 
Nell'889, eludendo le ultime resistenze dell'Impero romano d'Oriente cioè di Bisanzio, si formò nel FRASSINETO (antico "Golfo SamRbracitano", nell'ampia insenatura oggi detta "Golfo di S.Tropez") un nucleo di pirati musulmani (detti SARACENI dal latino tardo SARACINUS a sua volta derivato dal greco SARAKENOS da collegarsi secondo l'opinione dominante all'arabo SARQIYIN plurale di SARQI = "ORIENTALE".
Per altri i SARAKENOI sarebbero stati una popolazione stanziata nel golfo di Aqaba nel Sinai meridionale.
 La variante SARACINO è spiegabile con l'esito regolare siciliano i da e lunga ma può riflettere anche la pronuncia bizantina di eta ).
I SARACENI [per la cui storia -invero ancora abbastanza oscura (al pari, integriamo qui, della storia tutta dei rapporti tra Arabi e Cristiani nell'età intermedia) come scrive il Settia- resta comunque basilare per quanto un pò datato del Luppi] costituivano le ultime frange degli invasori ARABI di un oltre un secolo prima che, sulla scorta di una prosecuzione non da tutti condivisa dello JIHAD ("GUERRA SANTA SULLA VIA DI ALLAH") costituirono, intorno ad un munito castello, un piccolo ma forte dominio, rifornito per via mare, donde si diedero a pesanti scorrerie nella Provenza, in Liguria, nell'area pedemontana saccheggiarono zone anche molto lontane.
La leggenda parla di un saccheggio di Ventimiglia all'alba del X sec.: aree di Sanremo, Civezza e Bussana comprese (G.B.ALLEGRI, L'estrema sentinella, in "Il Lavoro" del 20-VI-1929).
La ricerca ipotizza uno sfondamento saraceno per le Alpi Marittime, sino a Sospello e poi per le valli del Roia, Bevera e Nervia (dopo una sosta a Tenda) una penetrazione sin a Ventimiglia. Ma si son supposte anche devastazioni dopo il 942: anche per via di mare (argomento su cui si nutrono però molti ragionevoli dubbi). Da tempo comunque esisteva per le coste liguri il pericolo dei predatori degli Stati arabo-berberi di Spagna ed Africa: del pericolo era ben consapevole Carlo Magno (EKKERARDO, Vita Karoli, p.17) e spesso come Missi Dominici, i vescovi furono preposti alla guida di milizie ad exubias sulle riviere del Mediterraneo: il Vescovo di Torino Claudio, nell'820, sarebbe intervenuto presso Ventimiglia contra Agarenos et Mauros (MIGNE, Patrologie: series latina, Paris, 1864, CVI, 837). Sussistono altresì dubbi se i Saraceni intervenissero con forti contingenti od operassero per bande limitate (tesi oggi prevalente del Poupardin): vedi B. LUPPI, I Saraceni in Provenza, in Liguria e nelle Alpi occidentali, Bordighera, 1973 (rist. anast. dell'edizione originale del 1952). Per quanto concerne l'agro intemelio, e le vie d'accesso al Piemonte, non si può comunque ignorare quanto scrissero gli antichi cronachisti e in particolare l'estensore della CRONACA di Novalesa anche per l'importanza dei dati ricavabili, fra molte fantasie, sugli spostamenti dei Sarceni per le vie del Roia, del Nervia e dei vari insediamenti (religiosi e non) connessi a questi siti e tragitti e tra cui ebbe un ruolo di eminenza il sito strategico del Convento di Dolceacqua.
  
Nel frammento 20,1 del IV libro della CRONACA DI NOVALESA si legge "Venne da Frassineto l'alluvione dei SARACENI, che abitavano su un monte circondato da selve estesissime, in inestricabili cunicoli sotterranei: devastarono la provincia di Arles, della Borgogna e della CIMMELLA e sommersero nel sangue e nel fuoco anche tutta la Gallia Subalpina.
 I monaci fuggirono dal cenobio novaliciense e portarono a Torino, nel tempio di S.Andrea, tutte le loro cose più preziose: fra queste furono trasferiti seimila libri".
 Gian Carlo Alessio interpretò CIMMELLA come errore od allusione alla regione delle Cevennes (Cronaca di Novalesa a cura di G. C. ALESSIO, Torino, 1982, p. 237): si alludeva invece a CIMIEZ l'antica Cemenelum detta anche Cimmella (verso IX-X secc centro ancora importante qual nodo viario).
 
I Saraceni nei primi decenni del X sec. avevano razziato Marsiglia e Tolone ricche di campi coltivati a vigneti, ficheti ed oliveti: è improbabile che non abbiano intercettato Cemenelum saccheggiando la Provenza (fr. 19 del libro IV della Cronaca) poco prima di investire l'agro di Albintimilium.
 
Nei capi 17-19 del V lib. della Cronaca della Novalesa si allude, con molta confusione storica in verità, alla SCONFITTA SARACENA e si leggono due fondamentali allusioni: Il racconto della conquista del covo saraceno di La Garde-Freinet ed il riferimento all'impresa di Arduino il Glabro che, fra 940 e 945, riconquistò la valle di Susa sono i segnali della FORMIDABILE RIPRESA CRISTIANA cui, accanto ai grandi feudatari, partecipò in modo attivo la nobiltà intemelia.
