LA SMISURATA VARIABILE DELLE
DIVERSITA'
La ferocia inquisitoriale non mancò
d'abbattersi sui Mostri, quei particolari
Diversi che furono il triste frutto di vari tipi di
alterazioni genetiche, spesso dovute a relazioni incestuose
di cui erano comunque colpevolizzate quasi solo le Donne
alla stregua di peccaminose tentatrici, sì che ben più
severi erano i provvedimenti contro di loro (e le
"ruffiane") che avverso i complici maschili, anche per la superstiziosa ragione che, nel clima di antifemminismo e terrore per streghe e Demoni, l'ignoranza attribuiva a coiti diabolici di donne la genesi di MOSTRI.
Una superstite onestà intellettuale ci suggerisce in questa circostanza
l'esigenza di rammentare che, in ultima analisi, neppure oggi
l'INCESTO è poi quella rarità che certi pruriti bigotti
vorrebbero dimensionare nel recinto della squallida
eccezionalità
Miseria morale d'antichissima data, nè
rarissima, a danno di figlie o sorelle - e in verità non solo
alimentata entro la putredine d'un certo superstizioso ed
ignorante folklore (sic) del "sesso fatto a casa propria, tra
consanguinei" - è per esempio, assieme all'incesto l'opinione straordinariamente
ipocrita e resistente, contro cui da tempo e con alterne fortune
lottano Chiesa ed Istituzioni, che la fellatio, vale a dire il
coito orale, non costituisca peccato o colpa, non violando la
verginità nè determinando nascite incestuose: sublimazione
dell'ignoranza sì, ma altresì di quell'umana malizia che, in
modo costante e con sufficiente celerità, viene evocata ogni
volta che si innesca qualsiasi degenerazione del sistema
patriarcale, stranamente bisognoso di giustificare ogni proprio
errore o compromesso per via d'altri compromessi ancora, sempre
strutturati su improbabilissime basi pseudofilosofiche (sic)!].
Un mai sradicato cedimento comportamentale verso l'incesto, più
frequente nell'età intermedia di quanto possa credersi, prese
a generare dal '400, in numero crescente, specie negli
isolati villaggi e comunque sempre entro un clima di colpevole
terrore per possibili interferenze malefiche, parecchie gravi,
ed anche spaventose, deformità biologiche.
Peraltro questa "aura di perdizione", sia nel sottobosco socio-culturale delle
prime metropoli che nel retroterra di sperduti villaggi, venne
ogni volta amplificata ai limiti parossistici di echi
sconvolgenti, suggestionati - entro il grigiore di coscienze
turbate e nel contempo fascinosamente esasperate - da
predicatorie sceneggiate orrorifiche, "santamente" giustificate
dal cerchio "santo e magico" dei pulpiti.
Per un apparente assurdo ideologico, in vero contraddetto dalla
superiore efficienza cognitivo-razionale dei suoi componenti,
proprio la Chiesa Cattolica, all'interno della sua ben
strutturata organizzazione, pur senza mai vanificare o
sottovalutare sospetti ed ossessive indagini, seppe - come
ancora sa - affrontare con superiore meditazione e minor panico
il problema degli Incesti e dei loro Mostri: anche se poi, nel
"mondo esterno" , di fronte all'esigenza di una propaganda
antiereticale, spesso volutamente confusa con una specie di
nuova crociata contro le armate diaboliche (ma pure e
soprattutto contro nuove spaccature scismatiche e - da qui in
parte derivava l'acquiescenza pia accettata che agognata dagli
Stati - contro ogni alterazione socio-politica ed economica) ,
i "miliziani" del Cristo, pure grandi predicatori come un
Panigarola od un Segneri, tingevano di immagini orrorifiche,
contro Mostri e Diversi, le loro conturbanti rappresentazioni
del Male, inserendole con assillante ripetitività in quel
panorama di sessuofobia e di antifemminismo che, lungo i secoli, ha
infine esorcizzato l'inconscio collettivo sulle soglie
antitetiche, ma a volte tragicamente parallele, della
Donna-moglie, con cui "si fa il sesso casto" e della
Donna-femmina (ma si può anche dir amante e pure puttana) colla
quale è lecito "far tutto, salvo poi confessarsi, dai Gesuiti
preferibilmente!".
Per esempio F. TAMBURINI nel suo recente
volume Santi e Peccatori (pei tipi dell'Ist. di Propaganda
Libraria in Milano) al n. 99 - fra Le Confessioni e suppliche
dei Registri della Penitenzieria dell'Archivio Segreto Vaticano,
Fondo Borghese III, 114 d, f.46 - registra per un caso di
ERMAFRODITISMO, esperito con somma prudenza all'interno
dell'istituzione ecclesiale, una petizione dai toni
sorprendentemente meditati, equilibrati e comunque compromissori
(certamente discordanti dalle espressioni pubbliche solitamente
usate da parroci e rettori, nei loro diari o nei loro schemi
predicatori, sia per "nascite mostruose sospette di stregherie,
peccati mortali per sfrenata lussuria o libidini d'incesti" che
a riguardo di "mostruosi abominij sopraggiunti col passar degli
anni nel fisico d'un parrocchiano" ) : "1586/ Voto di Segnatura
di Penitenzieria/ Una ragazza spagnola di quindici anni è
entrata in un monastero, presentando segni esterni femminili, e
stimoli sessuali maschili. Dopo 12 anni, mentre pesava il grano,
sono apparsi all'improvviso i segni esterni maschili per cui è
uscita dal monastero. Si domanda se debba conservare i voti in
un Ordine maschile dello stesso istituto"[come a dire, con
barocca garbatezza: "L'affettazione della mostruosità permette
l'inquadramento di questa alterazione nel sistema dirigistico in
auge: ma tanto l'affettazione quanto l'inquadramento possono
avvenire solo grazie all'intervento burocratico, figlio
primigenio e prediletto di quel potere costituito che, per
sopravvivere, poteva e doveva, come forse ancora
deve e può, - impercettibilmente ma implacabilmente
assorbire qualsiasi sua
contraddizione: omertà intellettuale e
burocratica quale meccanismo gnoseologico di
autogiustificazione del potere!].
Nella più grave delle ipotesi i MOSTRI-MUTANTI vennero inseriti dalla SUPERSTIZIONE
entro le inquietudini delle diversità emarginande ed
emarginabili, degli orribilmente DIVERSI ed ancor più dei DIVERSI INCOMPRENSIBILI e, per conseguenza ideologia del tempo, dei DIVERSI DEMONIACI.
Da qui, ancor più in ambito riformato che cattolico, dalla "passione luterana" per gli estremismi biblico-profetici
dell'APOCALISSE il MOSTRO-MUTANTE finì per essere assimilato al MISTERIOSO ANTICRISTO od alla BESTIA SUPREMA DELL'APOCALISSE" [Apocalisse,
13,4-10: la Bestia che sale dal mare che è poi il DRAGO od
il Serpente antico e quindi SATANA, l'Avversario
di Dio [pure ma non in modo esatto definito ANTICRISTO (anche detto "FALSO PROFETA"), a sua volta, per interferenze pagane, avvicinato a MITRA, un DIO PAGANO, dopo rovesciamento cultuale, fatto DEMONE dalla Cristianità), più
correttamente citato nella I (2, 18.22; 4, 3) e nella II
lettera (7) di Giovanni.
Seguirebbe a dar potere alla prima Bestia la Bestia che
sale dalla terra (Ap.13, 11-16) - più estesa interpretazione
dell'ANTICRISTO - e per cui si diffuse tra gli inquirenti
ecclesiastici, con LAVAGGIO e DEPILAZIONE la caccia
allo STIGMA, marchio della BESTIA col quale verrebbe incisa la mano destra o la fronte degli adepti (ma poi, nelle credenze popolari e no, nascosta dal Maligno, per ingannare sempre meglio
i suoi persecutori - in qualsiasi parte del corpo, dal cuoio capelluto, alle orecchie, alle mammelle, alla schiena e via dicendo): stigma sarebbe infatti nome della BESTIA o più
esattamente CIFRA DI UN UOMO (fragile e debole quindi, cioè
composto di tre 6, cioè 7 - 1, cosa che denota imperfezione e
incompletezza ) che se scoperto ed in qualche modo neutralizzato
toglierebbe ogni potestà alle forze diaboliche ed ai loro
seguaci.
La caccia allo stigma senza dubbio risultò più feroce in ambito
riformato ed anglicano che cattolico anche se pure i testi
dell'Inquisizione diedero agli inquirenti laici ed ecclesiastici
delle precise indicazioni per la ricerca del "segno del patto
demoniaco", prodigandosi in avvertimenti che (oltre il caso
sempre drammatico della Spagna e delle sue colonie americane)
non rimasero inascoltati neppure in Italia, nemmeno nella stessa
Liguria - per esempio - laddove in occasione del cinquecentesco
processo alle Streghe di Triora, venne appunto praticata la depilazione inquisitoriale
dei corpi delle donne sospette allo scopo di individuare il
presunto segno mediamente inteso come una
figurazione di "6" (il famigerato e cinematograficamente ora
abusato 666 segno dell'ANTICRISTO o meglio rovescio maligno
della cifra della perfezione divina, il 999 e, tra '500 e '600,
ritenuto nascosto sotto forma dell'impronta di "un cagnolino" o
di "un coniglio" od altro ancora, mentre si trattava in verità
di figurazioni strutturate dai capricci della natura su pelli
nevose) ed alla fine, con la stessa angoscia, cercato (e talora,
per le frenesie della paura, visto anche laddove nulla v'era!)
sia dagli inquisiti quanto dai giudici (i primi per
"cancellarlo" in qualsiasi modo "come prova", i secondi,
saggiandolo col fuoco ed il ferro delle torture, per riscontrare
se davvero risultasse insensibile al dolore, come narravano sia
i testi di che le scritture inquisitoriali con principale riferimento alle streghe).
Si prese così l'abitudine d'estirpare violentemente o bruciare qualsiasi segno sospettabile, causando a volte neoformazioni tumorali maligne (melanomi) con conseguente (lenta ma inarrestabile e spesso
quasi scenicamente preordinata da una tormentante patologia) morte dell'inquisito trattenuto in carcere, sì da conferire ulteriore forza al superstizioso convincimento che proprio lo STIGMA, oltre che poteri malvagi, donasse la vita al sospetto di patti diabolici: e di qui ancora derivò qualche convincimento
-specie nelle accezioni estremizzate abbastanza radicate in ambienti puritani ed intolleranti od al contrario permeate di sopravvivenze idolatriche africane come in area caraibica- che
lo stigma addirittura concedesse energia vitale a morti viventi
senza anima.
Considerazioni che si possono intuire (anche per intendere come ne siano stati dilatati i contenuti e in che modo esse si siano innestate su varie espressione di folklore),
molto meglio che nell'oscuro testo giovanneo, in vari scritti tardomedievali - e non solo di ordine teologico-inquisitoriale come il poema Der Antichrist di Frau Ava - circa del 1120 - e il dramma latino d'autore ignoto Ludus de Antichristo - circa del 1160 - detto anche Anticristo di Tegernsee dal convento in cui se ne trovò il manoscritto ].
Il conservatore ed erudito Aprosio, l'amante delle stranezze e
dei libri dell'impossibile (che fu anche Vicario dell'Inquisizione: soprattutto per legger liberamente questi ultimi che per punire rei eretici di cui poco si curava, sino ad esserne biasimato dai superiori) assume comunque, quale cattolico ed integralista, connotati permissivi se posto a confronto di "persecutori di stregoneria", che in qualche modo - e questa volta in senso negativo vista la loro avida ferocia- possono venir ascritti al grande registro dei DIVERSI.
DIVERSI DAVVERO NEGATIVI QUALI FANATICAMENTE RELIGIOSI come, in ambito riformato, il cacciatore di streghe inglese, MATTEO HOPKINS, autore serissimo nel 1647 - quando ancora Aprosio si illanguidiva nei
suoi scherzi moralistici, cattivi e riprovevoli ma tutto sommato innocui, su certe Diversità - del temibile Discovery of Witches.
Nel lavoro del delirante autore
inglese si scopre la figurazione del celebre Witch
Finder General, come Hopkins si giudicava, intento ad
interrogare due sventurate ritenute Streghe, due povere vecchie.
