cultura barocca

SANREMO "ROMANA" (LA VILLA MATUTIANA: GLI INTERROGATIVI SUL NOME) E "MEDIEVALE")

L'area di Sanremo, oltre Capo Nero, non apparteneva ad Albintimilium ma, secondo l'ipotesi di sovrapposizione tra istituzioni, faceva parte dell'amministrazione municipale ingauna: tuttavia, per la vicinanza oltre che per una tradizione di relazioni la località era legata sia all'area di Albenga, guardando i sistemi residenziali del Tabia fluvius e della Stazione di Costa Beleni, sia a quella di Albintimilium con cui era in contatto.
Se il confine del municipio di Albintimilium era a Capo Nero, e non come altri hanno ipotizzato all'Armea o al torrente San Romolo, il territorio tra questo promontorio e il fiume di Taggia costituiva un'area di passaggio (dominata dalle vette dei monti Ceppo e Bignone) tra due municipi romani, assai simili per l'etnia dei residenti e condizionati dal fatto di essere attraversati dalla Iulia Augusta.
Per quanto riguarda le tracce di romanità nell'area di Sanremo non sussistono problemi: la Iulia Augusta provenendo da Costa Beleni attraversava questi siti e il ponte romano, che a S. Martino superava il torrente S. Lazzaro, era visibile ancora nel 1830.
Per l'allargamento di Corso Cavallotti fu distrutto nel 1834 ma nel 1901 ne sopravviveva un troncone, poi demolito, ben descritto dal Canepa che riconobbe con sicurezza la tecnica muraria romana.
Un ritrovamento importante si ebbe a Sanremo nella REGIONE FOCE, dove vennero alla luce i resti mutili di edifici romani e gli elementi superstiti di una piscina, facente parte di una modesta costruzione termale: cosa che fece meditare sulla realtà di un insediamento abbastanza sofisticato, entrato nella tradizione culturale sotto la definizione di villa imperiale , anche se è da ricordare che la costruzione delle piante di queste residenze costituisce da secoli un problema di archeologia.
Più tardi "scavi intrapresi nel 1960 hanno qui riportato al]a luce resti murari di età imperiale che confermerebbero l'esistenza di un abitato o comunque di edifici romani sulla collinetta di San Siro": la leggenda pone in rapporto questi luoghi con un apostolato dei Vescovi di Genova del IV sec., S. Siro e S. Romolo; la toponomastica informa, del segno lasciato dai 2 Santi in nome di luogo oltre che in edifici di culto, dalla collina al Capo S. Siro fin al Castrum Sancti Romuli la parte medievale di Sanremo.
del segno lasciato dai 2 Santi in nome di luogo oltre che in edifici di culto, dalla collina al Capo S. Siro fin al Castrum Sancti Romuli la parte medievale di Sanremo.
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PER ANALIZZARE COMPIUTAMENTE LA STORIA DI SANREMO (PIU' PROPRIAMENTE SAN REMO) E PONENTE LIGURE GIOVA LEGGERE IL MANOSCRITTO "BOREA" QUI TRASCRITTO MULTIMEDIALIZZATO E IN MERITO A TUTTO L'ESTREMA LIGURIA OCCIDENTALE QUALE NODO STRATEGICO CULTURALE E SPIRITUALE OLTRE CHE COMMERCIALE DALLA ROMANITA' AL CRISTIANESIMO SOPRATTUTTO STUDIARE LA PARTICOLARE POSTAZIONE TRA DIOCESI DI VENTIMIGLIA E DIOCESI DI ALBENGA = APPROFONDENDO VEDI QUI = Diocesi Liguri = di Genova, Luni -Sarzana, Brugnato, Savona, Noli, Albenga, Ventimiglia con documenti nell'opera qui digitalizzata e multimedializzata dei due tomi dei Secoli Cristiani della Liguria opera di Padre Giovanni Battista Semeria - vedi quindi Le Diocesi Usbergo nell'interpretazione di Padre Valsecchi: la delicatezza delle "Diocesi di Frontiera" e la loro importanza contro penetrazioni ereticali, scritti di libertini, forme varie di esoterismo = un caso emblematico da accostare ad altre Diocesi di Frontiera, come quelle tedesche ma non solo,: la Diocesi di Ventimiglia ed ancora analizza dalle Diocesi imperiali romane alle Diocesi Cristiane = vedi qui il Cristianesimo e la sua storia millenaria (elenco terminologico: dalle gerarchie a tutte le diocesi del Mondo Conosciuto) - La storia antichissima della Diocesi di Ventimiglia collazionata con quella di Albenga e con la storia delle Diocesi in generale - Nel dettaglio vedi qui = Chiese, edifici di culto, santuari ecc. visti in relazione ai "Luoghi" = "città, borghi, pesi del Ponente Ligure" (Indice) e pure Normative sei-settecentesche oltre che per la vita ecclesiastica (voci varigitalizzate da testo antico) contestualmente a Caratteristiche, tipologia, tutela, manutenione, trasformazioni, modifiche dei Luoghi di Culto (Indici) - Approfondisci le contraddizioni e le soluzioni o proposte nel contesto ecclesistico per evitare gli abusi nella concessione del Diritto d'Asilo Ecclesiastico specie a fronte della diffusione della criminalità e in particolare di quella "criminalità organizzata" che diffusa ovunque (e attraverso varie mutazioni qui visibili "preistoria" delle associazioni a delinquere di stampo mafioso) in Liguria andava sotto nome di "Parentelle/Fazioni"
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Nel 980 il Vescovo genovese TEODOLFO (con cui, giova si può datare l'inizio delle interferenze della Chiesa genovese su queste contrade e soprattutto l'apertura di un tragitto, prima diplomatico e poi militare, per garantire a GENOVA l' ASSIMILAZIONE DI SANREMO e poi del Ponente ligustico a scapito dei CONTI DI VENTIMIGLIA) in un documento fece redigere : " ... Res nostrae ecclesie a paganis Saracenis vastate et depopulate sunt et sine habitatore sunt ecclesie in Matutianensibus et Tabiensibus finibus..." ed informò i posteri su alcune cose fondamentali: che nel X sec. sopravviveva per l'area di Sanremo il toponimo fondiario di Villa Matutiana, che la località, pur se devastata dai Saraceni, era proprietà (con territori limitrofi, per antiche donazioni bizantine) della Chiesa genovese e che ivi sorgeva una chiesa.

