In questa CARTOGRAFIA MULTIMEDIALE la Voce AVORIO non è attiva: a titolo di integrazione necessaria si propone qui il lemma AVORIO tratto da Enciclopedia Treccani dell' Arte Antica (1958) di C. Albizzati, L. Becherucci integralmente trascritta salvo un inserimento evidenziato in grafia rossa = "Il pregio di questa materia plastica fu noto ai primi abitatori dell'Europa, quando il mammut poteva fornirla. Nelle zanne dello scomparso elefante europeo, figurine femminili di un estremo realismo furono scolpite nell'ultimo periodo paleolitico. Gli esemplari trovati a Brassempouy in Francia ne dànno esattamente l'idea; di carattere simile se ne rinvennero anche in Germania; dalla Francia provengono alcune caratteristiche figurine di renne accovacciate. In Egitto la piccola scultura eburnea cominciò nell'età preistorica: l'arte somiglia alquanto a quella dei negri moderni (Benin) che, per molte ragioni, si possono considerare in uno stadio poco diverso di civiltà e che praticano in gran parte la medesima tecnica. Con l'epoca dinastica appaiono già lavori d'alto valore artistico: alla I dinastia si ascrive la statuina di un re con la corona bianca dell'Alto Egitto. Alla IV appartiene il ritratto di Cheope, il faraone della grande piramide, ed è un capolavoro della piccola scultura egizia. Dal Medio Impero si fece largo uso di rilievi in avorio per incrostazioni di mobili e altri oggetti di lusso. L'iscrizione funebre dello scultore Iritesen mostra che l'a. era lavorato anche da artisti che trattavano altre materie. Assai rari i manufatti eburnei nelle civiltà più antiche della Mesopotamia: una figurina di donna di Tello è poco posteriore al re Gudea (circa 2000 a. C.) e riproduce un tipo statuario usuale. Ma già nel II millennio sembra che la Siria abbia tenuto il primato della produzione: Hittiti e Fenici lavorarono copiosamente fin verso il 6oo a. C. Frammenti di cofanetti incrostati si rinvennero a Biblo, e risalgono a periodo molto antico; di provenienza hittita sono alcuni a. rinvenuti a Megiddo (v.). Gli a. della civiltà minoico-micenea, nati forse dall'influsso dei prodotti della Siria, hanno avuto una ricca fioritura. Si hanno manici di specchi, rivestimenti di cassettine e di mobili, pissidi circolari, statuette. Di stile naturalistico è la figurina di saltatore da Cnosso, e un prezioso prodotto miceneo è il gruppo di due dèe sedute con fanciullo, da Micene. Si hanno figurine di sfingi, di grifi, teste elmate di guerrieri micenei, una pisside con grifi da Atene e magnifici esemplari di questo stile provengono da Enkomi (Cipro). La serie più numerosa e importante di avorî, databile nei secoli IX e VIII a. C., proviene dagli scavi di Kalkhu (oggi Nimrud, Mesopotamia); di arte assira soltanto poche lamine con figure in graffito. Magnifici documenti per lo stile siro-fenicio sono i piccoli rilievi decorativi traforati con figure di grifoni. Più volte troviamo motivi egizi variati e adattati, come la dea nuda che tiene un fior di loto, forse Astarte, il gruppo araldico di due sfingi alate. Il grande popolo navigatore e mercante recò oggetti simili un po' da per tutto nel Mediterraneo: l'Etruria, la Sardegna, la Spagna ci hanno specialmente tramandato nelle loro tombe le scatole da unguento, le placchette dei piccoli mobili, i pettini, le figurine sacre e altri ninnoli e utensili d'a., smerciati dal negoziante semita. Di stile egittizzante fenicio sono una pisside nella tomba Regolini-Galassi di Caere, le crustae di quella Bernardini di Preneste; una figurina d'Astarte con la chioma in foglia d'oro dalla Marsiliana d'Albegna, che ha riscontri meno antichi a Efeso e a Tharros (museo di Cagliari). I pettini dalla Spagna sono identici ad altri rinvenuti in Siria. Gli scavi del santuario di Artemide a Efeso hanno messo in luce figurine di stile finissimo, dove sembra perdurare l'influsso hittita: si possono datare