quali si possano da Vostra Reverenza dichiarare et intimare le pene che secondo i sacri canoni incorrono quelli che procedono a simili attentati e violenza.
Fu però nel 1669 (maggio) che i fatti precipitaorno: Michele Passi si premurò di far esporre un suo editto alle porte delle chiese parecchie città del Dominio genovese: con tale editto si sanciva la proibizione della diffusione lettura di alcuni libri proibiti dalla Congregazione dell'Indice.
Di per sè l'iniziativa non sarebbe stata riprovevole per lo Stato genovese ma non risultava accettabile che per la stampa si fosse scelta una piazza fuori Genova, come Tortona, e soprattutto che l'editto recasse soltanto la firma del frate notaro proprio mentre a Roma si stata trattando in merito a ciò tra Repubblica e Santa Sede.
Fu a questo punto che la Signoria giunse alla decisione estremamente grave di provvedere all'espulsione dell'Inquisitore Michele Pio Passi dallo Stato: per sffatta ragione lo stesso venne chiamato innanzi ai Protettori del Santo Ufficio che lo obbligarono ad ascoltare la lettura, da parte del segretario, di un lungo documento di censura avverso il suo comportamento.
Fu a questo punto che, presa consapevolezza della situazione, il Passi reagì con inaspettata violenza, dando apertamente in escandescenze: si dovette quindi provvedere ad immobilizzarlo ed a farlo condurre fuori del territorio statale per mezzo di una seggetta e con l'accompagnamento di una scorta armata. Michele Pio Passi restò una figura negativa nella storia genovese; Carlo Brizzolari, L'Inquisizione a Genova e in Liguria, Genova, ERGA, 1974 pp. 37 - 38 in merito a tal personaggio registra un tardo manoscritto, del XVIII secolo addirittura, in cui tale inquisitore viene ancora descritto a tinte fosche e forse non equanimi. Tra altre cose si legge: "Nelle Religioni, le Cattedre non si conferiscono sempre al merito, e per lo più i grand'huomini sono poveri di fortuna, che solo come disse colui, de Pazzi ha cura [Luca Tosin nel suo citato saggio p. 71 non coglie la sfumatura derisoria del testo settecentesco ed ipotizza una variante cognominale Passi/Pazzi assolutamente infondata leggendo le lettere dell'Inquisitore all'Aprosio e specificatamente questa, abbastanza personale]. Questa lo portò al posto di Lettor maggiore in Mantova, dove cominciò a comparir l'inquietudine del suo spirito; fu poi eletto Inquisitor di Tortona, quindi passato, Dio sa come, al Tribunale di Genova, posto che frutta all'Inquisitore una buona rendita, essendo per tutti i capi riguardevole, eletto immediatamente dal Sommo Pontefice, e con una giurisdizione che passando i limiti del Genovesato e de suoi confini, passa il Mare e si estende nel Regno di Corsica, e in tutte quelle parti che cadono, o possono cadere, sotto il Dominio della Genovese Repubblica. Nella Religione fu conosciuto da tutti per inquieto, albagioso, machinatore, fazionario, interessato e capriccioso".
A Roma la notizia rimbalzò con effetto deflagrante, scatenando l'ira del papa e l'astio antigenovese della Congregazione.
La Repubblica di Genova, probabilmente dopo aver avuta l'assicurazione pontificia di un pronto trasferimento del Passi in altra sede, volle dare una testimonianza di buona volontà concedendo all'Inquisitore espulso la via del ritorno (agosto del 1670). Come previsto e prevedibile il Passi ricoprì per poco in Genova il suo ruolo di Inquisitore: dopo un anno, passato sostanzialmente nell'anonimato, venne sostituito dal bolognese domenicano fra Sisto Cerchi altro corrispondente dell'Aprosio, che continuava ad espletare nell'agro intemelio il suo ruolo di Vicario dell'Inquisizione.
Uomo non privo di cultura Padre Cerchi non ebbe però l'importanza culturale dei suoi predecessori Cermelli e Passi: fu comunque l'inquisitore che concesse l'imprimatur per un'opera di grande rilievo in Liguria com fu il libro di Raffaele Soprani intitolato Le vite dei pittori, scultori, architetti genovesi....
A Roma intanto la diplomazia genovese era all'opera per risolvere i diversi contrasti evolutisi con la Santa Sede.
Il Durazzo, emissario della Repubblica, cercava di aggirare l'irrigidimento delle massime autorità religiose in merito a due fondamentali quanto pregresse ragioni: l'assistenza dei "Protettori" ai processi dell'Inquisizione e contestualmente la liceità o meno dell'uso del notaio frate senza compartecipazione di un notaio laico collegiato.
La Santa Sede fondava le sue postulazioni su dati di fatto e faceva rilevare come per anni ed anni ai procedimenti inquisitoriali ecclesiastici era stato presente solo un notaio frate destinato a registrare le eventuali abiure.
Oggettivamente (come ancora scrive il Canosa, p.181) nel periodo compreso fra il 1530 ed il 1536 il notaio frate aveva verbalizzato da solo oltre 50 abiure: contestualmente i "Protettori" avevano assistito ad appena una ventina dei 380 processi del Tribunale ecclesiastico dell'Inquisizione tenutisi in Genova nel periodo racchiuso fra gli anni 1540 e 1583.
Il Durazzo poteva opporre ben poche opposizioni a fatti verbalizzati, si era piuttosto opacamente appellato ad un eventuale procedere "furtivo" dell'Inquisizione genovese, quasi che una struttura così nota e potente e spiata dalle autorità avesse potuto eludere nella quasi totalità dei casi qualsiasi controllo!
E poi rimaneva sempre in auge la questione del bargello da concedersi o meno in via definitiva all'Inquisitore in Genova: cosa su cui le autorità repubblicane verisimilmente avevano dato al Durazzo incarico di diluire e procrastinare nel tempo, temendo, non a torto, che la diretta gestione di una milizia armata ed autonoma accrescesse troppo i poteri dell'Inquisitore, a scapito anche della sorveglianza statale sulle sue operazioni.
Finalmente Genova si espresse in modo chiaro: il 12 e 13 marzo del 1671 il Minor Consiglio di Genova inviò al suo plenipotenziario in Roma delle direttive organiche. Secondo queste "in primis" egli avrebbe dovuto garantirsi, con le autorità romane, che in merito ai procedimenti del Tribunale della Santa Inquisizione i Protettori venissero chiamati ad assistere alle varie cause non ad insindacabile arbitrio dell'Inquisitore in carica (come peraltro rientrava nei desiderata romani) ma in ogni circostanza in cui si dibattessero cause gravi o comunque allorquando potessero insorgere ostacoli procedurali tali da doversi compiere quegli "esami gravi" in cui si "imponeva" per esempio l'applicazione della tortura.
Al diplomatico genovese furono anche spedite istruzioni in merito alla "faccenda" del notaio laico: essa sarebbe stata sempre da aversi, a fianco di quella di un notaro frate, pur concedendosi delle eccezioni di ambito prettamente religioso, come nel caso di una causa concernente, per esempio, le sollecitazioni in confessione. Padre Cerchi andò a ricoprire il suo incarico di Inquisitore a Genova il 25 aprile del 1671 e, rispettando l'uso, fece un atto di ossequio nei riguardi della Repubblica.