Come scritto storia e mito si intrecciano facilmente nella narrazione di questa impresa cui, non del tutto propriamente, fu conferito il titolo di "crociata".
La spedizione avrebbe preso il via dal 972 sotto il comando di Guglielmo di Arles, fiancheggiato da altri feudatari tra cui Arduino Glabrione di Torino, Corrado di Ventimiglia, Mirone di Nizza, Arnolfo di Féjus, Raimondo di Grasse, Gibellino Grimaldi ed altri feudatari ancora: come puntualmente, con vasta bibliografia, annota Gianni De Moro nel suo saggio I Tebei in riviera: una dimensione cultuale nel ripopolamento del Ponente ligure postsaracenico? in "Rivista Ingauna Intemelia", N.S., 1969 - 1970 [edito 1995], p. 126 e note.
Dal racconto della Cronaca di Novalesa si evince però che per la non facile impresa contro gli Arabi un incentivo particolare fu conferito dalla cattura, ad opera di pirati musulamani, di MAIOLO potente Abate di Cluny, consigliere della casa imperiale degli Ottoni: è assodato che il Santo venne aggredito nel 983 e che la vittoria dei Cristiani si concluse nel 984-85.
Il Capo 18 del lib. IV confonde spesso vero e mitico: Arduino Glabrione, cosa forse non vera a detta di studi discordanti da quelli del De Moro, avrebbe partecipato all'impresa contro  Frassineto ed un arabo Aimone, traditore dei suoi perchè privato del "bottino" di una donna latina, avrebbe guidato i Cristiani contro quel castello moresco di cui egli avrebbe conosciuti i segreti.
 
Aimone avrebbe quindi pronunciata la delazione a un Robaldo "conte di Provenza" che sarebbe riuscito a spronare verso l' impresa un esercito cristiano ormai stanco, con queste parole "O fratelli, combattete per le anime vostre poiché siete sulla terra dei Saraceni".
La VITTORIA avrebbe poi arriso ai suoi uomini ed egli sarebbe riuscito a gustare il sapore del trionfo.
Carlo Cipolla (I, 261, n.3) e l'Alessio (p. 279, n.2), contro G. Rossi che ricostruì da Guido Guerra (954) le genealogie dei feudatari intemeli, ravvisano in Robaldo il figlio di Guglielmo, conte di Ventimiglia vivente nel 954: le fantasie del cronista rivelano quanto i patrizi intemeli, di cui Robaldo fu simbolo, sian stati legati alle imprese contro i Saraceni.
Nel cap. 46 del V lib. della CRONACA redatta da un anonimo cronista benedettino del grande monastero susino di NOVALESA è scritto: "è noto a tutti che il monastero della Novalesa fu distrutto dai pagani e le sue mura furono rase al suolo. Ai tempi nostri i monaci che vi abitavano, dolendosi di quel danno, fanno venire il VESCOVO DI VENTIMIGLIA [titolare di una Diocesi antica e per molti versi particolare, sita in una fondamentale area di transizione anche "ideologica e contestualmente localizzata in posizione strategica per i grandi percorsi attraverso la tormentata cristianità comprese del pari una sorta di stazione di smistamento per le varie mete nel "Sacro" quanto di una significativa diramazione "ligure-piemontese" di una potenziale "via Romea" quanto ancora di quello che sarebbe stato il I e più meridionale Tragitto della Via dei Pellegrinaggi a Santiago de Compostela] perché consacrasse le chiese distrutte [dopo la Vittoria dell'Alleanza Cristiana contro i Saraceni del Frassineto]  cioè di San Michele, della Santa Genitrice di Dio Maria, di San Salvatore e di Sant' Eldrado" [e grande fu l'aspersione del sale benedetto 
(proprio del battesimo = vedi qui i riferimenti di F. Potestà) sempre usato negli esorcismi comprese queste sconsacrazioni/riconsacrazioni avverso superstizioni, relitti di idolatria, pratiche pagane con supposte presenze demoniache: la formula sacramentale della benedizione del sale, trae origine dal miracolo del risanamento dell'acqua, operato dal Profeta Elisèo (2 Re 2,19-22) che versa del sale in quella sorgente malsana unitamente ad una preghiera…"Dice il Signore: rendo sane queste acque: da esse non si diffonderanno più morte e sterilità" (2 Re 2,21) = Vedi dai DISQUISITIONUM MAGICARUM LIBRI SEX DI MARTIN ANTONIO DEL RIO
quanto contenuto nel Lib. VI, Cap. III Quorundarum remediorum Ecclesiasticorum contra calumnias hereticorum defensio le riflessioni in merito
Esorcisti, all'uso del sale benedetto, a quello dell'
acqua benedetta, delle erbe e palme benedette, dell' agnello di Dio benedetto fatto di cera e lana,
ed ancora dei balsami e dell'olio benedetto, del crismon e dell'olio degli infermi, della
 benedizione di varie cose = 
 Martin Antonio Del Rio uno dei massimi punti di riferimento di tutto il diritto inquisitoriale ecclesiastico 
e soprattutto interprete dei fenomeni di stregoneria in questa sua 
 opera fece cenno specifico in merito ai processi di sconsacrazione/riconsacrazione dei siti già occupati da pagani e/o infedeli 
dei pericoli rappresentati pure dal
rinato Culto del Dio Mitra spesso collegato ad una sorta di Religione del Drago e/o del Serpente
per una specie di maligno rovesciamento del grandioso Sacramento del Battesimo = e per ciò in relazione 
all'IMPORTANZA DI ESORCISMI ED ESORCISTI  -contestata dai Riformati (Protestanti)- fece cenni peculiari all'esorcismo del sale
 Sia dal punto di vista topografico che storico e religioso è pressoché naturale che 
la CHIESA DI VENTIMIGLIA
 
E del resto quasi a fare da controcanto l'allora potentissima ALMA MATER DI NOVALESA -che era espressione storica dell'antico 
APOSTOLATO MONASTICO E BENEDETTINO-
aveva esteso sin al Mar Ligure e al territorio diocesano ventimigliese i suoi già enormi possedimenti tramite l'erezione del  "PRIORATO DI SANTA MARIA" NELL' AGRO DI DOLCEACQUA
quasi a ratificare ufficialmente la sua influenza su tutto QUESTO ANTICO TRAGITTO MARE MONTI.
