cultura barocca
ROIA

FIUME ROIA E COMPLESSO DIFENSIVO MEDIEVALE DI VENTIMIGLIA

Il FIUME nasce presso il Colle di Tenda, scende lungo il versante meridionale delle Alpi Marittime ed ha la sua foce a Ventimiglia: la foce è molto variata rispetto ai tempi passati quando il fiume sboccava in mare a varie centinaia di m. verso levante rispetto all'attuale (congiungendosi colle acque del modesto "Rio Resentello" e permettendo quindi la formazione di un Porto canale.
Il ROIA (il cui nome deriva verismilmente dall'adattamento linguistico del ligure-romano Rutuba, ha un percorso di circa 59 km. con un bacino pressapoco di 660 Km quadrati> dalla fine della II guerra mondiale l'alto e medio corso si trovano in territorio francese: importante, in rapporto al fiume, oltre la recente e controversa (per la lunga interruzione posteriore sempre al II conflitto mondiale) "strada ferrata" che porta in Piemonte, dopo esser passata in territorio Francese e quindi rientrata in quello italiano) è la VIA STRADALE DEL ROIA che da una semplice ricognizione, tanto su documenti che sul campo, risulta esser stata infruibile, data l'asprezza, per millenni e che fu realizzata in tempi relativamente recenti e resa sicura soprattutto dopo gli interventi sabaudi e le ristrutturazioni connesse alle opere pubbliche del programma viario (dalla II metà del secolo scorso) dello Stato italiano unitario.




Prescindendo da torri, case-torri, fortilizi vari, MURAGLIE, strutture militari diverse il sistema difensivo di Ventimiglia medievale e postmedievale e del suo territorio era imponente.
Il documento più antico in cui sono stati individuate le strutture difensive (oltre che la cinta muraria ed il complesso demico di Ventimiglia) è un'illustrazione di un quaderno cartaceo conservato in A.S.G., Archivio Sefret, n.272/40, risalente all'11 giugno 1350, che per praticità e giustezza si definirà CARTA PALMERO dall'instancabile studioso locale e agitatore intellettuale di vita culturale ventimigliese GIUSEPPE PALMERO che, a capo e guida di una squadra di specialisti di cose locali, ha dato grossi contributi alla conoscenza storica di Ventimiglia e territorio (ha editato questa carta in un suo SAGGIO SULLA TOPOGRAFIA INTEMELIA):
Nel territorio di CITTA' specificatamente, da tale documento, si riconoscono:
1-CASTEL D'APPIO.
2-CASTELLO DEL COLLE.
3-CASTELLO DELLA ROCCA.
4-"TORRE NUOVA".
5-CASTELLO DI PORTILORIA.
In succesive documentazioni cartografiche si individuano poi:
1-FORTE SAN PAOLO
2-FORTE DELL'ANNUNZIATA
Altre strutture militari interessanti del circonsario:
1-CASTELLO DI TENDA.
Particolare struttura difensiva e di controllo viario:
PORTA CANARDA

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Destinato a caratterizzare il paesaggio intemelio fu poi il riadattamento nel 1625 del FORTE SAN PAOLO (già intervenuto a surrogare i decrepiti castelli medievali), di cui restano, dopo lo smantellamento di fine dell'Ottocento, parti delle strutture. Nelle cartografie del '600 è rappresentato come un complesso quadrangolare potenziato ai lati da baluardi e circondato da un fossato e cortine di controscarpa.
Per una serie di contingenze e di utilità pratiche dal forte S.Paolo, alla stregua di un'emanazione strategica, verso i primi decenni dell''800, si sarebbe evoluto l'importante complesso fortificato noto col nome di FORTE DELL'ANNUNZIATA, destinato ad ospitare per un certo periodo il futuro diplomatico dell'unità italiana, Camillo Benso di Cavour, che qui sarebbe stato di stanza per una parte del suo servizio militare.
All'interno del castello di S. Paolo infatti, oltre ai vari ambienti specifici per servizi, stava dal XVI sec. una cappella curata dai padri del MONASTERO DELL'ANNUNZIATA: questo complesso religioso, dei Minori Osservanti di S.Francesco, era stato eretto nel 1503 ma, dopo secoli di fruttuosa vita spirituale, nel 1831 sul luogo del monastero venne edificato il FORTE DELL'ANNUNZIATA che andò a costituire un VARIEGATO SISTEMA DI DIFESA di Ventimiglia e da cui, per via di camminamenti sotterranei, si poteva accedere al sito più elevato di forte s.Paolo [attualmente il forte, da molto tempo soppresso e destinato a vari usi, è sede di varie strutture culurali e di pubblica utilità, tra cui ricopre un ruolo significativo, per la ricchezza dei reperti romani, il Civico Museo Archeologico.