I presupposti formali di buona convivenza furono però allertati quasi subito allorquando l'Inquisitore alle colonne dell'importante piazza commerciale di Banchi fece affiggere un proprio editto, sottoscritto solo dal notaio frate.
Sui presupposti di questo comportamento autarchico prese corpo una conflittualità tra Inquisizione e Governo che durò per anni finché si ritenne doveroso porle un qualche freno addivenendo ad una serie di accordi.
Tra i più favorevoli a simile ipotesi conciliatrice stavano i cardinali Cybo e Borromeo che, in particolare, sviluppò un suo personale e condivisibile terema: se la Repubblica avesse alla fine dato prova di non voler coartare le prerogative del S. Ufficio, per parte propria quest'ultimo avrebbe dovuto mostrarsi più accondiscendente verso l'impiego di un notaio laico e la convocazione dei Protettori, fatta eccezione nel caso di procedimenti in cui il S. Ufficio avesse espressamente motivato e richiesto l'assenza di costoro.
Dopo la morte del Borromeo, le parti della Repubblica furono assunte da monsignor Negrone e da Cesare Gentile: anzi, come scrive il Canosa, p. 182, per un certo periodo ai due si unì anche il francese Signore di Gaumont appositamente delegato a ciò dal Sovrano di Francia.
A questo punto intercorre però una lettera al Gentile di monsignor Negrone abbastanza chiarificatrice in data 23 maggio 1673 e secondo il cui assunto si poteva dedurre che il papa, qualora Genova avesse ceduto sulla concessione di un bargello fisso all'Inquisizione, non avrebbe fatte grosse opposizioni sugli altri punti della controversia in essere.
In merito a ciò l'attento Canosa, pp. 182 e 183 relaziona tale assunto sulla base di documenti estratti dalla busta 1402 dell'Archivio Segreto custodita in Archivio di Stato di Genova e, prima di riprodurre la fondamentale missiva del 23 maggio 1673, si sofferma sulla registrazione di una lettera poco precedente del Negrone, datata 15 aprile 1673.
In uno stralcio di quest'ultima leggesi:
"...quanto al Santo Ufficio s'essagera costì sommamente il timore d'un Inquisitore con supporto, che possa recare pregiudici alla libertà, introdurre novità nel popolo e denigrare famiglie honorate, quando resti per se stesso una piena autorità, senza dipendenza. Di questo timore però non si porta caso alcuno seguito nè fondamenti di fatto, ma solo di possibile, convenendo per altro le parti in sostanza, cioè che in una molteplicità de casi possano essere chiamati gli Assistenti e così esser adoperato il notaro laico e questi sottoscrivere gl'Editti da publicare, benché in alcuni casi non sia ciò possibile e l'individuare i casi, per l'affermativa e negativa, sia cosa egualmente malagevole e difficile...".
Da questo rescritto di Monsignor Negrone acquista vigore la comprensione della citata lettera a Cesare Gentile del 23 maggio 1673 in cui, tra altre cose, si può emblematicamente leggere:
"Potrebbe dunque convenirse con mio mezzo pe questa parte, e per Vostra Signoria di costì che assegnatosi il suddetto bargello, da cotesti miei Signori Serenissimi da loro sempre amovibile, come piamente ora al Santo Tribunale ora si consente, da questa S. Congregatione, in corrispondenza, dì'ordine di Nostro Signore, si dessero al Padre Inquisitore quegli ordini per la buona corrispondenza...onde mai cadere possa dubbietà che col mezzo del S. Uffizio si voglia turbare la quiete del oro governo. In questa maniera si conseguirà la sostanza e non s'individuariano formalità che sono difficili ad accordarse. Ognuno resterà in libertà di operare secondo la corrispondenza del Compagno e si leveriano di mezzo hora gl'impegni e i pretesti che sempre possono essere pregiuditiali alla Repubblica Serenissima, anzi potrebbe sperarse che questa corrispondenza con Roma, dissipate finalmente le ombre, e ciò promosso che può dare maggiore unione, influisse ancora a maggiori sodisfationi delle Signorie loro Serenissime e particolarmente sopra quelle, di che hora mi persuado, restino giustamente travagliate...".
A fronte di queste assicurazioni la Signoria si rese diponibile a che al S. Ufficio venisse assegnato un bargello purché revocabile per sua decisione arbitrale e che comunque operasse secondo le metodiche che avevano preceduto l'infelice periodo in cui fu Inquisitore Generale Padre Passi.
La risposta della Santa Sede, pervenuta in Genova per mano del Negrone con una lettera del 19 giugno, risultò ispirata a piena soddisfazione, con l'assicurazione che per controparte non vi sarebbe stata difficoltà a contraccambiare con concessioni in merito al notaio laico ed agli assistenti.
Per sanzione governativa genovese fu quindi assegnato all'Inquisitore il bargello Cavagnari.
Per riassumere un poco questa vexata quaestio giova rifarsi a quanto il Canosa, p. 183, nota 9 riassume, recuperando materiale inedito da una "Memoria" custodita tuttora presso l'Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, busta 1402.
Il seidentesco documento, steso dal consultore padre Oldoino nei punti salienti detta:
"Il primo decreto in questa materia fu fatto dal Serenissimo Senato solo l'anno 1628, nel quale assegna al Padre Inquisitore il Bargello Montecastello per eseguire le catture contro coloro che gl'havesse detto il Padre Inquisitore, nel quale non si vede intentione alcuna del Serenissimo Senato di obligarsi a non revocarlo o a non sospenderlo, anzi par probabile che si revocasse, poichè nel 1630 si fece un altro decreto nel quale si determinò che si assegnasse un bargello e dall'Eccellentissimi di Palazzo fu assignato Massone per servizio del padre Inquisitore, in occasione che il suo Padre Vicario fece personalmente istanza del Braccio per fare alcuni esecutioni spettanti al Santo Ufficio e li Serenissimi Collegi, considerata la legge del 1576 ordinorno che si assegnasse un bargello per servire al Padre Inquisitore, conforme dispone la detta legge e conforme al solito, il che non era mai stato con obligatione di non poter revocarlo, anzi piuttosto apparisce il contrario, poichè l'anno seguente fu fatto il terzo decreto in occasione che il Padre Fioenzuola fece istanza alli Eccellentissimi Protettori acciò fusse dato al Padre Inquisitore il braccio libero, per cui si assegnasse un bargello a far le sue esecutioni liberamente e senza haver da prendere altra licenza e domandò espressamente Montecastello come pratico, per haver servito altra volta e li Serenissimi Collegi fecero rispondere che se gli sarebbe conceduto secondo il solito e gli sarebbe deputato Montecastello.