verso il sec. VII a. C. e vi si palesano già caratteri d'arte ionica. Nello stile orientalizzante il Lazio e l'Etruria ci hanno fornito molti oggetti in tombe del sec. vi o del principio del VI; parecchi costituiscono, quanto all'origine, problemi non ancora risolti: così le braccia e le tazze della Tomba Barberini di Preneste, con fregi di animali che già palesano una maniera peculiare e somigliano stranamente ai rilievi lapidei di camere funebri tarquiniesi, i quali riproducono senza dubbio intagli in legno. Ciò fa pensare che già si lavorasse l'avorio in Italia e che i primi artefici fossero giunti d'Oriente: di stile hittita sono gli strani gruppi d'un leone che reca un uomo sul dorso. A Cartagine s'è trovato un piccolo rilievo con iscrizione etrusca che nomina il proprietario punico. Chiusi ci ha dato le situlae (una al Louvre, l'altra a Firenze) che da parecchi indizî si credono di lavoro etrusco. In quel tempo erano già usate in Italia le tavolette eburnee spalmate di cera, sopra le quali si scriveva con lo stilo: una della Marsiliana d'Albegna ha l'alfabeto inciso sull'orlo. In Grecia il periodo geometrico dà pochissimo: una dea nuda con pòlos ornato di un meandro dal Dìpylon è certamente il pezzo più notevole. Non molto posteriori sono i rozzi tentativi di figurine femminili usciti da tombe di Rodi. La stipe del tempio d'Artemide Orthia, a Sparta, documenta copiosamente la produzione greca del sec. VII. Il commercio orientale recava la materia prima di qua dall'Egeo, e sopravvive il ricordo di qualche opera insigne: scolpite in avorio erano le carni delle figure femminili nei fregi a rilievi che ornavano la famosa Arca di Cipselo, lavoro corinzio databile poco dopo il 6oo a. C. L'arte ionica del sec. VI produsse finissimi rilievi; provengono da tombe etrusche, e i più belli sono conservati al Louvre; altre statuine sono state rinvenute a Delfi (v.). Ma tra gli Elleni la zanna dell'elefante fu presto adoperata nella grande scultura. D'avorio e d'ebano, erano i cavalli dei Dioscuri ad Argo, attribuiti ai dedalidi Dipoinos e Skyllis, della prima metà del sec. VI. In quel secolo stesso dev'essere cominciata la tecnica crisoelefantina (v.), di cui qualche accenno si trova in figurine orientali più antiche: eburnee le carni, in oro sbalzato le vesti, le chiome e gli attributi. Tali simulacri si facevano soltanto alle divinità; il costo ne limitava di molto il numero. Nel periodo di maggiore prosperità, Fidia costruì in quel modo le due statue colossali, di Atena Parthènos ad Atene (alta circa 11 m) e di Zeus in Olimpia (alta circa ii m, seduto). Erano grandi armature in legno che reggevano i pezzi impiallacciati d'avorio e le lamine d'oro. Le notizie d'autori antichi sul modo di lavorare le zanne sono favolose e inconcludenti. Il tipo più usitato di statuaria crisoelefantina s'è potuto studiare in due frammenti di stile fidiaco d'una statua d'Atena al Vaticano; le dimensioni erano un po' minori del vero, per poter ottenere il viso in un sol pezzo. Più tardi si eseguirono anche statue di principi: Leochares fece quelle della famiglia d'Alessandro per il santuario d'Olimpia. La produzione durò fino all'età romana: Pasiteles fece un Giove ai tempi di Cicerone; Germanico divinizzato ebbe pure una statua di quella materia. Nella piccola arte si continuò senza dubbio a lavorare: Kolotes, allievo di Fidia, eseguì in oro e a. la mensa delle corone per i giuochi olimpici, ornata di rilievi. Purtroppo non si può citare alcun oggetto del sec. V da porre a confronto con l'età arcaica. Una statuetta in a. ispirata al tipo dell'Apollo Liceo di Prassitele è stata rinvenuta in un pozzo dell'Agorà, ma pochissimi sono pure gli avorî del IV sec.: degno d'essere ricordato il piccolo rilievo trovato a Cartagine con Afrodite seduta sul cigno. In una tomba del Ponto (Russia meridionale) sono stati rinvenuti alcuni frammenti