La chiesa di S. SIRO di Sanremo (QUI IN UNA FOTOGRAFIA DEL 1910 CIRCA), fu alterata da varie modificazioni nei secoli.
Dell'insediamento che qui sorgeva si son reperite delle tracce di cinta muraria che inducono però a pensare non un complesso paragonabile con la VILLA PSEUDOURBANA ma ad una struttura più ampia che rimanda per certi aspetti al complesso "vicanico".
L'insediamento faceva capo a due aree funerarie scoperte non lontano dal complesso del S. Siro nell'area di PIAZZA EROI SANREMESI e quindi alla conclusione di VIA CAPPUCCINI.
La necropoli sondata con rigore è quella detta di VIA CAPPUCCINI ove si sono scoperte tracce di romanità sin dalll'Ottocento.
Vicino a un'URNA per conservare le ceneri (che rappresenta la sepoltura più antica) son state scoperti un MANICO in vetro ed un altro oggetto vitreo.
Entro l'URNA era poi custodita una seconda URNA VITREA (di colore verdastro), con coperchio di vetro e manico centrale a cilindro, nella quale erano state deposte le ossa del defunto.
Vi si trovò anche un piatto parimenti di vetro colorato e decorato i cui bordi erano rialzati e sagomati.
Con ciò si scoprirono pure reperti di tavolette in avorio, quasi certamente senza iscrizione, e una cicala di cristallo cava sulla cui cima stava un forame dove probabilmente era incastrato un turacciolo,
Come scrive il De Pasquale cui si deve l'insieme di queste notizie archeologiche sull'insediamento romano del "S. Siro" in tempi piuttosto recenti altra campagna di scavo ha permesso di esumare ben nove sepolture (in gran parte andate perse a causa di lavori stradali) risalenti al I secolo d. C. come suggerisce la datazione del corredo funebre trovato in esse.
Secondo quamto scrive lo stesso studioso erano "a cappuccina" ed erano state disposte in modo da coprire il rogo funebre e quindi le ossa del morto, senza doverle sistemare in un'apposita urna.
Quella indicata col numero 7 dagli archeologi è stata studiata in modo esauriente: si trattava di una "fossa semicircolare con terra grigiastra e carboni, resti delle ceneri del defunto...circondata da due lastre litiche poste a cassetta completate da due embrici con corredo".
La sepoltura n. 8 è invece formata da una grande lastra di arenaria sopra cui era stato disposto una copertura a guisa di tetto realizzata con due tegoloni.
Vi si potè leggere criticamente il pozzetto funerario e soprattutto una corredo funebre interessante tra cui si segnalano una patera, una coppa in terra sigillata di provenienza sud-gallica, un olpe, un boccale, una bottiglia di vetro ed una lucerna che portava il bollo "FORTIS".
In area limitrofa furono poi scoperti i reperti di un muro che, secondo il De Pasquale che divulga i dati degli archeologi dello scavo, probabilmente delimitava l'area della necropoli.

Nella CARTA SETTECENTESCA DI ANONIMO si nota la DEMOLIZIONE della TORRE della CATTEDRALE avvenuta nel 1753 per i danni patiti ad opera dei GENOVESI: il CAMPANILE venne quindi riedificato, come si vede nella fotografia, secondo una nuova interpretazione architettonica, tipica del gusto un pò provinciale del BAROCCO LIGURE).
lA CHIESA DI S. SIRO conserva, comunque tuttora, segnali di tipo romanico e soprattutto la Canonica di S. Siro è eccezionale monumento.
Si apre all'interno sul chiostro dei canonici (o "Resettu" ) e all'esterno guarda verso la piazza del Mercato: N. Lamboglia ne fece una descrizione ridisegnando, tra le mutilazioni del tempo, tracce antiche, dalla porta principale sul Mercato, tutta in pietra, ai piani di bifore individuate tra le finestre moderne e tipiche del XII secolo, alle antiche scale e porte mascherate dagli intonaci, ad una "sala con eccezionale colonna centrale", fino a riconoscere sotto il pavimento del chiostro le tracce di un altro molto piu antico.
Lo studioso scrisse che: "Un complesso del genere, a lato di un'antica pieve, ha solo riscontro nel Palazzo Vescovile della non lontana Frejus in Provenza... come prototipo di un edificio civile della più antica architettura romanica del Medioevo ligure". La sua riflessione concorda coi dati forniti dal Vescovo Teodolfo e quindi, anteriormente al IX sec., in questa zona di Sanremo, che pure conservava un antico nome romano, si fondevano elementi civili e religiosi ed i coloni che avevano continuato la vita agricola di quella antica villa risultavano dispersi, nel 980, per le scorrerie dei Saraceni ma vi erano stati a lungo, presso una vecchissima chiesa, visto che Teodolfo con quel suo intervento intendeva favorire una ricolonizzazione di quelle proprietà sotto la sua amministrazione e contestualmente lamentava l'interruzione della vita pievana a Sanremo.

