cultura barocca
ALBENGA PALEOCRISTIANA

ALBENGA PALEOCRISTIANA

Nel periodo più prospero dell'impero l'abitato di Albingaunum si estese anche fuori del perimetro delle mura fin sotto la collina del Monte. infatti, nel corso di lavori nell'attuale letto del fiume Centa si sono scoperti un complesso termale con numerosi ambienti (fra il II e il IV sec. d.C.), che sono stati messi in relazione con terme ricordate da un iscrizione, oggi perduta, ma nota da una trascrizione, e sette piloni dell'acquedotto; più oltre la necropoli (II-III sec. d.C.) con tombe a recinto lungo la strada romana e, a ridosso della collina, la zona paleocristiana di San Calogero con il complesso delle rovine della basilica e del monastero nelle sue varie fasi con il reimpiego di materiali romani. Sull'altro lato della città, a occidente, fuori dalle mura ma in asse con il decumano massimo, è stata scoperta a livello di fondazione una vasta costruzione a quadriportico, con al centro un monumento a grandi blocchi, databile al I secolo d.C., in seguito abbandonata e utilizzata per una necropoli tardoromana e bizantina. L'edificio, caratterizzato dalla sua ubicazione ed assialità con il decumano, è da ritenersi un mercato extra-moenia come quello di recente scoperto (e nuovamente interrato) ad Aquileia. Ad Albingaunum non vi sono dunque edifici urbani romani emergenti fuori terra, ma l'impianto romano è più evidente che altrove attraverso la città medievale che lo conserva in modo così vivo e in più con la suggestione di un mondo comunale preservato fuori dal tempo. Fuori città, sulla spianata della collina del Monte, che è stato probabilmente il luogo dell'insediamento fortificato preromano, sorgeva l'anfiteatro, ora in gran parte demolito.
Insolitamente costruito al sommo di una collina, di esso restano tratti del muro perimetrale esterno con contrafforti, dell'ellisse interna che circondava l'arena e uno degli ingressi principali di grandi proporzioni. Sul colle si segue, in una pittoresca passeggiata archeologica in zona agreste, il percorso della via Julia Augusta, conservata a tratti in tagli nella roccia e nel lastricato a pietrame e gradini, rimaneggiata nel medioevo con fasce laterizie, che si snoda a mezzacosta fino ad Alassio fiancheggiata da una serie di mausolei e di ruderi; spicca, all'inizio, il cosiddetto 'Pilone', monumento funerario del II secolo d.C., molto restaurato dal d'Andrade nel 1892 e danneggiato nell'ultima guerra. È del tipo detto 'tromba a torre', e consta di tre corpi quadrangolari (in muratura in conglomerato piena a paramento di blocchetti spaccati) sovrapposti, coronati in alto da un attico che formava due nicchie con le statue dei defunti. Sulla fronte a mare è una nicchia a volta entro la quale sono due nicchie per le urne funerarie. Presso Cisano sul Neva è un monumento funerario simile, detto 'torre dei Saraceni'. Una serie di sepolcri monumentali a fianco della strada, convenzionalmente indicati con lettere dell'alfabeto, rappresentano, con i recinti funerari di Ventimiglia (in gran parte non più conservati), un raro esempio in Liguria di architettura funeraria del tipo 'a recinto' con nicchia semicircolare o colombario con loculi, oltre che di strutture a piccolo apparato con inserti opus reticulatum (blocchetti disposti diagonalmente a losanga) e di opus incertum rivestito di intonaco (all'interno tracce di affresco) del I secolo d.C. Alcune miniature appartengono invece a una villa che non è stata esplorata. Come a Ventimiglia, anche se in proporzione assai minore, la necropoli ha restituito corredi funerari, per lo più reperti in ceramica, e, inoltre, un'urnetta funeraria marmorea decorata con motivi vegetali e uccelli; più raro è un puteale marmoreo decorato con bucrani e festoni secondo la tipologia delle are rotonde sconosciuta in Liguria. Un solo pavimento musivo recuperato si affianca alla maggior documentazione di Ventimiglia; si tratta di un mosaico geometrico del I secolo, con motivi quadrangolari e a losanga che sono più propri dell'opus sectile. Numerose epigrafi funerarie e onorarie, di cui molte anche paleocristiane, testimoniano l'attività di lapicidi.