Espandendo e conchiudendo le sue riflessioni il Canosa (nel luogo citato) aggiunge:"Alle assegnazioni indicate, lo stesso "consulto", anche se compilato con mano diversa ne aggiunge altri tre, la prima del 1636, la seconda del 1644 e la terza del 1651. In realtà, come pure il consultore Oldoino mostra di capire, il vero problema non era la revocabilità del bargello, ma l'obbligo o meno dello stesso di chiedere al governo l'autorizzazione ad agire, ogni volta che l'Inquisitore glielo avesse ordinato".
Di rimpetto alle concessioni fatte Genova si attendeva comunque il rispetto contestuale della promessa contropartita ma ciò venne lestamente deluso dal modo d'agire dell'inquisitore Padre Cerchi che il 18 ottobre dello stesso anno fece pubblicare un suo editto fuori città e lo fece poi affiggere senza chiedere l'autorizzazione delle autorità dello Stato e soprattutto senza la controfirma del notaio laico.
La protesta della Signoria fu immediata ed evidentemente non rimase inascoltata perchè già l'anno seguente nel 1674 padre Cerchi dalle autorità centrali ecclesiastiche venne surrogato tramite il padre Tommaso Mazza. Padre Tommaso Mazza altro corrispondente dell'Aprosio, come scrive il Canosa, p. 184 convocò i Protettori del Santo Ufficio ad una Consulta in merito ad alcuni individui accusati di aver perpetrato bestemmie contro un'immagine della Vergine.
Erano tempi di serpeggiante superstizione in cui non raramente si ricorreva a presunte malie per ottenere i propri scopi.
Due donne vennero in seguito fermate in quanto ritenute responsabili di aver praticato il battesimo su di una calamita.
Sui principi del magnetismo, dell'attrazione, della simpatia e dell'antipatia tanto nel macrocosmo che nel microcosmo si erano andate sviluppando considerazioni scientifiche quanto nuovi teoremi terapeutici (connessi per esempio all'idea dell'unguento armario e della polvere simpatetica): e del resto le postulazioni dell'attrazione universale per simpatia era in vari casi accettata dalla Chiesa.
Ma sostanzialmente la forma di ricerca basilare per siffatte esperienze, cioè l'alchimia era intesa scienza interagente con la magia naturale, quanto con forme varie di magia proibita ed all'estremo con forze oscure e diaboliche.
La cosa poteva diventare anche più complicata nel caso che al centro della questione potesse risiedere un uomo di chiesa.
I Protettori parteciparono alla "consulta" per il caso delle due presunte "streghe" ma non fecero lo stesso in merito al prete accusato di analogo crimine preternaturale.
La ragione non fu però connessa allo stato sociale di quest'ultimo: la motivazione vera era di natura giuridica ed istituzionale.
Anche lo Stato aveva in sospetto l'alchimia: ma la non partecipazione dei magistrati dipese dal fatto che si dichiararono disposti a presenziare solo nel caso fosse stato operante un notaio laico.
Il Padre Inquisitore in effetti rispose d'aver nominato il notaro laico Giacomo Leonardo Badaracco, ma di fatto si avvalse sempre, anche nel caso del prete reo d'aver battezzata una calamita, del frate notaio.
Che Padre Mazza predicasse in una maniera ed in altra di fatto agisse lo si evince da altri segnali ancora: per esempio era usuale che ogni nuovo Inquisitore all'atto della sua entrata in carica facesse pubblicare un proprio editto.
Ebbe il Mazza ne fece pubblicare due: solo che mentre il primo, quello stampato e ben più diffuso, recava la firma del notaio frate, quella del notaro laico fu posta in calce al meno pubblicizzato editto manoscritto.
Le conseguenze non furono particolarmente rilevanti sino ad un altro evento, del giugno 1676 quando il domenicano Padre Inquisitore comunicò ad uno dei Protettori, tal Gio Batta Centurione, di aver condannato a cinque anni qual galeotto di catena un cero prete di nome Gio. Batta Casazza, chiedendogli se sarebbe stato rapidamente accorpato in qualche equipaggio delle Galee repubblicane. Impaziente per carattere l'Inquisitore non attese una risposta che ritenne presto comunque tardiva e senza ricorrere al braccio personalmente, con il seguito di due servi del vicario arcivescovile, di un suo famiglio e di tre o quattro frati condusse il reo all'arsenale e ne chiese l'accoglimento al funzionario civile alle galere, che, interposta qualche lieve difficoltà, a fronte dell'importante figura dell'Inquisitore, ne accettò la consegna sulla base di una nota personale del mazza.
La notizia giunse a Palazzo la sera del 31 luglio.
A livello governativo era ancora in essere la discussione sul da farsi che si verificò un caso sorprendente di cui ancora ci ragguaglia il Canosa, p. 185Il Padre Inquisitore Mazza aveva fatto affiggere alla porta della chiesa di S. Domenico di Genova, ma anche in altri luoghi della città, un suo editto che aveva fatto editare fuori della capitale: nel documento era minacciata la censura (nel senso anche di scomunica e scomunica maggiore se non interdetto) "contra amoventes (cioè contro chi avesse tolto il manifesto) ma la estendeva pure "contra mandantese, che verisimilmente altro non potevano essere che autorità statali. Per di più veniva riservata l'assoluzione alla Congregazione del S. Uffizio e la condizione per ottenerla era quella di denunziare gli autori dell'affissione: in prtaica era una dichiarazione di guerra non solo avverso dei servitori dello Stato ma altresì contro la Signoria, verismilmente mandataria di un'eventuale asportazione del documento cartaceo affisso.
Come scrive il Canosa i Collegi sfidarono l'Inquisitore ed immediatamente fecero asportare l'editto: poi si analzizzò più compiutamente la situazione venutasi a creare.
Si notò in particolare che dall'anno 1662 in poi i condannati alle galere per decisione processuale del S. Ufficio, erano stati sempre condotti sulle navi dal bargello una volta però che questi avesse "ricevuta la sentenza dal notaio laico Tommaso Testa: in dipendenza di ciò il Minor Consiglio emise la deliberazione che il Magistrato delle Galere rinviasse il Casazza al S. Ufficio opportunatamente incatenato.
L'ordine venne lestamente eseguito ed i ministri laici, dopo averlo portato alla chiesa di San Domenico, vi lasciarono il prigioniero, sempre ai ferri, e l' lo lasciarono andandosene verso l'una di notte venendo chiuse le porte del convento.
Nulla è certo su quanto poi accadde, l'ipotesi del Canosa, p. 185, affatto peregrina, è che il Casazza, trovatosi senza sorveglianza e forse addirittura aiutato dai frati del cenobio, sia fuggito.
Per quanto incredibile e per certi versi comica la faccenda ebbe riscontri polemici che si estesero dalle autorità genovesi alla Santa Sede, di maniera che il cardinale Raggi il quale curava gli interessi di Genova in Roma ebbe occasione in più lettere, pregne di preoccupazione, di comunicare alla Signoria lo sdegno che per l'evento increscioso andava serpeggiando nelle alte sfere ecclesiali di Roma.
Egli si premurò altresì di consigliare alle autorità genovesi il celere invio presso la Sede Pontificia di un ministro dotato "di spirito e di talento" affinchè si adoperasse a risolvere la questione prima che si procedesse all'elezione del nuovo papa.