Per Pieve si intende un distretto rurale corrispondente alle antiche circoscrizioni italiche pagane, amministrato nel primo Medioevo da una chiesa battesimale e matrice, intorno alla quale venivano raggruppate quelle minori e le cappelle; era retta da un pievano od arciprete che curava un collegio di chierici: ed è curioso notare che pieve deriva dal latino cristiano del IV sec. per indicare un ordinamento distrettuale di "parrocchia di campagna".
A questo punto l'archeologia, la toponomastica e le scienze storico-archeologiche convergono verso un unico punto: una plebe rurale risiedette continuativamente in un fondo romano o in parte di esso ed il suo nome antico (Villa Matutiana o Matuciana) neppure si disperse tanto forte ne rimase la valenza e quelle proprietà ebbero, passando alla Chiesa una ristrutturazione amministrativa in senso cristiano, che ricalcava le forme istituzionali delle dipendenze rurali romano-imperiali.
E' probabile, come altrove avvenne, che le aree litoranee dell'antico fondo, forse il cuore residenziale dell'organismo rurale, siano state abbandonate all'incuria un po' per il pericolo di aggressioni piratesche, data la posizione indifesa presso il mare e l'antica via romana, un po' per l'incapacità medievale di conservare i piu complessi organismi residenziali romani ed infine anche per la tendenza di sfruttarne l'attrezzatura superstite portandola in luoghi sicuri o per convertirne praticamente (vasche e depositi) gli antichi sistemi idrici e termali.
Per avere qualche dato in più sulla romanità di Sanremo, occorre risalire al Medioevo.
Dal rescritto del Vescovo Teodolfo si apprende che quest' area, prima di essere nominata da S. Romolo, era nominata Villa Matuciana o Matutiana: come si ricava dagli Annales Regnum Francorum, questa località era forse già stata devastata nell'838 dagli Arabi di Spagna quando incendiarono Marsiglia e continuò ad essere oggetto di scorrerie saracene fin quasi ai tempi di Teodolfo, che la ricordò quale causa di un degrado socio-economico.
E' vero che questo termine di villa, con un significato prossimo a quello di Pieve, continuò ad essere usato fino al Medioevo per indicare un fondo rurale, ma è anche chiaro che in questo caso il toponimo romano decadde almeno a fine XI sec. e quindi tardi, benché, per quanto ci dice la linguistica, non si fosse formato nella tarda romanità ma in buona epoca imperiale.
In un atto dell'8-IV-1259 del notaio di Amandolesio compare il nuovo nome di luogo Sanctus Romulus, usato per indicare l'area insediativa della vecchia Sanremo, a proposito del dono di due case, ivi esistenti, fatto da Migdonia Domenica, vedova di Rubaldo Buscarini seu Robini de Sancto Romulo, a Guglielmo Barberubee di Ventimiglia, che le ricevette a nome dell'opera di S. Francesco sempre di Ventimiglia: le domus o case risultavano contigue tra loro e con altre, in quella particolare struttura che rimanda alla conformazione del complesso in altura del Castrum Sancti Romuli. Il rapporto fra tali case e i complessi residenziali della Foce appare simile a quello di Ventimiglia medievale con l'area romana nervina: un aumento di insediamenti nel Medioevo in aree appendicolari rispetto ai luoghi costieri di antica urbanizzazione imperiale, resi precari tra VIII e X secolo da reiterate predazioni.

N. Lamboglia segnò tra Sanremo e Taggia "un gruppo di grandi ville romane": per la MATUCIANA (la "villa romana di Sanremo") è supponibile, calcolando la vastità potenziale di una struttura fondiaria romana, che avesse una consistente estensione e che a un capoluogo signorile e padronale seguissero, procedendo dalla costa, occupazioni del terreno di diverso tipo: casuali e temporanee, di tipo servile o dipendenze in grado di lasciare qualche traccia muraria o di toponomastica fondiaria, a S. Siro e alla Pigna. In particolare avrebbe potuto essere un nucleo insediativo assegnato a qualche familia rustica lì impiantata con strutture sempre di difficile ricostruzione ma in stretto contatto con l'organismo pseudourbano della Foce: i reperti qui individuati ci informano che non sono propri di un organismo agricolo e neppure di una qualche struttura pubblica; essi hanno piuttosto il carattere della villa pseudourbana posta al centro di una tenuta, circondata da boschetti (nemora) e viali (gestationes) e con le dipendenze agricole abbastanza discoste e disposte razionalmente in rapporto alle esigenze dello sfruttamento dei terreni.
Questa VILLA DI SANREMO ha quindi i connotati della residenza per i padroni, tenendo conto che nella sua costruzione, per quando individuabile si è badato a calcoli non pratici come per un'azienda agricola ma di ordine estetico: fu eretta in un luogo comodo, arioso e pittoresco ed offriva ai residenti le comodità di una casa di città, quali un bagno così ricco da riprodurre in miniatura gli ambienti essenziali delle terme pubbliche.
Per comprendere questo edificio e accettando il principio, peraltro mai messo in dubbio, che esso sia isolato da altre similari strutture, si può pensare, sulla base di due epistole (V, 6; II, 17) di Plinio, ancorché ambigue ma che riflettono un certo costume romano di vita, che questa villa di Sanremo, tanto "cittadina" nella funzionalità, servisse quale luogo di riposo per proprietari che potevano essersi trasferiti in veri e propri centri urbani, dopo che i loro avi avevano preso possesso, per qualche donazione di terre in epoca cesariana od augustea, di una vasta proprietà fondiaria, a Sanremo, divenuta fiorente col tempo.
La Iulia Augusta marchiò tale sito dal 13 d.C., mentre da tempo si favorivano concessioni fondiarie a veterani nell'Italia settentrionale: secondo quanto scrive il Bodard un miliare di Augusto, DLXXIX, si rinvenne a Sanremo o meglio in oppido Sancti Romuli (C.I.L., V, 8086), poi conservato presso la chiesa di S. Stefano.
L'arteria vide sorgere lungo il suo tragitto parecchi sistemi insediativi che, pur senza avere i connotati del centro urbano così importante da essere registrato nelle carte geografiche dell'antichità, ebbero una loro significativa evoluzione: dalla stazione del fiume di Taggia o Costa Beleni al nucleo urbano della città nervina di Albintimilium correvano 16 miglia romane di strada, diversamente interessante località minime o ville signorili, pseudourbane, sfuggite ai cartografi romani, intenti precipuamente a segnalare i nodi viari e portuali.
Già dalla riva ovest del torrente Nervia si sono segnalate tracce diverse di una ramificazione insediativa di case suburbane snodantesi lungo l'arteria verso l'area di Sanremo; e questa, dal punto di vista topografico, godeva di una buona logistica, essendo prossima a importanti nuclei da quello della Stazione stradale di Taggia al principale organismo residenziale di Albintimilium, su linea viaria e commerciale di grande importanza.
Si può anche pensare che la villa romana di Sanremo abbia risentito di trasformazioni funzionali in rapporto alle diverse esigenze storiche: di organismo fondiario in origine e poi di villa pseudourbana con dipendenze rurali e strutture di ricetto ed ospitalità (a pagamento) per viaggiatori, restando il corpo principale della stessa a disposizione dei padroni per i loro soggiorni o al fine di essere economicamente sfruttato per la residenza di viaggiatori di agiata condizione, usi a conservare le loro abitudini esistenziali e soprattutto determinate raffinatezze gastronomiche.