Albenga paleocristiana nella sua forma urbis venne riedificata da Costanzo III, dopo le devastazioni dei Goti e dei Vandali, tra il 414 ed il 417 come si ricava da un'iscrizione (C.I.L., V, 7781) e da questo passo del De Reditu Suo di Rutilio Namaziano [nel testo a lungo noto il viaggio di Namaziano si arresta a Luni data l'incompiutezza cui è giunta l'opera = l'integrazione su Albenga dipende dal fatto che nel 1973 la paleografa Mirella Ferrari ha ritrovato un nuovo breve frammento del II liber che descrive la continuazione del viaggio fino ad Albenga con utili notazioni: vedi = M. Ferrari, Frammenti ignoti di Rutilio Namaziano, in "Italia Medioevale e Umanistica", 16 (1973), pp. 15-30 donde poi prende spunto il fondamentale scritto di F. Della Corte, La ricostruzione di Albingaunum (414-417 d.C.), in "Rivista di Studi Liguri", L, 1984, pp. 18-25]. Le fonti attribuiscono a Costanzo III il restauro del porto, delle mura, di case private e di pubblici edifici ma non gli attribuiscono interventi a favore degli edifici ecclesiastici, opere forse avvenute in modo autonomo su committenza vescovile. Tuttavia il complesso vescovile era incastonato nel tessuto della città romana e la Cattedrale si trovava sel sito dell'antico foro (J. COSTA RESTAGNO, Albenga, topografia medievale, immagini della città, Bordighera, 1959 ed Ead., Albenga, le città della Liguria, 4, Genova, 1985.
Su possibili restauri di Costanzo in Ventimiglia di Nervia oltre all'assenza di epigrafi in merito e alla mancanza della restante parte del viaggio di Rutilio Namaziano -ipotizzando che ne abbia parlato come non improbabile che sia stato- dati precisi e dopo la distruzione degli inizi del V sec., l'archeologia recupera tuttora materiale di distruzione, accumulato però in "fosse di scarico" aperte per coprire le macerie ma anche per ottenere terra vegetale. Da ciò si deduce che nella città romana di Nervia dovette comunque sopravvivere una pur modesta vita locale: una distruzione successiva fa pensare ad un ulteriore intervento militare sui siti abitati esposti, cosa che traspare a Nervia da rifacimenti d'età bizantina e longobarda (Albintimilium ...cit., p.69).



Nell’antichità lo sport fu quasi sempre legato ad attività religiose o magiche in cui la componente estetica e la spettacolarità prevalevano sugli aspetti più propriamente agonistici; quasi sempre attraverso lo sport si è voluto dare un saggio della propria forza e abilità nel combattimento (quindi nella guerra) facendone un mezzo per dimostrare la superiorità delle classi dominanti.
Il primo popolo che iniziò la costruzione di città furono i Sumeri (3500 a. C.) che imposero il proprio dominio su alcuni villaggi di agricoltori tra i fiumi Tigri ed Eufrate.
Essi, grazie alla particolare ricchezza del territorio della Mesopotamia e al fiorente commercio con India e con Egitto, raggiunsero presto una situazione di ricchezza senza precedenti che attrasse le numerose tribù nomadi che gravitavano nella zona e che crearono nella popolazione esigenza di difendersi.
Per conservare il proprio potere i Sumeri costituirono adeguate istituzioni politiche, religiose e militari, inasprirono la disciplina sociale e sottomisero numerosi schiavi; in generale tutta arte pubblica mesopotamica era tesa a dimostrare al mondo le capacità e la forza della classe dominante e intimidire così i potenziali nemici.
Anche lo sport risentì di questa situazione di instabilità e dell’esigenza di difendersi da un pericolo sempre incombente.
Infatti le testimonianze giunte fino a noi dimostrano che le discipline praticate furono improntate unicamente a scopi militari o paramilitari: la lotta, il nuoto e le gare equestri erano attività che, se svolte con maestria, potevano tornare assai utili in guerra.
Inoltre la pratica sportiva era appannaggio pressoché esclusivo delle classi dominanti ed assolveva ad una triplice funzione: mantenere la forma fisica, nonostante la condizione sociale permettesse di dedicarsi ad una vita agiata, dimostrare la propria superiorità sugli altri popoli e tenersi pronti alla guerra utilizzando la pratica sportiva come addestramento militare.
Del tutto diversa era invece la situazione in Egitto, almeno fino all’invasione degli Hyskos: qui il mare ed il deserto rappresentavano delle straordinarie barriere naturali che permettevano alle popolazioni residenti di sentirsi al sicuro da qualsiasi attacco esterno.
Dal 3000 al 1670 a. C. circa l'Egitto visse una situazione di grande stabilità e di pace pressoché assoluta, se si considera la lunghezza del periodo, in cui arte la cultura e la scienza ebbero uno sviluppo senza pari.
Per tutta questa fase gli uomini ricchi competevano in sfarzo ed opulenza e si dedicavano all’attività sportiva che rimase comunque di esclusivo appannaggio delle classi superiori.