Si nota nella stampa del libro
inglese sulla caccia alle streghe di Hopkins la mendicante Elizabeth Clarck, già priva di una gamba, impegnata a far confessione delle sue incarnazioni diaboliche (od Imps) in bizzarri animali mentre la compagna di disgrazie dà ai suoi Imps "nomi che nessun mortale potrebbe inventare": il tutto non a caso orchestrato all'interno d'uno spazio chiuso, nella dimora dell'interrogatorio molto simile all'ambiente istituzionale della femmina onesta, la casa, di modo che il disordine maligno già per virtù dell'inquirente è dimensionato nell'ordine della consuetudine, contro la "tecnica stregonesca e demoniaca" dei ROVESCIAMENTI e quindi dell'INVERSIONE, causata appunto dalle Donne-streghe, di tutti i valori istituzionali della femminilità: per esempio LA SCOPA che non serve più per i
"nobili e sedentari" impieghi domestici ma "quale mezzo di spostamento e volo per i campi, onde far del male, come l'unguento terapeutico della tradizionale medicina femminile"
divenuto pozione per malefici, come il mondo alla rovescia dei paioli ove non si cuoce il cibo per gli uomini ma qualche zuppa infernale, semmai, per asservire proprio i maschi al volere delle femmine perdute.
Su questi metri di comparazione Aprosio (anche se molti
religiosi cattolici furono intransigentissimi, certo quasi tutti più di lui, Inquisitore di nome ma assai poco di fatto) appare l'espressione di quella intellettualità barocca (in effetti
vista con parecchi sospetti dal Santo Uffizio) che, ancora
abbastanza incredula di un cataclisma che invece già la stava schiacciando, beatamente trovava rifugio nelle Accademie, dietro "bandi statutari" che servivano ad ingannare un pò tutti, a far credere - a sè ed agli altri - che tutto fosse un gioco innocuo; quando Aprosio si accorse che gioco non era più, s'affrettò
allora a lasciare la carica di Vicario inquisitoriale (per
quanto ottenuta, ben si sa, dopo raccomandazioni non da poco) e
si "rifugiò" nella sua biblioteca, estraneo alle persecuzioni ed alle dicerie su streghe, vampire o semplici puttane: s'era ormai convinto che il
fuoco del rogo, forse proprio a Venezia, l'aveva lambito e che se ne era salvato proprio perchè‚ quella Repubblica era potente,
orgogliosa ed oltremodo resistente alle pressioni
dell'Inquisizione.
Ma in Liguria, a Ventimiglia [colla pressione
di apostati ed eretici su quei monti di incerte frontiere
(fragili discriminanti contro infiltrazioni ereticali, anche di
mal tollerati giansenisti) ove sarebbero poi comparsi sparuti
"ugonotti" e in altri tempi ancora temuti nemici dei Papi come i
"barbetti"] le cose potevano andare diversamente: gli era noto
dei sabba che si diceva avvenissero ancora tra quelle aspre contrade dell'entroterra, sapeva ormai di Triora e della Raibaudo e così, se da un lato si guardò bene dal denunziare o dal perseguitare, dall'altro smise di stampare "cose proibite"
(al limite ne scrisse, ma solo per sè e gli intimi di cui si
fidava!).
Cessò anche di parlar di Mostri e Diversi, preferì darsi dopo il 1660 (fatta eccezione per la rivisitata e moderata Grillaia del 1668 e forse con vantaggio non lieve della
letteratura italiana) all'indagine bibliografica e sui Mostri si limitò a raccogliere, come era suo dovere di bibliotecario, soltanto dei libri, tantissimi libri, bizzarri e no d'altri
autori (italiani e no!) che ci ciungono tuttora -patrimonio dell'Aprosiana- molto più delle sue esternazioni assai preziosi per la loro rarità e le informazioni che contengono.
L.CONTARINI detto Il Crucifero (vedi fogli 66-67 e foglio 79 di un suo celebre LAVORO) si può considerare un erudito ma eccellente catalogatore dei fenomeni dell'impossibile, delle Diversità solo in apparenza erette ad innocuo sistema di intrattenimento e di varietà naturalistica.
Egli osservò con attenzione i molteplici aspetti dell'esistenza, indagando su i molteplici suoi aspetti, compreso il delicato momento del PARTO su cui tanta luce fece, in un suo celebre volume, nel XIX secolo l'anatomista e medico legale F. PUCCINOTTI (specificatamente nel contesto della LEZIONE VII.
Contestualmente la sua erudita curiosità lo indusse ad investigare anche le MOSTRUOSITA' frutto di PARTI INCOMPRENSIBILI, punto terminale di GRAVIDANZE apparentemente complicate da ragioni inspiegabili e talora proprio per questa ineffabilità ricondotte a MATRICI DIABOLICHE.
I dati che il CONTARINI raccolse (assieme ad altre notizie di poliedrica cultura, con particolare attenzione a quelle storico-geografiche ed artistiche) rappresentavano sì in qualche modo la giocosa sublimazione dell'erudizione - che pian piano diventava
iridescente espressione di un'arte diversa la quale, pur traendo spunto da fatti reali, veniva esaltata sin ai limiti dell'incredibile e di quel paradossale che tuttora, in fondo, oltre la soglia dello straordinario, affascina e irretisce il lettore - ma a ben vedere in esse si sentiva anche o quasi sempre l'odore dello zolfo, il panico per la devianza, il rifiuto istituzionale della diversità, tutte cose che rimandavano ad un paranormale che, nell'età intermedia e
controriformista, si coniugava volentieri e pericolosamente ad ipotesi diaboliche e "sabbatiche".
Si legga, per intendere ciò, quanto il CONTARINI (anticipando, seppur con forzate coloriture, le OSSERVAZIONI DI MEDICI E RICERCATORI) annotò, con una qualche precisione cronologica ed ambientale, su alcune DIVERSITA'su quei Mostri che, al modo in cui scrisse, finivano
per diventare, contestualmente, entusiastica ricerca della
varietà nell'apparente unicità della natura ed ammonizione alla
repressione o quantomeno al rifiuto dell'ignoto (per esempio il
feto che fiammeggia tra vampate sulfuree che sembrano spalancare
i battenti dell'inferno, l'ermafroditismo, il siamesismo sotto cui si mascherano
idee angoscianti di coiti innaturali, non dissimili da quelli
attribuiti agli eventi oscuri del Sabba: per quanto si guardasse dal confessarlo apertamente e piuttosto, con qualche
"affettazione" lo lasciasse soltanto trapelare, allo stesso
Contarini, come a tutta la sua cultura, non era infatti ignota
la sterilità di qualsiasi accoppiamento tra umani ed animali ed
era altresì presente la convinzione che ogni animalesca
mostruosità, che fosse partorita da una donna normale, poteva
avvenire solo sui parametri d'un patto diabolico):
"(f.66 b)La moglie d'un Pastore in Germania nel 1512, nella
villa di Eleefelbach fece un fanciullo senza faccia humana; ma
in luogo del capo haveva una carnosità sotto la quale erano dui
occhi grossi dissimili l'uno da l'altro collocati nelle
concavità tanto difformi, ch'era spavento a mirarli e nel mezo
un pezzo di carne in fuori a modo d'un pugnale, il mento tanto
lungo che pareva un miracolo di natura, la bocca era convertita
in un picciolo buco, e generato in guisa, che ciascuno, che lo
riguardava ne rimaneva stupefatto, egli per la sua difformità
non hebbe battesimo; ma così vivo sepolto. Ascanio Centorio" [la
fonte del Contarini].
"...La moglie d'un Sartore nella terra di
Nebre in Turingia quasi poco dopo sendo per tre dì continui
stata con grandissimi dolori del parto, e all'ultimo nell'uscir
del figliuolo ne venne un romore, come d'artegliaria con tanta
fiamma, che abbruggiò le cose e i vestimenti alla parturiente, e
alla comare [levatrice] le mani, et quasi il volto empiendo
tutta la stanza di odore sulfureo, cosa in vero maravigliosa, et
non più giamai sentita. L'istesso" [la fonte]
[f.67 a]"... La moglie
d'un Ferraro pur nello stesso anno a Frepuuerch parturì dui
Bambini attaccati insieme con due teste, quattro mani, quattro
gambe; ma con un sol corpo, e in Genevra una Donna Francese
parturì un puttino, che haveva dui pezzi di carne grandissimi
bifronti e haveva da tutti dui i lati occhi, bocca, naso, e
orecchie e con un solo corpo alquanto diviso con quattro gambe,
dal lato destro, haveva i membri virili, e dal sinistro i
feminini, e nel nascer nacque smembrato dalla racolgitrice
[leggi raccoglitrice altro sinonimo di ostetrica/levatrice]. L'istesso [la
fonte]
[f.79, b]"... Una Donna appresso Augusta nel 1567 partorì
in un parto cinque figliuoli e tutti dopo aver ricevuto l'acqua
del santo Battesimo morirno, e un'altra donna nell'Ungaria
partorì un figliuolo, il qual in vece di testa humana haveva il
capo d'Elefante, e in Francia una Donna partorì due gemelle, i
corpi delle quali erano nati insieme e havevano due teste, ma
una man sola, e dui piedi: Tra le due teste era disteso in alto
un braccio assai grosso, il qual poi finiva in due mani minori
delle quali l'una e l'altra palma si slargava verso la testa.
Pietro Bizari [la fonte]"
Nell' ETA' INTERMEDIA il variegato timore contro DIVERSI E DIVERSITA', qui sopra ampiamente esposto, sostenuto ad un formidabile apparato di SUPERSTIZIONI ALIMENTATE DALL'IGNORANZA SE NON DA VIETI INTERESSI DI PARTE giunse all'apice d'esser esteso fin ai Mostri del mondo animale: ed ogni cosa
era orchestrata secondo parametri che rimandavano ad idee che queste DIVERSITA' -cui spesso si era venuti in contatto per l'effetto delle scoperte geografiche, fossero una avanguardia delle FORZE DEL MALE sopraggiunte a falangi e in multiformi aspetti a preparare il terreno di distruzione del Mondo Conosciuto per l'ANTICRISTO, la BESTIA DELL'APOCALISSE: sì che presto si giunsero a proporre per via di scritti e prediche alcune perciolosissime postulazioni -che mescolavano fanatismo politico, odio religioso, avversione razzione razziale-
in merito ad una già AVVENUTA EPIFANIA DELL' ANTICRISTO = come anche a Genova, PREDICATO DA ANNIO DA VITERBO, FANATICO SOSTENITORE DELL'"EQUAZIONE MAOMETTO = ANTICRISTO" Nel manoscritto Weiditz di Norimberga del 1529 si vedono le prime immagini delle POPOLAZIONI PRECOLOMBIANE di Maya, Atzechi ed Inca (e non solo) su cui si propone qui l'INTEGRALE DIGITALIZZAZIONE DI RELAZIONI COEVE E DI LIBRI ANTIQUARI CHE NE TRATTANO LA ROVINA AD OPERA DEI CONQUISTADORES
E' vero che illustri pensatori, sia laici che religiosi, si opposero con tutta la loro energia
a queste DEGENERAZIONI DEL PENSIERO in particolare procedendo dal domenicano BENITO PEREIRA ma fuor di dubbio queste
incontrollabili paure alimentate da contingenze epocali di estrema gravità finirono per aver presa presso le masse senza cultura
anche perchè avallate dall'opera di divulgatori volonterosi ma più creduli che documentati com il citato
CONTARINI che dedicò attenzione a varie presunte alterazioni in contesto naturale come si legge al
f.17 dell'Aggiunta al suo Giardinello: "...In Alberstadio nacque nel 1513 un
Agnello con tre occhi, con tre bocche e con due nasi, e con
l'orecchi pendenti come un cane, e quel che in lui appariva più
prodigioso si era, che haveva sovra la bocca di mezo un occhio
maggior de gli altri, e questo animale con gran gridore visse un
solo giorno, e in una villa d'Augusta chiamata Leder nacque un
vitello con due teste, quattro occhi due davanti e dui dai lati,
e subito espirò: Ascanio Centorio [la fonte]").
E così non furono pochi i provvedimenti che, sia in ambito cattolico che riformato, si cominciarono vieppiù a prendere verso individui e/o animali caratterizzati da qualche diversità se non da alcune, all'epoca, incomprensibili deformazioni.