N. Lamboglia pose il toponimo Villa Matucciana in rapporto alla divinità italica della Mater Matuta, connessa al culto dell'aurora: sulla scia di G. Alessio si può pensare, con meno poesia ma forse con maggior rigore, che questa divinità sia, come altre per altre famiglie, alla base del nome di una gente Matucia, della quale sopravvive il ricordo nel toponimo fondiario.
Questa famiglia è documentata in Francia, entro i confini dell'antica provincia romana delle Alpi Marittime: un Matucius Quartinus e poi una Matucia Paterna a Cemenelum(C.I.L., V, 7923), un Matucius Paternus a Nizza (C.I.L., V, 7933) e sempre nella stessa area un Matucius Albucius ed un Matucius Mansuetus (C.I.L., V, 7907).
I cognomi sono di tradizione ligure, in particolare Mansuetus e Paternus(-a): si potrebbe ritenere che i proprietari della villa romana di Sanremo od un loro ceppo si sia stanziato nelle località francesi, cui faceva capo lo storico percorso commerciale della Iulia Augusta, dedicandosi a operazioni commerciali tra il Sud della Gallia e quell'area dell'estremo ponente ligure in cui esisteva una loro villa, ben disposta in rapporto ai nodi portuali e viari di Costa Beleni e di Albintimilium e resa polivalente quale proprietà fondiaria, minimo nucleo commerciale e ricettivo, oltre che quale residenza padronale.
La Cracco Ruggini ha dimostrato la tendenza evolutiva in campo sociale ed economico dei discendenti d'epoca imperiale degli antichi assegnatari di proprietà fondiarie nella tarda Repubblica o nel primissimo Impero: costoro in genere preferivano affidare alla familia rustica servile la manutenzione delle proprietà, sistemandosi nei centri urbani costieri.
Alcune proprietà non superarono mai lo stato di insediamenti rustici presto dimenticati (e nulla sappiamo sulla villa Periana oltre le congetture del Lamboglia); di altri fondi rimangono vaghe tracce ma l'analisi sui siti esclude un insediamento padronale prolungato (Ceriana, Pompeiana, Porciana).
Altre ville poi, site in luoghi migliori, ebbero insediamenti padronali con strutture residenziali adeguate ma furono usate, dopo un periodo di floridezza, in modo saltuario dai proprietari altrove trasferitisi.

A Bussana oltre Sanremo, a lato dell'attuale Aurelia, che ricalca la Giulia Augusta, scavi regolari misero in luce i resti di un insediamento romano dai connotati della VILLA RUSTICA PADRONALE.
I linguisti non si sono mai veramente accordati sul gentilizio romano dei proprietari, ma sia che il toponimo abbia avuto origine da una gens Vibia che da una gens Vippia, il ceppo padronale, per quanto dimostrabile, non procedette ad una sistemazione della tenuta sotto la veste della villa signorile pseudourbana: le genti di buona condizione socio-economica non erano solo attratte dalla vita cittadina e dai privilegi, esistenziali o commerciali, che offriva, ma erano ancor più coinvolti dalla particolarità dei centri litoranei e del loro rapporto col Sud della Gallia e coi nuclei di Monaco, Nizza, Cemenelum, autentico "ponte viario" del traffico commerciale transalpino verso i mercati italici, Marsiglia e Arelate.
Nell'area municipale di Albingaunum si rinvenne nel secolo scorso la lapide di un sacerdote "Quintus Vibius Egnatius, pontifex consularis" e "flamen Divi Severi, curator aquarum": un personaggio relativamente importante preposto oltre che al culto dell'Imperatore a funzioni di ordine pubblico e religioso (C.I.L., V, 7783): la gens "Vippia" è attestata ancora nelle Alpi Marittime (C.I.L., V, 7961 e 7962).
Il De Pasquale, oggi forse il più attento ricercatore su questi argomenti, però preferisce rifarsi ad un gentilizio "Burius" pur non motivandone l'evoluzione linguistica dal latino sino alla dizione dialettale a differenza di quanto fecero il Calvini e la Petracco Sicardi.
Lo studioso è comunque molto preciso nel descrivere il complesso di questa VILLA DI BUSSANA .
La costruzione, sita in località Marine di Bussana, risulta al momento attuale strutturata su una pianta con sei vani di cui tre rettandolari e i restanti, di forma quadrata, eretti al loro fianco.
La pavimentazione fu realizzata su una base di ciottoli e calce quindi ricoperta con laterizi frantumati.
Di lato all'edificio si riconosce una sorta di edicola, forse di natura funeraria, con una nicchia nella parte summitale in cui si vedono tracce di intonaco e che doveva contenere una statua.
A ponente si son riconosciuti gli avanzi di una officina laterizia con la presenza di un "praefurnium" con basamento in pietra: nell'anticamera del "furnus" si sono poi visti due canali.
Verisimilmente vi si realizzava ceramica d'uso locale: l'attività della villa (è difficile dire se fosse una struttura padronale o solo un complesso aziendale retto da libertini e personale servile) dovette perdurare visto che la tecnica edile usatavi è del II sec. d. C. mentre vi si è poi rinvenuto un bollo laterizio ["L(ucius) H(erennius) Opt(atus)"] che viene datato a metà del III secolo.

Come visto la "gens Matucia" ebbe uno o più ceppi nell'area tra Cemenelum e Monaco e la lapide del magistrato intemelio MARCUS COELIUS CRESCENS fu rinvenuta a Monaco nel XIX sec., databile a un buon II secolo d. Cristo.
La VILLA DI CERIANA, per quanto riguarda la sua origine, rimanda forse a questa GENS COELIA [secondo G.Petracco Sicardi potrebbe anchre rimandare ad una GENS CAERELLIA se la dizione locale tseriàna è di tradizione orale diretta] anche se le labili prove confortano poco sul piano di oggettive relazioni.
Alla casualità si può però accostare un principio di causa-effetto, essendo frequenti e noti gli spostamenti dei ceppi padronali in aree dove poter risiedere, svolgendo un'attività commerciale integrata dai cespiti di proprietà fondiarie diversamente gestite.
Naturalmente i tempi delle invasioni dei barbari hanno alterato a tal punto il territorio ligure da rendere improbabile il ritrovamento delle tracce di qualche azienda agricola connessa all'iniziativa di una gens romana: per leggere in modo più esteso lo sviluppo demico del paese bisogna rifarsi all'EPOCA MEDIEVALE (vedi).
Cemenelum e Monaco erano luoghi vitali per l'importanza dei prodotti dell'oreficeria "Gallica": non è forse un caso che queste genti signorili, in parte di buona onomastica ligure ed ingauno-intemelia, siano presenti nella provincia delle Alpi Marittime.
Dal II sec. d.C. le ricche industrie della Gallia, fra tante merci e manufatti, esportavano in Italia i raffinati prodotti della loro argenteria per cui molti commercianti ingauno-intemeli spostarono la loro residenza nei centri dell'esportazione quali Cemenelum, ed in misura minore a Monaco e Nizza: il porto di quest'ultimo centro e la prossimità del territorio monegasco ai municipi liguri costituiva un'area di eccellente contrattazione e di conseguente commercializzazione.