In questo caso si trattava però di discipline eleganti e raffinate il cui valore estetico era probabilmente di gran lunga superiore a quello agonistico; ci è giunto un affresco (2000 a. C. ca.) raffigurante due lottatori nell’atto di effettuare ben 122 prese e posizioni diverse, ma caratterizzati da estrema eleganza e complessità, che ce li fanno sembrare più dei ballerini che degli atleti; inoltre nel dipinto non vi è traccia di sangue, né di trofei, il che ci fa apparire ancor meno importante aspetto competitivo.
Altre discipline che ebbero un posto di rilievo nella società Egiziana furono quelle
acquatiche, e non poteva essere diversamente vista importanza centrale che aveva il Nilo nell'economia di quel popolo; il nuoto non era solo un piacere ed un divertimento, ma una necessità, tanto che è lecito supporre che per i giovani delle classi dominanti fosse obbligatorio imparare a nuotare.
Un ruolo decisivo nella storia Egiziana, anche dal più modesto punto di vista sportivo, fu giocato dalla cosiddetta invasione degli Hyskos (1690 a. C.) che fece crollare per sempre la presunzione di godere di inarrivabile superiorità.
Una volta riconosciuto che le nuove tecniche di conduzione della guerra e la sua preparazione erano diventate essenziali per il mantenimento della stabilità, nuovi e più seri divertimenti e competizioni entrarono a far parte della vita degli appartenenti alle classi agiate Egiziane.
I Re del Nuovo Regno furono continuamente impegnati a crearsi una fama di atleti supremi e grandi cacciatori e ogni nuovo Faraone doveva superare i risultati del suo predecessore.
Una fonte del tempo afferma che Tutmosi III scoccò una freccia conficcandola profondamente in una lastra di metallo dello spessore di 5 cm e che tale lastra fu successivamente esposta nel tempio a imperitura testimonianza della forza inarrivabile del sovrano; ma suo figlio Amenofi II, per superarlo in destrezza, centrò da un carro in movimento quattro bersagli di rame, ognuno spesso 7 cm, e fece celebrare tale impresa in un bassorilievo.
Naturalmente è molto probabile che le gesta degli atleti fossero molto enfatizzate, se non a volte del tutto false, ma ciò non sminuisce l’importanza che aveva assunto l’attività fisica nella società Egiziana.
La società che senza dubbio più si è avvicinata al nostro concetto di sport è la Grecia classica.
In Grecia esistevano delle grandi manifestazioni "internazionali", la gara divenne una competizione da tenersi in pubblico, atleta vincitore veniva ricoperto di glorie ed allori e la polis (la città) da cui proveniva era orgogliosa del suo eroe e ne faceva uno strumento di propaganda politica; per la prima volta vi furono spedizioni di veri e propri tifosi che si sobbarcavano viaggi spesso massacranti pur di sostenere i propri atleti e, sempre per la prima volta, lo sport ebbe delle proprie regole, codificate, note a tutti e uguali in tutto il territorio.
Va ricordato anche che le Olimpiadi, cioè la più importante manifestazione del mondo Greco, andavano ben al di là del significato sportivo, dato che coincidevano con importantissima festa religiosa ed erano un momento di aggregazione fondamentale per lo sviluppo della cultura Greca in ogni sua forma.
In occasione dei giochi Olimpici venivano rappresentate le opere dei grandi drammaturghi, si tenevano gare di poesia e si donavano alle divinità statue votive di straordinaria bellezza eseguite dai migliori artisti di ogni polis; un elemento che può dare l’idea dell’importanza che i Giochi avevano per i Greci è il fatto che per secoli essi misurarono il tempo in Olimpiadi dando ad ogni quadriennio il nome del vincitore della gara di corsa e della sua città.
La passione sportiva dei Greci non è un fenomeno casuale, ma affonda le radici in alcuni dei capisaldi della loro cultura: innanzitutto l’attributo con cui i Greci solevano indicare l’uomo ideale era kalos kai agathos (che in greco antico significa bello e buono), quindi l’aspetto fisico era posto sullo stesso piano di quello morale e l’uno non era completo senza l’altro; questa fu una concezione diffusa in tutto il mondo antico, anche extra-ellenico, ma che trovò in Grecia la sua massima espressione e rivestì importanza eccezionale in quel contesto.
Lì la forza, la bellezza e l’armonia erano qualità capaci di dar lustro ad una persona almeno quanto l’intelligenza e la bontà d'animo, tanto che tutti gli eroi epici, da Omero in poi, vengono presentati come kaloi kai agathoi e in ogni poema sono presenti gare sportive la cui vittoria dà ai protagonisti lo stesso prestigio di una vittoria in una battaglia o di una trovata geniale.