Per la naturale sinergia tra questi due grandi poli cristiani fu quasi consequenziale la convergenza di interessi avverso l'ESPANSIONISMO SARACENO e che RISOLTA L'EMERGENZA BELLICA in forza delle GESTA BELLICOSE DEI CAVALIERI CRISTIANI con susseguente SCONFITTA E DISPERSIONE DEI SARACENI DEL FRASSINETO
su questa TRAVAGLIATA AREA DI CONFINE E DI TRANSIZIONE la sanzione della pace e della pietà sia stata portata dall'opera di riconsacrazione di un VESCOVO DI VENTIMIGLIA.
E' al contrario  DIFFICILE DIRE CON CERTEZZA CHI FOSSE TALE VESCOVO DI VENTIMIGLIA: l'Alessio rimanda  al Savio che citò un Vescovo Tommaso (1060-1092) officiante in val Susa (Antichi Vescovi di Torino, Torino, 1888, 136) e del Cipolla che propendeva per il predecessore , l'Episcopo Bartolomeo (990-1026= Gams, Series,826) [ nella sua opera sui Secoli Cristiani della Liguria il Semeria parla della  complessa questione del martirio di S. Secondo e di come 
ritornati i monaci a Novalesa avessero con se stessi riportate molte reliquie ed altri sacri oggetti, comprese le reliquie di S. Secondo facendo però dono della testa del martire ad un vescovo -a lui ignoto- che riconsacrò le loro chiese dalle sconsacrazioni dei saraceni, vescovo che depositò la reliquia nella cattedrale ventimigliese dando origine ad una 
particolare venerazione e alla convinzione legendaria che il suo martirio fosse avvenuto proprio in questa città ligure = G. Rossi al catalogo del Semeria dei "Vescovi di Ventimiglia" - nella sua Storia della città di Ventimiglia ma edizione del 1857 - antepone però quello del Bima -qui riportato- che registra il nome di un (numero 30) "Pentejo, legato apostolico in Piemonte" e quindi nell'edizione definitiva dela "Storia della città di Ventimiglia" G. Rossi si limita a scrivere a riguardo di Novalesa che sarebbe stato pure un vescovo di questa cattedrale che, nel 990 avrebbe ridonata al culto la chiesa della celebre abbazia di Novalesa, guasta e contaminata dai Saraceni, consecrandovi alcuni altari (S.V., pp. 991-92, edizione definitiva = ma non cita -evidentemente per dubbi sopraggiunti e mai risolti- nè il detto Pentejo nè altri prelati pur riportando ancora come qui si vede il 
catalogo del Bima, con il nome del Penteio/Pentejo, con alcune precisazioni)]
 Si potrebbe anche menzionare Brunengo, Vescovo citato in un  Martirologio ventimigliese dell'XI sec.; il Brunengo secondo G.Rossi e  G.B.Spotorno sarebbe  da collegare a S.Maiolo per il ruolo, suo e dei CLUNIACENSI di cui era abate contro i Saraceni: la materia induce alla cautela ma i tempi, le figure di Santo e misconosciuto episcopo  suggeriscono relazioni fra la lotta antimoresca, il ruolo dell'Ecclesia locale e la RICONSACRAZIONE CONTRO LA DESERTIFICAZIONE (sostanzialmente contro le PROFANAZIONI MUSULMANE ma in vero, seppur meno scopertamente, contro i mai sopiti RELITTI DI RELIGIONI PAGANE PRECRISTIANE e "più moderne" INTERFERENZE DIABOLICHE E FUORVIANTI DALL'ORTODOSSIA CATTOLICA portate avanti da crescenti movimenti di NEOMANICHEI, CATARI, PRAVI HOMINES) di un tragitto interregionale (che rappresentò uno delle prime e più importanti espressioni di DIRETTRICE STORICA DEI PELLEGRINAGGI DI FEDE = vedine qui una cartografia moderna multimediale inserita nel più esteso contesto della cartografia moderna multimediale dei Pellegrinaggi di Fede) svolto da un porporato ligure. 