di lamine adornate d'incisioni finissime, ravvivate da colori, che sono specialmente pregevoli per la storia della pittura (Museo dell'Ermitage). Le monarchie ellenistiche, e specialmente la corte dei Lagidi in Alessandria, fecero grande uso d'avorio. Ma i lavori d'arte rimasti sono scarsissimi e non si saprebbe citar nulla che superi la figurina di pigmeo del museo di Firenze, trovato in Etruria, tipo del tardo ellenismo. In Roma l'AVORIO, senza dubbio per influsso etrusco, era in uso fin dall'età regia per le insegne dei consoli e dei trionfatori; poi, con l'introdursi del lusso ellenistico, vennero in voga specialmente i mobili, e più che altro i letti, incrostati di piccoli rilievi: tra i molti avanzi che se ne conservano domina però l'osso di bue, surrogato economico che prevalse anche nella miriade di piccoli oggetti, come scatole da unguenti e da incenso, manici di coltellini e di rasoi, stili da scrivere, amuleti, ecc. Interessanti sono le bambole snodate, anch'esse quasi sempre d'osso. Eredi del fasto delle corti greco-orientali, i Cesari usarono pure copiosamente l'avorio. Properzio (11, 31) ricorda le porte del tempio d'Apollo Palatino, eretto da Augusto, che recavano scolpite in tal materia la fuga dei Celti da Delfi e la strage dei Niobidi. Ma quello che ci resta è ben poco." [A questo punto giova però riportare quanto scritto da Annalisa Venditti in Il mal di denti nell’antica Roma / Protesi d’avorio e ponti d’oro per un sorriso smagliante a prova di carie Annalisa Venditti in Il mal di denti nell’antica Roma / Protesi d’avorio e ponti d’oro per un sorriso smagliante a prova di carie (argomento disposto on line ma trattato nel corso dell’Intervista impossibile di "Questa è Roma!", trasmissione idata da Maria Pia Partisani in onda ogni sabato mattina, dalle ore 11.00 alle 12.00, su Nuova Spazio Radio, 88.150 MHz) = Quando i denti cominciano a tentennare, per una botta o un altro incidente, devono essere fissati con filo d’oro a un dente ben fermo", raccomandava il medico romano Celso, che solo in casi estremi consigliava l’estrazione. Se i denti marcivano o facevano troppo male e quindi occorreva, per forza, toglierli si sostituivano con denti d’avorio o addirittura realizzati attraverso la lavorazione di denti animali. Le otturazioni infatti non venivano eseguite. Sin dal tempo delle leggi delle Dodici Tavole nell’antica Roma vigeva il divieto di inserire nei sepolcri oggetti d’oro. Unica eccezione per quelle che potremmo chiamare le "dentiere", i fili d’oro che si adoperavano, appunto, per fissare i denti. Il lavoro del proprio dentista, insomma, pur essendo d’oro, poteva accompagnare il morto nel suo viaggio ultraterreno. Dalle tombe romane, tuttavia, non sono giunti moltissimi scheletri con capsule d’oro o dentiere. La spiegazione potrebbe essere semplice: forse i nostri progenitori – che non conoscevano lo zucchero e dolcificavano il loro cibo con il miele – ebbero in media denti molti più sani di noi. I Romani impararono le tecniche di intervento sui denti dagli Etruschi, che già nel VII sec. a.C. sapevano realizzare ponti e stabilizzare denti vacillanti con i fili d’oro. Questo perché nell’odontoiatria gli Etruschi misero in pratica tutta la loro incontrastata abilità di orafi. Sono giunti sino a noi teschi con protesi dentarie la cui accurata fattura riesce a stupire i moderni dentisti. Al Museo Nazionale di Tarquinia ad esempio sono presenti ancora due protesi dentarie eseguite con l’ausilio di una sottile lamina d’oro. La prima è costituita da una cerchiatura che racchiude tre denti dell’arcata superiore, mentre la seconda protesi, molto più complessa, unisce alla fascia principale quattro elementi saldati al suo interno a formare cinque cellette in cui collocare i denti. In questi due casi la protesi dovevano servire a rendere saldi dei denti indebolitisi a causa di malattie o con