Per esempio nell’Iliade (libro XXIII) Achille organizza alcuni giochi atletici come tributo per la morte di Patroclo; Omero ce li descrive con dovizia di particolari mettendo in particolare risalto l’abilità di Ulisse.
In particolare nella gara di corsa Odisseo instaura un avvincente testa a testa con il giovane nobile Aiace, che sembra destinato ad avere la meglio; ma Ulisse, rendendosi conto di non essere in grado di vincere con le sue sole forze, invoca aiuto della dea Atena, la quale fa scivolare Aiace in vista del traguardo e permette al suo protetto di arrivare primo.
E' utile precisare che quello che a noi sembra un colpo di fortuna o un intervento scorretto, agli occhi dei Greci era un motivo di pregio ancora maggiore per Ulisse che aveva saputo meritarsi il favore degli dei; infatti lo stesso Omero ci narra di come la folla reagì divertita e con gesta di scherno alla protesta del giovane sconfitto.
Omero ci descrive anche le altre gare che si tennero in quell’occasione, la lotta e la corsa delle bighe, e questa precisa narrazione è importante perché ci permette di osservare come tutte queste discipline fossero ancora presenti al tempo delle Olimpiadi e che le sole modifiche riguardarono l’aggiunta di due sport, il pancrazio (una sorta di pugilato dal regolamento molto complesso) e il pentatlon.
Se si pensa che Omero (o comunque gli aedi raccolti sotto questo bel nome) scrive più o meno nel 700 a. C. e che le gare rimasero le stesse fin dopo la conquista Romana, ci si rende conto di quanto lo sport fosse parte importante della tradizione Greca e con quale timore reverenziale gli ellenici si accostassero ad esso.
Ciò si deve anche al fatto che l’Iliade e l’Odissea godevano di unanime prestigio in tutta la Grecia politicamente divisa, ma culturalmente unita al punto da poter organizzare dei giochi cui partecipavano tutte le poleis , sospendendo se necessario le guerre.
Questa sospensione è quella che noi chiamiamo ancora oggi "pace Olimpica", ma in realtà è un fenomeno assai ingigantito da una certa cultura Europea del secolo scorso; i Greci non parlarono mai di "pace" quanto di "immunità" e non bisogna credere che interrompessero tutte le guerre per consentire lo svolgimento delle Olimpiadi. Piuttosto è vero che esisteva un tacito accordo per cui nel mese precedente i Giochi gli atleti ed i tifosi al loro seguito potevano raggiungere Olimpia attraversando tutti i territori che fosse necessario godendo di una sorta di immunità.
Va anche detto che patti di questo tipo vigevano per tutte le manifestazioni religiose. L’eccezionalità delle Olimpiadi stava nel fatto che erano l’unico appuntamento per il quale questa sorta di tregua era riconosciuta in tutta la Grecia.
Il territorio di Olimpia invece era considerato sacro e questa inviolabilità fu allargata a tutto il territorio dell’Elide, la regione di Olimpia, in cui viveva il "sacro popolo di Zeus" cui l’oracolo di Delfi, secondo la leggenda, aveva concesso di tenersi lontano dalle guerre e di dedicarsi soltanto al tempio e all’organizzazione dei Giochi.
In verità gli Elei conquistarono tale riconoscimento solo nel 570 a. C. dopo l’aspra lotta con i Pisati, ma in quella data vi fu anche il riconoscimento panellenico dei Giochi e da allora in poi questo privilegio non fu più messo in discussione.
Olimpia comunque era considerata un luogo sacro già dai Micenei e le prime Olimpiadi risalgono a ben prima del 776 a. C., cioè della data dei primi giochi di cui noi conosciamo il vincitore, ma proprio l’elenco dei vincitori ci aiuta a farci un quadro della partecipazione a questa manifestazione; i primi di essi provenivano tutti da Olimpia e dalle città più vicine, ma molti dei trionfatori delle edizioni svoltesi dal V secolo in poi venivano da colonie anche molto lontane, soprattutto dall’Italia meridionale.
Si organizzavano imponenti pellegrinaggi al seguito degli atleti e sappiamo che il gran numero di avventori rendeva caotica la vallata, ma costituiva una fonte di ricchezza di enorme importanza per tutte l’Elide.
Inoltre ogni delegazione portava quintali di doni, per ingraziarsi gli dei, che creavano parecchi problemi per l’inadeguatezza delle strutture destinate a raccoglierli, ma nonostante ciò nessuno voleva rinunciare a partecipare alle Olimpiadi, perché anche il solo fatto di assistervi era considerato uno degli onori più grandi che potessero capitare a un Greco.