A fronte della dura reazione della Santa Sede quasi contestualmente si verificarono a Genova alcuni episdodi destinati ad aggravare lo stato di conflittualità sussistente tra Inquisitore e Signoria.
In primo luogo al Mazza giunse disdicevole la perquisizione ordinata dai Protettori del Banco di San Giorgio nell'abbazia di S. Andrea di Sestri, nell'ipotesi che vi fossero conservate merci entrate nel territorio repubblicano di contrabbando: l'investigazione non portò a risultati probatori ma certamente irritò l'Inquisitore, che attivò prontamente le autorità romane, visto che l'abbazia era una proprietà del Sant'Ufficio.
La Congregazione (come scrive il Canosa, p. 186 e nota10) inviò subito una decisa protesta a Genova affermando che, essendosi violato per una perquisizione un edificio sacro del Sant'Ufficio, si era venuti meno al rispetto del principio di immunità ecclesiastica.
A tale postulazione la Signoria genovese rispose con prontezza, affermando che nell'operazione non si era verificata alcuna violazione di immunità atteso il fatto che l'indagine perquisitoria era stata effettuata nelle stanze del custode che nulla aveva abbiettato all'ingresso degli sbirri.
Tuttavia l'ira della Santa Sede fu sedata dal Governo di Genova con una procedura a dir poco discutibile (quanto forse necessaria dal lato formale data la situazione incandescente): l'arresto e la carcerazione sia del commissario preposto all'operazione che degli stessi sbirri.
Ma le tensioni non erano destinate a placarsi e questa volta gli eventi si succedettero in un'area periferica, precisamente nel territorio ponentino e rivierasco della podesteria di Taggia ove nell'agosto del 1676 l'Inquisizione aveva provveduto a far incarcerare tal Pellegrina Vivalda che era stata accusata d'essersi data a pratiche di stregoneria.
Era questa una zona a rischio, su cui si erano già contrapposte Inquiszioni e Stato in merito al tardo cinquecentesco episodio delle streghe di Triora appunto nell'alto entroteterra taggiasco.
Lo scontro, per quanto ci ragguaglia sempre il Romano Canosa, p. 186 e note, non ebbe risonanza tanto per la peculiarità dell'accusa e della relativa carcerazione quanto per le metodologie seguite: la prassi istituzionale non sarebbe stata in alcuna maniera rispettata.
Infatti l'arresto dell'accusata sarebbe stato compiuto da tali Gio. Batta e Bernardo Rolandi, parimenti abitanti a Taggia, qualificatisi alla stregua di sbirri del Sant'Ufficio.
La cosa non risultò giammai chiara, nemmeno per le autorità centrali.
Alla fine si appurò che già dall'anno 1637 l'Inquisitore in carica in Genova, il Ricciardi, aveva preso l'abitudine di valersi qual suo ufficiale di Gio. Batta Rolandi cui aveva rilasciato una specifica patente: gli Inquisitori successivi avevano quindi ripetuto la nomina e riconfermata la patente, anzi il discusso Padre Michele Pio Passi dal Bosco una analoga patente aveva rilasciato a vantaggio del figlio di Gio. Batta, appunto Benedetto Rolandi.
A riprova di queste scelte autonome e unilaterali degli Inquisitore di Genova si appurò poi che il moderno Inquisitore padre Tommaso Mazza aveva conferito la nomina di bargello del Santo Ufficio per il territorio del Governatorato di Sanremo ad un certo Gio. Batta Sacco: il Canosa, p. 186 e nota 12 ci ragguaglia su come il decreto di nomina venne firmato da un notaro del Santo Ufficio di Genova tal padre Tommaso Raineri da Forlì.
Erano scelte discutibili, indicazioni di una prevaricazione dell'Inquisitore genovese sui diritti istituzionali della Repubblica e verisimilmente per questa motivazione il nuovo pontefice Innocenzo XI, vagliati anche i tempi non facili per la Santa Sede, optò per la strada della conciliazione e della diplomazia.
Il 24 settembre dell'anno 1677 il plenipotenziario di Genova a Roma, il Lercaro, avvisò il proprio governo come il il papa fosse finalmente arrivato alla decisione, acclarata anche da eminenti cardinali come il Cybo, che l'Inquisitore di Genova allorquando avesse dovuto pubblicare bandi pubblici, editti o sentenze non si sarebbe potuto esimere più dai servigi di un notaro pubblico collegiato che vi apponesse la propria firma congiuntamente a quella del notaio frate.
Oltre a ciò secondo le direttive del pontefice l'Inquisitore sarebbe stato per sempre obbligato a richiedere la partecipazione degli assistenti laici alla lettura di procedimenti sia offensivi che difensivi, antecedentemente alla pubblicazione della sentenza, "senza pregiuditio del facoltativo".
Per compensare tale concessioni la Repubblica sarebbe stata tenuta a concedere per i suoi compiti di polizia all'Inquisitore un permanente bargello . Nel 1677, dopo tante contese, parve risolta con siffatto concordato la querelle tra Inquisizione e Repubblica di Genova.
Ma non si era ancora giunti ad una soluzione definitiva: infatti il Protettore Gio. Batta Centurione allorquando verso la fine del 1677 gli si presentò l'Inquisitore Mazza ad enunciare la sua interpretazione del concordato si rese subito conto che questi non correvano sulla stessa linea valutativa del Governo.
L'Inquisitore infatti andava reiterando il suo principio per cui la partecipazione dei Protettori sarebbe dovuta avvenire solo in occasione di procedimenti in cui la stessa fosse stata reputata dall'Inquisitore stesso "di servizio del Sant'Ufficio, buon governo e convenienza".
Oggettivamente l'Inquisitore Mazza non aveva ragione, specie quando sostenne d'essersi posto in sintonia con le direttive della Santa Sede (lettera dei Collegi al Lercaro, 23/XII/1677 = A.S.G., Archivio Segreto, busta 1404).
Tramite il Lercaro, parimenti stupito della posizione assunta dall'Inquisitore di genova, si inoltrò una serie di quesiti alle autorità della Santa Sede e le risposte ricevute furono titubanti come se si cercasse di eludere un punto dolente senza ammettere troppo le responsabilità ecclesiastiche: in effetti il cardinale Spinola fece cenne ad un presunto irrigidimento papale per la supposta lentezza genovese nel concedere il bargello all'Inquisitore ma il cardinal Cybo non manco di sottolineare che forse l'Inquisitore aveva avuto la pretesa di apparire "più zelante di quel che convenga".
Nonostante la loro posizione conciliante, che ricalcava le direttive papali, entrambi i summenzionati cardinali non diedero molta soddisfazione al Lercaro nello scrivere all' Inquisitore Mazza di attenersi alla sostanza giuridica del concordato.
Si dovette attendere il 12 gennaio 1678 perchè il rappresentante di Genova avesse soddisfazione alle sue richieste: in particolare ebbe successo nell'intento di farsi rilasciare una copia del testo con cui il decreto in merito ai "Protettori" era stato ingressato fra i documenti del S. Ufficio di Roma.