Non é casuale che, "sorpreso" dai Saraceni nel passar d'Italia alle Gallie, Maiolo di Cluny sia divenuto emblema d'una riscossa: per feudatari e clero la sua liberazione avrebbe simboleggiato la liberazione dei percorsi.
Novalesa e Ventimiglia non eran solo gangli viari;  restando a lungo insicuri i tragitti provenzali per le bande di Mori sopravvissuti alla disfatta (o rifugiatisi in sicuri approdi insulari), la strada "nervina" fra Novalesa-Susa e Ventimiglia-Ponente ligustico fu la I ad esser praticabile per fornire del sale  di Lerino il  territorio pedemontano.
La sua riconsacrazione (e contestualmente la pubblica sanzione della sua fruibilità) annunziò alla Cristianità la speranza d'uscire dai tempi oscuri dando fiducia a borghesi ed imprenditori di trafficare fra Liguria e Cisalpina: soprattutto permise che il grande fenomeno dei PELLEGRINI DELLA FEDE potesse rivitalizzare contrade riarse dai saccheggi, un pellegrinaggio che peraltro aveva i suoi caposaldi nell'OSPEDALE DEL MONCENISIO a settentrione (per cui dall'Italia si poteva accedere verso il Nord-ovest d'Europa) e negli OSPEDALI DELL'ESTREMO PONENTE LIGURE punti di partenza ideali per viaggi, di terra e mare, verso ROMA come anche verso i nuovi confini che il risveglio della cristianità avrebbe conquistato.
Il Vescovo per risalire a Susa aveva seguito il tragitto di val Nervia; forse per la stessa via il Vescovo torinese Claudio , nell'820, era intervenuto in area intemelia contra agarenos et Mauros, i predoni che anticiparono i Saraceni (Migne, Patrologie: series latina, Paris, 1864,CVI, 837).
Alludeva pure a tal via il capitolare con cui Lotario I (829) aveva stabilito che gli studenti di Ventimiglia (di Albenga, Vado ed Alba) si recassero nello Studio di Torino: per questa strada, resa sicura dai soldati di Claudio, i giovani del Ponente ligustico  non  avrebbero dovuto compiere giri viziosi onde raggiungere, dal nizzardo o dal genovesato, le Cattedre piemontesi (nella "Storia di Ventimiglia" a pp. 30-1, G. Rossi collegò, seguendo i Rerum Italicarum Scriptores del Muratori e la Bibliothecae mediae et infimae latinitatis del Fabricius, il Capitolare di Lotario I ad una Bolla di Eugenio II sull'istruzione in Diocesi e Pievi oltre che all'attività nella Cisalpina di un "Poeta Latino" di Ventimiglia).
In tal contesto  acquistano rilievo gli ultimi spostamenti dei Saraceni che non si muovevano per  mare, ma risalivano i fondovalle onde sparpagliarsi in gruppi e aggredire, più che le città difese,  contadi e viandanti: suppose il Luppi (I Saraceni in Provenza...cit.) che  fossero giunti nel ventimigliese per le valli del Roia e del Nervia, dopo esser risaliti nella Cispadana.
 In base ai relitti toponomastici moreschi che corrono da Pedona , ove distrussero il cenobio benedettino, si può affermare che questi predoni abbiano seguito il tragitto monte-mare dall'oltregiogo: nella bassa val Nervia si incontrano reperti linguistici quali Cima Moro, monte Altomoro e, sulle alture tra Camporosso e Ventimiglia , il luogo Maure/ Maule, che han fatto pensare alla resistenza di caposaldi saraceni.
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Uno dei temi sommersi della storiografia ligure e pedemontana, talora intuito, ma in fondo non mai compiutamente svelto, se non procedendo a settori e compartimenti (come invero è difetto strutturale della ricerca nel Ponente italiano) è dato dal tema della DESERTIFICAZIONE, fisica e morale, di siffatte regioni dopo gli eventi drammatici di X e IX secolo.
La storiografia tradizionale ha sempre privilegiato l'analisi della crisi socio-economica di queste contrade e, senza sbagliare, l'ha connessa prioritariamente agli sfondamenti dei Saraceni cui, senza dubbio, era da addebitare un ruolo di primo piano nel degrado ambientale ed economico oltre che nella catastrofica interruzione dei rinati processi di comunicazione su antichi tragitti interregionali.
La Chiesa si trovò comunque nella necessità di affrontare un problema in qualche modo connesso al disordine morale e ideologico genericamente insorto e per certi aspetti consequenziale, per logia e cronologia, al disordine istituzionale ed ambientale attribuibile all'alluvione del Frassineto" come allora si soleva ribadire.
Le masse popolari [che peraltro erano state faticosamente consegnate e talora anche restituite, contro ritorni idolatrici al paganesimo già vigorosamente combattuti da Papa Gregorio Magno ed i Benedettini oltre che certe "più attuali"  devianze ereticali, all'ortodossia cattolica] erano rimaste sconcertate difronte all'impotenza della Cristianità nei riguardi dell'espanzionismo arabo.