I Giochi si tenevano tra la metà di Agosto e la metà di Settembre e duravano cinque giorni, di cui il primo e l’ultimo completamente dedicati alle preghiere e ai sacrifici per ingraziarsi gli dei e per ringraziarli.
Nei tre giorni di gare si tenevano un giorno le gare equestri ed il pentatlon, un altro le gare di corsa e l’ultimo quelle di lotta ed il pancrazio.
Lo sport ha dunque raggiunto il suo apice nella Grecia del V sec. a. C., ma dopo questo periodo ha conosciuto un tramonto lento ed inesorabile che l’ha portato ad essere più o meno bandito al principio del Medio Evo.
L’inizio del declino della concezione greca dello sport è fatto risalire ai tempi della guerra del Peloponneso; da allora e fino alla conquista definitiva da parte dei Romani, avvenuta quasi 300 anni dopo, la politica Greca fu in continua agitazione, le poleis aumentarono di numero a seguito della massiccia colonizzazione dell’Asia e dell’Africa, e si perse di conseguenza quello spirito di "grecità" che rappresentava la vera anima dei giochi olimpici antichi.
Già nel V secolo la figura dello sportivo-dilettante-aristocratico di omerica memoria era scomparsa per lasciare spazio ad atleti professionisti attentamente reclutati ed addestrati nelle province.
La presa sul pubblico rimaneva forte, ma quando si passò da un sistema di poleis divise e unite nello stesso tempo, che ogni quattro anni si confrontavano nelle gare atletiche, ad uno Stato unico che organizzava una festa per divertire il suo popolo, la tradizione sportiva greca tramontò definitivamente. A questo va aggiunto che già nel 300-250 a. C. il centro politico e militare più importante era diventato Roma, e a Roma avrebbe dovuto imporsi la tradizione greca per sopravvivere.
Vi furono numerosi tentativi in questo senso durante tutto il corso della storia Romana, ma i nuovi dominatori guardarono sempre ai greci con l’ammirazione pari solo al distacco che volevano conservare.
I greci erano un popolo eminentemente contadino, in intima unione con i propri dei, che guardava alla realtà con vivo senso del concreto, che agiva con grande devozione alla Res Publica ed educato dalla famiglia e dallo Stato.
I ludi Romani erano manifestazioni agonistiche cittadine volute dalle autorità, ma prive dell’individualismo esibizionista greco, bensì ancorate al'l ideale collettivo che consacrava l’individuo allo Stato.
Alcuni di essi avevano origini antichissime, altri vennero istituiti nel periodo repubblicano, mentre le feste al tempo dell’impero erano frequentissime ed organizzate per celebrare diverse ricorrenze.
Il ludus (il gioco) romano ha attinto molti elementi dagli agones (giochi) greci, ma non ha mai abbandonato la matrice etrusca che era alle sue origini.
Gli spettacoli etruschi, dei quali facevano parte i danzatori, i clowns e i giocolieri, presentavano anche manifestazioni ben più cruente come nel caso delle lotte gladiatorie, della battaglie tra belve feroci e via discorrendo.
I Romani furono molto spesso spettatori, pronti ad applaudire atleti professionisti e a farne degli idoli: una gran parte di loro non accoglieva gli aspetti educativi e morali dell’esercizio fisico.
E peraltro ludi più che come competizioni erano visti come cerimonie ufficiali legate a feste religiose, commemorazioni, adorazioni di divinità.
Se la gioventù greca amò la palestra, lo stadio e l’atletismo puro, quello romano preferì il circo, l’anfiteatro e lo spettacolo; questa realtà è testimoniata dalla pompa, la sfilata che apriva i ludi e che dimostrava tutta la mondanità e l’esteriore spettacolarità di queste cerimonie.
Anche l’equitazione, che in Grecia fu lo sport aristocratico per eccellenza, a Roma fu per molto tempo solo un elemento coreografico inserito nel contesto di manifestazioni militari insieme a caroselli, volteggi e altri spettacoli che di sportivo avevano poco.
Fino al termine del periodo repubblicano lo sport fu un aspetto marginale della società romana impostata su saldi principi militari, protesa verso la sobrietà e rigidità dei costumi e per questo sempre pronta ad esaltare la vivacità culturale ed artistica dei Greci, ma attenta ad evitare la "mollezza dei costumi orientali" che tanto poco si addiceva ad un popolo così battagliero e concreto.
Significativo in questo senso è il pensiero di Catone il Censore che visse nel momento in cui la cultura greca iniziava ad approdare nei circoli di Roma e che fu il più feroce fustigatore di quelle abitudini antitetiche rispetto alla sua mentalità conservatrice e contadina.