Nella copia si poteva ben leggere che era stata soppressa la formula "senza pregiuditio del facoltativo" e che era stata surrogata con la ben diversa formula "ad arbitrio: non era cosa da poco (come fa notare il Canosa pp. 187 - 189) mentra con la prima formula non si lasciava troppa discrezionalità all'Inquisitore, tramite la seconda gli si concedeva una assoluta potenzialità decisionale.
Genova, giudicando non accettabile questa formula nuova della cui stesura non era stata edotta, obbligò il Lercaro a far pressione sul cardinale Cybo che mantenne però una posizione incerta e titubante: tanto che alla fine, quasi rovesciandosi i termini della questione, fu il pontefice a lamentarsi per la supposta "incontentabilità" dei genovesi.
Fu allora che il filogenovese Cybo decise di prendere in mano la situazione e di appellarsi chiaramente al papa ottenendo dopo non pochi sforzi che la formula ancora una volta venisse modificata e ritrascritta nella meniera che dettava: "a riserva dell'arbitrio della S. Gongregazione".
In effetti, pur comportando ciò un ridimensionamento del potere estremo che la formula precedente consentiva all'Inquisitore di genova, anche questa soluzione non era certo ottimale per la Signoria: atteso in particolare che nel campo di una materia tanto delicata le competenze decisionali in definitiva divenivano spettanza di un organo che risiedeva estremamente lontano dal Dominio genovese e che dei problemi reali di questo aveva in effetti scarsa competenze.
E così la fissazione definitiva dei termini concordatari ancora una volta finì per essere dilazionata.
Del resto, facendo opposizione formale contro opposizione formale, la Signoria sostenne apertamente che la questione del ritardo nell'assegnazione del bargello era pretestuosa e verisimilmente capziosa al fine di procrastinare la risoluzione degli altri problemi ad opera della Santa Sede.
Roma aveva costruito sull'argomento il suo castello di proteste in quanto era stata usata dalla burocrazia genovese, in merito alla questione, l'espressione "bargello del mese: la capziosità ecclesiastica nell'interpretazione di questa formula sarebbe dipesa dal fatto d'aver voluto interpretare la formula "bargello del mese nella pericolosamente analoga espressione "bargello per un mese, quasi a restringere in un tempo prefissato la concessione evidentemente da reiterare se necessario.
Genova interpretava la formula in senso estensivo, escludendo ogni ambiguità, e ne giustificava la semantica sulla base del fatto che nella città tutti i bargelli duravano in carica per un un mese nel servizio più immediato del Palazzo pretorio: ma l'attento Canosa, p. 188 non esclude nel suo volume che dietro l'apparente modulistica della burocrazia la politica genovese avesse arroccato un meccanismo interinale meno periglioso di concessioni definitive e drastiche.
Accaddero però degli eventi imprevisti, di vita reali che finirono per interagire con le opzioni diplomatiche.
Si era contestualmente verificato il caso, certo non edificante, di tre giovani che avevano ricevuto la comunione nell'Albergo di Carbonara: si era scoperto che questi appena lasciato l'edificio avevano raccolto le ostie, da loro non inghiottite, evidentemente per compiere qualche delitto di stregheria come solitamente si temeva in queste circostanze: soprattutto per confezionare riti magici connessi a malefici d'amore.
Secondo la normativa penale in vigore il reato era di sacrilegio e, seguendo la prassi, una volta scoperti ed arrestati i tre giovani vennero consegnati dai Protettori al Padre Inquisitore che era il Mazza.
Fino a questo punto ogni cosa avvenne secondo le regole istituzionali, poi di colpo si ebbero sorprese impreviste.
Qualche giorno dopo all'Albergo giunsero due frati domenicani cui l'Inquisitore aveva dato ordine di investigare sui fatti, ispezionando i luoghi quanto interrogando alcuni testimoni: tornarono anche il giorno successivo a continuare la loro opera.
La cosa non restò ignorata ma pervenne presto ad uno dei Protettori in carica il quale decise di spedire il proprio cancelliere presso il adre Inquisitore onde fargli notare la scorrettezza formale di tutto ciò: egli infatti sarebbe stato obbligato dalle convenzioni ad interpellare le autorità di maniera che i gestori o ministri dell'Albergo ricevessero l'obbligatoria "permissione" (che nessuno aveva intenzione di rifiutare) a relazionarlo.
A dimostrazione della buona intenzione ad operare in sintonia con il Sant'Ufficio proprio i Protettori poco tempo dopo si appellarono all'Inquisizione chiedendo che quanto prima i tre giovani, sempre incarcerati, fossero sottoposti a giudizio e puniti per aver infangato la "santissima Eucarestia"
Padre Mazza non potè certo fare alcuna obiezione a fronte di tanta disponibilità, non ebbe alternativa che quella di giustificarsi sia adducendo un suo momentaneo periodo di cattiva salute sia affermando che si riteneva in dovere di approfondire le indagini data la delicatezza del caso: tuttavia non potè esimersi dal rassegnare al cancelliere le sue più fervide congratulazioni per il rispetto di cui al momento , contro vecchie costumanze, godeva presso il Governo il Santo Ufficio.
Sembrava su queste basi che i rapporti vieppiù si appianassero fino ad una completa e bilaterale accettazione, con piena soddisfazione del concordato, al segno che il 17 giugno 1678 il ministro plenipotenziario genovese Lercaro da Roma scrisse alla Signoria genovese che, date le sue pressioni diplomatiche, lo stesso Prefetto della Congregazione del Santo Ufficio il potentissimo Cardinale Barberini vrebbe scritto al Padre Inquisitore Mazza ordinandogli che per il futuro i Protettori avrebbe dovuto sempre poter presenziare ai processi dell'inquisizione ecclesiastica "...quando però non li venga ingionto in contrario dalla Congregazione".
La chiusa limitativa era evidente (lettera del Lercaro, in copia, del 17 giugno 1678 in A.S.G. = Archivio Segreto, busta 1404) ma comportava indubbiamente i segnali di una grande e soddisfacente (per Genova) apertura da parte della Congregazione romana.
Espressamente la lettera del Barberini, registrata dal Canosa, p. 190, nota 18 che a sua volta la recupera dall'Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, busta 1405), così dettava testualmente:
"Essendosi fatta mattura discussione nelle differenze molto tempo fa vertenti fra cotesta Republica e questa Suprema et Universale Inquisitione in una congregazione particolare e poi in altra generale, tanto intorno al notaro secolare del Santo Ufficio, quanto a Signori Protettori del medesimo Santo Ufficio, si sono compiaciuti questi miei Colleghi di condescendere che la Republica faccia sottoscrivere dal suddetto notario secolare unitamente al notario regolare del Santo Ufficio gli editti, sentenze e decreti che d'ordine suo doveranno costì in avvenire publicarsi e che faccia chiamare li suddetti Protettori nell'atto della spedizione delle cause prima della pubblicazione delle sentenze e doppo che saranno terminati li processi offensivi e defensivi, con riserva però dell'arbitrio di questa S. Congregazione la quale havendo referito tutto questo alla Santità di Nostro Signore è stato dalla medesima benignamente approvato. Dovrà pertanto Vostra Reverenza nell'avvenire osservare interamente questi ordini della Santità Sua e della S. Congregazione e conformarsi in tutto ai medesimi con ogni pontualità et esattezza".