Per esempio nell'opera di CANDIDUS BROGNOLUS Bergomenses ( Manuale exorcistarum ac parochorum, hoc
est tractatus de curatione ac protetione divina. In quo, varijs
reprobatis erroribus, verus, certus...evangelicus eijciendi
daemones ab hominibus, & rebus ad homines spectantibus:
curandi infermos: ab inimicis se tuendi...Opus nemine hactenus
attentatum...Medicis Theologis...Obsessis, Aegrotis...apprime
utile) Bergomi, Rubei, 1651 vengono passate in rassegna
le più svariate operazioni condotte dagli Esorcisti del passato,
con una meticolosa descrizione dei rimedi di volta in volta
usati per liberare dalla possessione di forze demoniache sia uomini che animali, specie trattandosi non solo di "ossessi" nel senso tradizionale del termine ma in particolare di Mostri in cui la
degradazione del corpo o della mente sarebbe stata
un'anticipazione o meglio ancora una tangibile, esteriore
testimonianza della degenerazione esercitata dalle "possessioni"
sui feti e sul loro sviluppo, magari per il tramite di genitori
peccaminosi, rei di accordi diabolici.
Una seconda inquietante considerazione proviene dalle valutazioni
dell'autore sui una variabile alquanto specifica della DIVERSITA', fu poi quella riassunta nell'iconica valenza, figurativa e letteraria, dei MOSTRI che sarebbero stati individuati nell'Africa nera e nelle Americhe, specie fra le Ande, fin a citare, e solo per sentito dire,
accoppiamenti di individui di popolazioni precolombiane con canidi o altri animali sì da generare scarti di natura: considerazione inquietante, perché,
nonostante gli scritti di illuminati missionari come
B. DE LAS CASAS l'ipotesi di patti diabolici
poteva giustificare il GENOCIDIO che i "Conquistadores" (motivando le loro efferatezze coll'alibi di uma REPRESSIONE DELLA CULTURA AMERINDIANA DEL SANGUE E DEL SACRIFICIO UMANO) andavano facendo di civiltà i cui discendenti, dalla paura oltre che dall'ignoranza e dalla malafede, risultavano descritti come creature semianimalesche.
Fatta salva qualche mirabile eccezione sostenuta dalle prime rigorose osservazioni suggerite dalla Scienza Nuova (come nel caso della seicentesca STORIA DEL BRASILE...) gli indigeni precolombiani (per esempio nel FRONTESPIZIO de Il moro trasportato nell'inclita città di Venezia, Bassano, 1687 si veda, emblematicamente, sulla sinistra l'uomo di colore che deve, alla stregua di un fanciullo, esser pazientemente guidato verso la "vera civiltà" dal saggio Missionario gesuita) furono, sin al XIX secolo, effigiati e giudicati quali diversi nel senso di esseri quantomeno da educare ai soli valori indiscussi, quelli della "società occidentale e cristiana".
Siffatto concetto, non privo di interne contraddizioni e di qualche illuminata contestazione, fu saldamente alla radice delle diverse posizioni di fronte al problema degli SCHIAVI o alla distinzione/ contrapposizione più nota, aristotelicamente, come antitesi SCHIAVO DI NATURA - SCHIAVO DI GUERRA.
Non a caso bisognerà risalire al XVIII secolo e al PENSIERO DELL'ILLUMINISMO per vedere trionfare (presto anche legalmente e politicamente per i Paesi Europei) il proncipio dell'ANTISCHIAVISMO e della conseguente AFFRANCAZIONE DEGLI SCHIAVI DI RAZZE DIVERSE: al proposito giunge illuminante quanto ha scritto le scienziato e naturalista BUFFON in un'OPERA CHE EBBE GRAN DIFFUSIONE ANCHE IN ITALIA e dove si legge un'appassionata accusa contro lo
SCHIAVISMO SPECIE DELLE POPOLAZIONI AFRICANE
che per un ERRORE DI CUI SI PENTI' PROFONDAMENTE ED AMARAMENTE l' "Apostolo delle Indie" vale a dire BARTOLOMEO DE LAS CASAS il quale di fronte ai continui ostacoli interpostigli SI ERA PIEGATO A GIUDICARE GENETICAMENTE PIU' FORTI E ADATTE AI LAVORI NELLE AMERICHE DELLE POPOLAZIONI PRECOLOMBIANE.
Ed ecco perchè pure gli abitanti dell'Etiopia, sospesi sull'equilibrio socio-culturale dello SCHIAVO DI NATURA sono riprodotti alla stregua di primitivi o quasi.
Ed a maggior ragione, sulla base delle informazioni dei pochi esploratori e dei tanti missionari oltre che dei conquistatori europei, anche gli abitanti del Mozambico, in questo volume (di J.H. Linscotanis, Navigatio ac itinerarium, Amsterdam, 1599 donde si è ripresa l'immagine precedente degli abitanti d'Etiopia) son rappresentati (nonostante l'evidente interferenza sull'incisore degli stilemi classici ed europei) come selvaggi seminudi: cosa in fondo già molto evoluta a fronte di altre figurazioni ove africani ed amerindi hanno FATTEZZE MOSTROSE O SCIMMIESCHE.
Al TERRORE EPOCALE ed alla SUPERSTIZIONE finirono per coniugarsi RIGETTO E PERSECUZIONE che tra le masse semianalfabete assunsero
i connotati del RAZZISMO: ma siffatto RAZZISMO a livelli infinitamente più evoluti
finì per essere una sorta di giustificazione ideologica per POTENTATI VARI E GRUPPI DI POTERE ECONOMICO che, dopo essersi avvalsi di questa primordiale ma efficiente arma pubblicitaria strutturata sui temi della paura e della religiosità deviata, riuscendo a demolire la potenza socio economica degli EBREI, sulla linea della folle ma efficiente equazione RAZZE DIVERSE ED ESOTICHE, RAZZE NON CRISTIANE = RAZZE POTENZIALMENTE PIEGABILI A CULTI DIABOLICI successivamente si arricchirono giustificando per secoli l'osceno commercio di carne umana meglio noto come
**********TRATTA DEI NEGRI**********
da condurre dall'Africa in America a morire in lavori terribili: e per inciso, a dimostrazione di quanto abbiano sempre interagito sempre più col tempo -almeno a certi livelli- non il RAZZISMO (qual forma di pur degradata ideologia) ma semmai gli INTERESSI ECONOMICI con lo sfruttamento delle così dette RAZZE INFERIORI risulta emblematico da come
uomini e popoli strutturalmente diversi per politica e religione, e per conseguenza atavicamente nemici, nella TRATTA DEGLI SCHIAVI abbiano interagito e collaborato in utilitaristica armonia, vale a dire TRAFFICANTI ISLAMICI E MERCANTI CRISTIANI EUROPEI e, se vogliamo esser retorici o superstiziosi essi sì
vittime del culto, del
****DIO DEMONE DEL TURPE GUADAGNO****
EBREO/-I: EBREI NEL GENOVESATO DA FINE '400 A TUTTO IL 1600 ("GHETTO DI GENOVA"):
Gli EBREI, quindi gli aderenti per motivi etnologici, antropici, sociali e religiosi alla grande tradizione cultuale dell'EBRAISMO [GIUDAISMO], in questo studio si sono accostati
ai Diversi e ciò potrebbe sembrare eccessivo, calcolando sia il loro numero, relativamente scarso nel genovesato come in tutta Italia, sia i rapporti commerciali che gli Ebrei, ebbero coi mercati liguri, specie con quelli del Ponente dopo che, data l'affermazione
locale dell'agrumicoltura, essi divennero ambiti clienti, fra Sanremo e Mentone, di cedri, oltre che di palme, per la festa dei Tabernacoli e per tutte le celebrazioni preatunnali del mese di Tirish.
Dalla II metà del '500, però, visti i crescenti timori di Eresia per la Riforma luterana e calvinista, la Chiesa e l'Inquisizione, divennero sempre più sospettose nei confronti di quanti non seguissero il credo romano: negli scritti di molti interpreti, sino al DELRIO ed al GUACCIO, affiorano consigli a studiare con cautela le abitudini degli EBREI che, vissuti al limite
della tolleranza cattolica, avevano sviluppata autonomia socio-economica, con la
conservazione orgogliosa di cultura e credo propri.
Così vari Inquisitori tornarono a citare,
dopo secoli, il CANONE VIII del Concilio Niceno II (787) che gettava ombre sulla sincerità degli Ebrei convertiti: in particolare si riprese una vecchia tradizione antisemita che accusava proprio gli EBREI di aver in qual modo dato il via alle PERSECUZIONI CONTRO I CRISTIANI (ALBERIGO, 211).
L' esclusione dai vincoli della Chiesa aveva peraltro concesso agli Ebrei di far valere nel settore bancario e del prestito indubbie capacità, sì che a
livello popolare, e non soltanto, la figura dell'Ebreo si coniugava, anche se non del tutto a ragione, con quella del praticante l'USURA più volte condannata a livello sia della legge dello STATO che della CHIESA.
A fine '400 Antonio Cammelli, "il Pistoia", (Pistoia 1436-
Ferrara 1502), sugli Ebrei, scriveva:"Così [il fattore] mi tol ciò che mi dà il signore:/ quando gliele domando non sa dire/ se non:- Aspetta pur l'anno advenire.-/..../L'ebreo ha già del mio più d'un farsetto:/ toglio carne in credenza vino e pane".
Gli Statuti genovesi del 1556 risentirono del clima controriformista: la risultanza di
discussioni e previdenze cattoliche alimentò il timore di Scisma ed Eresia innestando sull' idea di Eresia un "castello" di colpe d'Eresia entro cui confluivano non solo i Riformati
ma pure Libertini, Streghe e Maghi, autori di Sortilegi e Seguaci di religioni diverse da quella di Roma: non cattolici come gli EBREI che a parere di M.DELRIO, colle conoscenze cabalistiche
e criptomatematiche, avrebbero praticato dei Sortilegi Eretici .
Dopo la META' DEL '500 la SITUAZIONE DEGLI EBREI ITALIANI peggiorò, con l'inasprimento massimo nello Stato della Chiesa ed una politica più severa rispetto al recente passato in tutti gli Stati d'Italia (ove nelle città sorsero i GHETTI per la segregazione degli Ebrei), con l'eccezione dei due porti liberi di Pisa e
soprattutto di Livorno nel Granducato di Toscana ove il ghetto non fu istituito e dove le agevolazioni commerciali concesse dai granducali permise ai commercianti ebrei di rivaleggiare con ottimi risultati avverso la ben più prestigiosa piazza mercantile del porto di Genova (DEI - UTET - FEDELE,VII,s.v. Ebrei, p.50, coll.I e II).
Con un pò paternalismo e una vena di scusabile campanilismo in un'utile rassegna documentaria patrocinata dal principale QUOTIDIANO GENOVESE D'INFORMAZIONE si legge che a GLI EBREI DEL GHETTO DI GENOVA AVREBBERO GODUTO DI UNA SITUAZIONE MIGLIORE CHE IN ALTRA PARTE D'ITALIA FERMA ESSENDO UN'UTILE CORRELAZIONE TRA LA LORO BRAVURA MERCANTILE E QUELLA DEGLI IMPRENDITORI GENOVESI.
Pur concedendo vigore a questo discutibile assioma (ed invece molti imprenditori genovesi avrebbero invece tratto profitto dal tracollo di certe imprese rette da Ebrei) è tuttavia opportuno distinguere sempre tra MONDO DEGLI AFFARI e MONDO DELLA SPIRITUALITA' che nell'epoca intermedia agiva ovunque e pesantemente sulla vita sociale, a Genova come in tutta Italia.
La relativa mancanza di antisemitismo nel genovesato in realtà fu più connessa allo scarso numero di Ebrei in Liguria (avevano scelto il porto di Livorno come loro base operativa) che alle scelte di una SIGNORIA GENOVESE che sostanzialmente era alquanto più conservatrice di quella TOSCANA: anche per questa ragione gli EBREI continuarono a preferire lo scalo livornese al PORTOFRANCO DI GENOVA istituito proprio in antitesi col porto di Livorno.
Nel '600 un romanziere genovese, B. MORANDO, scrisse (492)"Chi
s'oppose alla loro predicazione [degli Apostoli]?. Tutto l'ebraismo, tutta la gentilità, tutte le nazioni, tutta la potenza del Romano Impero domator del mondo": sempre nel XVII sec. il predicatore P. SEGNERI non mancò di tracciare un quadro ambiguo degli Ebrei [pur se in Italia, a differenza che in Europa, non si può parlare in quest'epoca di un vero e proprio "caso della comunità ebraica", esitendo semmai -volta per volta- il "caso" dei rapporti di Chiesa o Stato con singoli Ebrei: v. la vicenda dell'ebrea Sara Copio Sullam alla voce Donna (Ruolo della Donna
letterata in fine].