Cicerone al contrario non condannò aprioristicamente l’esercizio fisico, ma dimostrò avversione per molte delle pratiche che a questo si accompagnavano in Grecia, in particolare l’abitudine di allenarsi ed esibirsi nudi.
Nel de Republica non a caso si legge: "Com'è assurdo il sistema dei greci di esercitare i giovani nei Ginnasi! Quanto lungi dall’essere rigoroso il loro metodo di addestramento militare degli Efebi!".
E nel de Senectute racconta episodio in cui l’atleta greco Milone entra nello stadio reggendo sulle spalle un bue e lo commenta in maniera assai significativa: "Preferiresti che ti dessero queste forze del corpo o quelle dell’ingegno di Pitagora?".
Un reale trapianto nel restio ecumene romano della cultura sportiva greca fu compiuto in epoca imperiale da Ottaviano Augusto: questi tentò di consolidare le tradizioni degli avi da un punto di vista etico e religioso, ma con mezzi pratici innovativi.
In particolare ebbe cura dell’addestramento militare dei giovani dando grande impulso ai collegia juvenum, vale a dire dei collegi dove si seguiva l’educazione dei giovani appartenenti alle classi sociali più alte e in cui si alestivano spettacoli in cui i ragazzi davano dimostrazione di quanto appreso ai familiari, agli altri giovani e qualche volta allo stesso Imperatore.
Questo doveva anche essere un modo per far entrare nella mentalità romana la competizione atletica.
Lo stesso Augusto tentò di introdurre a Roma manifestazioni simili agli agones Greci, come già avevano fatto senza successo Silla, Pompeo e Crasso, ma queste gare non entrarono mai nel cuore dei romani, schiacciate dalla grande popolarità dei ludi circensi sostanzialmente simboleggiati dal colossale edificio dell'ANFITEATRO (o del CIRCO) e dalla prestazione sanguinosa dei gladiatori.
Le gesta gladiatorie interagivano spesso con un fitto programma di corse di cavalli, ma talora ciò che rendeva un ludus migliore degli altri, era il contorno di giocolieri, acrobati, domatori di belve e spettacoli cirecnsi del genere.
Peraltro Augusto fu pronto a comprendere che i suoi amati agones greci non avrebbero attecchito e cambiò presto rotta organizzando sontuose e frequentissime feste più vicine al gusto dei suoi cittadini.
Questa grande attività derivava da un preciso calcolo politico fatto da un Imperatore conscio della necessità di mantenere il più possibile l’ordine pubblico in una città in cui vivevano centinaia di miglia di disoccupati o sottoccupati a carico dello Stato; Augusto era convinto, e forse aveva ragione, che un popolo ozioso ed annoiato può minacciare intrighi e rivolte più di uno a cui i suoi governanti offrono talmente tante possibilità di svago da non lasciargli il tempo di pensare.
Inoltre lo stesso Augusto presenziava ai ludi il più spesso possibile stabilendo così un contattcolor="green">o diretto con i suoi sudditi che rendeva più popolare la sua autorità e accresceva la sua popolarità.
La Pax Augustea tra molte altre cose lasciò comunque tracce significative anche per quanto riguardava la rivitalizzazione dell'attività sportiva: i testi letterari ed i reperti archeologici ci informano che, se l'attività agonistica di ispirazione greca non decollò mai veramente del tutto nella Romanità, si sviluppò forte, a partire proprio dall'epoca augustea, il culto del benessere fisico che comportò il fiorire di palestre (spesso intorno a complessi termali): la presenza di piscine garantiva peraltro l'espletamento del nuoto praticato da entrambi i sessi anche se ritenuto più che una pratica sportiva un'essenziale esercizio fisico per l' ed il benessere del corpo [per una sensibilità classica all'igiene personale e pubblica che venne accantonata con gravi conseguenze dal Medioevo fin al '700] oltre che per l'espletamento di servizi sociali, fra cui attività di utilità pubblica ed in primis l'esercizio della guerra.
Questa politica fu poi ribadita dalla maggior parte degli Imperatori e non mancarono nuovi tentativi di introdurre manifestazioni improntate al modello greco, ma non ebbero successo neanche quando la cultura Ellenica si affermò a Roma in molti suoi aspetti.
Nerone istituì dei giochi, da tenersi ogni quattro anni, molto simili alle Olimpiadi, ma anche questa manifestazione non sopravvisse al suo creatore.
Durante tutta la storia romana l’educazione fisica, soprattutto a scopo militare, ebbe una grande importanza, ma di sport, nell’accezione che qui interessa, non si può mai parlare: prevalsero sempre spettacoli in cui la competizione era solo un pretesto per dare sfogo ad una sanguinosità e violenza assai distanti dal nostro modo di pensare ma di cui sopravvivono relitti culturali, per quanto moralmente deprecabili, dalla "corrida", ancora legittima in Spagna, ai combattimenti fra cani.