Alle sconfitte militari, e quindi alle profanazioni religiose, era così seguita (tra X e XI secolo) una crescente delusione nei confronti di tutto l'apparato, temporale e spirituale, su cui l'intero complesso del medioevo feudale reggeva il suo stesso esistere.
Per primo (diventando quasi una fonte cui attingere perpetuamente ma comunque riprendendo un'intuizione del Luppi) in tempi recenti L. Oliveri ha redatto un contributo che se non può essere esaustivo sull'argomento, risulta emblematico per le linee guida che suggerisce a tutti i ricercatori che si accostano a questo periodo storico ed ai suoi complessissimi problemi.
Semplicisticamente la sua dissertazione riguarda lo sviluppo in Piemonte (e consequenzialmente in Liguria) dei pravi homines: gli "uomini malvagi" (logicamente sotto l'interpretazione cattolico-cristiana) che, a fronte del momentaneo fallimento della cristianità e di rimpetto alle ampie terre effettivamente lasciate deserte dai Saraceni, avevano cercato salvezza, fisica e morale, in un complesso, variegato e spesso anche rozzo, di esperienze eterodosse, ereticali e in definitiva costantemente anticattoliche.
A seconda delle postazioni ideologiche la valutazione di questi movimenti sono state diverse: già escludendo i testi di taglio eminentemente storico-religioso, alcuni storici come il Formentini hanno parlato di vere e proprie esperienze rivoluzionarie, altri quali il Settia si sono soffermati maggiormente sull'aspetto collettivo di lotta contro la Chiesa ufficiale, altri ancora -con qualche cedimento alla parzialità filoromana- hanno marcatamente parlato di "apostasia" o di "empietà" come Riberi e Ristorto o come l'Oliveri.
La documentazione su queste forme di associazionismo anticattolico nella Cispadana ed in Liguria sono davvero scarne: tuttavia qualche cenno alla diffusione e alla importanza crescente (e proccupante per la Chiesa ufficiale) ci proviene recentemente da quanto scrive A. Vauchez nel suo lavoro Movimenti religiosi fuori dell'ortodossia in Storia dell'Italia religiosa, Baria, 1993, vol. I, pp. 311 - 313.
Un utilissimo contributo, appartenente ancora a questa ultima collana citata, è quello di P. Golinelli laddove redige l'utilissimo saggio intitolato Strutture organizzative e vita religiosa (p. 186 in particolare).
Dall'analisi di questi lavori e dallo studio di una spedizione armata del 1034, contro i manichei di Monforte Langhe e dell'Appennino, capeggiata da Olderico Manfredi e del fratelo Alrico, vescovo di Asti si evincono alcune interessanti osservazioni.
Gli sconfitti manichei che non vollero prestare alcuna abiura in Milano, dove furono tradotti, vennero condannati al rogo: in definitiva costoro (contro cui si sentì l'esigenza di un intervento tanto pesante nel contesto della ricristianizzazione di queste vaste terre) a fronte dell'istituzione, laica e religiosa, avevano la colpa principale di voler minare alle fondamenta la struttura feudale e teocratica nel nome di un palesato indebolimento dei concetti di proprietà e autorità.
Se come scrive il De Moro i pravi homines avevano in comune tale postazione ideologia con i manichei catari di Monforte (che esercitavano la comunione dei beni e rigettavano lo schematismo dogmatico della Chiesa ufficiale) una loro violenta persecuzione rientra nel plausibile come atteggiamento istituzionale per il reinserimento delle collettività nell'ecumene cristiana ortodossa.
 
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LA CITTA', LA FIORITURA DELL'ORDINE, IL SUO RUOLO GUIDA NELLA CRISTIANITA', L'INSORGERE DI CONTRASTI INTESTINI E LO "SCONTRO SPIRITUALE" TRA CLUNIACENSI E CISTERCENSI, L'INIZIO DELLA CRISI DI CLUNY, LA GRAVE DECADENZA
 DATI ARCHITETTONICI: L'ABBAZIA IERI ED OGGI: LA STORIA DELLE 3 GRANDI CHIESE
CLUNY> Città della 
 Francia centro-orientale, nella Borgogna nel dipartimento 
 di Saone-et-Loire, presso Macon, con 4734 ab. (1982). 
 Antico insediamento gallo-romano (Villa 
 Cluniacus), nell'Alto Medioevo si connotò come sede 
 di mercato del bestiame. Possesso della chiesa di Macon e 
 poi dei duchi di Borgogna, alla fine del sec. IX passò al 
 duca di Aquitania Guglielmo III, che attorno al 910 la donà 
 all'abate di Baume Bernone, perché vi fondasse 
 un monastero benedettino.
  Attorno all'abbazia crebbe a poco a poco il villaggio, 
 seguendone le vicende e le fortune fino alla sua 
 distruzione agli inizi del sec. XIX. 
 Buona parte delle mura e delle torri medievali soprawivono 
 tuttora, così come diversi edifici e abitazioni del 
 tempo.
. La fondazione dell' ABBAZIA DI CLUNY rappresentò un momento decisivo nella storia 
 del monachesimo di regola 
 benedettina.