Il romanziere genovese del '600 ANSALDO CEBA', nel corso del suo epistolario con l'EBREA VENEZIANA SARA COPIO SULLAM ritenuta autrice di uno scritto sulla MORTALITA' DELL'ANIMA (che accusava con lucido ragionamenti certe fragilità teologiche del cattolicesimo romano postridentino), può dare l'impressione di un amoroso interesse per la bella letterata del GHETTO DI VENEZIA ma, se si legge davvero il suo epistolario, si nota soprattutto quello stizzoso paternalismo dei ceti dirigenti genovesi del '600 che, quando si trovavano inascoltati in certi loro consigli che avevano tuttavia il crisma di ordini garbatamente esposti, finivano con abbandonare le imprese non andate a buon fine assumendo atteggiamenti di spocchioso e permaloso distacco (e in questo stesso modo si comportò il CEBA': non riuscendo a convertire la SULLAM al CATTOLICESIMO finì per trascrivere le sue lettere in un LIBRO (qui intieramente proposto) che, già dalla prefazione, vuol apparire come "NOBILISSIMO FALLIMENTO D'UN CRISTIANO GENOVESE PER NON ESSER RIUSCITO A CONVERTIRE UNA PECCATRICE GIUDEA".
L'ingombrante presenza dell' Inquisizione nei procedimenti di Eresia cui
doveva assistere il Braccio secolare in Stat.Crim. libro II, "delle pene cap. 10 - cap.25 e cap.89 creò non poche tensioni fra
Signorie e Chiesa e per Genova questo si verificò nel caso delle Streghe di Triora per cui
urtarono diritto canonico e criminale: le indicazioni per riconoscere Eretici di fatto erano
troppo soggette all' Arbitrio degli inquirenti quando sarebbe stato vitale che Stato ed
Inquisizione concordassero bene sia sulle procedure che sulle pene e, fatto mai davvero risolto nel genovesato, su cosa fosse Eresia e se, per conferire al "crimine" i crismi
dell'Eresia, si dovesse valutare per eccesso (come voleva l'Inquisizione) o per difetto, come lo Stato intendeva> in S.A.I. (23,115,252) si citano 4 commenti del Santo Ufficio sugli Eretici
autorizzandoli a testimoniare in casi d'eresia di Cristiani, di altri Eretici> si classificano poi gli Eretici
infedeli costretti ad abiurare come i Cristiani eretici.
La scarsa documentazione sopravvissuta sugli EBREI IN LIGURIA induce quindi ad estrema cautela nella disanima della storia della COMUNITA' EBRAICA DI GENOVA e suggerisce di rifarsi alle investigazioni di quello che tuttora rimane il principale studioso dell'argomento: ci si riferisce qui al RABBINO R. PACIFICI autore di due SAGGI CRITICI che, seppur relativamente datati, per chiarezza e in virtù della personale lettura di documentazioni disperse a causa del II conflitto mondiale, propongono tuttora le più sostanziali osservazioni, peraltro in merito a molteplici aspetti socio-economico-esistenziali oltre che religiosi, sulle vicissitudini della PICCOLA MA TENACE COMUNITA' EBRAICA DI GENOVA soprattutto in relazione al PERIODO COMPRESO TRA XVII-XVIII SECOLO ed in maniera ancora più specifica in rapporto al SECOLO XVIII.
LIBERTINO-LIBERTINISMO vedi:BATTAGLIA s.v.> Che si è emancipato, sul piano culturale ed etico, dal dogma religioso cristiano: libero pensatore. Il riferimento iniziale va alla Francia del XVII secolo ma non si può trascurare il contemporaneo fenomeno dei Libertini veneziani dell'Accademia degli Incogniti che, per la libertà di pensiero (con G.Brusoni giunta ai limiti della provocazione sessuale e dell'apostasia) attirò molti eruditi liguri tra cui A.Aprosio, A.G.Brignole Sale ed Ansaldo Cebà il cui poema eroico La Reina Ester fu la ragion prima d'una interessante corrispondenza epistolare, tra 1618 e 1622 con la bellissima e colta ebrea veneziana Sara Copio Sullam.
La Repubblica di Genova, in tempi poco posteriore alla promulgazione dell’EDITTO DEI SOVRANI DI CASTIGLIA del 1492, che sancì, al termine di una LUNGA CONTROVERSIA RELIGIOSO-POLITICA, la tristemente famosa ESPULSIONE DEGLI EBREI dalla penisola iberica, aprì le sue porte ad un certo numero di esuli sefarditi (in ebraico Sepharad vuol dire Spagna) noti per la loro ricchezza ed abilità commerciale.
La Signoria genovese permise ai primi trecento ebrei giunti in nave, nel 1493, da Barcellona di insediarsi in un quartiere comprendente la zona di vico del Campo, vico Untoria e piazzetta Fregoso.
"Non e' mio intento ricostruire qui, sia pure per sommi capi, le vicende della vita degli ebrei in Genova [annotò R. Pacifici in un suo importante saggio sulla comunità ebraica di Genova a partire dal XVII secolo]. Del resto, una delineazione storica di questo genere e' stata gia' fatta (M. Staglieno, Degli ebrei in Genova, in "Giornale ligustico di archeologia, storia e belle arti" , vol.3 (1876)) ed uno studio più completo e definitivo richiederebbe ricerche e materiali storici, l'elaborazione dei quali si estenderebbe di gran lunga oltre i limiti che ho disponibili nel presente opuscolo. Per lo scopo che qui mi sono prefisso, ritengo invece sufficiente fornire alcune notizie sulla vita e l'organizzazione interna della comunità di Genova intorno ai secoli XVII-XVIII, e cioè nell'epoca in cui risulta che si venne a costituire stabilmente un nucleo ebraico in questa città.
Queste notizie sono desunte da varie fonti, ma soprattutto da due grossi registri che si conservano nell'archivio della comunità di Genova e che si riferiscono agli atti di questa comunità e ai verbali di sedute durante tutto il secolo XVIII. Una considerazione d'indole generale che si puo' fare scorrendo questi verbali, è che appunto nel periodo su accennato si cerca, da parte dei capi della comunità, di dare un assetto stabile alla medesima, sia avvalendosi delle concessioni fatte dalla repubblica, sia attraverso vari provvedimenti di ordine interno. Questa constatazione coincide perfettamente coi dati storici in nostro possesso, perché se è vero che notizie su ebrei a Genova risalgono all'epoca di Teodorico, questo dato storico e gli altri sporadici sino alla fine del secolo XV, non ci permettono di affermare che a Genova vivesse un nucleo ebraico stabilmente organizzato.
Solo con l'afflusso di ebrei che si ebbe a registrare anche a Genova dopo l'espulsione dalla Spagna nel 1492, si può dire che si inizi un nuovo periodo nella comunità genovese, ed è infatti da questo momento che si fanno più frequenti le notizie sugli ebrei e si accenna ad un magistrato per gli ebrei. D'altra parte, le vicende di costoro in questa città subiscono tali alternative di ammissioni ed espulsioni, di concessioni e relative revoche da parte della repubblica - influenzata spesso dagli interessi delle autorità ecclesiastiche - che per tutto il '500 e fino a meta' del '600, non si può parlare di una comunità ebraica propriamente detta. Quando però nel 1648 si costituì a Genova il portofranco per tutte le merci e per tutte le nazioni, il governo vi comprese anche gli ebrei, disponendosi ad alcune concessioni verso i medesimi, come più tardi venne stabilito attraverso la pubblicazione di speciali capitoli che furono stipulati a metà del 1658 e che comprendono le condizioni per la residenza degli ebrei in Genova, condizioni che furono fissate tra i deputati ai negozi di san Giorgio, i collegi della repubblica e due rappresentanti della nazione ebraica, nelle persone di Abram Da Costa di Leone a Aronne De Tovar (Staglieno, op. cit., pag. 399).
Son questi, per quanto ci consta, i primi capitoli completi emanati dal governo della repubblica e che provvedono a regolare ordinatamente il soggiorno degli ebrei nel territorio della medesima. In questi capitoli si stabilisce, tra l'altro, che gli ebrei godranno della protezione del governo, dovranno riunirsi in un quartiere speciale o ghetto, ove sarà anche la loro sinagoga, potranno inoltre acquistare un campo ad uso di cimitero e pagheranno annualmente un testatico, anziché nella misura di otto reali, come per l'addietro, in quella di uno scudo d'oro. L'osservanza di queste e delle altre disposizioni è affidata a due senatori, detti eccellentissimi di palazzo, che saranno chiamati protettori degli ebrei , e che, come si vedrà, dovranno invigilare sull'andamento della comunità ebraica.
I capitoli avrebbero avuto la validità di dieci anni e sarebbero stati prorogabili, salvo che il governo avesse creduto di diffidarli cinque anni prima della scadenza. I capitoli avrebbero dovuto andare in vigore col primo gennaio 1659, ma in effetti questo non avvenne che al 13 marzo successivo perchè, date le solite influenze dell'autorità ecclesiastica, e soprattutto della romana inquisizione, furono apportati ai capitoli certi emendamenti, senza dei quali la Santa Sede non avrebbe data la sua approvazione.
Fu così che circa il 1660 si provvide anche alla assegnazione di un ghetto, nella contrada del campo, presso le case dei Vachero, sul territorio della parrocchia di S. Agnese. E' questo il primo ghetto di cui si abbia notizia a Genova, ma che doveva essere alquanto limitato, se già nel 1662, epoca in cui gli ebrei ascendevano a soli 200 individui, alcuni tra gli ebrei stessi dovevano domiciliarsi fuori del ghetto, col consenso delle autorità. A questo riguardo si deve subito notare che sebbene più tardi, e precisamente verso il 1674, il ghetto fosse trasferito nelle case attigue alla piazza dei tessitori, vicino a S. Agostino, la questione non fu neppure così risolta e, come confermano i cronisti del tempo, un vero ghetto, grande e spazioso ove raccogliere tutti gli ebrei, non si ebbe mai a Genova, e la questione ghetto costituì sempre una questione aperta ed insoluta.
Nel 1669 scadevano i capitoli e vi furono vivaci discussioni nei consigli del governo e nella città, se rinnovarli o meno. A queste discussioni sembra non fossero estranee anche le lotte che, per ragioni di concorrenza, si facevano in città contro gli ebrei, e poiché agli occhi dei migliori appariva chiaro che nessun appunto si poteva fondatamente muovere contro di essi, si decise di conceder loro un avvocato che ne difendesse i diritti, e fu scelto il magnifico cancelliere Felice Tassorello. Così il buon senso prevalse e con un pò di ritardo rispetto alla scadenza dei capitoli, nel settembre del 1674, la signoria deliberava di concedere agli ebrei un nuovo permesso di soggiorno per dieci anni. Ma sembra che i cambiamenti fatti ai capitoli e l'aumento della tassa del testatico, aggravassero le condizioni degli ebrei al punto che molti di essi spontaneamente abbandonarono la città e questo fatto non restò senza influenza sulla futura composizione numerica della comunità ebraica che anche per tutto il secolo XVIII dovette raramente superare i 100 individui.
Un piccolo nucleo dovette tuttavia rimanere e sebbene, per queste particolari condizioni, spesso convenisse alla repubblica fare agli ebrei concessioni individuali, tuttavia nel 1700 e nel 1710 si ha notizia di nuove pubblicazioni di capitoli e intorno allo stesso periodo, precisamente nel 1707, gli ebrei provvidero all'apertura di una sinagoga nelle vicinanze della Malapaga.
Ciò non tolse però che, forse per le solite pressioni esercitate sul governo dal partito opposto agli ebrei, questi fossero fatti oggetto di una nuova espulsione in massa che fu intimata con speciale decreto in data 3 febbraio 1737. In seguito a questo provvedimento, molti ebrei, specialmente i meno abbienti, si ritirarono nel vicino granducato di Toscana, verso il quale furono presto attirati anche i più ricchi ed i commercianti, del che, sembra, cominciò a preoccuparsi il governo, tanto che si decise di accordare ad alcuni il permesso di soggiorno, in deroga al decreto anzidetto. Fra gli ebrei che, almeno per un certo tempo, usufruirono di queste speciali concessioni, si ricordano: Israel Elia Sinigaglia, negoziante, Giuseppe Rosa, mediatore di assicurazioni e corrispondente della casa Sayon di Lisbona per tabacchi del Brasile, Bonaiuto Amar, Elia Benedetto Vitali, Raffaele Pugliesi, Abram Lucerna, Angelo Levi, Moise' Foa'. Quest'ultimo merita un cenno a parte perché ottenne dal minor consiglio una eccezionale autorizzazione a risiedere in Genova, per particolari servigi resi alla repubblica.