Le invasioni barbare e l’avvento del Cristianesimo, pur spinte da motivazioni diverse, misero fine a questo tipo di manifestazioni. Da un lato l’avvento di una cultura assai primitiva rispetto a quella romana e l’insediamento di popolazioni votate principalmente alla guerra, segnarono la fine delle manifestazioni pubbliche imperiali, prime fra tutte quelle sportive; dall’altro il Cristianesimo abolì le manifestazioni cruente che tanto successo avevano riscosso in precedenza, e spostò l’attenzione sullo spirito mettendo in secondo piano l’educazione fisica.
La stabilità e la cultura sopravvissero solo ad Oriente, dove l’imperatore Giustiniano istituì un ordine politico su tutta l’Europa orientale che fece di Bisanzio il centro del potere in Eurasia fino alla conquista dei Turchi nel 1453.
Qui sopravvissero le gare sportive ed in particolare le corse delle bighe ebbero un successo enorme fino al 512: in quell’anno durante una gara all’ippodromo le tensioni tra le opposte tifoserie, divise da motivi religiosi più che sportivi, esplosero dando vita ad una serie di tumulti che si allargarono presto a tutta la città provocando più di 30.000 vittime.
Quell’episodio costituì un grave momento d'arresto anche per lo sport e, anche se le gare furono organizzate ancora per molti secoli, non tornarono più allo splendore di un tempo.
In Europa occidentale invece, in seguito alla disgregazione dell’esercito e della burocrazia romani, il cavaliere armato divenne il fondamento militare, e quindi politico, del mantenimento del ordine.
I soldati, gli unici cui era permesso portare armi, possedere un cavallo e di conseguenza viaggiare, offrivano ai contadini protezione contro i predoni, che periodicamente li saccheggiavano, in cambio di un lauto compenso.
Nacque così la suddivisione fondamentale del mondo feudale: quella tra gli aristocratici portatori di armi e possessori di cavalli e gli agricoltori sedentari che li sostentavano con il loro lavoro.
Anche se ci è stata tramandata la mitica figura del cavaliere che partiva per combattere contro i pagani o gli altri cavalieri, in realtà i nobili, quando potevano, evitavano accuratamente la battaglia, perché essa poteva significare, oltre che la morte, la perdita del proprio cavallo o dell' armatura a rischio della stessa posizione sociale.
Così, per rendere esplicita la loro minacciosa forza alle popolazioni locali o per accrescere il proprio prestigio tra i loro pari, i membri del aristocrazia crearono, più inconsapevolmente che altro, degli sport paramilitari nuovi e in grado di farli distinguere: la caccia, la giostra, il duello.
Le giostre permettevano ai contendenti anche di risolvere le proprie controversie individuali limitando il rischio di perdere l’equipaggiamento.
La preparazione dei tornei occupava buona parte della vita di molti nobili e ne consumava le ricchezze, ma la loro organizzazione era motivo di grande prestigio per colui che se la sobbarcava.
I tornei erano quasi sempre sfarzosi e smisurati, accompagnati da cerimonie rutilanti di ornamenti e banchetti luculliani; le grandi tenzoni potevano essere ricche e opulente perché ricca e cosmopolita era la classe sociale che vi si dedicava.
Questa tradizione durò molti secoli, le regole ed i modi di comportamento erano noti all’aristocrazia di tutta l’Europa e in più l’esito di una battaglia rituale era visto come un giudizio di Dio (ordalia: anche se i teologi cristiani hanno sempre bollato tali manifestazioni come "feste pagane").
Dopo il 1500 diventa impossibile fare un discorso unitario sia sulla storia dell’Europa che su quella dei suoi sport.
Nascono in questo periodo numerose discipline a carattere regionale, se non comunale. Alcune di esse possono essere considerate le progenitrici degli sport moderni, di altre si è persa ogni traccia.
Nascono i primi sport di squadra (diffusi soprattutto tra i ceti inferiori), ma non esiste alcuna grande manifestazione che vada al di là del valore folkloristico.
In ogni caso si ha enorme diffusione della pratica sportiva che favorirà la nascita dello sport moderno avvenuta in Inghilterra tra il XVII e il XVIII secolo. Molte attività ricreative dotate di alcune caratteristiche dello sport moderno sono comparse ed hanno trovato ampio sostegno proprio in quella nazione.
Queste discipline e soprattutto l’atteggiamento nei confronti dello sport, successivamente ebbero evoluzione con più rapidità in America e più tardi ancora conquistarono il mondo.