I benestanti di Albintimilium fruivano di oggetti pregiati e di un tenore di vita elevato. Nei primi decenni del '900 l'archeologo Barocelli rinvenne nella necropoli nervina oggetti in oro e argento, fibulae, collane e anelli.
Il più eclatante ritrovamento fu (1917, tomba 145 ) quello di un SERVIZIO DA VIAGGIO IN ARGENTO: ma non si possono dimenticare una splendida PATERA VITREA, una COPPA COSTOLATA VITREA ed altri OGGETTI DI VARIA ELEGANZA (senza escludere un SIGILLO di ottima fattura, certo connesso alla grande tradizione romana degli ANELLI (DATTILIOLOGIA)) frutto di un' INTENSA COMMERCIALIZZAZIONE e scoperti, spesso come arredi funerari, nelle NECROPOLI.
La documentazione archeologica proviene prevalentemente dalla città nervina di Albintimilium, ma per alimentare le riflessioni su un alto traffico commerciale, in epoca romana, per questi siti occorre tenere presente la prossimità con gli insediamenti romani alla Mansio o Stazione stradale sulla Iulia Augusta, al Tavia fuvius, che le carte geografiche imperiali localizzavano a XVI miglia dal nucleo urbano intemelio e a XXXI dal centro residenziale di Albingaunum.
II Rossi trovò una coppa particolare del III sec. d.C., una PATERA VITREA, che cosl descrisse (necropoli di Ventimiglia, vecchi scavi): "ha dessa la forma di un vaso circolare incavato, del diametro di 0,195 internamente e di 0,198 esternamente e dell'altezza di 0,045, il quale presenta sulla superficie esterna intagli ed impronte che disegnano figure di mirabile esecuzione. Campeggia nel bel mezzo il figlio di Nettuno e di Anfitrione, il compagno delle Nereidi, voglio dire il semidio Tritone, il quale conserva le più belle forme d'uomo fino la, dove la schiena perde il nome; nel qual punto da un giro di pinne o natatorie, sbuca fuori una coda di pesce che si alza e si svolge in due ampie volute, per terminare in punta biforcata, mentre sul davanti, di sotto il ventre spuntano due gambe di toro, sulle cui estremità invece di zampe stanno due natatorie, come si riscontra nelle antiche pitture di quadrupedi ittiofagi. Il volto del semidio è disegnato di profilo a sinistra col capo cinto di una specie di diadema nel modo appunto, onde si vede rappresentato Tritone in un'erma colossale, descritta da E. Q. Visconti; il braccio destro prosteso è in atto d'impugnare una lunga conca marina, da cui si spicca un lambello che svolazza attorno; e un tale istrumento, segnale del suo ufficio, sparge il suon della canorea tromba, mentre colla sinistra sostiene una tazza che ha forma di un cratere di peregrino disegno. Guizzano attorno al Tritone, in guisa da occupare non solo tutto il fondo, ma ancora una porzione della sponda del vaso, quattro pesci dalla larga coda con lunghe pinne dorsali e ventrali; dei quali, uno sopra il capo, e gli altri tre sotto il ventre del semidio, vanno correndo da sinistra a destra, lasciando nelle intercapedini accoppiati a due a due, oggetti di forma elittica, i quali non si tarda a riconoscere per altrettante natatorie staccatesi dal dorso del Tritone e da quello dei pesci istessi"> (G. ROSSI, "Di una patera in vetro trovata in un sepolcro dell'antica Albio Intemelio", in "Giornale ligustico", maggio-giugno 1885, p. 225 = "S.V.", pp. 21-22, con cenni agli antichi restauri del prezioso oggetto con saldature in mastice bianco ancora visibili: ora in Museo archeologico intemelio, "V.R.", fig. 135).