Il documento nel quale si fa allusione a questa concessione è del 1748 ed è interessante riprodurlo perché ci illumina sulla vita e l'attività di questo personaggio: sono così noti i servigi prestati in questi ultimi anni a vostre signorie ser.me dall'ebreo Moise' Foa' colla provvista loro fatta da Livorno di ben trenta pezzi di cannoni fra i quali dieci da batteria e di copiosa quantità di palle, bombe e polvere, il tutto a lui riuscito con gran rischio ed a fronte anche di gagliarde opposizioni fatteli colà dai ministri austro-sardi ed inglesi (motivo per cui oggi è bandito dal re sardo del quale è stato suddito) che la Signoria genovese si è degnata di accordargli, ad esclusione di ogni altro di sua nazione ebrea, il privilegio di continuare la sua permanenza in questa citta.
Ma qualche anno più tardi il governo fu costretto a ritornar sulle deliberazioni prese nel 1737 e ciò soprattutto per ragioni commerciali: l'esperienza infatti aveva dimostrato come i ricchi commercianti preferivano Livorno, ove godevano di estesi privilegi, a Genova. Fu così che nel 1752 furono riammessi gli ebrei in città e furono emanati nuovi capitoli, questa volta molto liberali, tanto che in essi non si fa più menzione nè di ghetto, né di obbligo a frequentare le prediche, nè di obbligo del segno. Gli ebrei avrebbero potuto abitare in qualsivoglia parte della città, con l'obbligo però di denunciarsi al magistrato della consegna (incaricato delle registrazioni anagrafiche); avrebbero potuto commerciare liberamente, ma non possedere fondachi pubblici, avrebbero potuto aprire la sinagoga e continuare nel possesso del cimitero. Date queste nuove garanzie, gli ebrei si stabilirono definitivamente in Genova e da quell'epoca niente di particolare importanza va rilevato sul conto loro, tranne il fatto che ogni tanto alcuni bambini, dallo zelo indiscreto di pie domestiche, venivano clandestinamente battezzati, nonostante gli espliciti divieti delle autorità governative.
Una di queste conversioni, certamente anch'essa preparata da qualche anima pia, fu quella di Regina del mare. La mattina del 4 agosto 1756, nella famiglia ebraica Foa' (quello stesso di cui abbiamo parlato sopra), non si trovò la giovinetta quindicenne Regina del mare, che, orfana di padre, abitava con la madre nella casa dello zio. Dalla famiglia si ricorse subito al governo ed all'ecc.mo Giovanni Francesco Brignole, uno dei protettori per la nazione ebrea. In seguito alle ricerche fatte fu appurato essere stato motivo della fuga di detta giovane, la spontanea risoluzione di abbracciare la cattolica fede, esser seguita la fuga di nottetempo dalla casa dell'ebreo Foa' di lei zio, alla scorta di alcuni cristiani secolari. Cosi' nello stesso anno 1756 un bambino ebreo figlio di Mose' Accohen fu allontanato dai genitori, perché una domestica l'aveva celatamente battezzato; e due anni più tardi, nel 1758, lo stesso accadde alla bimba Marianna di anni 5 figlia di Primo Ebreo ed al bimbo Mose' figlio di Zaccaria Galfor.
Come si vede, data la frequenza di simili episodi, erano ben giustificate le severe proibizioni del governo, proibizioni che ritornano nei vari capitoli concessi agli ebrei, a cominciare da quelli dell'anno 1710 coi quali si apre il primo dei due registri degli atti della comunità, cui ho fatto cenno al principio di questo studio.
Un esame sommario di questi registri ci dà la possibilità di spinger lo sguardo nella vita interna del piccolo nucleo ebraico genovese, lungo il secolo XVIII. Appare chiaro che proprio al principio di questo secolo la comunità cercava di darsi un nuovo ordinamento interno, prendendo come base i capitoli di recente emanati che, non senza motivo, sono riprodotti integralmente all'inizio del primo registro degli atti. A tenore degli stessi capitoli, la comunità internamente era retta da due massari o capi della nazione ebraica, la cui elezione spettava alla comunità, ma che dovevano essere riconosciuti dalle autorità della repubblica e soprattutto dai protettori degli ebrei che, come ho rilevato, esercitavano una specie di controllo su tutte le attività della comunità ebraica.
Accanto ai massari che rappresentavano come il potere esecutivo della comunità, v'era un vaad o congrega, costituita dagli elementi più in vista della comunità stessa. Le sedute di cui i verbali ci danno notizia, sono sempre indette dai massari, ma ad esse intervengono anche i membri della congrega che partecipano alle discussioni sui vari argomenti, in merito ai quali si decide sempre per votazione (ballottazione). Nelle prime sedute del gennaio 1711, viene tra l'altro deciso di nominare una commissione di regolatori, col compito di redigere uno statuto o regolamento interno della comunità da approvarsi dalla comunità stessa ed una analoga commissione viene nominata per avere rapporti con le autorità governative, circa l'esecuzione dei nuovi privilegi e circa le trattative sulla località da scegliersi per l'erigendo ghetto. La custodia di questo era affidata ai massari che ne ricevevano in consegna le chiavi e che avevano la responsabilità dell'apertura e della chiusura alle ore stabilite.
Nessun cristiano avrebbe potuto trattenersi di nottetempo nel ghetto, dopo la sua chiusura, senza speciale licenza, e delle infrazioni a questa regola i massari erano tenuti ad informare le competenti autorità.
Quanto agli ebrei, anche coloro che godendo di particolari privilegi avrebbero potuto abitare fuori del ghetto, non erano autorizzati ad erigere un oratorio o sinagoga a parte, ma avrebbero dovuto recarsi nella sinagoga del ghetto e quivi concorrere a tutte le spese necessarie per il mantenimento e per le sovvenzioni ai poveri ed ai forestieri di passaggio.
Nel ghetto gli ebrei potevano vendere qualsivoglia mercanzia, sia ad ebrei sia a cristiani, all'ingrosso e al minuto ed avevano altresì facoltà di esercitare le arti, ma con l'obbligo di osservare le leggi e costituzioni dell'arte. Data questa attività commerciale e professionale degli ebrei, era naturale che molte norme fossero emanate per regolarne lo sviluppo, sotto il controllo delle autorità.
Accadeva talvolta che, forse per ragioni di concorrenza, alcune arti o corporazioni fossero in contesa con gli ebrei: a metà del secolo XVII, le corporazioni che più si distinguevano in queste specie di dissidi erano quelle dei merciai, correggiai, venditori di panni e rigattieri. I capitoli perciò prevedevano che le cause e liti tra ebrei e cristiani fossero rimesse ai magistrati della città, pur restando sospese nei giorni di sabato o altri festivi; quelle invece che insorgessero tra ebrei ed ebrei, potevano essere rimesse al giudizio dei rabbini e massari, secondo gli usi della legge ebraica. Ai massari erano affidati anche altri importanti incarichi, da parte del governo, come, ad esempio, l'obbligo di denunciare al magistrato della consegna, l'elenco delle famiglie e i membri delle medesime residenti a Genova, o come l'obbligo di denunciare gli stranieri di passaggio per la città.
All'interno della comunità, si può dire che i massari avevano la responsabilità e la direzione morale ed amministrativa della medesima. Tra l'altro, essi dovevano seguire e vigilare la condotta degli appartenenti alla comunità, sia locali che stranieri, e ricorrere alle autorità per segnalare i casi per i quali si giudicasse necessario l'applicazione di sanzioni; dovevano inoltre procedere alla revisione degli statuti e delle costituzioni e farli approvare dai ser.mi collegi.
Circa l'andamento della vita interna del kaal e della sinagoga, era compito dei massari, esercitare un controllo esatto sui conti della hebra', regolare il bilancio interno, tenendo speciali registri di entrata ed uscita da consegnarsi poi ai massari subentranti in carica; dovevano altresì esigere la riscossione delle tasse, dei proventi delle Mizvod e delle offerte volontarie, con facoltà di obbligare i renitenti al pagamento, ricorrendo, se del caso, anche alle autorità. A loro spettava pure la distribuzione delle entrate, per sopperire ai bisogni del kaal e pertanto dovevano provvedere al pagamento della pigione della scuola o sinagoga e dell'inserviente addetto alla medesima, nonché a tutti gli accessori; del tempio, come illuminazione, ecc.; essi dovevano infine somministrare le elemosine ai forestieri di passaggio. I massari avevano anche ingerenza nello svolgimento della pubblica Tefilla' ed avevano facoltà di chiamare a sSeferi membri della comunità, di assegnare le tefillod dei giorni penitenziali (iamim noraim), di designare la persona che avrebbe suonato il Shofar.
I massari restavano in carica un anno, allo scader del quale, e precisamente dal 15 al 25 elul, essi proponevano l'elezione di altri due massari, scegliendoli tra gli appartenenti al kaal e che, come i loro predecessori, avrebbero esercitato l'ufficio a turno sei mesi per ciascuno.
Circa le altre cariche pubbliche della comunità, e specialmente quelle attinenti al culto, in uno dei primi verbali del 1700 si parla della necessità di avere un rabbino, un shochet e hazan, oltre ad un cancelliere per la registrazione degli atti. Da questa e da altre notizie, si desume che fino ad allora non si era provveduto in forma completa e organica ad assicurare il regolare svolgimento di tutte le attività religiose.
Su questo fatto aveva dovuto influire soprattutto l'esiguità delle risorse finanziarie della comunità, piu' volte lamentata nel corso dei verbali. In ogni modo, ad alcune delle cariche religiose si provvide e così, in un atto del 1770, si prende la deliberazione di nominare shaliah zibbur (pubblico ufficiante) effettivo, il signor Moise' Iacob Foa' e sochet e maestro il signor Abram figlio di Elia Foa', cancelliere della congrega. Per sopperire appunto agli oneri della comunità, i massari ed il vaad della medesima, decidono a più riprese l'applicazione di speciali forme di tassazione che, contenute in misura modesta in un primo tempo, sono poi aumentate progressivamente. Così nel 1712 si parla di una tassa di 40 soldi mensili che colpisce tutti i capi famiglia e di una percentuale del 10 % su tutti gli affari che sarebbero stati fatti dai correligionari e che doveva essere devoluta a pro dei poveri.
Il controllo di questa parte di proventi, spettava a un corpo di sensali, che, in numero di sei, dovevano tenere una speciale registrazione di tutti gli affari conclusi dagli ebrei. Un'altra specie di sopratassa, nella misura del 4 % sopra agli affari che i forestieri avrebbero concluso in Genova, viene applicata a beneficio del fondo per il riscatto dei prigionieri (pidijon shevuim) e la si giustifica con la motivazione che questa spesa non puo' esser sopportata da questo poco numero di nazione che qui si trova. Analogamente, i forestieri che fossero venuti in città per affari, avrebbero dovuto deporre 1/4 % dei loro proventi su compre e vendite, in una speciale cassetta apposta nell'atrio del tempio, con la pena di scomunica herem a chi avesse prevaricato. La solennità con cui viene presa questa decisione è attestata anche dalla compilazione di uno speciale testo ebraico che commina la severa pena ai trasgressori ed in genere a coloro che si fossero rifiutati di corrispondere la tassa stabilita dalla congrega.
Che l'anzidetta decisione non restasse lettera morta, ma fosse all'occorrenza applicata, si rileva dall'episodio di herem pronunciato in data 16 novembre 1715 contro certo Rahamin Cabib il quale viene interdetto dalla scuola sino al giorno di sabato prossimo, nel qual giorno venendo nella scuola domandera' in pubblico perdono a dio alla congrega ed al rabbino e poi si accettera' di nuovo la sua offerta.