 Riaffermando con forza 
 l'autonomia dei monasteri da ogni autorità esterna 
 (ecclesiastica e laica) e il legame di ciascuno di essi solo 
 con il pontefice romano, gli abati di Cluny (dopo 
 Bernone, 910-927, soprattutto Oddone 
 927-942; Maiolo, 948-994; 
 Odilone, 994-1049) sostennero con sempre 
 maggiore coerenza e consapevolezza la necessità di una 
 svolta che sottraesse il monachesimo alla crescente 
 ingerenza del potere politico, comitale e vescovile.
 
 Essi ebbero perciò un ruolo di primo piano nel movimento 
 di riforma ecclesiastica del sec. XI.
 Inoltre essi 
 delinearono, per la prima volta in modo organico, l'ipotesi 
 di un collegamento funzionale delle singole cellule 
 monastiche - che la regola di 
 Benedetto voleva autonome ed autosufficienti - 
 attorno ad un centro di coordinamento individuato 
 nell'abbazia di Cluny.
              
Senza negare l'autonomia dei singoli centri, 
 Cluny venne a rappresentare per molti un punto di 
 riferimento ideale ed organizzativo; si costituì in tal modo 
 l'ordo cluniacensis, orientato prevalentemente verso 
 un'accentuazione del lavoro liturgico dei monaci,  individuati dalla cultura del tempo come 
 specialisti della preghiera (oratores, complementari 
 ai laboratores e ai milites, che assicuravano 
 la produzione di cibo e la difesa 
 armata).
 La tendenza alla centralizzazione 
 dell'ordo si precisò ancora sotto l'abbaziato di 
 Ugo (l049-1109) che segnò il culmine del 
 prestigio cluniacense in Europa.
              I monaci formatisi a Cluny diffusero il nuovo modello monastico, introducendolo in altre 
 abbazie e collegandole alla casa madre; a cominciare dalle 
 cosiddette cinque figlie (i più antichi monasteri 
 
 affiliati ed evidenziati dal quadrangolo attivo della carta: 
 Saint-Martin, La Charite, 
 Souvigny, Sauxillanges, Leves), 
 il modello cluniacense si allargò fino a comprendere, agli 
 inizi del sec. XII, ca. 1400 abbazie, per  oltre 10.000 monaci.
Dal  sec. XI, tuttavia, il 
 pesante ritualismo liturgico cluniacense fu fatto 
 oggetto di critiche in seno al mondo benedettino: alcuni 
  monasteri recuperarono istanze più strettamente 
 ascetiche e persino eremitiche (p. es. Camaldoli o 
 Vallombrosa); altri proposero un ritorno allo 
 spirito della Regola per 
 quanto concerneva il lavoro: fu questa la 
 proposta nata soprattutto dall'ordine cistercense che dal 
 sec. XII contese a C. la supremazia ideale sul mondo 
 benedettino, contrapponendo la propria operosità 
 ad un liturgismo che si 
 proclamava sterile.
Le polemiche fra i due ordines, segno di 
 una crisi di identità che affiorava nel 
 monachesimo benedettino (non a caso, gli stessi 
 secoli vedono sorgere ordini monastici
 come i francescani 
 e i domenicani, espressione di esigenze nuove 
 della società) sono il prodromo della 
 decadenza di Cluny come polo di riferimento e di 
 coordinamento del monachesimo europeo.
              
Già al tempo di Pietro il Venerabile [Pietro di Cluny]  [abate di Cluny dal 
 1122 al 1156 i cui Scritti costituirono in qualche modo un contributo nuovo per le Crociate e la lotta all'Islam] la grandiosità degli apparati architettonici 
 cluniacensi non riesce a celare una crisi via via 
 più acuta.
              Fra il sec. XIV e il XV si diffonderà l'uso di attribuire in 
 commenda la carica di abate a personaggi estranei al monastero, 
 che se
 
           
 
ne serviranno come puro strumento di potere e di rendita 
(sperimentata già nel 1258 con la concessione di 
Cluny in commenda al re di Francia, tale 
prassi diventò in seguito normale).
Le guerre di religione del sec. XVI aggravarono la 
decadenza di Cluny; nel 1562 la biblioteca 
fu saccheggiata.
 Nel 1621,  l'ordo cluniacense 
si spezzò in due tronconi contrapposti: quello di 
stretta osservanza e quello di antica 
osservanza.
 Nel 1790, la rivoluzione decretò la soppressione 
dell'ordo e dell'abbazia, a Cluny, 
commendata allora al cardinale Domenico de la 
Rochefoucauld, viveva in quella data appena una 
quarantina di monaci.
 Fra il 1801 e 1811 gran parte degli edifici abbaziali furono 
distrutti.
L'ABBAZIA E LE CHIESE> Una prima chiesa, a 
unica navata e di dimensioni ridotte, fu fatta costruire 
dall'abate Bernone agli inizi del sec. X.
 Al 
tempo dell'abate Maiolo si costruì 
un secondo edificio, iniziato verso il 955-960 e 
consacrato nel 981. Lungo 55 m, largo 7 e alto 14, esso 
contemplava sette grandi arcate fra la navata maggiore e le 
laterali; nei decenni successivi fu completato con una 
volta, un nartece, due torri quadrate.