Ebbe notevole, seppur non fausto, ruolo come base difensiva delle truppe Gallo-Ispane durante la Guerra di successione al Trono Imperiale di metà settecento.
L'indagine storica ha provato l'importanza strategica delle valli del Nervia e del Roia.
Per questo, accanto a piccoli centri rurali, quasi in ogni tempo in queste contrade fiorirono castelli e fortificazioni.
Tra i castelli il più celebre è oggi forse quello dei Doria in Dolceacqua, nella val Nervia: ma era forte di fondovalle, utile solo in epoca medievale, subito superato appena le moderne artiglierie presero il sopravvento su catapulte e bombarde, pseudomortai che, da sotto le mura, esplodevano verso l'interno oggetti contundenti, pietre di fiume, rimasugli d'armi inutilizzabili.
Fra le linee di fortificazione la barriera militare più efficace fu probabilmente quella realizzata dagli austro-sardi del Leutrum ai tempi della guerra di successione al trono imperiale d'Austria (XVIII sec.: si estendeva dalle piane di Nervia e Vallecrosia sin a Pigna ed oltre ancora, lungo un succedersi di forti imprendibili, posti su alture dominanti: v. R. CAPACCIO - B. DURANTE, Marciando per le Alpi...., Gribaudo [Paravia], Cavallermaggiore, 1993.
La valle del Roia ha vissuto una storia alternativa di fortezze e castelli rispetto a quella del Nervia: una storia forse più drammatica per la gravità strategica dei luoghi e per le lotte sostenute onde difendere quei forti e la loro funzione strategica.
Ventimiglia (sia che fosse Contado, Comune o Capitanato) ebbe sempre cura di questi suoi baluardi: verso levante in verità, così si riteneva nell'Età di Mezzo, per proteggere Ventimiglia alta bastavano le barriere naturali di Nervia e Roia e fra questi il castello di Portiloria.
La PORTA CANARDA guardava invece la strada che procedeva verso la Francia.
Ma la città di costa temeva il pericolo (soprattutto sabaudo e piemontese) che giungesse dalle gole di Saorgio, per la valle del Roia in cui si alternava varietà di caratteristiche: crudi paesaggi di fondovalle ("gole", di Berghe, Gaudarena, Saorgio, "Paganen" dove il Roia si scavò un passaggio a fatica) e abitati d'importanza storica (Tenda o Saorgio, Airole, Libri, Piena, Briga, Morignolo e Viévola.
Della TURRIS NOVA ("torre nuova") si ignorava l'esistenza fino a tempi recentissimi, quando G.PALMERO ne ha dato rendiconto in suo saggio: alla nota 145 dello stesso, commentando la CARTA CONSERVATA NELL'ARCHIVIO DI STATO DI GENOVA da cui ha ricostruito questa ulteriore struttura difensiva l'autore ne ha ricostruito topografia e logistica, in posizione baricentrica rispetto al "CASTRUM COLLIS", alla "PORTA CAYNARDA" e al "CASTRUM APII".
In relazione al CASTRO DI PENNA o PIENA esistevano, alle spalle di Ventimiglia, tre castelli che la proteggevano pei lati di costa e di val Roia: quelli di Appio, della Rocca, del Colle.
Le rovine di CASTEL D'APPIO, Castrum Apii, [che è qui possibile visitare in un breve tour seguendo la "freccia rossa" attiva sulle immagini del breve SERVIZIO FOTOGRAFICO curato da Ruggero Marro] appartengono all'architettura militare del XII sec.: si conservano il mastio poligonale in massi di puddinga ed una grande CISTERNA per il rifornimento idrico: si riconoscono tracce murarie di ripari ed ampliamenti (XIII-XIV secc.): non è mai stato facile individuare invece le strutture preromane e romane che la tradizione gli attribuisce e che si sono cercate soprattutto nella grande vasca (N.LAMBOGLIA, I monumenti medievali della Liguria di Ponente, Torino, 1970, p.17).
I dati più antichi sul castello si ricavano dai rogiti del notaio di Amandolesio che a metà '200 stendeva atti per procure di pagamento ai soldati, inventari di materiale e suppellettili, documenti di carico e scarico (allorché annualmente si sostituivano i due castellani genovesi , fra cui era diviso il materiale in dotazione).
Sulla base delle procure e degli inventari si ricava una media di minima e massima presenza, in questo e negli altri 2 forti intemeli, fra il 17-V-1260 ed l' 1-5-63.
Castel d'Appio in quanto a numero di ufficiali, guardiani di torre, balestrieri, serventi, portieri oscillò fra un minimo di 13 soldati ed un massimo di 23 sì da essere mediamente guardato da 18 militi, in genere reclutati fra mercenari di Corsica.
Il CASTELLO DELLA ROCCA raggiunse un massimo di 33 ed un minimo di 21, con una media di 25 soldati.