Tuttavia queste ed analoghe misure coercitive non si dimostrano sufficienti a regolare stabilmente il bilancio della modesta comunità, tanto che questa, a metà circa del '700, dovette attraversare una grave crisi accompagnata da non meno gravi dissensioni interne. Per superare il difficile momento e per procedere a una revisione totale della contabilità, in data 11 dicembre 1769, furono nominati due commissari, nelle persone di David Vita Franco e Abraham Rodriguez Miranda da Livorno, che riscuotevano la completa fiducia del kaal. A revisione avvenuta, si sarebbero dovuti distruggere nel fuoco i vecchi registri della contabilità e si sarebbe iniziato un nuovo periodo di gestione amministrativa. Allo scopo di appoggiare su più solide basi l'avvenire finanziario della comunità, lo stesso Abraham Rodriguez Miranda ebbe l'incarico di raccogliere fondi eccezionali, rivolgendo un appello anche ad altre keillod, per la costituzione di un capitale base di almeno lire 3000, coi proventi del quale assicurare le spese occorrenti alla comunità.
Il sunnominato Abraham Rodriguez Miranda, assunto l'incarico, si rivolse per iscritto alle comunità sefardite di Amsterdam e Londra, per la richiesta di una congrua sovvenzione. Dalla lettera che diresse a quelle comunità, si deduce che la vita del piccolo nucleo ebraico genovese si doveva condurre stentatamente, anche in ragione dell'esiguo numero di coloro che lo componevano. Una riprova di ciò ci viene offerta dal ruolo dei componenti la nazione ebrea abitanti e commoranti in questa serenissima dominante, ruolo che in data 6 ottobre 1763 viene rimesso al signor cancelliere della consegna. Il ruolo, che è diviso per gruppi famigliari, non registra che circa 70 individui, la maggior parte dei quali residenti nelle vicinanze della Malapaga o presso alle muraglie di S. Marco. Questo nucleo, se non rimase sempre così esiguo, dovette subire solo lievi aumenti, verso la fine del secolo, ma, comunque, si ha ragione di ritenere che esso si aggirasse, durante il periodo qui considerato, fra i 100 e i 200 individui, e che pertanto la comunità di Genova fosse da annoverarsi fra le più modeste comunità italiane in quel tempo.
Da questa condizione essa era destinata poi a salire a maggior importanza durante il secolo XIX, ma soprattutto agli inizi del secolo XX, grazie al vigoroso incremento subito nel primo quarto di questo secolo, incremento che doveva portare di colpo la comunita' ligure in prima linea tra le comunita' italiane.
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"In un mio studio premesso a una pubblicazione sul tempio di Genova (Il nuovo tempio di Genova, con illustrazioni e notizie storiche, Genova, 1939) ho tratteggiato sommariamente il quadro della vita interna di questa comunità nel secolo XVII. Vorrei qui [intendi: in questo nuovo saggio] completare le linee di quel quadro storico e soffermarmi ancora sulla vita e l'organizzazione della comunità genovese nel secolo XVIII, attingendo sempre alla stessa fonte storica, cioè ai verbali relativi agli atti della comunita nel periodo accennato.
Uno dei registri contenenti questi verbali [i registri sono redatti in italiano (nota del 1999: essi sono quasi certamente andati distrutti nel periodo bellico), salvo alcune deliberazioni più importanti per la quale è conservata anche la redazione ebraica ] si apre con un interessante preambolo in ebraico che giudico opportuno riprodurre perchè dimostra chiaramente quale era il programma dei reggitori della comunità: quello di dare ad essa uno stabile ordinamento interno ed una disciplina organica da tutti accettata e da tutti seguita in unità di intenti.
Eccolo nella sua traduzione italiana quale si conserva nello stesso registro:
Con l'aiuto del cielo e con buona fortuna sia questo libro per le costituzioni et ordinanze che hanno destinato, decretato et accetato li ebrei per loro e per la sua discendenza e tutti quelli che s'agregheranno in questa università, non dovendosi preterire, da farsi et osservarsi da ogni abitante e domiciliato in questa nostra università e stabilito in questa serenissima dominante di Genova che Dio la conservi, che tutti noi con unanime et solo sentimento, con buon animo e tutto buon cuore, abbiamo destinato, col precetto del nostro patriarca Abramo che abbiamo concluso tra di noi, da sostenersi con unione e acciocché ognuno sia congiunto col suo compagno come fratello, senza potersi dividere e così verraà confermata la benedizione del patriarca Abramo, poserà sopra di noi, il moltiplicarsi, giorni et anni di vita, salute e prosperità, per secoli e con questo merito del mantenimento della pace e unione, Dio bene. Concederà ogni bene amen.
V'è una frase di questo testo che contiene, a mio avviso, una chiara allusione ad un provvedimento che dovette essere di notevole importanza per la comunità nella seconda metà del secolo XVIII; la frase è quella che suona: iskimu bi-vrith avraham asher hirshuhu venehe'm la-amod ba-perez.
L'aver sottolineato e contrassegnato la parola avraham non è senza scopo; d'altra parte le parole seguenti asher hirshuhu venehe'm non si spiegano se non con un riferimento a qualche fatto preciso che era a conoscenza dei capi della comunità e della comunità stessa. Il fatto, cui avevo accennato di sfuggita nel mio articolo sopra citato è il seguente:
La comunità di Genova che aveva attraversato verso la metà del 1700 un periodo di gravi dissensioni interne, decise nel 1769 (anno con cui si inizia il registro al quale appartiene il testo ebraico sopra citato) di nominare come deputato assoluto ed indipendente il signor Abraham Rodriguez Miranda di Livorno, affinché riorganizzasse la vita amministrativa della comunità e ne segnasse i nuovi indirizzi; è probabilmente a questo Abraham che si riferisce la frase del testo ebraico sopra citato e che dimostra quale fosse l'importanza del compito affidato a questo personaggio in un tempo particolarmente difficile per la comunità.
Che l'opera del Miranda fosse stata particolarmente apprezzata, se ne ha la riprova da una deliberazione di qualche anno piu' tardi (1774), a termini della quale, tenuto conto dei servigi resi alla comunità dallo stesso Miranda, si stabilisce di far recitare in onore di lui uno speciale mi she-bera'ch nei giorni festivi prima della lettura del Sefer. Uno degli atti compiuti dal Miranda, onde por fine a tutte le dispute che potevano insorgere tra i membri della comunità, fu quello di dare alle fiamme i registri della contabilitaà, in merito alla quale, sembra, regnavano gravi dissensi in seno alla comunità medesima.
Oltre a ciò egli provvide a interessare altre comunità, fra cui quelle di Amsterdam e di Londra, affinché concorressero mediante contributi e sovvenzioni a rialzare le sorti precarie del piccolo nucleo ebraico genovese.
Ma sopra tutto appare chiaro che il Miranda riuscì ad instaurare un periodo di vita più serena e più ordinata nella comunità; ciò è infatti confermato dalle parole con cui si apre una deliberazione dei massari (capi della comunità, regolarmente eletti in seno alla medesima e la cui nomina era sanzionata dalle autorita' della repubblica) dell'anno 1769: con il santo nome di dio pare che sia principiato a entrare e impossessarsi la pace in questa santa Kehilla' da tanto tempo già persa. Quest'opera di pacificazione e di coesione interna a cui attese il Miranda, sembra convalidata da un provvedimento emanato dai protettori degli ebrei in data 23 novembre 1770 e secondo il quale potevano essere allontanati dalla congrega e dalla sinagoga quegli elementi che con la loro condotta recassero pregiudizio al regolare andamento della vita in seno alla collettività ebraica.
Nello spirito di questo provvedimento fu deciso, qualche anno più tardi, di allontanare dall'ufficio di cancelliere e da qualsiasi altro incarico un tale David Buzi Accohen che col suo comportamento si era alienato gli spiriti di gran parte della comunità. Questi infatti aveva tenuto un atteggiamento di resistenza passiva allorquando, nel settembre 1773, era stata ratificata dai protettori la nomina a massari di Giuseppe Rosa e Moise' Foa'; come cancelliere della congrega, il David Buzi Accohen avrebbe dovuto fare le regolari consegne dei registri, carte e valori nelle mani dei predetti massari; egli invece, aiutato probabilmente da elementi ostili ai nuovi eletti, tentò di differire a tempo indeterminato l'operazione delle consegne, sicché fu necessario l'intervento del sotto cancelliere della ser.ma e di un aiutante della piazza accompagnato da sei granatieri, perché l'ordine di consegna venisse eseguito.
Questo fatto, che dovette suscitare grave rumore in seno al gruppo ebraico, portò al temporaneo arresto del principale colpevole e alla sua successiva totale esclusione da ogni carica e ufficio presso la comunità.
L'intervento delle autorità civili nell'episodio di sopra è un indizio di come queste appoggiassero e tutelassero l'opera ed il prestigio dei massari, specialmente quando si trattava di favorire il regolare svolgimento dell'attività interna della comunità. Così nel gennaio 1774 fu emanato un decreto dei protettori della nazione ebrea col quale, mentre si confermavano in carica i massari, si dava loro ampia facoltà di esigere le tasse dovute dai singoli, e si obbligavano i morosi e renitenti al pagamento, salvo minacce di pignoramento dei beni; con lo stesso decreto i massari erano autorizzati ad esigere il regolare rendiconto finanziario da coloro che erano incaricati delle riscossioni e dell'amministrazione delle entrate della comunità. Il provvedimento cui ho accennato è ricordato qualche anno più tardi come un importante strumento che aveva instaurato un'era di salda e sicura amministrazione e di più sano governo per la comunità.
Che questa fosse infatti essenzialmente preoccupata del regolare andamento finanziario, è dimostrato dalle numerosissime pagine dei verbali che si riferiscono appunto a questioni e pratiche di indole amministrativa. Del resto le preoccupazioni dei dirigenti la comunità, in questo campo, si giustificano facilmente quando si pensi che proprio in questo torno di tempo il numero complessivo dei componenti la nazione ebraica non raggiungeva neppure i cento individui, mentre relativamente gravi dovevano essere le spese occorrenti al regolare funzionamento della vita religiosa. Sarà interessante, a titolo di curiosità, riportare qui un prospetto delle spese necessarie alla comunità nell'anno 1774:
Nota delle spese certe e indubbitate che necessitano per tutto l'anno, le quali in forza e vigore delle deliberazioni non possano versarsi se prima non si sara' trovato l'assegnamento sicuro:
Pigione annuale per la presente scola Lire 110
Per il campo di sotterro '' 17
Per la locanda dei poveri '' 48
Per il sohet, ossia preparatore della carne '' 400
Per il servo e bidello, comprese le masot '' 145
Per i soldati di tutto l'anno '' 55
Per l'olio, cera '' 160
Totale Lire 935
Inoltre vi sono da considerarsi il continuo passaggio dei poveri passeggeri e le spese incerte per i quali articoli sono considerati l'offerte cotidiane.
Da questo quadro delle spese complessive, è possibile formarci una idea degli aspetti e delle condizioni della vita ebraica nella piccola comunità. Esaminando le varie voci sopra elencate, risulta anzi tutto (e questo è più volte confermato dagli atti dei verbali) che non esisteva ancora un Bet Akkaneset appartenente alla comunità come tale; le funzioni religiose si svolgevano nel locale situato presso le mura della Malapaga e per il quale si corrispondeva un canone di fitto annuo; la stessa sede, che più tardi sarà acquistata dalla comunità, serviva anche per le ordinarie riunioni della congrega.
Quanto al cimitero, mi riservo di parlarne piu' avanti a proposito di un'importante iscrizione ad esso relativa. Della locanda dei poveri qui menzionata, si hanno dei riferimenti a proposito delle trattative intercorse per l'acquisto di un locale che dovesse essere adibito ad ospizio per i poveri bisognosi; il locale che era stato scelto nei pressi del tempio e ove si sarebbe dovuto costruire il mikve' e il forno per la fabbricazione delle mazzot, fu poi scartato perché inadatto e ceduto in affitto a Samuele Nataff e Ottavio Rabbeni, due membri della congrega che si impegnarono ad installarvi a loro spese il mikve' suddetto.
La preparazione delle carni rituali, come una delle più importanti norme della vita ebraica, interessava da vicino i dirigenti la comunità i quali, come ci attestano i registri, provvedevano a stipulare speciali contratti con i fornitori e si preoccupavano che il pubblico fosse soddisfatto sia delle carni macellate, sia dei prezzi delle medesime. Una speciale tassa o gabella sulla carne è stabilita con una decisione dell'anno 1712, tassa che è imposta a tutti gli ebrei dimoranti della città ai quali resta vietato l'acquisto della carne se non in presenza del shohet stesso che deve fare riconoscere il siman rituale e controllare il pagamento della tassa stabilita.