Padre Mazza si mosse però con ingiustificata circospezione guardandosi bene dal presentare ai Protettori l'Ordine della Congregazione.
Però i Protettori, ben al corrente dello stato delle cose grazie ai ragguagli del Lercaro, ebbero il destro per metterlo con le spalle al muro chiedendogli di dar loro contezza degli ordini ricevuti.
L'Inquisitore cercò una qualche scappatoia ma nulla seppe fare che confermare il ricevimento della lettera e dilazionere, per indecifrabili motivazioni, la sua ostentazione ai magistrati laici che lo avevano interpellato.
L'ambiguità di questo atteggiamento fu tale che i Protettori, giustamente, si ritennero in diritto di far rimostranze annotando, come riporta il Canosa, pp. 189 - 190, una poco favorevole propensione del pervicace Inquisitore nei riguardi della Serenissima Repubblica attesa "la maniera tenuta [dallo stesso Inquisitroe Mazza] con farsi poco men che estorquere una notizia che egli medesimo avrebbe dovuto sollecitarsi di partecipare e per incontrare il debito da lui contratto con la sinistra interpretatione degli ordini ricevuti". Romano Canosa, pp. 191 e segg. verso la fine del suo volume riassume utilmente alcuni dati che permettono di identificare alcuni aspetti del "funzionamento" della Santa Inquisizione nel genovesato durante il XVII secolo, quello cioè in cui Angelico Aprosio espletò il suo incarico di Vicario del Santo Ufficio per l'agro intemelio.
L'attento autore ci ragguaglia, proemialmente, che l'assistenza dei genovesi e laici Protettori alla lettura delle sentenze del tribunale inquisitoriale ecclesiastico era, dopo tante discussioni, un fatto acclarato.
A comprova del suo assunto (sfruttando materiale documentario recuperato presso l'Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, busta 1402) l'attento studioso riporta proprio una relazione dei Protettori (Gio. Battista Centurione e Giannettino Doria) in relazione alla pronuncia della sentenza (19 marzo 1692) di un procedimento inquisitoriale avverso tal fiorentino Alberto De Lorenzi.
I due magistrati genovesi preposti a vigilare sull'opera del Tribunale dell'Inquisizione in Genova lasciarono scritto in merito a tale evento:
"...Subito giunti in detta stanza il Padre Inquisitore ha fatto sedere li suddetti Eccellentissimi Deputati nelle sedie già dette di velluti...et immediatamente ha ordinato al padre notario che legga il processo del suddetto reo, come così ha eseguito stando in piedi, la quale lettura seguita, ha detto Padre Inquisitore fatto entrare Mons. Vicario generale arcivescovile che era in abito di cerimonia, cioè con rocchetto e mantellina pavonazza con molti altri consultori del S. Ufficio, si secolari come ecclesiastici, et esso Padre Inquisitore con detto Mons. Vicario si sono posti a sedere nelle due sedie in capo al tavolino, alla destra l'Inquisitore et alla sinistra il Vicario suddetto, restando sempre li Eccellentissimi a sedere a fianco loro...Doppo tal ordine il bargello ha portato il reo legato con manette in mezzo di detta stanza vicino al tavolino et immediatamente il padre notario che stava in piedi a man sinistra del detto tavolino ha iniziato ad intelligenza di tutti la lettura del sommario di detto processo, qual finita dopo una breve corretione fatta al reo dal Padre Inquisitore, è stata al medesimo intimata la sentenza d'anni sette di galea con una penitenza salutare di recitare la corona di Nostra Signora ogni settimana... e di più star esposto nella porta della Chiesa di S. Domenico con un freno in bocca lo spazio che durerà la messa solenne in questo giorno della festa di S. Giuseppe".
Ancora il Romano Canosa, nello stesso luogo prima citato, riproduce lo stralcio di una "rappresentazione del 1696 fatta dai Protettori alla Signoria laddove risulta il rispetto di questa "formalità" da parte dell'Inquisizione: "...benché ne habbia procurato alteratione il Padre Inquisitore precedente, ora Commissario del S. Ufficio in Roma, è stata religiosamente osservata, in quanto si è potuto scorgere, dal padre Bertucci, inquisitore moderno" (Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, busta 1404).
Proseguendo la lettura del Canosa pp. 191 e segg. si evince tuttavia che se per questo verso le cose procedevano secondo le aspettative "altri aspetti del funzionamento del tribunale preoccupavano il governo della Repubblica".
Quella più citata risulta essere la questione delle Consulte vale a dire "l'esame finale da parte dei giudici e dei loro consulenti giuridici e teologici, tipico di tutti i processi inquisitoriali" che stando alla mentovata "rappresentazione" dei Protettori del Santo Ufficio più non si tenevano a Genova "non solo ne' termini che si praticava anticamente, ma nemmeno nelle formalità che anche nello stato più depresso anteriore all'ultimo aggiustamento era introdotta".
Come ancora scrive il Canosa, p. 192 "Il posto della Consulta come luogo di decisione delle cause era stato preso dagli ordini ricevuti da Roma che stabiliva per tutti i processi inquisitoriali qualità e quantità delle pene che il tribunale avrebbe dovuto infliggere".
Il pontefice, direttamente coinvolto nella questione, non pareva esser rimasto insensibile all'osservazione dei Protettori per cui siffatto cambiamento operativo risultava apertamente in contrasto al "...dovere e alla buona consuetudine, pregiuditiale ai processati, gravoso ai popoli, distruttivo della sostanza del tribunale e disdicevole a molte convenienze pubbliche": per siffatta ragione il papa, a suo dire, avrebbe " studiato di dare alla repubblica tutto quel maggior gusto che havesse potuto".
E verisimilmente, proprio per calmare le acque e dare sostanza a questa pontificia affermazione, il nuovo Inquisitore ecclesiastico di Genova tenne una Consulta in occasione di un procedimento abbastanza importanta, Consulta cui presero parte con altri Francesco Maria Doria, Francesco Maria Lercaro, i Magnifici Nicolò Passano e Marc'Antonio Gentile oltre ai Protettori Gio. Batta Centurione e Agostino Saluzzo.
Evidentemente si era trattato di un momentaneo accorgimento per tacitare le rimostranze genovesi atteso che il Padre Inquisitore, nei processi successivi, ripristinò la nuova metodologia, che comportava in pratica lo svolgimento dei processi a Roma e che coimplicava vari elementi negativi come una lunga carcerazione degli inquisiti e, indubbiamente, la violazione dei diritti dello stato genovese.
A confortare siffatta situazione storica Romano Canosa, p. 192 riprende i termini di una "Relazione" congiuntamente realizzata nel 1696 dai Protettori in collaborazione coi membri della Giunta di Giurisdizione: nel documento si faceva rilevare come da oramai 18 anni la Consulta non veniva di fatto più praticata "anche omessa quella pura apparenza che si pratticava nello stato più depresso, cioè a dire la formalità della Consulta e di inviarla a Roma per la decisione".