Il CASTELLO DEL COLLE (identificato dalla Costa Calcagno nel volume Castelli di Liguria col castro comitale intemelio) passando da un massimo di 39 ad un minimo di 20, per una media di 30, aveva la guarnigione più numerosa. Ciò risulta inversamente proporzionale alle possibilità di approvvigionamento e conservazione degli alimenti, ricostruite dagli inventari in base al numero dei contenitori presenti nei castelli.
La maggior quantità stava in Castel d'Appio (2 vegetes, 2 butes, 1 botexella parva), poi in quello della Rocca (3 butes di cui 2 tales quales) mentre nulla compare per il castello del Colle.
Tale differenza dipese dal fatto che questo era a contatto dell'abitato sì da condividerne le sorti per il vettovagliamento e di modo che la guarnigione in casi particolari svolgesse funzioni di polizia urbana.
Il CASTRUM ROCHE era un estremo presidio di Ventimiglia mentre il Castello di Appio stava, al pari di avamposto, sul colle Magliocca ad intercettare gli invasori che procedessero per le giogaie del Roia: in caso di assedio questo forte (cui si accedeva per una via sotto la località in Podio ove erano campi di S. Michele e dei cittadini intemeli Guglielmo Boveto ed Ingone Burono = di Amand. cit., doc. 208 e 451) poteva fruire di autonomo vettovagliamento ed in caso d'assedio avrebbe sopportata lunga resistenza (nel comprensorio erano torri e rocche minori, di cui è impossibile far rassegna: resta da citare la Rocha che il di Amandolesio registrò in località Seestro cioè Siestro, forse collegabile alle costruzioni del Martinengo durante l'assedio genovese di Ventimiglia ai primi di quel secolo = Id., doc.357; cfr. Storia della Magnifica Comunità...cit. p. 355 e seguenti).
L'abitato di Piena Alta (borgo di crinale nella media val Roia, che si raggiunge dalla stradale Breglio-Nizza) è oramai quasi del tutto privo di residenti stabili e sorge nei pressi dei resti del CASTELLO DELLA PENNA costruito dagli ingegneri militari di Genova. La sua funzione strategica sui percorsi di media valle risulta indiscutibile: qualsiasi espansionismo sabaudo verso il mare di Ventimiglia avrebbe sempre fatto i conti con questo avamposto idoneo per una lunga difesa. Il nome del castello ha alla base una rappresentazione linguistica dei luoghi irti su cui fu eretto ( "Vetta rocciosa di forma aspra ed acuta" come prima del 1406 il Buti scrisse:"La capra è animale che volentieri va pascendo sopra la penna de' monti": il termine è un derivato, per la descrizione di una vetta, dal latino pinna nel significato di "penna o freccia" ma anche di "merlo di muro"[però nell'interpretazione di Alessio-de Giovanni - 1983, 35 - la voce "penna (deriverebbe) da una base prelatina in rapporto col latino pinnus vale a dire "acuto".
Ai tempi della guerra ligure-piemontese del 1672-73, combattuta perlopiù nelle valli del Roia, del Nervia e dell'Argentina merita una citazione la resistenza eccezionale della guarnigione genovese del forte della Penna agli ordini di Gerolamo Gastaldi che non cedette neanche alla minaccia del comandante sabaudo di far impiccare 2 suoi figli fatti prigionieri.
Il FORTE (O CASTELLO) DI PORTILORIA guardava il porto canale del Nervia (e quindi l'omonima piana sulla riva occidentale, alla foce, di questo torrente) e poi la via di fondovalle, i resti del tragitto costiero romano, il ponte di legno sul torrente [ ( di Amand., cit., doc. 641 del 28-VIII-1254): tale castro confinava più in alto con la terra di Giorgio Cataneo, inferiormente con l' acqua del Nervia, da un lato con la terra di Mauro de Mauri, dall'altro con quella di Guglielmo Maroso...": da altri documenti si apprende che vi eran nei pressi terre coltivate ed un pozzo per l'abbeveraggio (Id., doc. 357 del 25-III-1261): il toponimo, da cui il FORTE traeva nome, risulta variamente nominato dal notaio di Amandolesio quasi a testimoniare che, accanto alla struttura militare, vi esistessero dei casolari con residenti stabili, impegnati nell'attività rurale.
L'importanza del FORTE (O CASTELLO) DI PORTILORIA, attesa la desrtificazione dell'area in cui era sorta la città romana di Ventimiglia, si proponeva per l'IMPORTANZA DEL NODO VIARIO CHE GUARDAVA: là ove -dopo la scomparsa della VIA JULIA AUGUSTA, anche per le DEVASTAZIONI DEI BARBARI, e successivamente con la CACCIATA DEGLI ULTIMI INVASORI, I "SARACENI"- si andava riprendendo grazie anche al rilevante CONCORSO DELLA CHIESA DI ROMA e in dettaglio delle sue DIOCESI un pieno CONTROLLO DEI PERCORSI deputati all'EPOCALE FENOMENO DEI PELLEGRINAGGI NEI LUOGHI SANTI ma anche ad una lenta rivisitazione delle ATTIVITA' COMMERCIALI.