Quasi tutte le gare dei raduni di atletica sono state inventate dagli studenti universitari inglesi e furono ancora una volta loro a fissare le distanze standard per le gare di corsa, di nuoto, di canottaggio ed equestri. Gli inglesi inventarono anche, nel senso che per primi misero per iscritto, le regole dei giochi fino ad allora praticati in modo informale, introdussero i cronometri, le porte nel calcio e nel rugby, i guantoni nel pugilato e molte altre attrezzature sportive.
Mentre la società inglese veniva trasformata dall’industrializzazione, le caratteristiche della razionalizzazione, della standardizzazione, del calcolo e della misura si affermarono in ogni aspetto della vita.
Inevitabilmente queste stesse impostazioni caratterizzarono anche i passatempi popolari inglesi.
Lo sport divenne sempre più diretto al raggiungimento dell’efficienza, esso fu codificato e civilizzato da funzionari addetti alla sua supervisione e ben presto questa certezza nello stabilire i risultati diede il via ad un giro di scommesse vastissimo. L’Inghilterra fu la culla del giornale sportivo prodotto in massa, a partire dai bollettini di informazione diffusi in tutta l’isola perché gli appassionati potessero essere informati sulle gesta degli atleti e gli scommettitori controllare le loro giocate.
Lo sport fu presto introdotto nelle scuole, anche pubbliche, e questo portò ad un aumento esponenziale dei praticanti, oltre a permettere che ognuno conoscesse le regole di tutte le manifestazioni che si tenevano. Naturalmente le scuole, soprattutto le università, diedero poi vita a nuovi sport o a nuovi modi di praticare quelli già noti, formarono delle squadre e dei circoli e costituirono una base di appassionati entro cui scegliere gli atleti migliori. Da allora in poi, grazie anche alle maggiori possibilità di comunicazione e di trasporto, lo sport conoscerà l’escalation di popolarità inarrestabile che lo porterà ad assumere gli aspetti attuali. Una popolarità che inevitabilmente finisce per essere strumentalizzata dagli scalatori o dai gestori del potere. I quali hanno perfetta coscienza del "ritorno" politico e di fama dato dalla conquista della presidenza o dalla sponsorizzazione di una squadra sportiva. (di CARLO SANGALLI).


La più antica rappresentazione di nuotatori si trova in un bassorilievo di Ninive (XI secolo a.C., conservato al British Museum), che ci mostra uno stile molto vicino al moderno crawl.
Le successive testimonianze dell’antichità, molte delle quali romane, fanno invece pensare allo stile "a rana".
Presso gli antichi, certamente, il nuoto doveva essere cosa indispensabile per un giovane e soprattutto per un soldato, a giudicare da due detti della cultura classica (quello greco che sentenziava "Non sa né nuotare né correre" e quello romano che sanciva "Non sa né nuotare né leggere" dai quali si evince che il non possesso di queste abilità era giudicato altamente negativo e finiva per designare una persona di mediocrissimo valore, priva degli irrinunciabili attributi per la vita comunitaria, pur nella diversa valutazione morale delle due menzionate civiltà.
Il primo trattato di nuoto, del tedesco Wynmann, risale al 1583: tuttavia la pratica sportiva per eccellenza dall'epoca intermedia, cioè la
caccia dava per scontato che, tra il possesso di varie competenze per l'esercizio della cinegetica, comparisse la qualità fisica del nuoto.
Col passar degli anni le pubblicazioni sull'attività natatoria, intesa come attività specifica e stante a sè, aumentarono di numero e qualità: si possono qui rammentare L’arte del nuoto del francese Thèvenot (1696); il Piccolo libro di auto-insegnamento dell’arte del nuoto del tedesco Muths (1797), L’uomo galleggiante dell’italiano De Bernardi (1794).
Finalmente al tramonto del XVIII secolo lo sport natatorio fece la sua comparsa semiufficiale con la creazione in Germania dei primi stabilimenti balneari e dei primi club di nuoto.
Nel XIX secolo esso ricevette nuovo impulso, particolarmente in Gran Bretagna, dove erano sorte numerose società, ed è appunto a Londra che, nel 1837, si disputarono le prime competizioni agonistiche.
In Italia la pratica natatoria sportiva si affermò piuttosto tardi quando ormai negli altri paesi aveva già superato la fase pioneristica.
La prima associazione italiana di nuoto, chiamata Rari Nantes (Adparent rari nantes in gurgite vasto = "Appaiono pochi nuotatori nel vasto mare" è un verso dell’Eneide virgiliana), fu fondata da Achille Santoni, un grande pioniere del nuoto italiano, a Roma nel 1891: altre Rari Nantes furono poi istituite a Genova e Milano verso il 1895.