l’avanzare dell’età. Non mancano però esemplari in cui venivano sostituiti denti mancanti. Questi ultimi non potevano, naturalmente, essere estratti a cadaveri, visto il rispetto che gli Etruschi portavano ai loro defunti, quindi erano in prevalenza ricavati da denti animali, per lo più di bue o di vitello, sagomati in modo da adattarsi perfettamente alla bocca del paziente. Nel caso di un’altra protesi tarquiniese andata perduta, il dentista aveva rimpiazzato due incisivi con un unico dente bovino inciso nel mezzo e limato nella parte superiore per adattarsi alla gengiva, bloccato da due perni. Anche in questa occasione, la protesi era stata legata ai denti superstiti mediante una fascia d’oro. ]. " Una delle cose più fini d'età imperiale è un piccolo ritratto del sec. II circa (Biblioteca Vaticana). Notevoli anche un telamone di Pompei e un rilievo discoidale con Apollo in trono, da Ercolano, al museo di Napoli, una statuina d'attore tragico, da Rieti, al Petit Palais di Parigi, con policromia ben conservata. Le placchette son quasi tutte mediocri: abbozzata vigorosamente quella del Vaticano con Giove e l'aquila, forse del sec. I. La produzione continuò anche nelle province e specialmente in Egitto. L'arte dell'intaglio in a. prese grande sviluppo negli ultimi secoli dell'Impero romano, quando, con la decadenza della cultura classica e, di conseguenza, della grande statuaria che era stata una delle sue massime affermazioni, prevalsero nella plastica quegl'intenti pittorici evidenti specialmente nei rilievi usati a ornamento dei sarcofagi. A porre in atto questi intenti, per cui diveniva necessaria la continua variazione superficiale e il moltiplicarsi dei piani di rilievo così da dare più vivace contrasto tra le parti illuminate e quelle in ombra, mirabilmente si prestava l'a., adatto, per la sua minor durezza rispetto al marmo e per la possibilità di eleganti levigatezze, a ogni raffinata lavorazione. Questo spiega perché i maggiori capolavori plastici della tarda età imperiale si trovino appunto negli esemplari numerosi e notevolissimi d'intaglio in a., principale la serie dei dittici (v.), doppie tavolette unite con una cerniera, intagliate sulla faccia esterna, spalmate di cera per la scrittura nell'interna, che si usavano donare in occasione di qualche avvenimento, come l'entrata in carica di alti funzionarî, specialmente consoli, ai quali soltanto, in epoca posteriore, fu limitato l'uso dei dittici stessi. La serie dei dittici consolari (v.), molti provenienti da Costantinopoli, che appartengono quasi tutti al sec. V-VI, ci mostra invece che nella capitale d'Oriente, come in altri centri, non si esaurisce il potere creativo, ma si costituisce, per l'armonica fusione delle molteplici tendenze che confluiscono da ogni parte del vastissimo Impero, uno stile originale improntato a principî d'idealizzazione. Nell'immagine del console, astrattamente composto nella pompa delle insegne del grado e delle sue attribuzioni, seduto sul trono, spesso tra le due personificazioni di Roma e di Costantinopoli, in atto di dare il segnale degli spettacoli del Circo, figurati in alcune scene sul basso della tavola, mentre in alto sono per lo più il nome del personaggio e i ritratti imperiali, è già la grandiosità compositiva dell'arte bizantina, la sua non trita raffinatezza, la nobiltà degli schemi in cui essa tende a conchiudere le sue forme. E questo stile, evidente nei più belli fra i dittici (di Anastasio, di Areobindo, di Magno, per citarne soltanto alcuni tra i più noti), prosegue nell'a. (Firenze, Museo Nazionale) rappresentante un'imperatrice (v. Ariadne) forse da un dittico in cinque parti, notevole per lo sfarzo decorativo e per il robusto rilievo, e certo anteriore al sec. VII-VIII, a cui era stato riferito, mostrando la propria capacità di toccare alte vette, se ad esso, come è probabile, va riunito il