Sempre dal duecentesco notaio genovese si evince la presenza nel luogo di strutture funzionali per la vita agricola oltre che come detto di terreni posti a coltura: doc. 260 del 9 giugno 1260 (citazione di troilum et fons [che sfruttavano ancora la portata degli acquedotti romani?]), doc. 515 del 25 novembre 1262 (citazione di peciam unam terre agregate ficuum et amindolarum [colture di fichi e mandorle]), doc. 563 del 18 maggio 1262 (colture di viti e fichi [in questo caso, oltre al comsueto toponimo, compare nel documento la citazione in plano Nervie evidentemente per indicare la zona pianeggiante, a sud dell'area vera e propia del castello, dove grossomodo corrono oggi la via statale e la ferrovia, sino a confinare con la prebenda episcopale, area dell'ex officina del gas e dell'attuale comprensorio ospedaliero intemelio]).
Il FORTE sorgeva versimilmente in una posizione egemone rispetto a queste proprietà e agli eventuali insediamenti, sul sito relativamente in altura dell'odierna parrocchiale nervina di Cristo Re eretta ove stava nel '700 la ridotta o forte Orengo degli Austro-Sardi, a sua volta edificato nel PREDIO ORENGO già prebenda episcopale dal 1260 - 1261: poco più in basso di dove stava il CASTRUM AQUAE [o distributore alle condotte cittadine del rifornimento idrico portatovi da due acquedotti provenienti da rio Seborrino] eretto dagli ingegneri e dagli operai idraulici di Romani e nei pressi una struttura basilicale del medio Impero, rilevata di recente, su cui in seguito venne forse costruito un edificio paleocristiano (G.Rossi, Dove si trovava il castello di Portiola? in "Giornale Storico e letterario della Liguria", = Albintimilium...cit., p. 158-9, 183 nota, 189 nota e 197-8).














-Federico Guglielmo Leutrum fratello minore di un condottiero tedesco al servizio dei Savoia nacque il 27 giugno 1692 nel Baden dal barone Federico Cristoforo e dalla baronessa Giuliana de Gemmingenburg. Date prove di attitudine al servizio di guerra si trasferì in Piemonte a soli 14 anni. Agli inizi del conflitto nel 1740 aveva già raggiunto il grado di brigadiere: fu uomo dal carattere deciso, buon stratega e tattico intelligente e si dimostrò anche valido trascinatore dei suoi soldati. Morì all'età di 63 anni il 16 maggio 1755 dopo essere diventato, a compenso dell'eccellente servizio prestato per i Savoia, governatore perpetuo di Cuneo nel 1748.







I primi stadi di fornitura organizzata dell'acqua risalgono a tempi remotissimi.
Nella prima età del bronzo, le sorgenti che rifornivano le comunità dell'Europa erano spesso racchiuse in un rivestimento di legno.
Talvolta si raccoglieva l'acqua piovana e si scavavano cisterne in strati di argilla impermeabile, rivestendoli poi con una struttura di legno.
Oltre a scavarle nella roccia, i Greci e i Romani costruivano le loro cisterne in mattoni o cemento con volte a botte e pilastri, aggiungendovi spesso vasche più piccole di decantazione.
Ai tempi ellenistici e durante l'Impero Romano le grandi città, come Alessandria e Bisanzio, costruirono enormi cisterne.
A Bisanzio la più grande misurava 141x73 metri e aveva 420 colonne.
Ancor oggi le grandiose cisterne di Valente (364-78) e di Giustiniano (527-65) riforniscono d'acqua Istanbul.
Per raccogliere, accumulare e conservare l'acqua delle precipitazioni atmosferiche, furono realizzate in tutte le regioni e in tutti i periodi dell'antichità opere importanti (cisterne teatrali, ipogee, ecc.), che però sono state messe in ombra dalle successive costruzioni di grandi acquedotti.
Né è conferma il fatto che fino a oggi non è stato portato a termine nessun restauro sistematico delle antiche cisterne.
Questa lacuna di conoscenza e di impegno nel campo specifico delle cisterne per cui non ci si rende conto dell'effettivo utilizzo, molto diffuso nell'antichità, dell'acqua piovana, è dovuta a una causa precisa: l'unica funzione delle cisterne era quella della raccolta e della riserva sotterranea dell'acqua e, di conseguenza, non furono stabilite norme particolari relative al loro aspetto esteriore.
Le forme delle cisterne potevano essere infatti molto diverse; la gamma delle varianti ha più interesse storico che estetico.