Non risulta dallo specchietto delle spese l'esistenza di una scuola o talmud Torah per l'insegnamento dell'ebraico ai ragazzi; essa però certamente funzionava in forma embrionale e di ciò si ha conferma dalle frequenti allusioni ad un fondo talmud Torah per il quale era nominato uno speciale gabbai o tesoriere e inoltre perché spesso si fa menzione dell'insegnamento dell'ebraico da impartirsi ai bambini e che viene tenuto in un primo tempo dal shohet e hazan, piu' tardi dal rabbino.
Del rabbino si parla nei verbali dell'anno 1782 e si ricorda il nome del rabbino Beniamino Foa' che partecipa alle riunioni della congrega e che si unisce ai massari nell'emettere ordini e decreti.
Dall'esame di questi modesti aspetti della vita della comunità, risulta che essa andava lentamente organizzandosi; così, verso l'ultimo quarto del secolo XVIII, si addivenne alla stipulazione di un regolamento interno per la comunità, regolamento che era stato previsto e deciso dagli stessi capitoli concessi dalla repubblica fin dal 1711, ma che finora non era stato portato a compimento.
In una petizione presentata dai massari ai ser.mi collegi e per essi ai protettori della nazione ebrea in data 30 gennaio 1774, si chiede l'approvazione di uno schema di regolamento e ci si riferisce appunto al paragrafo 30 dei privilegi concessi dalla repubblica, secondo i quali devano gli ebrei formar li capitoli per il buon governo ed assicurarne l'osservanza; si comproveranno dai ser.mi collegi quali ordineranno che possino li massari farli eseguire salva sempre l'autorità agli eccel.mi protettori anche per l'osservanza del contenuto delli presenti capitoli.
I regolamenti approvati stabiliscono anzitutto le modalità per le elezioni dei massari che dovevano avere luogo prima dell inizio del nuovo anno ebraico. Gli eletti che rifiutassero di accettare la carica erano sottoposti ad una sanzione pecuniaria che doveva esser pure corrisposta, in proporzione diversa, da coloro che si esimessero dalle altre cariche, come quella di tesoriere generale, gabbai di zedaka', gabbai di talmud Torah, ecc.
I membri della congrega non potevano essere più di sette e da essa erano esclusi coloro che avessero commesso colpe o reati. Le sedute della congrega erano indette dai massari e da essi presiedute; dopo gli argomenti o proposizioni trattate, ciascun altro membro della congrega aveva diritto di avanzare proposte e di promuovere la discussione. Le decisioni erano prese a maggioranza di voti.
Le scritture e gli atti della congrega dovevano essere conservati dal cancelliere e non se ne poteva rilasciare copia se non col consenso dei massari.
Era stabilita la nomina di un camerlengo generale per tutte le entrate; questi non poteva fare spese se non con l'approvazione di almeno un massaro e doveva alla fine di ogni anno riferire alla congrega sulla gestione passata, facendola approvare. Alla fine di ogni mese il camerlengo doveva riscuotere tutti i debiti, offerte, pene pecuniarie, ecc.; per i renitenti o morosi si applicava il decreto secondo il quale i beni dovevano essere pignorati.
Non era consentito a chicchessia aprire un oratorio o riunirsi in una casa con minian, all'infuori della sinagoga; si facevano eccezioni per le cerimonie private, come matrimoni e orazioni in suffragio dei defunti.
Ogni ebreo che veniva a stabilirsi nella città era sottoposto a una tassa straordinaria per l'iscrizione alla comunità; questa tassa era stabilita di volta in volta dalla congrega e doveva essere corrisposta prima della notifica del nuovo domiciliato al magistrato della consegna (addetto alle registrazioni anagrafiche). Per gli ebrei di passaggio, che però si trattenevano alcuni mesi nella città, si doveva applicare, dopo un mese di permanenza, una tassa mensile fino alla concorrenza di lire sei al mese, oltre il 4 % sugli introiti di carattere commerciale.
Le tasse ordinarie erano fissate ogni triennio; esse non potevano essere variate che in casi eccezionali, su richiesta motivata da parte dell'interessato.
Coloro che col proprio atteggiamento avessero recato pregiudizio alla tranquillità e all'ordine della comunità o coloro che non avessero il dovuto rispetto verso i massari, potevano essere esclusi dalla comunità fino a sei mesi e non potevano essere riammessi, se non facendo ammenda innanzi a tutto il kaal.
Quanto alle pubbliche /i>tefillot, si sanciva che non dovevano essere alterati gli usi vigenti, secondo quanto era stato stabilito nel dicembre 1769; circa quest'interessante paragrafo relativo al minag locale, si ha modo di stabilire che esso doveva uniformarsi a quello seguito nella comunità di Livorno. Questo principio era riaffermato spesso e applicato anche in tutte le altre questioni di carattere religioso.
Ho accennato sopra che mi sarei soffermato a parlare più estesamente del cimitero della comunità nel 700. A questo proposito ci fornisce particolari notizie un'ampia iscrizione perfettamente conservata e che si trovava apposta nel vecchio tempio della Malapaga. L'iscrizione è molto interessante anche dal lato stilistico, perché abbonda di frasi e riferimenti a passi biblici e descrive minutamente l'ubicazione dell'antico cimitero della comunità, offrendo notevoli spunti per la ricostruzione topografica di esso e di tutta la zona nelle cui adiacenze veniva a trovarsi. Ecco il testo dell'iscrizione nella sua traduzione italiana:
A ricordanza per i figli d'Israele e per i Cohanim figli di Aaron, onde uno non abbia a contrarre impurità, in mezzo al suo popolo, nel luogo ove esisteva il cimitero in questa città di Genova (poi trasferito altrove) e ciò non sia causa di dolore e di rimorso.
Ed eccoti indicata a dito la località: uscendo fuori dalla città per la porta chiamata Portello, ti trovi dinanzi a tre vie: da un lato e dall'altro il monte e in mezzo un'alta strada. Piegando a sinistra e salendo in direzione del monte, vedrai una piscina: proseguendo fino a un punto da dove si scorge la sommità, troverai in direzione di questa un ponte che è eretto su due grandi porte aperte al di sotto di esso. Quindi la strada sbocca in una più ampia zona; alla destra di questa v'è una salita, alla sinistra una discesa che è appunto la discesa del cimitero che esisteva prima o che collimava con le mura della città che in quel punto girano formando la figura di una grande het.
Il terreno del cimitero si estende da un'estremità all'altra rispetto alla lunghezza (della het) e per metà dell'area rispetto alla larghezza (della het).
Questa è la zona dalla quale ti terrai lontano. Perciò, giunto all'altezza del ponte da questo lato (cioè provenendo dall'interno della città) tieni una sola direzione a destra nella salita, e non a sinistra; e salendo invece dalla parte delle mura, tieni la sinistra e non la destra, perché santo tu sei.
Questa pietra sarà posta nel tempio per testimonianza, affinché ogni Cohen sappia guardarsi e trattenga il suo piede dall'inciampare nell'impuritaè e non si renda colpevole. Oggi per ordine delle autorità della comunità, 12 adar 2° 5562 corrispondente al 16 marzo 1802.
Come risulta chiaramente dal contesto, l'iscrizione è stata dettata con l'intento di avvertire i Cohanim a tenersi lontani dalla zona del cimitero e a non contrarre impurità avvicinandosi alla sua area. Se si era sentito il bisogno di questo particolare richiamo, ciò dimostra che il cimitero cui allude l'iscrizione non doveva essere più facilmente riconoscibile, forse per nuove costruzioni venute ad aggiungersi in quella zona o forse perché non era più nettamente circoscritto in limiti ben definiti.
Probabilmente già al tempo cui si riferisce l'iscrizione (1802), una parte delle sepolture che si trovavano nel cimitero dovevano essere state trasferite altrove, e di ciò si ha infatti conferma, perché una nota apposta ai verbali in data 1° marzo 1830, risulta che in seguito a un sopralluogo fatto nella località del cimitero, poterono essere decifrate appena undici lapidi, tutte, appartenenti al 1700, mentre, per le altre, si ricorda che parte erano rotte, parte indecifrabili.
Quanto alla posizione del cimitero è possibile ricostruirla con grande approssimazione seguendo il testo stesso dell'iscrizione e attenendoci a quella che è l'odierna configurazione topografica della zona. Prendendo dunque come punto di partenza quella che è oggi piazza Portello (allora porta della citta') e proseguendo lungo il lato sinistro dell'allora collina, oggi salita di S. Girolamo, si ritrova ancora la piscina d'acqua cui allude l'iscrizione, e verso la fine della stessa salita, s'incontra pure il ponte eretto sulle due porte sottostanti; di qui il tratto è breve per giungere all'odierna spianata di Castelletto ove, al lato destro, anche oggi si può scorgere una salita (forse l'odierna via Accinelli) e al lato sinistro una discesa che portava all'area del campo cimiteriale, in perfetta contiguità con le mura che allora ivi sorgevano.
Dell'identificazione topografica del cimitero ho potuto trovare un' interessante conferma in un rapporto ai sindaci del comune redatto da tale Vincenzo Ricci in data 22 giugno 1844, allo scopo di stabilire i titoli comprovanti il dominio del comune su tutti i fossi adiacenti alla cinta murale.
Dice dunque, tra l'altro, il rapporto: basti accennare che da una esposizione della nazione ebrea residente in Genova in data 3 luglio 1704 risulta che fino da tempi remotissimi era stato permesso dai padri del comune di stabilire il cimitero degli ebrei fuori della porta del portello in fosso contiguo alle vecchie mura mediante un annuo canone.
Insorte lagnanze per parte delle monache turchine della sant.ma incarnazione e dei padri di san Francesco venne scelta altra adiacente località. Con istrumento del 22 aprile 1705 in atti del notaro Bernabo' venne da detto magistrato (si allude alla magistratura dei padri del comune che allora rappresentavano il municipio) concesso a Jacob Levi e Samuel Lusena come procuratori della nazione ebrea un terreno posto sotto il secondo baluardo di castelletto per l'annuo fitto di lire 30 da servire da cimetero.
Da questo rapporto risulta, quindi, confermata l'ubicazione del cimitero nella zona di Castelletto lungo il perimetro murale; questa posizione però avrebbe variato in località contigue, essendo stata dapprima in una zona assai prossima al convento delle monache turchine e piu' tardi sotto i bastioni di Castelletto.
Come abbiamo rilevato sopra, il cimitero della zona di Castelletto dovette servire alle inumazioni per tutto il secolo XVIII; infatti coi primi anni dell'800 ci è confermata l'apertura del nuovo cimitero detto de la cava dalla località ove si trovava e che era situato in prospicienza del mare al termine di quella che è oggi denominata via Corsica presso l'attuale lungomare Aurelio Saffi.
In questo cimitero avvennero le tumulazioni fino a tutto l'anno 1886, quando, in seguito a deliberazioni del consiglio provinciale di sanità, si proibirono le inumazioni in quella zona perché nuove costruzioni dovevano essere erette in quei paraggi. D'allora fu offerta alla comunità la nuova area cimiteriale presso il grande cimitero di Staglieno ove piu' tardi vennero sistemate le salme esumate dal vecchio cimitero espropriato.
Prima di chiudere queste notizie storiche sulla vita della comunità nel 700, vorrei accennare a un fatto che è da considerarsi di notevole importanza negli annali della comunità agli inizi dell'800; intendo riferirmi all'acquisto stabile del locale del tempio che, come abbiamo notato sopra, era stato affittato per tutto il secolo precedente. In una deliberazione dell'ottobre del 1828 si stabiliscono le modalità per l'acquisto del tempio e si decide che alcuni tra i capi della comunità si impegnino ad anticipare la somma necessaria, da reintegrarsi poi con offerte volontarie. In questa lodevole iniziativa emergono i nomi di tre personaggi: Abraham Vita Modena, Mose' Altaras e Graziadio Minerbi che, come ci attesta un'iscrizione ebraica in loro onore, furono l'anima di quella iniziativa ed ebbero il merito di condurla a felice compimento.
L'opera da loro svolta dovette essere certamente difficile, quando si pensi che da un elenco nominativo degli ebrei dimoranti a Genova alla data 18 febbraio 1823, risultano iscritti alla comunità 112 individui. Tuttavia, nonostante l'esiguità del numero, possiamo notare che, a partire dall'anno in cui fu presa la deliberazione anzidetta, i membri della comunità si obbligano periodicamente a corrispondere una tassa volontaria per il riscatto del tempio e per alleviare gli oneri della comunità. Questa continua a reggersi con le norme che abbiamo sopra esaminate; si nota però, nei primi decenni del nuovo secolo, che un corpo di tre deputati o direttori viene a costituire come l'organo esecutivo della congrega e finisce poi per sostituirsi a questa. I tre deputati sono i rappresentanti della comunità, ne proteggono e ne tutelano gli interessi ed esercitano il loro ufficio per tre anni.