dittico con tre personaggi variamente identificati (Monza, Duomo), in cui riaffiorano in nuova ed originale elaborazione le più ideali qualità della statuaria antica. Oltre ai dittici, importanti per stabilire la cronologia di a. stilisticamente affini, portando in genere, oltre all'immagine del funzionario, una iscrizione col suo nome, possediamo oggetti varî appartenenti alla suppellettile dell'affermantesi culto cristiano, quali le pissidi, scatole cilindriche usate per riporvi le sacre specie o l'incenso, cofanetti per reliquie, e la grande cattedra vescovile detta di Massimiano a Ravenna. La questione della provenienza e datazione di questo vasto materiale è delle più complesse, rientrando nella questione più generale dei rapporti artistici di allora tra Roma e l'Oriente, e non può dirsi affatto risolta, sebbene abbia ricevuto nuova luce da recenti studî. Mentre infatti si era creduto di poter localizzare fiorenti officine per la lavorazione dell'a. nelle principali città dell'Italia imperiale, cioè a Roma, Ravenna, Milano, Monza, la conoscenza sempre maggiore dell'arte dell'Impero d'Oriente ha permesso di riportare molti tra i più belli a. conservati ai principali centri di quella vastissima zona, dove, per le tradizioni ellenistiche ivi maggiormente persistenti, si elaborava quello stile pittorico caratteristico dell'arte paleocristiana. Sebbene finora non si sia raggiunta nessuna certezza in merito a questi studi, appare molto verisimile il riferimento alla maggior città dell'Asia Anteriore, Antiochia, d'un capolavoro come la pisside di Berlino (Musei) col Sacrificio d'Abramo e i Santi Pietro, Paolo e Giovanni, del sec. IV o V, prima supposta lavoro romano, in cui la classicità è evidente nella derivazione iconografica delle varie figure e, più, nella loro nobiltà, nel modo con cui in esse si riflette, come sui sarcofagi contemporanei di eguale provenienza, il pieno possesso dell'essenzialità del tipo umano proprio dell'arte classica. E cosi è probabile l'origine siriaca di un'altra importante opera: la lipsanoteca di Brescia (Museo Cristiano), cofanetto per reliquie, ora ricomposto, con figurazioni dell'Antico e del Nuovo Testamento non dissimili per l'iconografia dai sarcofagi romani, ma ben superiori ad essi per il chiaro senso della composizione, ritmica nelle larghe pause tra le varie figure, per la raffinata compiutezza di ogni parte. Tuttora in discussione è la provenienza dalle officine di Alessandria d'Egitto di un gruppo di opere, fra cui la cattedra di Massimiano (vescovo di Ravenna 546-553) ora nel palazzo vescovile di Ravenna, che presentano particolari caratteristiche di stile, costituito da un vigoroso substrato ellenistico e da influssi pittorici siriaci, originalmente interpretati in rapide abbreviazioni impressionistiche. Questo stile bene si vede nella grande cattedra, da taluni supposta ravennate, mirabile per la indissolubile unione architettonica delle varie parti, in cui le grandi figure di apostoli e i rilievi con le Storie di Giuseppe e del Cristo, di grande scioltezza compositiva e d'influsso palestinese nell'iconografia ispirata ai vangeli apocrifi, sono conchiusi in un tutto strettamente organico dal fine ricamo delle zone ornamentali. Tuttavia, se alessandrini sono i pezzi di stile più sciolto, data la loro disposizione nell'opera, non sembra che alessandrino dovesse essere l'artefice principale della cattedra. Questi modi, evidenti anche in a. trovati in Alessandria stessa, si ritrovano nelle altre opere dello stesso gruppo (pissidi con Storie di S. Mena, a Londra nel British Museum, e con la Leggenda di Atteone, a. Firenze nel Museo Nazionale, ecc.): principale la grande valva di dittico ora al Louvre, conosciuta col nome di Avorio Barberini, del tipo più complesso, detto "in cinque parti" perché costituito da quattro tavolette laterali intorno a una centrale, usato