"Benché espressioni come "cisterne teatrali", limitate a situazioni particolari, o "cisterne navali", inducano a supporre che le cisterne avessero più funzioni, le cisterne vere e proprie servivano soltanto alla raccolta dell'acqua. Dal punto di vista della tecnica idraulica, tutti i bacini di raccolta posti al termine di una conduttura vanno distinti dalle cisterne e sono in realtà dei semplici serbatoi, come ad esempio la cosiddetta Piscina Mirabilis o i famosi serbatoi d'acqua di Costantinopoli, che nonostante le loro dimensioni vengono sempre qualificati come cisterne" (R. T. Kastenbein, 1990).
Gli autori antichi sono concordi nel considerare buona la qualità dell'acqua piovana. All'acqua "mandata da Zeus" si attribuivano infatti varie proprietà benefiche, compresa quella di giovare alla salute.
La buona qualità dell'acqua di una cisterna, d'altro canto, dipendeva anche dalla cura dell'impianto; se poi l'acqua di una cisterna non era solo per gli usi comuni, ma anche per l'alimentazione, si consigliava di bollirla.
Secondo Aristotele, una città ben progettata deve avere: "specialmente una naturale abbondanza di acque e di fonti e, in caso contrario, vi si deve far fronte predisponendo serbatoi per l'acqua piovana, capienti e numerosi".
Benché oggi le cisterne richiamino più l'idea dell'acqua d'uso comune che di quella potabile, specialmente perché si tratta di acqua ferma, nell'antichità l'acqua delle cisterne veniva impiegata anche per bere.
Questo accadeva soprattutto quando ancora mancavano i grandi acquedotti, e cioè in qualche grande città prima della fine del VI secolo a.C., in numerose città fino all'inizio dell'età imperiale e in molte altre località per l'intera storia della città.
Ciò poteva accadere inoltre in periodi di guerra o di altre contingenze.
Conformemente alla raccomandazione di Aristotele, le cisterne sulla rocca di Pergamo (attuale Bergama in Turchia), ad esempio, dovevano essere sorvegliate secondo le ordinanze con grande attenzione, anche quando veniva garantito un soddisfacente approvvigionamento idrico attraverso le tubazioni.
In periodi normali, tutte le fattorie, tutti i poderi, tutti gli allevamenti di bestiame, tutte le ville dovevano disporre di una o più cisterne, per non lasciare disperdere le precipitazioni atmosferiche che cadevano in quantità diverse a seconda del periodo e del luogo, e che si sarebbero rivelate preziose nei periodi di siccità. Su questo principio di compensazione tra i periodi di grande abbondanza e quelli di siccità si regolavano soprattutto le isole prive di sorgenti, prime fra tutte quelle di origine vulcanica come Tera/Santorino, e molte altre delle Cicladi.
Ventotene col suo complesso sistema di captazione mediante cisterne rappresenta un significativo modello di circolazione delle acque che collega tutti gli insediamenti principali dell’isola portando l’acqua alla fine del percorso in una piscina con annessa peschiera localizzata nel porto.
Tutto il sistema di captazione e di accumulo tramite cisterne contribuiva a rendere l’isola autonoma dal punto di vista idrico.
Delo, notoriamente povera di sorgenti, presenta quindi numerose cisterne, e così Nasso, che fino all'inizio del nostro secolo ha vissuto esclusivamente di acqua di cisterne.
Anche alcune città di terraferma, dove la falda freatica era troppo profonda per essere raggiunta da pozzi, come ad esempio la città mineraria di Laurio in Attica (Regione della Grecia) o alcune piccole città siciliane, si rifornivano soltanto di acqua di cisterne.
Per gli abitanti delle zone aride dell'Africa settentrionale, che una sola volta all'anno godevano di un periodo di pioggia breve ma abbondante, l'acqua piovana era un bene così prezioso che essi costruirono grandi terrazze lastricate per raccoglierla al meglio.
Il metodo più semplice per raccogliere l'acqua piovana era quello di sfruttare i tetti delle case: una superficie modesta, ma sufficiente con un pratico sistema di raccolta in grandi pithoi come a Olinto (Regione Calcidica della Grecia) o a Priene (in Turchia).
La pianta delle case signorili greche e romane, con i due cortili interni, (atrio e peristilio), era straordinariamente adatta alla raccolta dell'acqua piovana.
Ci si può quindi domandare se il tipo comune di casa sviluppato dai Greci e dai Romani non fosse proprio conseguenza del largo bisogno di acqua piovana.
Dai tetti relativamente piatti e pendenti verso il cortile interno (compluvium), l'acqua piovana fluiva, direttamente oppure attraverso grondaie e doccioni, in una vasca al centro, del cortile stesso, ossia nell'impluvium.