 A tali edifici 
erano collegati i locali di abitazione dei monaci e dei loro 
uomini e le strutture di servizio, dapprima semplici, poi 
sempre più estese e complesse.
                  Sotto l'abate Ugo (1088) si iniziò una 
ristrutturazione generale del complesso abbaziale, con la 
costruzione di una terza basilica, terminata nel 
1135, concepita in termini di monumentale grandiosità: oltre 
187 m di lunghezza e 35 di larghezza, cinque navate, due 
transetti, un deambulatorio, un coro, un'abside con cinque cappelle e sei torri 
campanarie; un'altezza di 30 m nella navata maggiore, 32 m 
nei transetti; la chiesa più grande della cristianità 
del tempo, simbolo del prestigio e del potere 
dell'ordo.
 Squadre di artisti e di artigiani vi 
lavorarono per decenni, a dipingere muri, scolpire capitelli, 
tagliare vetri. La loro produzione è andata per la maggior 
parte perduta, ma non quella di molte altre chiese, in 
Francia e fuori, che trassero ispirazione da Cluny 
come modello artistico e costruttivo.
 Delle prime due 
chiese (dette C. I e C. II) non rimane 
pressochè nulla; della terza (C. III) sono giunti 
fino a noi un braccio del transetto maggiore, il campanile 
ottagonale che lo sovrasta, una torre quadrata, due absidi minori.
                  Diversi capitelli del nartece sono conservati nel palazzo 
abbaziale assieme al timpano del portale maggiore e a 4000 
volumi della biblioteca, per il resto dispersa in varie parti 
del mondo.
 Altri capitelli sono nel Museo lapidario, 
sistemato nel granaio del sec. XIII.
                  Tutto il resto sono rifacimenti o aggiunte posteriori.
Nonostante la caduta del Fraxinetum i Saraceni continuarono a rappresentare un pericolo soprattutto per le zone costiere e marittime ma anche per il retroterra, dove non mancavano di spingersi: e tutto ciò su un ampio piano territoriale.
Il Gioffredo (coll.328-329; coll.369-370; coll. 379-380) contiua ad essere la fonte più ampia.
In particolare la Liguria continuò, seppur saltuariamente, a costituire un bersaglio privilegiato dagli Arabi di Spagna e dalla superstiti bande saracene: patì ulteriori scorrerie fino al 1015-1016 (anche in funzione di una superiorità navale cui Genova dovrà porre riparo con una certa sollecitudine).
L'Abbazia di Lerino, data anche la sua esposizione, fu un obbiettivo ripetutamente colpito dai mori: 1041-1042, 1047, giorno di Pentecoste del 1109.
Per disperdere queste bande organizzate si tentarono spedizioni, per qunato non particolarmente efficaci: sappiamo di quella guidata da Raimondo Berengario di Provenza, unitosi a foze della Repubblica marinara di Pisa, che si spinse sino all'isola di Maiorca nel 113-115 per colpire nel loro stesso covo le forze superstiti dei Saraceni.
L' impresa non dovette comunque produrre gli effetti sperati visto che il pontefice Onorio II emanò una sua Bolla (la Saracenorum tyrannide) in cui esortava l'erezione di una torre a difesa del complesso abbaziale di Lerino.
Queste considerazioni evidenziano come sia perdurato, dopo  la rovina del Frassineto, il pericolo sui percorsi per le Spagne (e comunque lungo tutti i tragitti occidentali):  soprattutto per questa ragione molti pellegrini e viandanti non disdegnava una qualche scorta armata.
Il termine (maschile) arabo JIHAD significa alla lettera "sforzo" [si tratta di un concetto sacrale ed antichissimo da non confondersi assolutamente, come talora avviene nel Mondo occidentale, con qualche aspetto particolare dell'INTIFADH o "INTIFADA" termine arabo, equivalente di "SOLLEVAZIONE", applicato nei casi in cui una COMUNITA' ISLAMICA ritenga di doversi SOLLEVARE contro qualche oppressore di altra religione o di altra conformazione politica, come attualmente capita (è scoppiata nel dicembre del 1987) nel caso dei PALESTINESI nei territori occupati dagli israeliani in Cisgiorania e nella striscia di Gaza].
 Il  JIHAD FI-SABILI-LLAH  rappresenta in linea semantica "lo sforzo sulla via di Allah".
Per una atavica diffidenza interpretativa verso le scritture coraniche Nonostante il Mondo Occidentale ha prodotto un'interpretazione ampiamente riduttiva del concetto di jihad che non ha affatto valenza monolitica come si crede  ma racchiude in sé una poliedricità di significati.
Quello universalmente noto (ed erroneamente ritenuto unico in Occidente) è che la jihad sia lo "sforzo militare", cui sono chiamati i credenti per difendere la loro Comunità.
Suonano nel Corano le parole di Allah : "Vi è stato ordinato di combattere, anche se non lo gradite. Ebbene, è possibile che abbiate avversione per qualcosa che invece è un bene per voi, e può darsi che amiate una cosa che invece vi è nociva. Allah sa e voi non sapete (II,216).