La PATERA VITREA di cui il Rossi diede questa descrizione, pur nella sua raffinatezza, costituisce, assieme ad oggetti in vetro lavorato rinvenuti a Ventimiglia romana , una nota del livello tecnologico dell'industria romana sollecitata dalle esigenze di un mercato sofisticato, specie tra I e fine III sec. d. Cristo.
Esempio di tale produzione artistica, commercializzata sulle piazze imperiali, fu proposto dalla mostra "I vetri dei Cesari" (novembre 1987-marzo 1988) del British Museum di Londra (160 pezzi) di cui Giulia Ajmone Marsan ("Il Corriere della Sera", 20-XI-1987), sotto il titolo "Magici vetrai di Augusto " offre un' analisi di cui si:" Gli artigiani romani erano in grado di creare dei veri gioielli usando queste tecniche tradizionali (provenienti dall'Egitto e dall'area Mesopotamica). Un esempio è il piccolo ritratto di Augusto, probabilmente parte di una statuetta votiva d'oro e d'argento: la testa dell'imperatore realizzata presumibilmente con il metodo della cera persa, e impressionante per il suo realismo e la sua intensità espressiva. Altrettanto impressionante è il cosiddetto "Vaso Portland": sul blu indaco dello sfondo dell'anfora, non più alta di 25 cm., si sta- gliano una serie di figure bianche; la scena mitologica fu probabilmente ottenuta soffiando prima del vetro blu in una forma ancora calda di vetro bianco opaco e poi, una volta raffreddato, il vetro bianco è stato asportato per ottenere il rilievo. A quest'epoca, la seconda meta del I sec. a.C., l'industria fu rivoluzionata da una innovazione tecnologica: la scoperta che il vetro poteva essere lavorato soffiando la massa vitrea incandescente con una canna lunga circa un metro e mezzo. Fino agli anni Sessanta si pensò che questa svolta fosse avvenuta durante il I sec. d.C.; nel 1961 pero il prof. Avigad, un archeologo israeliano, trovò una bottiglia di vetro soffiato durante gli scavi di un cimitero nell'Oasi di Ein Gedi, sulla costa occidentale del mar Morto: una scoperta importante, dato che era noto che il cimitero era caduto in disuso tra il 40 ed il 30 a. Cristo. Rendendo la produzione di recipienti di vetro semplice, veloce e poco costosa, questa innovazione rivolu- zionò l'industria trasformandone i prodotti da oggetti di lusso accessibili ed ap- prezzati da pochi ad utensili comuni e diffusi in tutto l'Impero ed oltre i suoi confini (e questo giustificherebbe i numerosi oggetti in vetro esumati dalle necropoli di Albintimilium).
L'invenzione fu probabilmente portata in Italia da artigiani siriani durante i primi anni del regno di Augusto. La produzione dei vetrai romani, che continuavano a usare anche le tecniche tradizionali e a creare oggetti d'arte molto costosi per i ricchi (come la Patera di Albintimilium), ebbe una fioritura eccezionale, rimasta impareggiata fino al XV secolo, il periodo delle vetrerie veneziane... Anche privi di decorazione gli oggetti di vetro soffiato (esposti nel museo inglese) sono ricchi di eleganza, come dimostrano le linee semplici e compatte dell'anfora della prima meta del II secolo trovata in Kent. Una delle tecniche di decorazione piu diffusa era l'applicazione su vetro ancora duttile di gocce e strisce di vetro caldo. Tipica, per esempio, dell'altro grande centro della produzione del vetro in epoca imperiale, Colonia (che riversava in Italia le sue merci per il nodo di Aquileia), e una fiaschetta con due manici del II secolo: il vetro verdino e decorato da una serie di "pois" blu. Oltre a questa tecnica, a partire dalla prima meta del I sec. d.C., si diffuse quella (usata ancora oggi) di soffiare il vetro in forme di terracotta. Probabilmente uno dei primi e piu raffinati arti- giani a impiegare questo metodo fu Ennio e la sua scuola presso Sidone. Due splendidi esemplari da lui firmati sono esposti nel museo inglese: una tazza blu con un motivo floreale e una brocca color ambra con disegni geometrici. A partire dalla fine del I sec. d.C. i vetrai romani svilupparono anche un'altra tecnica tut- tora in uso e nota fin dalla meta del XIV sec. a.C.: la produzione di recipienti trasparenti, incisi o tagliati. Le risorse degli artigiani imperiali non si fermavano qui: ... effetti magici rivelano mani eccezionalmente abili. Si pensi alla "Coppa Trivulzio" del IV secolo, trovata presso Novara: il recipiente di vetro bianco opaco e ingabbiato in una rete di vetro tagliato celeste e giallo collegato al corpo delltoggetto da piccoli ponticelli, sempre di vetro; sotto il labbro un'iscrizione blu ottenuta con lo stesso metodo: Bibe vivas multis annis. Si ammiri ancora il "Disch Kantharos", un calice trovato a Colonia, con una "rete" sempre di vetro, questa volta applicata per proteggere la doratura della coppa rappresentante tre putti. Infine si osservi il "Piatto Paride" del III-IV secolo, probabilmente prove- niente dalla Siria, dipinto a freddo sul retro. In colori intensi rossi e violacei e resa graziosamente la scena in cui Paride giudico la bellezza di Afrodite.

La Patera vitrea intemelia era un oggetto d'arte che avrebbe certo potuto par- tecipare a questa esposizione; attualmente resta il segnale di un alto livello esi- stenziale di determinati gruppi sociali, per quanto i meno abbienti già fruissero di surrogati meno sofisticati e di uso pratico. Vetro opaco e colorato quasi sicuramente ad Albintimilium ornava le finestre delle case signorili, mentre rimane assai discutibile il suo uso in quelle condominiali.
La sostanza di queste riflessioni si concentra nel principio che in epoca romana a Venti- miglia e dintorni si godesse di un buon tenore esistenziale e si usassero attrezzi e suppellettili destinati ad una scoperta alquanto tarda: un certo manierismo nei gusti e l'abitudine ad ostentare la ricchezza portò i residenti a procurarsi oggetti sempre piu preziosi e fini come il servizio da viaggio in argento.

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CERIANA (di non impossibile genesi romana) sorge all'interno della Valle Armea a 15 Km. c.a da Sanremo e 33 da Imperia, ad un'altezza di circa 369 m. sul livello del mare.
Come molti borghi fortificati medievali della Liguria occidentale il paese evidenzia la sua posizione strategica e la particolare tecnica costruttiva per cui le case risultano addossate le une alle altre formando, oltre la cinta muraria, una sorta di cortina contro cui gli eventuali nemici avrebbero dovuto urtare, inerpicandosi poi a fatica e defilati, per l'angustia degli spazi, lungo le strette viuzze (i "Carruggi") dove per pochi difensori sarebbe stato possibile tendere insidie e fermare un numero anche rilevante di aggressori.
Ed ancora una volta, come accade sempre per molti paesi liguri [emblematico è il caso di Dolceacqua]. i vari itinerari interni al borgo conducevano anche qui ad un CASTELLO verisimilmente eretto nel XII secolo ma andato poi distrutto anche se ne restano alcune tracce relativamente alla cinta muraria e alla porta d'accesso caratterizzate da grossi blocchi in pietra locale non squadrati [peraltro rimane pure qualcosa della Porta dell'Oppidum o Porta della Pena, rozza, ad arco ribassato; esiste poi un camminamento coperto che comunica con la chiesa di S.Pietro e con la Torre di S.Andrea, quadrata, in pietra e calcestruzzo, con feritoie nella parte inferiore mentre in quella superiore è a cuspide].
Inizialmente il borgo fu possesso feudale dei Conti di Ventimiglia ma nel 1308 passò sotto la giurisdizione di Corrado vescovo di S.Lorenzo di Genova che vi organizzò una contea rurale.
Nel 1297 il paese fu poi venduto a Giorgio de Mari ed a Oberto Doria.
Esso fu quindi assimilato dalla forte Repubblica di Genova ed inserito nel suo Dominio.
Seguì quindi le sorti di Genova fino a quando, caduta la Repubblica per le conseguenze della Rivoluzione francese, il paese entrò poi, dopo le imprese di Napoleone Bonaparte a far parte dell' Impero Francese di cui seguì le sorti fino alla Restaurazione del Concilio di Vienna nel 1815.
A Ceriana è notevole l'architettura religiosa.
E' per esempio il paese degli Oratori.
Se ne possono ammirare diversi: per esempio quello della Visitazione, retto dalla Confraternita degli Azzurri che si pensa sia stato eretto sulle fondamenta di una struttura romana alla maniera di come si era soliti in Liguria Occidentale ai tempi del Cristianesimo delle origini [tra tanti un caso emblematico può essere considerato quello della chiesa vallecrosina di S.Vincenzo e S.Rocco.
Altri Oratori sono quello di S.Marte retto dalla Confraternita dei Verdi (in cui si ritengono custodite le reliquie dei Martiri Placido e Germanione), quello di S.Caterina in cui si può ammirare una pala in cui è effigiata S.Caterina tra le figure di S.Chiara e S.M.Maddalena [opera che si ritiene di Francesco Brea nipote del pittore ligure-nizzardo F.Brea: l'Oratorio si segnala per la pianta longitudinale e per la facciata giudicata di scuola del Borromini e datata del XVII secolo].