A fronte di queste proteste i componenti dei due organi politico-amministrativi erano ben consci delle difficoltà tanto del problema quanto dei correttivi da individuare: si ipotizzò, non senza tremore, di frapporre, qualora Roma fosse rimasta sorda ad ogni querela, degli impedimenti alla cattura degli inquisiti da parte del Santo Ufficio.
Il tremore indubbiamente derivava dalla consapevolezza che la Santa Sede avrebbe potuto contestare a Genova non solo di ostacolare i servizi del Tribunale dell'Inquisizione ma anche di favorire l'impunità a fronte di delitti e crimini di indubbia gravità.
Tentando di mediare in un campo così delicato, e soprattutto a contestazioni patibili da Genova in merito alla seconda possibilità, nella citata "Relazione", vagliando come in campo religioso sempre meno frequenti fossero i reati di mera eresia a fronte di quelli di misto foro, si ipotizzò apertamente di estendere le competenze del Magistrato degli Inquisitori di Stato, "...ampliando anche l'autorità che detti Signori Inquisitori tengono contro quei che nelle chiese commettono qualche delitto ad altri simili che possono riguardare il serviggio di Dio anche fuori delle dette chiese".
A questo punto come ragguaglia ancora il Canosa, p. 193 sopravvenne il caso Dupuis, l'arresto cioè di un prete francese tale Giacomo Dupuis che fu fatto arrestare e quindi venne condannato dal Tribunale dell'Inquisizione a 7 anni di remo per essersi macchiato del crimine di poligamia: tutto era avvenuto attraverso le gerarchie ecclesiastiche e lo Stato genovese non vi aveva avuta alcuna parte, anche i Protettori non erano sati interpellati ed erano di fatto stati relegati al ruolo di "semplici testimoni alla sentenza pubblicata, già determinata a Roma".
Il Canosa, p. 193 riassume abilmente la stringente protesta della Signoria, comportante un ulteriore sospetto, che cioè alla base di ogni decisione "potesse esservi stata "...una intenzione sinistra della Congregazione di voler ridurre ad una pura formalità ciò che si è consentito da Roma per mero atto di necessità alla Repubblica, di riconoscere dalla lettura dei processi se sia stato fatto alcun pregiudizio nei medesimi ai suoi sudditi. Un veemente sospetto di ciò era costituito dal fatto che havendo cercato qualche volta loro Eccellenze di venire un giorno prima della sentenza alla lettura dei processi, sotto vari pretesti l'Inquisitore lo aveva impedito".
A questo approccio seguì un'azione più decisa della Signoria intenzionata a non palesarsi in merito al caso Dupuis troppo remissiva di rimpetto alla Santa Sede.
Da un lato al Padre Inquisitore fu fatta pervenire una "Lamentatione" ufficiale in cui il Governo di Genova palesava le sue "perplessità" in relazione a tale vicenda giudiziaria ed agli inconvenienti che aveva comportato: soprattutto ponendo l'accento sul processo deciso a Roma e sull'assenza di una Consulta.
Per altro verso ("Istruzione" del 1698 in Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, busta 1404) allo Spinola, plenipotenziario genovese a Roma, si commise l'obbligo di interpellare lo stesso pontefice in merito a tante carenze procedurali e formali, non esclusa certo la mancata convocazione dei Protettori trattati in modo, come detta la stessa "Istruzione", che "...non si dà loro notizia non solamente delle qualità, ma nemmeno del nome e cognome del reo e si rappresenta loro il caso solamente in abstracto, dove all'incontro gli Eccellentissimi Protettori, oltre la notizia che hanno della persona prima di concedere la cattura, devono anche intervenire alla lettura dei processi offensivi e difensivi prima della pubblicazione della sentenza".
Il papa alle interpellazioni dello Spinola rispose, come era nel suo carattere, in maniera benevola affermando che rientrava nei suoi voti che le cose "camminassero in quell'ordine in cui erano per avanti, non essendo egli amico d'impegni per intraprendere novità".
Non si allontanò da questo formula abbastanza vaga e lasciò di fatto che lo Spinola trattasse l'annosa questione con il cardinale Spada e con la stessa Congregazione del S. Ufficio.
Il plenipotenziario genovese in Roma si trovò così in qualche difficoltà, non tanto per i rapporti con lo Spada, ma per l'atteggiamento evasivo, per quanto cortese, del Commissario Generale del S. Ufficio che nel corso di un'udienza gli rassegnò come, dall'analisi personale che aveva fatto delle carte sottoscritte nei tempi pregressi, nulla risultasse di sostanziale in merito alla tesi genovesi sulla "tassativa assistenza ai procedimenti inquisitoriali dei Protettori".
Per sua sfortuna lo Spinola non aveva molto materiale diplomatico di cui avvalersi nelle sue dispute diplomatiche.
Praticamente il solo documento concreto su cui poteva far conto era il concordato del 1678 stipulato da Genova con papa Innocenzo XI in merito al quale "non potea dubitarsi che la Congregazione havesse havuta presente questa convenienza della Repubblica".
A fronte delle difficoltà che l'abile diplomazia romana gli poteva far sorgere contro, lo Spinola ritenne possibile cercare un scorciatoia di comodo reciproco e per questo, come ancora annota il Canosa, p. 194 e note 4 e 5, propose al suo Governo (lettera del 28 giugno 1698) di adottare per l'assistenza alle Consulte dei Protettori una formula pressoché identica a quella ideata per la loro assistenza ai processi che dettava sia "ad arbitrio della S. Congregazione" quanto "ad arbitrio del padre Inquisitore".
La soluzione non dovette piacere alla Signoria se questa gli rispose indirettamente di far altra cosa, cioè di prendere tempo e di formulare una strategia che mirasse principalmente a che "si levasse di mezzo il disordine di farsi in Roma le sentenze contro degli inquisiti".
Fatti estranei al contenzioso tra Genova e Roma determinarono una pausa nelle trattative: il Sant'Uffizio si era imprevedibilmente trovato di fronte ad altra e più seria questione, che comportava un'aspra controversia tra l'arcivescovo di Cambray ed il vescovo di Meaux.
Ed anche dopo che la questione fu risolta, tra la Repubblica e la Santa Sede intercorse un periodo di silenzio, bruscamente interrotto da un fatto non tanto di ordine diplomatico o giursdizionale quanto piuttosto legato alle contingenze della vita: la morte del Bertucci, Padre Inquisitore in Genova, avvenuta nel 1701.
L'evento luttuoso tuttavia, dati il rilievo e la pubblica funzione del defunto, comportò una serie di problematiche di ordine formale e diplomatico.
In primo luogo si pose il problema della partecipazione o meno dei genovesi Protettori alle esequie solenni da tenersi nella chiesa di San Domenico in Genova: ed al riguardo il Vicario del Sant'Ufficio aveva avanzata un'esplicita richiesta.
Fu a tal punto che il Governo indusse i Protettori a scrivere, a Roma, a Filippo Cattaneo, il "gentiluomo" che al momento andava seguendo le vicende del Sant'Ufficio per conto di Genova, perchè s'adoprasse "con la destrezza e prudenza sua propria" al fine che venisse nominato per Genova un nuovo Padre Inquisitore che potesse "riuscire di pubblica soddisfatione".