Quando la Comunità dei musuImani viene assalita, minacciata, oppressa o perseguitata, i credenti hanno il dovere di combattere esercitando il loro diritto-dovere alla legittima difesa. E' scritto ancora nel Corano: "coloro che si difendono quando sono vittime dell'ingiustizia" (XLII,39).
La guerra peraltro deve seguire precetti ben enunciati dal Libro di Allah e dalla Sunna dell'lnviato.
Allah sancisce: " Combattete per la causa di Allah contro coloro che vi combattono, ma senza eccessi, che Allah non ama coloro che eccedono". (II,190).
E'evidente quindi che la guerra ha, nell'essenza stessa del Corano, valenza solo difensiva e che deve essere condotta senza lasciarsi mai cedere a vergognosi eccessi e alla barbarie.
Per sua parte Maometto disse secondo il Corano: " Non uccidete i vecchi, i bambini, i neonati e le donne", ed ancora affermò: "I credenti sono i più umani anche negli scontri estremamente crudeli": inoltre egli proibì di utilizzare il fuoco (forse come retaggio morale contro il devastante uso bizantino del fuoco greco, allora giudicata "arma totale") quale strumento di annientamento contro le genti, inibì pure il taglio degli alberi e l'inquinamento delle acque.
E' inoltre da precisare che a differenza di quanto frequentemente accadeva nel Mondo Occidentale e feudale il raffinato  diritto islamico già precisava le norme della dichiarazione di guerra, dell'ingiunzione della resa, del trattamento dei prigionieri e del loro eventuale riscatto.
La belligeranza , alle origini semantiche della jihad, risulta quindi interpretata quale condizione estrema da cassare il più presto possibile.
 Dopo i versetti che intimano la "guerra contro oppressori e persecutori" nel Santo Corano dice Allah: "Combattete finché non vi sia più persecuzione e il cuIto sia [reso solo] a Allah. Se desistono non vi sia ostilità, a parte contro coloro che prevaricano." (II,193).
Quando la guerra termina con la conquista ad opera dei musuImani di un territorio abitato da genti appartenenti a una delle religioni del Libro ( cristiana o israelita), la condizione dei cittadini non musuImani in uno Stato retto dalla legge islamica è quello di dhimmy vale a dire di "protetti".
 Costoro sono sottoposti al pagamento della jizya (od "imposta di protezione") ma hanno diritto di vivere indisturbati partecipando alla vita sociale e amministrativa dello stato. 
La loro incolumità risulta garantita da un hadith dell' "lnviato di Allah" che disse: " Nel Giorno della Resurrezione, io stesso sarò nemico di chi ha dato fastidio ad un protetto".
La guerra tuttavia può risultare di due tipi, può essere parziale o generale.
 Nel primo caso basterà che una parte dei credenti vi partecipi per assolvere l'obbligo di tutta la comunità.
 Se invece si tratta di una guerra totale, tutti i credenti sono tenuti a parteciparvi, ognuno secondo le proprie condizioni e possibilità.
Quelli che partecipano alla lotta "sulla via di Allah" sono chiamati mujahidin, godono della massima considerazione della loro comunità nella vita terrena e, in quella ultraterrena, faranno parte di  coloro che risulteranno poter stare più vicini al loro Signore.
 Se Allah concede loro la vittoria, li colma di onore e bottino, se perdono la vita nella lotta, Egli perdonerà i loro peccati e li apcogLierà presso di Sè.
 Allah afferma nel Corano: " Non considerare morti quelli che sono stati uccisi sul sentiero di Allah. Sono vivi invece e ben provvisti dal loro Signore, lieti di quello che Allah, per Sua grazia, concede." (III,169-170).
A sua volta Maometto così si espresse su tale argomento: "Chi combatte per la causa di Allah, e Allah bene conosce colui che lo fa solo per Lui, è paragonabile a chi digiuna e prega in continuazione. Allah garantisce il Paradiso al mujahid che incontra la morte. Se ritorna dal jihad sano e salvo, gli concede bottino e ricompensa.
Sulla base dell'interpretazione coranica quindi il jihad costituisce una lotta per il bene, per il trionfo della "Parola di Allah", per la sua diffusione tra i popoli del mondo. 
 E siffatta lotta può anche essere condotta in maniera non violenta.
 Anzi, questa forma di "sforzo" per la causa di Allah è di sicuro quello che più risulta adeguato ai credenti.
 La parola, gli scritti, gli esempi dati dai musulmani sono del resto altrettante sfide alla miscredenza all'ingiustizia.
Ogni comportamento che travalichi barbaramente quanto risulta obbligatorio  e prescritto, nella pratica rituale, nell'attività lavorativa, nello studio, nell'impegno sociale, può venire considerato jihad ogni qualvolta lo sforzo prodotto tende al compiacimento di Allah.
Il jihad è quindi soprattutto  una forma di avvicinamento ad Allah, può definirsi il segno dell'amore dellla creatura per il Creatore; non a caso affermò Maometto il Profeta: "Tutti coloro che moriranno senza aver partecipato al jihad o senza aver nutrito in cuor loro la speranza di parteciparvi, lasceranno la vita con una punta di ipocrisia".