L'edificio religioso di Ceriana che supera tutti per l'intrinseco valore artistico resta però sempre la CHIESA PARROCCHIALE DEI S.PIETRO E PAOLO che -a giudizio di Rinangelo Paglieri vera autorità sull'architettura religiosa e soprattutto barocca del Ponente di Liguria- "è forse per contenuti e dimensioni l'opera religiosa che più di ogni altra permette di cogliere la perizia e l'arte dell'autore [l'architetto Domenico Belmonte (1725-1795)]Iniziata negli ultimi mesi del 1768 per dar corso all'Opera Pia 'lasciata e ordinata dal fu Signor Secondino de Ferrari' che per la sua edificazione aveva messo appositamente a disposizione della Comunità una cospicua somma di danaro, fu consacrata nel 1774 da Monsignor Torre vescovo di Albenga".
In effetti per terminare compiutamente l'opera -come precisa sempre il documentato Paglieri- passerà dell'altro tempo e si arriverà al 1795 quando lo stuccatore Vincenzo Adani lavorerà nel presbiterio e sulle superfici della navata lasciandovi testimonianze della sua formazione neoclassica.
Secondo il Paglieri [ma di ciò si rende conto anche chi non è un'esperto] in particolare nella NAVATA il Belmonte ha dato prova della sua originalità così che nell'INTERNO "attorno ad uno spazio quadrangolare coperto a vela si sommano spazi complementari, delimitati da movimentate superfici, che permettono all'invaso dilatazioni nelle due direzioni ortogonali" (vedi: R.PAGLIERI, Nuovi contributi sull'opera architettonica di D.Belmonte" in "Riviera dei Fiori", 1984, n.1/2).

Come molti paesi del PONENTE LIGURE anche CERIANA vanta un'antica storia religiosa che affonda le sue radici quasi nel CRISTIANESIMO DELLE ORIGINI.
Molto antiche sono quindi le chiese originarie tra cui si deve citare quella di S.ANDREA che la tradizione vuole edificata prima del 1000 sulle fondamenta di un edificio religioso pagano.
La più importante chiesa antica non solo di CERIANA è la CHIESA DI S.PIETRO che costituisce uno dei più begli esempi di architettura romanica in Provincia di Imperia e che durante il suo fulgore non doveva sfigurare nemmeno a confronto della CATTEDRALE DI VENTIMIGLIA o della CHIESA DI S.SIRO DI SANREMO.
La CHIESA DI S.PIETRO fu verisimilmente costruita nel XII o XIII secolo e l'esterno denota la linea originaria (nonostante interventi edili del Quattrocento) a differenza dell'interno che è stato pesantemente rivisitato in epoca barocca.

A CERIANA vi è poi da visitare il SANTUARIO DI NOSTRA SIGNORA DELLA VILLA una chiesa agreste che signoreggia quasi sulla Valle Armea.
In un paesaggio incontaminato è venerata questa MADONNA che in un'antica lauda è detta BAMBINELA.
Si narra che sul luogo ove fu eretto il SANTUARIO fosse esistita una CAPPELLA INTITOLATA ALLA VERGINE COL TITOLO DI S.MARIA e che questa fosse custodita da un EREMITA notazione peraltro non priva di qualche significato tenendo conto che la diffusione del CRISTIANESIMO PRIMIGENIO in LIGURIA OCCIDENTALE fu di natura EREMITICA ED ASCETICA e particolarmente di TIPOLOGIA INSULARE come quello dell'ISOLA GALLINARA.
Il SANTUARIO è nominato in documenti molto antichi, già nel 1218, e doveva essere di piccole dimensioni.
Venne ampliato verso il 1623 durante il fervore costruttivo dell'architettura barocca ligure: l'occasione per le migliorie dipese dal fatto che in questo SANTUARIO si recò in PELLEGRINAGGIO la marchesa Antonia Pallavicini che vi eresse una cappellania col compito di doversi dire ogni giorno una messa per lei e la sua famiglia.
In seguto a questa iniziativa il SANTUARIO venne arredato in maniera sempre più importante: nel 1627 da GENOVA giunse una statua della Vergine opera di Domenico Paraca che sostituì la vecchia immagine custodita su un altare in legno di tiglio e che ora risulta conservata nella sacrestia della Parrocchiale di Ceriana: un importante evento fu quando, su committenza degli stessi Cerianesi giunse ad affrescare la volta (con scene di Vita della Vergine e pagine della Bibbia) il pittore Maurizio Carrega.


Al POGGIO di SANREMO si trova il SANTUARIO DI NOSTRA SIGNORA DELLA GUARDIA.
Le sue origini e le caratteristiche permettono di porlo in relazione con altre CHIESE SANTUARIO sul monte FIGOGNA.
La tradizione narra che sull'area di CAPO VERDE a guardia del mare stesse una TORRE: presumibilmente uno dei COMPLESSI GENOVESI DI CONTROLLO DEL MARE CONTRO I PIRATI.
Lì nel 1667 il contadino Giovanni Peri soleva recarsi per accudire un suo podere coltivato a LIMONI.
Durante il lavoro udì una voce, si volse e s'avvide che la VERGINE era comparsa e gli parlava, chiedendogli di erigere una CAPPELLA sul sito.
Pensando d'essersi ingannato l'uomo non ottemperò subito alla richiesta così che questa gli venne ribadita nel corso d'una seconda apparizione.
L'uomo decise allora di donare a tale scopo sia la casa che aveva su quella prorietà sia il suo stesso podere.
La CHIESA fu innalzata tra il 1667 ed il 1671.
E' ad una sola navata, caratterizzata sulla facciata dalla presenza di un portico ad archi.
Sull'altare maggiore sta, in marmo bianco, l'IMMAGINE VENERATA DELLA VERGINE la quale oltre che MADONNA DEL POGGIO è qui anche detta STELLA MARIS in quanto venerata come protettrice dei viandanti.