specialmente nei dittici dedicati a un imperatore. Questa valva, mancante di una delle parti laterali, ha al centro la figurazione equestre supposta con scarso fondamento di Giustiniano o Costantino il Grande, più probabilmente di Anastasio, e in basso una caratteristica rappresentazione di personaggi orientali recanti doni varî, tra cui grandi denti d'elefante, ed è suo grande pregio l'aver evitato ogni fredda imitazione della statuaria monumentale per affermare una propria vivacità figurativa. Ancora controversa, sebbene evidentemente orientale, è la provenienza di altre opere del sec. V o VI, come il dittico col Poeta e la Musa (Monza, Duomo: v. tavola a colori), di complesso senso pittorico nei panneggi e nel tentativo prospettico dell'architettura dello sfondo; lo splendido Arcangelo del British Museum, frammento di dittico in cinque parti, solenne immagine di maestà che richiama la potente idealizzazione dello stile che s'andava elaborando in Bisanzio; e, d'officine diverse, il cosiddetto dittico di Murano (una valva al museo di Ravenna, l'altra nella Biblioteca Rylands a Manchester), a soggetto cristiano, usato come copertina di libro sacro, e l'altro dittico con Storie di S. Paolo e con la figurazione di Adamo che dà i nomi agli animali (Firenze, Museo Nazionale), notevole per l'euritmia con cui gli animali stessi spartiscono lo spazio presso la figura nobilmente classica di Adamo. Se però queste opere maggiori e le molte di minore importanza, ad esse affini, si sono potute, con qualche probabilità, riferire all'Oriente, altre sembrano non potere invece separarsi da Roma; primo il bellissimo dittico con le iscrizioni Symmachorum e Nichomachorum (una valva a Parigi, Museo di Cluny, l'altra a Londra, Victoria and Albert Museum) eseguito in occasione di qualche fausto avvenimento che unì le due famiglie, potenti in Roma nel sec. IV. Di derivazione classica quanto all'iconografia, esso si distingue per la spaziosità compositiva e la finezza d'esecuzione, concordando in queste qualità, oltre che con a. cristiani (le Marie al Sepolcro, Milano, Collez. Trivulzio; frammenti di cofanetto, Londra, British Museum, ecc.), con dittici di funzionarî romani; quello, ad es., bellissimo di Rufio Probiano (Berlino, Staatsbibliothek), prefetto di città in anno non ben precisato, quello di Anicio Probo del 406 (Aosta, Cattedrale), quello di Felice del 428 (Parigi, Cab. des Médailles), ecc. Questa circostanza e le rispondenze coi rilievi lignei della porta romana di Santa Sabina inducono a ritenere che questo gruppo di opere fosse eseguito in Roma nei secoli IV e V, ma da artisti orientali, probabilmente siriaci, la cui presenza non fa meraviglia in un grande centro di scambi culturali quale la capitale dell'Impero d'Occidente. Che però le tradizioni importate in Roma da queste officine decadessero durante il sec. V, lo mostrano i dittici romani copiosi in questo secolo; il primo di essi con data sicura, quello citato di Anicio Probo, con immagini dell'imperatore Onorio, ancora si unisce alla raffinatezza di quello dei Simmachi, come la valva del museo di Brescia con la scritta Lampadorium e rappresentazioni di corse nel circo; mentre gli ultimi, di Boezio del 507 (Brescia, Museo Cristiano) e di Basilio (Firenze, Museo Nazionale), appaiono invece profondamente decadenti nelle goffe proporzioni, nell'incerto rilievo, sebbene notevoli per la ricerca di dare individualità ai volti delle figure. La tecnica di lavorazione non si può credere che sia mai stata diversa da quella moderna. I Romani usarono talvolta tingere l'avorio in rosso e forse in nero, se pure questo colore, riscontrato in qualche oggetto di scavo, non s'e prodotto sotterra per sostanze venute a contatto. La policromia delle figure fu d'uso generale in quasi tutte le arti antiche. Per un gruppo importante di a. indiani, v. Afghanistan, Battriana, Begram.