Da qui l'acqua scorreva in cisterne sotterranee, per depurarsi in bacini di sedimentazione.
Parallelamente al costante miglioramento del rifornimento idrico grazie alla costruzione di condutture, aumentò anche, in generale, il numero delle cisterne private.
Questo accadeva soprattutto per la volontà della gente di essere indipendente evitando di recarsi ogni volta ai punti pubblici di distribuzione.
La maggior quantità di acqua piovana veniva raccolta sui tetti: si pensi, oltre alle case private, anche alle sedi di lavoro, agli edifici pubblici di ogni genere o alle superfici di copertura dei templi, talvolta gigantesche, che spesso erano collegate con cisterne. I grandi edifici, con cisterne di raccolta per singole zone della città, oppure costruzioni particolari, come teatri, che si prestavano ottimamente alla raccolta dell'acqua piovana, erano collegati con l'imboccatura delle cisterne mediante grondaie, tubature in terracotta o canalette.
Le cisterne poste in superficie, erano piuttosto infrequenti, perché troppo esposte all'azione del calore.
In alcune località, come a Pompei, c'erano invece delle cisterne sopraelevate, da non confondere con gli impianti di raccolta idrica con cisterne sotterranee.
Questi contenitori sopraelevati assolvevano a una doppia funzione: oltre a immagazzinare acqua dai tetti, posti ancora più in alto, servivano contemporaneamente all'immediata distribuzione.
Una via di mezzo tra le cisterne di superficie e quelle sotterranee è rappresentata dalle camere di riserva scavate nella roccia, come le cisterne in pietra presso il tempio di Apollo Maleatas vicino a Epidauro (nel Peloponneso in Grecia), risalente all'età imperiale.
Normalmente si preferiva immagazzinare l'acqua piovana in impianti sotterranei (lacus, cisterna), che erano protetti dal calore, dalla sporcizia e da sgraditi agenti esterni.
Per conservare l'acqua fresca e pulita, le cisterne greche e romane più antiche venivano scavate nel terreno con il fondo a forma di pera o di bottiglia, e avevano soltanto una piccola apertura verso l'alto.
Già nell'età cretese-micenea, le cisterne interrate vennero rivestite di intonaco, per ridurre e più tardi per bloccare completamente le perdite per drenaggio.
Molte cisterne arcaiche del Pireo vennero costruite, in un primo momento, a forma di pera e, nel corso del tempo, furono notevolmente ampliate con camere sotterranee e, in alcuni casi, collegate l'una all'altra mediante gallerie praticabili.
Queste costruzioni con gallerie, tipiche di Atene, ritornano nell'Alessandria ellenistica, dove però non venivano sfruttate per l'acqua piovana, bensì per l'acqua portata da un canale del Nilo.
Le cisterne sotterranee non murate non sono legate a particolari periodi storici, ma si presentano in ogni secolo dell'antichità, sulla rocca di Pergamo (profondità media di 7-9 m, capacità 50-70 Mc) come sull'acropoli della città di Samo, dove un vecchio pozzo venne sostituito con una cisterna originariamente piccola, più tardi ampliata con alcune camere laterali.
Nell'età arcaica non sono documentate cisterne completamente murate, e nell'età classica sono una rarità: nella colonia milesia di Olbia nel Ponto c'era invece una cisterna con una classica muratura a conci, che poteva contenere circa 22 Mc di acqua piovana.
Nel corso dell'età ellenistica e repubblicana, la capacità media della cisterna aumenta sensibilmente e, in seguito all'impiego della pietra da taglio come materiale edile, vengono preferite le piante rettangolari a quelle rotonde, e ci si preoccupa sempre più di mantenere pulita l'acqua delle cisterne.
Il criterio sperimentale fissato dal Palladio, secondo cui una cisterna deve essere più lunga che larga, veniva rispettato ad esempio nella Perachora ellenistica.
Si trattava ancora di una cisterna a navata unica: i piloni mediani riducevano solamente la campata delle travi in pietra, che sostenevano la copertura orizzontale della cisterna.
Se in età tarda le cisterne venivano impiegate prevalentemente per l'acqua d'uso comune, all'inizio, invece delle camere comunicanti separate da filtri, doveva essere stato realizzato qualche sistema sconosciuto di purificazione soprattutto per l'acqua potabile.
Le cisterne più antiche, che non possedevano ancora nessun dispositivo di depurazione, furono dotate in seguito, come la cisterna di Dictinna a Creta, di un bacino di sedimentazione.
Dall'età ellenistica in poi si moltiplicarono le strutture edili e le tecniche di muratura. In particolare, la tecnica degli archi a cunei si dimostrò molto promettente per la costruzione dei ponti d'acquedotto e delle cisterne.