La relazione più scientifica sulla VILLA ROMANA DELLA LOCALITA' FOCE IN SANREMO è opera di A. De Pasquale alla cui relazione vale la pena di attenersi.
Lo studioso afferma che i ruderi esplorati sono quelli che costituivano la "Pars dominicata" cioè la residenza dei padroni visto che vi si trovava un impianto termale.
Esso era costituito da un "calidarium" con una parete a forma di abside cui arrivava l'aria calda passando sia attraverso le pareti (per mezzo di sei tubi in materiale fittile, uno dei quali è stato rinvenuto per ampio tratto) sia tramite delle "suspensurae" a colonnette quadrate (per mezzo di questo espediente la circolazione d'aria calda poteva avvenire sotto il pavimento).
Sul lato settentrionale si è poi individuato un gradone, probabilmente usato come sedile una volta che il vano era riempito di acqua calda che successivamente, per via di una condotta, poteva defluire verso il torrente od il mare.
Prossimo al "calidarium" stava il "tepidarium" con ipocausto ed un dotto sul lato est che a sua volta permetteva il deflusso dell'acqua utilizzata.
Il "frigidarium" (per i bagni a temperatura ambiente) si raggiungeva tramite una scaletta visto che, mancando di ipocausto, era sito ad un piano inferiore.
A levante dei vani delle terme si trova poi un vasto ambiente che doveva essere in collegamento sia col "tepidarium" che col "frigidarium" ed ancora col distributore idrico (il "castelum aquae") già scoperto nei pressi del torrente.
Secondo il De Pasquale questo locale è da ritenere un "praefurnium": lo stesso attento ricercatore non sa spiegarsi però la valenza degli altri locali (almeno sette e di cui uno absidato) e suppone, con un "forse" che viste le dimensioni dell'edificio si può anche sopprimere, che l'edificio fosse utilizzato come residenza stabile.
Sulla questione dilungarsi è forse eccessivo anche perché le strutture murarie (del II secolo d.C.) si prolungavano oltre il rio Foce giungendo nell'area del torrente Bernardo: il che fa davvero pensare di trovarsi di fronte ad una struttura edile complessa del tipo della villa pseudourbana di cui -con tutte le eccezioni possibili- si può qui fornire un'ideale TIPOLOGIA.


Il De Pasquale registra altri siti di Sanremo a suo dire sedi possibili di ville romane o comunque di organismi insediativi a carattere aziendale.
Presso la località PIAN DI NAVE egli cita una possibile VILLA RUSTICA proponendo e integrando una testimonianza dell'abate Grossi (XVII-XVIII sec.) che avrebbe visto in tale area "vestigia di grosse mura ed intreciate fabriche": dalla stessa relazione si apprende che nel sito si era anche rinvenuto un "mezzo volto con ivi diverse idrie" e di un "pavimento sotto quel volto...lastricato di quadrelli lavorati" (ancora il De Pasquale ipotizza a conclusione della sua indagine che si trattava di un mosaico non figurato "forse" da mettere in relazione allo spazio padronale di una VILLA CHE SORGEVA PRESSO IL TORRENTE S. ROMOLO).
Sempre il De Pasquale parla di un'altra possibile VILLA ALLA FOCE DEL RIO S.LAZZARO.
La sua inchiesta si basa ancora sul manoscritto del Grossi (XVII-XVIII sec.) e pare alquanto motivata.
Il religioso aveva scritto che nella zona si erano scoperte tracce di edilizia antica di consistente dimensione e oltre a ciò del ritrovamento di una sorta di ripostiglio (propriamente scrisse: "ripostiglio che noi armario chiamiamo che al di dentro era tutto pulito e liscio e fodrato di seta (!?!) quasi come di ormesino easato e di color pavonazzo, in mezzo del quale vi era una cassetta di piombo entro alla quale si trovò cenere") ed ancora di varie monete di Cesare, due aurei di Tito e del padre Vespasiano e quindi di "alcune ruote da molinetto da braccia" (il De Pasquale ha dedotto con la solita attenzione che quest'ultima scoperta può ben essere collegata alle esigenze di una vita agricola mentre le monete rimandano -cosa plausibile trattandosi di buon Impero- ad un certo fervore di questa zona verso la II metà del I sec. d.C. (età dei Flavi): forse era necessario soppesare un poco di più quella descrizione del Grossi (XVII-XVIII sec.) a riguardo dell'"armario", al suo tempo si indicava con tale termine l'armadio in legno ma anche, alla maniera romana, un ripostiglio ricavato nel muro e fornito di scaffali: vi è però da dubitare sulla possibilità di conservazione del rivestimento citato, data anche la caratteristica climatica di questa zona).
Un'altra VILLA sorgeva, secondo il De Pasquale in LOCALITA' FOCE DI VAL OLIVI.
L'informazione (del Grossi ma andata dispersa dal suo manoscritto) è giunta a noi al compilatore anonimo di un ulteriore manoscritto sulle antichità di Sanremo.
Si sarebbero qui trovati reperti di mosaici, anfore, monete, "canali di piombo", "trombette da condurre aqua".
L'elenco fa davvero pensare col De Pasquale che si potesse trattare di una struttura di rilievo: che a suo dire fu il settore padronale, con presumibile complesso termale (vista la segnalazione di fistule acquarie di piombo).

Un'ulteriore complesso secondo lo stesso studioso sarebbe poi la VILLA PRESSO L'INGRESSO DEL CIMITERO DI VALLE ARMEA dove si sono trovati reperti murari datati fra II e III secolo d. Cristo.
Risultano rasi al livello del suolo e rivestiti di blocchetti di pietre: il De Pasquale vi ravvede la pianta di almeno 3 vani.
Il maggiore dei vani reca tracce di ulteriori interventi di tempi posteriori: vi si nota una doppia pavimentazione, in pietre prima e poi in ciottoli e laterizi triturati.
Secondo il ricercatore, che si attiene a documentazioni di antiquari locali di provato affidamento, altri ruderi, dispersi, si estendevano per quasi un Km. dalla foce del torrente Armea.
A riprova di una visitazione della zona attraverso i secoli cita quindi il rinvenimento di modeste tomba a cappuccina (IV secolo) con povero arredo funebre che attribuisce, non senza ragioni, al personale servile impiegato in questa struttura, che poteva essere un'azienda come una villa rustica od ancora (ma in ciò mancano prove documentarie) una struttura residenziale con un comparto destinato all'insediamento dominicale.







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