Bibl.: Si vedano gli articoli generali Ebur in Dict. Ant., II, p. 444 ss., ed. Elfenbein, in Pauly-Wissowa, V, c. 2356 ss.; inoltre: J. Déchelette, Man. d'archéol. préhist., I, Parigi 1908; F. Matz, Ägais, Hand. d. Arch., II, Monaco 1950 (avorî elladici); F. Poulsen, Der Orient und die frühgriechische Kunst, Berlino 1912 (avorî fenici e greco-arcaici); A. della Seta, Museo di Villa Giulia, Roma 1918; A. Minto, Marsiliana d'Albegna, Firenze 1921 (avorî etruschi). Studî monografici; Asia Anteriore: J. Crowfoot, Early Ivories from Samaria, Chicago 1938; G. Loud, The Megiddo Ivories, Chicago 1939; R. Dussaud-C. F. A. Schaeffer, in "Gazette des Beaux Arts", 1930, p. 19 ss.; C. Decamps de Mertzenfeld, Inventaire commenté des ivoires phéniciens et apparentés decouverts dans le proche Orient, Parigi 1954; R. D. Barnett, in "Journ. Hell. Studies", LXVIII, 1948, p. 125 ss.; R. D. Barnett, A Catalogue of the Nimrud Ivories... in the British Museum, Londra 1957. Campagna di scavi della Scuola Britannica in Iraq (primavera 1957) diretta da M. E. L. Mallowan, a Nimrud nel cosiddetto "Forte di Salmanassar", grande deposito di avorî, in parte placcati in oro e intarsiati con smalti, il tutto databile a prima del 612 a.C.: Illustr. London News, 1957, p. 872 ss., 934 ss., 968 ss. Grecia arcaica: R. M. Dawkins, The Sanctuary of Arthemis Orthia, Londra 1929; P. Amandry, in Bull. Corr. Hell., LXIII, 1939, p. 86 ss. Etruria: M. Pallottino, in "Riv. Ist. Naz. Arch. St. Arte", V, 1935, p. 2 ss. Grecia classica: C. Albizzati, in "Journal. Hell. Stud.", XXXVI, 1916, p. 373 ss. Avorio indiano importato a Pompei: A. Maiuri, in "Le Arti", II, 1939, p. 111 ss. Avorî tardo-antichi: R. Delbrück, Die Consulardiptychen, Berlino 1926; Ch. R. Morey, The Early Christian Ivories of the Eastern Empire, Cambridge Mass. 1946; W. F. Volbach, Elfenbeinarbeiten des Spätantike und des frühen Mittelalters, Magonza 1952; G. Bovini-L. B. Ottolenghi, Catalogo della mostra degli avori dell'alto medio evo, Faenza 1956 ".




carta resa attiva a cura di Bartolomeo Ezio Durante

(vedi qui = Premessa biblioteconomica)

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