Questa richiesta, unita al fatto che in fine della storia i "Protettori" non presenziarono alla cerimonia funebre per il Bertucci, va a formulare un bilancio abbastanza enigmatico ma comunque di sostanziale incertezza e perdurante tensione in merito ai rapporti intercorrenti ancora tra Genova e Congregazione.
E del resto che il vecchio concordato di Genova con Innocenzo XI si reggesse su una linea di precari equilibri lo si potè dedurre abbastanza presto, quando nel 1711, quando i Protettori furono messi al corrente dal Vicario del S. Ufficio che il Padre Inquisitore di genova Corradi non si riteneva in dovere di "somministrare" loro il procedimento avverso un sacerdote accusato di sollecitazioni in confessione.
Atteso il diniego non mancò risentimento ufficiale del Governo che incaricò ancora Filppo Cattaneo di affrontare la questione trattandone con il cardinale Del Giudice che faceva parte della Congregazione del S. Ufficio ma che, notoriamente, era filogenovese.
Le raccomandazioni al Cattaneo furono affidate ad un documento, riesumato dal Canosa, p. 195 e nota 6, che tuttora si custodisce nell'Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, busta 1404, contestualmente ad altre carte spettanti al Santo Ufficio e comportante una serie di lamentele (con la segnalazione delle relative indagini) avverso le procedure dell'Inquisizione genovese, ritenuta responsabile di gravi dilazioni nell'uso delle carcerazioni preventive e degli eccessi nelle spese imposte agli inquisiti.
L'"Istruzione" inoltrata al Cattaneo e da questi comunicata personalmente al cardinale Del Giudice espressamente riportava un invito a che il cardinale mettesse "...nella dovuta attenzione il padre vicario presentemente [l'Inquisitore Corradi era nel frattempo morto] ed a suo tempo il nuovo soggetto che sarà eletto alla carica di Inquisitore i quali, operando diversamente dal consueto, non potrebbero doleri che di sè medesimi se non incontrassero nella Repubblica Serenissima o sia nei detti Eccellentissimi Protettori tutte quelle facilità et assistenze che sono state contribuite sin'ora con tutta la pienezza in ogni occorrenza del Tribunale".
Il cardinale Del Giudice non rimase sorpreso delle richieste, di cui già conosceva l'ideazione, come del pari già era al corrente della successione degli eventi ed in particolare del fatto che il Governo di Genova, spinto da eccessivo rigore, aveva con fretta ed una certa mancanza di tatto, sostanzialmente estranei alla reale portata dei problemi in essere, obbligato il vicario a raggiungere la sala in cui si riuniva solitamente la Giunta di Giurisdizione: a suo parere la Santa Sede non avrebbe mai concesso che il Tribunale dell'Inquisizione dovesse assoggettarsi ad un duplice controllo quello legittimo dei "Protettori" e quello nuovo della "Giunta".
A parere del cardinale romano la scelta del defunto Inquisitore Corradi aveva delle giustificazioni e non risiedeva in un volontario affronto ai "Protettori" e quindi allo Stato: l'accusa era infamante, la colpa sconveniente, il procedimento così particolare da rendere considerabile l'esclusione della partecipazione dei "Protettori".
Gli argomenti scabrosi, di chiara matrice erotica, coinvolgevano infatti donne, monache, zitelle, creature strutturalmente fragili e comunque plausibilmente restie a denunciare le molestie sessuali sapendo che queste sarebbero venute a conoscenza di due Senatori della Repubblica.
Ragguagliando il suo Governo (Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, busta 1405, lettera del 5/I/1712) il Cattaneo riassunse la sua linea operativa basata sulla minimizzazione della possibile mancanza fatta al Vicario dell'Inquisizione e soprattutto sul principio che secondo i contenuti dei concordati ai "Protettori" non avrebbe dovuto esser inibita la partecipazione a processi di simil genere. Tra l'altro, per quanto ancora riportato dal Canosa, p. 196 e nota 7, leggesi redatto dal Cattaneo: "...Havendomi il cardinale toccato per via di discorso che alli Eccellentissimi Protettori vanno comunicate le informazioni e li processi solo nell'atto della spedizione delle cause e della perfezione dei processi fiscale e difensivo, et essendomi parso inculcasse alquanto fortemente un tal punto, entrai in dubbio che per sorte non volesse additare non poter pretendere quelle notizie che si sogliono esigere prima della concessione del braccio e che non hanno havuto riparo di communicare li Inquisitore precedenti, et in ispecie il padre Bernardi. Perciò non giudicai furi di proposito il segnare a Sua Eminenza e quasi in atto confidenziale da servitore e da amico che passano seco, non come Cardinale della Congregazione, ma come Padrone sì antico che per via di formalità non si pretendono altre comunicazioni che le predette segnate dall'Eminenza Sua, ma che per altro non si darebbe il braccio, se non si sapessero prima i capi del delitto, le persone, et i fondamenti delle accuse per occasione di cui si addimanda. Rispose il Signor cardinale che come della Congregazione non poteva consentire una tal pretensione, la quale come contraria all'indipendenza del Tribunale, doveva dalla medesima impugnarsi, ma che come amico rispondeva che certi passi devono farli li Inquisitori da sè e che, senza parlarne, è bene tirar avanti come si è fatto sin'ora".
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Attesa però la differenza fra la gestione delle investigazioni e dato che i' Inquisitore Generale non poteva da solo continuamente spostarsi su tutto il territorio del Dominio
GRANDI INQUISITORI DI GENOVA DEL XVII SECOLO
[Si utilizza l'onomastica latina secondo l'uso proprio dell'epoca] BAPTISTA DE FINARII - DAL 1600 AL 1609 ELISEUS MASINUS - DAL 1609 AL 1627 PETRUS MARTYRYS RICCIARDI DE ACQUA NIGRA - DAL 1629 AL 1632 BAPTISTA BOLSIO - DAL 1633 AL 1635 VINCENTIUS PETRUS A SERRAVALLE - DAL 1635 AL 1639 IUSTINUANUS VAGNONIUS A CALLIO - DAL 1639 AL 1647 PROSPER BARAGAROTTUS DE FLORENTIOLA - DAL 1647 AL 1652 AUGUSTINUS CERMELLI - DAL 1652 AL 1662 MICHAEL PIUS PASSUS DE BOSCO - DAL 1662 AL 1669 SIXTUS CERCHIUS - DAL 1669 AL 1674 THOMA MAZZA - DAL 1674 AL 1679 ANGELUS IULIANUS DE CESENA - DAL 1679 AL 1681 THOMAS MARIA BOSIUS DE BONONIA - DAL 1681 AL 1688 IO. DOMINICUS BERTACCIUS DE CINGULO - DAL 1689 AL 1671
i testi di questo sito sono stati scritti dal Prof. Bartolomeo Durante
Si precisa inoltre in particolare che questo lavoro non è a scopo commerciale ma di divulgazione culturale e per uso documentario - Professor Bartolomeo Durante