Quest'ordinamento è confermato per tutta la prima metà dell'800 e rimane in vigore fino a quando nel luglio 1857 fu emanata la nuova legge per le comunità del regno di Sardegna nel cui quadro rientrò anche la comunità di Genova che da allora si resse con gli statuti e regolamenti relativi alla legge anzidetta alla quale, come noto, si uniformarono parecchie comunità di altre province italiane".
CONCILIO NICENO II (787) - CANONI - CANONE VIII:
Non bisogna accogliere gli Ebrei che non si convertono sinceramente
"Poiché quelli che appartengono alla religione ebraica, errando credono di potersi far beffe di Cristo Dio, fingendo di vivere da Cristiani, e invece lo negano, celebrando di nascosto i loro sabati e seguendo altre pratiche giudaiche, disponiamo che costoro non debbano essere ammessi né alla comunione né alla preghiera né in chiesa.
Siano apertamente Ebrei secondo la loro religione!
Stabiliamo anche che non si devono battezzare i loro figli, e che essi non possono acquistare né possedere servi.
Se qualcuno di loro però si convertirà con fede e con cuore sincero e crederà con tutto il suo cuore, abbandonando i loro costumi e le loro azioni affinché anche altri possano essere ripresi e corretti, egli e i suoi figli potranno essere accolti, battezzati e aiutati perché si astengano dalle superstizioni ebraiche, altrimenti non siano ammessi" (leggi così in ALBERIGO, Concilio Niceno II, canone VIII).
"Riccardo Pacifici era rabbino capo della comunità israelitica di Genova, quando, nel novembre del 1943, venne deportato dai nazisti. Egli fu una delle personalità più notevoli fra gli ebrei italiani, negli anni fra le due guerre e nel periodo delle persecuzioni antisemite, e la sua tragica scomparsa fu per l'ebraismo italiano una gravissima perdita.
BIBLIOGRAFIA DI R. PACIFICI
L'antico cimitero ebraico di S. Nicolo' di Lido, in collaborazione con A. Ottolenghi, estratto dalla rivista "Venezia" , maggio 1929.
Nato a Firenze il 18 febbraio 1904, visse nella sua città fino alla conclusione degli studi; si laureò brillantemente in lettere nel 1926 e l'anno successivo conseguì il titolo di chakham ha-shalem, rabbino maggiore, presso il collegio rabbinico di Firenze, dove aveva avuto come insegnanti i rabbini Zwi Margulies, Elia S. Artom e Umberto Cassuto. Nel 1928 fu chiamato a Venezia a ricoprire la carica di vice rabbino della comunità israelitica di quella città, dove, giovane e dinamico qual era, diede impulso alla vita culturale ebraica.
Dopo essersi sposato a Pisa, il 24 agosto 1930 con Wanda Abenaim, che gli fu vicina, compagna intelligente e amorevole, in tutte le vicende della sua breve vita, si trasferì a Rodi, dove era stato invitato dalla locale comunità per assumere la direzione del collegio rabbinico. L'opera di educatore allora iniziata si confaceva in modo particolare alla sua personalità: insegnante eccellente, buon psicologo, sensibile e comprensivo di fronte ai problemi dei giovani affidati alle sue cure, svolse in quegli anni un'attività preziosa e si guadagnò una stima ed una fama che superarono largamente i confini dell'ambiente in cui viveva.
Resasi vacante la cattedra rabbinica della città, dopo la morte del gran rabbino Ruben Eliahu Israel, a lui fu affidata l'alta carica di gran rabbino di Rodi, che egli ricoprì, con capacità e con il senso di responsabilità che gli era proprio, fino al 1936. In quell'anno lasciò l'isola egea per trasferirsi a Genova,dove assunse la carica di rabbino capo e dove, profondamente stimato e amato dai correligionari e conosciuto nei vari ambienti cittadini per la sua forza d'animo e per la sua integrità, rimase fino al momento della sua deportazione. Morì ad Auschwitz (Polonia) il 12 dicembre 1943, come risulta dalla testimonianza scritta, resa nel 1951 da Enzo Levy (deceduto nel 1958), suo compagno di deportazione, che si trova presso il comitato ricerche deportati ebrei (lungotevere Sanzio 9 - Roma).
Dotato di una profonda cultura umanistica, maestro di dottrina ebraica, secondo la più bella tradizione rabbinica, educatore per vocazione, Riccardo Pacifici, durante i quindici anni della sua attività di rabbino e di insegnante, non trascurò mai gli studi e, nonostante le numerose preoccupazioni derivanti dall'adempimento dei suoi compiti, riuscì a portare a termine non pochi lavori, che costituiscono il frutto delle sue ricerche e dei suoi studi, come risulta dalla bibliografia che citiamo in calce.
L'uomo di cui oggi vogliamo ricordare la figura offrì a chi lo conobbe, a chi lo ebbe vicino, amico e maestro, un esempio di armonico sviluppo della personalità, esempio che non rimase senza echi significativi: oltre a tutti coloro che dal ricordo di lui e del suo insegnamento traggono ancora oggi un incentivo allo studio e all'azione, va ricordato che un suo allievo di Rodi, Moise Levi, uno dei pochissimi sfuggiti alle deportazioni e alle stragi effettuate nell'isola dai nazisti, divenne gran rabbino a Leopoldville (Congo).
Ma la sua tempra, il suo coraggio, il suo alto senso di responsabilità si rivelarono soprattutto durante gli ultimi anni che Riccardo Pacifici visse a Genova. Correvano tempi difficili, duri per tutti, ma soprattutto per gli ebrei; gli eventi di allora, di giorno in giorno sempre più gravi, fiaccarono non poche coscienze, molte ne costrinsero a ripiegarsi sterilmente su se stesse, alcune, solo alcune, ne rafforzarono, spingendole fino all'eroismo. Fra queste ultime va annoverata la personalità di Riccardo Pacifici.
Egli era allora il rabbino capo: di fronte alle crescenti difficoltà che si opponevano, come ostacoli quasi insormontabili, allo svolgimento della sua attività, tutta tesa al bene degli ebrei genovesi e di molti altri che giungevano profughi dai paesi d'Europa devastati dai nazisti, egli, anziché desistere dalla lotta, piegare il capo sotto il peso delle circostanze, seppe sempre trovare la forza per risolvere gli innumerevoli problemi che senza posa gli si presentavano.
Fin dal 1938 si dedicò con passione e con eccezionale decisione a risolvere il problema grave, ampio e quanto mai sfaccettato della educazione dei bambini, dei ragazzi e dei giovani ebrei, improvvisamente scacciati da ogni ordine di scuole, che correvano, in età critica e delicata, il rischio peggiore di sbandamenti dalle incalcolabili conseguenze: egli non soltanto si prese cura della scuola elementare già esistente (organizzata per ragioni logistiche nella stessa scuola pubblica di via Ricci), ma riunì intorno a sè un gruppo di docenti e diede vita a corsi di scuola media e superiore di tutti i gradi e, per i giovani ai quali era ormai preclusa la via degli studi universitari, organizzò, sia nei locali della comunità, sia in casa propria, numerosissime riunioni, con lo scopo, pienamente raggiunto, di aiutarli a veder chiaro nella loro coscienza, a formarsi una cultura, non soltanto ebraica, a diventare uomini consapevoli delle proprie possibilita' e responsabilità. Il suo esempio di fermezza e di serenità fu luminoso: solo grazie alla sua attivita' indefessa i giovani di allora, gli uomini d'oggi che lo ricordano con amore, seppero dare alla loro vita, nonostante tutto, un sano, giusto equilibrio.
Altrettanto impegnativo e altrettanto serenamente affrontato, fu per lui il problema dei profughi, che giungevano numerosissimi a Genova, sede centrale della delasem (delegazione assistenza emigranti): alcuni, pochi, restarono a Genova per un certo periodo, prima di riuscire ad emigrare in vari paesi extraeuropei, altri, la maggior parte, vennero raccolti in campi di concentramento nell'Italia meridionale. Il rabbino Pacifici aiutò moralmente e materialmente gli uni e gli altri senza risparmiare energie e le testimonianze di chi ebbe il suo appoggio in quel periodo sono numerosissime.
Dietro richiesta dei profughi stessi, dopo aver ottenuto il permesso del governo italiano, egli soggiorno' per qualche tempo negli stessi campi di raccolta, specialmente a Ferramonti (per tre volte, marzo '42, ottobre '42, luglio '43, come risulta dalla testimonianza scritta della sorella Giuditta Orvieto), offrendo agli internati la sua validissima assistenza morale e religiosa e aiutando, anche lì, i suoi fratelli ad organizzare scuole e biblioteche, affinché la vita culturale continuasse e quindi non si spegnesse quella forza d'animo che solo la lucidità dell'intelletto può tener viva. E la sua assistenza, anche da lontano continuò fino al momento in cui, con l'avanzare del fronte, le comunicazioni furono interrotte e i campi liberati dalle truppe di occupazione alleate.
In questa sua attività a favore dei profughi egli agì in collaborazione con altri dirigenti della delasem, in particolare l'Avv. Lelio Valobra, il rag. Raffaele Cantoni e il sig. Bernardo Grosser, i quali hanno reso delle ampie testimonianze.
Dopo l'8 settembre '43, quando ormai pericoli sempre più gravi incombevano sugli ebrei, Riccardo Pacifici, nonostante le pressanti insistenze dei familiari e dei suoi collaboratori che, sapendo quanto egli si esponesse nello svolgimento della sua attività, volevano che si mettesse in salvo allontanandosi da Genova, non volle abbandonare la sua comunità. Accompagnò in Toscana i figli e la moglie (anche lei deportata, un mese dopo l'arresto del marito, da un convento fiorentino dove aveva trovato asilo) e subito dopo riprese il suo posto in mezzo agli ebrei genovesi. Continuò a prodigarsi per i suoi fratelli fino a quando una mattina di novembre, il tre, le SS tedesche fecero irruzione nella sinagoga, sorpresero il custode, sig. Polacco (deportato poi con tutta la sua famiglia) e lo costrinsero, sotto la minaccia delle pistole, a convocare telefonicamente in comunità, come se nulla fosse accaduto, il rabbino, i consiglieri, tutti gli ebrei che potevano essere rintracciati. Riccardo Pacifici cadde nella trappola e partì per la deportazione senza ritorno.
Un cippo marmoreo davanti alla sinagoga di Genova, una lapide nell'atrio della stessa sinagoga e un'altra lapide all'entrata del cimitero ebraico di Staglieno ricordano il nome e l'opera del rabbino Pacifici; ma soprattutto la sua memoria vive, egli vive per sempre in mezzo ai giovani, che tanto amò, fra i ragazzi della scuola ebraica di Genova, che dal 1945 è intestata al suo nome. Dal luglio 1966 il comune di Genova ha intestato al nome di Riccardo Pacifici una piazza nel centro cittadino. [Commemorazione di Aldo Luzzatto].
La dottrina della retribuzione nei profeti nel secolo VIII, estratto dalla rivista "Bilychnis" , Roma, 1930.
I regolamenti della scuola italiana a Venezia nel secolo XVII, in "Rassegna mensile Israel ", V (1930), fasc. 7-8, pag. 392.
Un gruppo di poeti ebrei italiani nel secolo XVIII, in "Idea sionistica", II (1931), fasc. 4-5 (settembre), pag. 15.
Storia sulla vita degli ebrei di Rodi, in "Rassegna mensile Israel", VIII (1933), fasc. 1-2, pag. 60.
Relazione generale del collegio rabbinico di Rodi, Rodi, 1935.
Le iscrizioni dell'antico cimitero ebraico di Venezia, Alessandria d'Egitto, 1936.
Il nuovo tempio di Genova, con illustrazioni e notizie storiche sulla comunita' nei secoli XVII e XVIII, Genova, 1939.
Fatti e personaggi biblici alla luce del pensiero ebraico (antologia di Midrashim scelti e tradotti), Genova, 1943.
Vita e ordinamento interno della comunità di Genova nel secolo XVIII (opera postuma con prefazione di D. Lattes), in "Rassegna mensile Israel" , XIV (1948) , fasc. i, pagg. 25-36.