La cisterna di Delo, datata al III secolo a.C., che raccoglieva l'acqua dalla cavea del teatro, si distingue, nella sua epoca, per le dimensioni (circa 200 mq di superficie di base) e per gli otto archi in granito, collocati a regola d'arte, che sorreggono una volta a botte.
Nel periodo successivo, ebbe grande importanza l'introduzione della malta e della muratura a gettata, la tecnica di costruzione in mattoni e il continuo miglioramento della tecnica degli archi anche nelle cisterne.
Tutte queste tecniche edilizie romane sono presenti negli impianti di deposito sotterranei.
Il sistema di camere con volta a botte e a crociera viene realizzato anche con sei o sette locali adiacenti o con combinazioni di locali più grandi e più piccoli, più alti e più bassi, collegati l'uno all'altro.
Vengono costruite perfino cisterne a due piani (Leptis Magna).
Soltanto alcune cisterne grezze, prive della muratura in malta, non avevano intonaco.
In genere le pareti delle cisterne venivano intonacate con opus signinum, mentre il suolo veniva rivestito con pavimentum testaceum (ammattonato), per smussarne le asperità.
Alcuni o molti strati di intonaco o di pavimentazione in mattoni testimoniano un uso più o meno prolungato della cisterna.
L'intonaco impermeabile, che veniva applicato sulle superfici ruvide, come in diversi casi a Delo, caratterizzata da rocce scistose, necessitava in particolar modo di manutenzione.
L'acqua piovana veniva attinta dalle imboccature chiudibili delle cisterne nello stesso modo e utilizzando gli stessi mezzi che servivano per attingere l'acqua dei pozzi.
Nell'antichità, il metodo del prelievo rappresenta un elemento che collega molti e diversi impianti di approvvigionamento d'acqua.
I medici e gli ingegneri antichi insistevano concordemente sulla necessità di avere un'acqua pura.
Galeno, Vitruvio e altri denunciarono l'uso del piombo per i rivestimenti delle cisterne o per fare tubi, ma nonostante alcune precauzioni sebbene l'incrostazione prodotta dal carbonato di calcio e di piombo sulla superficie interna dei tubi ne riducesse il pericolo continuarono, sorprendentemente, a manifestarsi casi di avvelenamento da piombo sì da far ipotizzare qualche altra indecifrabile ragione del malessere.
Vitruvio raccomanda i seguenti metodi per provare la purezza dell'acqua: "l'acqua, spruzzata su un recipiente di bronzo corinzio (una lega di oro-argento-rame) o su qualsiasi altro bronzo buono, non dovrebbe lasciare traccia. Se si fa bollire dell'acqua in un recipiente di rame e dopo averla fatta riposare la si versa, essa sarà soddisfacente se non lascerà tracce di sabbia o di fango sul fondo del recipiente di rame. Inoltre, se i legumi bolliti nel recipiente cuociono presto, vuol dire che l'acqua è buona".
Diversi testi antichi riferiscono che certe acque "possono sopportare un po' di vino"; ed è possibile dedurre che, mescolando l'acqua a goccia a goccia con un vino ben colorato, i Romani valutassero il tenore di calce della loro acqua.
Gli antichi consigli per la depurazione dell'acqua vanno dalla semplice esposizione al sole, all'aria e alla filtrazione.
Erodoto segnala che l'acqua del Karkheh (in Iran, il nome originario del fiume era Choaspes), che scorre nei pressi di Susa, veniva bollita e conservata in caraffe d'argento per i re persiani.
Sono stati rinvenuti filtri porosi di tufo, e la filtrazione attraverso la lana o il lino ritorto era ben nota.
Sulla depurazione dell'acqua, Ateneo di Attila scrisse un'opera (50 d.C. circa) dove si parla della filtrazione.
Il filtraggio attraverso strati di sabbia è anche consigliato da Vitruvio.
Per la depurazione dell'acqua gli antichi autori consigliano l'aggiunta di varie sostanze, tra cui la più comune e la più efficace era il vino.
Le coperture dei tetti non dovevano essere di materiale organico (legno) né di lastre di piombo o contenenti comunque piombo.
Da preferirsi erano i tetti in laterizi o in lastre di lavagna.
Tali coperture non dovevano essere comunque a livello inferiore a quelle di contigue abitazioni, dalle quali potevano essere gettate sostanze di rifiuto, né dovevano essere accessibili all'uomo o agli animali.
Le dimensioni delle superfici di raccolta e delle cisterne dovevano essere calcolate in funzione delle necessità.
Se si trattava di località piovose si calcolavano in genere dimensioni tali da sopperire alle necessità di un bimestre, mentre se si trattava di località con piogge scarse ci si riferiva ad almeno un quadrimestre.
Per le cisterne si aumentava del 20% la quantità di acqua calcolata necessaria, al bimestre o al quadrimestre, come quota riservata alla sedimentazione delle sostanze sospese.
Le cisterne dovevano essere installate lontano da qualsiasi fonte di inquinamento (almeno 10 m da pozzi neri e 20 m da depositi di letame); dovevano essere possibilmente interrate per favorire la costante temperatura dell'acqua; non dovevano ricevere luce, altrimenti veniva favorita la formazione di alghe; dovevano avere un'apertura o botola di ispezione, ben protetta dall'eventuale ingresso di animali e contornata da una platea impermeabile con inclinazione verso l'esterno al fine di impedirvi l'infiltrazione di acqua caduta sul suolo circostante.
Infine la loro forma doveva essere preferibilmente a fondo semisferico per favorire la sedimentazione delle sostanze sospese, e la muratura doveva essere rivestita interamente con materiale assolutamente impermeabile (il rivestimento era di solito in malta di cocciopesto ed uno strato finale di olio di cocciopesto). Il sistema di attingimento era dall'alto, attraverso la canna del pozzo. Era inoltre opportuno periodicamente svuotare la cisterna e ripulirla.
Nella domus delle città di provincia troviamo l'essenziale dell'architettura civile romana.
Nelle case più arcaiche l'atrium aveva solo una stretta apertura che fungeva da camino e da lucernaio a un tempo.
Successivamente l'apertura diventò un vero e proprio pozzo di luce, il compluvium, al quale doveva necessariamente corrispondere un bacino a terra, l'impluvium, in cui confluiva l'acqua piovana.
Fu probabilmente a partire dal VI secolo a.C., che le case si dotarono di tali cisterne.
Da qui, tramite un orifizio di presa, la cui ghiera diventerà in seguito un elemento decorativo, l'acqua fluiva nella cisterna sottostante.
Anche gli edifici pubblici (terme) furono dotati di adeguate cisterne.
La più grande fu quella riservata alle terme del Foro, costruite nell'80 a.C., con una lunghezza di 15 metri, una larghezza di 5 e un'altezza di 9; da questa cisterna una macchina elevatrice travasava l'acqua nelle piscine delle sezioni maschile e femminile dell'impianto termale.
Le cisterne destinate a raccogliere l'acqua piovana, anche se innumerevoli, non ci hanno lasciato, se non raramente, la possibilità di rilevare esattamente il loro sistema di alimentazione.
Gli architetti, sempre attenti nel disporre i piani dei tetti inclinati verso l'interno delle case, applicavano sistematicamente il principio del compluvium.
L'impluvium, a parte il suo valore ornamentale, serviva ad una prima decantazione delle acque, che abbandonavano sul fondo di questo bacino le impurità più grosse che avevano raccolto sui tetti.
Nel peristilio, un canaletto, periferico di pietra o di mattoni dotato di pendenza, conduceva l'acqua a una vaschetta di decantazione, nel fondo della quale, si apriva il condotto per la cisterna.
Il prelievo dell'acqua dalla cisterna avveniva attraverso una sorta di pozzo di presa aperto nell'atrium, o talvolta nel peristilio, raramente nella cucina, la cui vera, detta puteal, era un cilindro di marmo o di terracotta, spesso decorato.
Una stagione eccessivamente piovosa poteva provocare la fuoriuscita dell'acqua dalla cisterna; si predispose allora un condotto di troppopieno posto a un livello inferiore a quello dell'alimentazione.
A Pompei, città sprovvista di fognature urbane, questo condotto portava l'acqua in eccesso alla strada, passando sotto i marciapiedi.
Primo esempio significativo di riuso dell’acqua a Pompei si ritrova nella Casa del Poeta tragico dove l’acqua della cucina portata da un tubo di piombo veniva utilizzata come sciacquone nella latrina.
Le dimensioni delle cisterne erano assai variabili in funzione della loro destinazione: nelle case private la cavità, accuratamente rivestita di calce e di cocciopesto, poteva limitarsi a 2 mq, mentre, se si trattava di un edificio termale, doveva contenere decine di migliaia di litri d'acqua.
La villa romana di Russi costituisce una delle ville rustiche più esemplificative e meglio conservate dell'Italia Settentrionale.
Presenta una estensione di almeno 8.000 metri quadrati, un impianto termale e 3 cisterne per la raccolta dell'acqua.
Sul lato est della villa c'è un ambiente scoperto in cui si usava molta acqua, come si può desumere dalle fognature e da un pozzo; particolarmente interessante risulta una vasca sopraelevata, pavimentata in mosaico a tessere appuntite e collegata ad una vaschetta più bassa, con un incavo per la raccolta dei liquidi: probabilmente era destinata alla lavorazione del vino.
L'ingresso principale era a sud del complesso in un altro cortile, od aia, nel quale sono stati scavati solo alcuni ambienti sul lato ovest, una probabile latrina ed una cisterna per acqua.
L'impianto termale serviva un ambiente , con pavimento in marmo e mosaico e con una scala che permetteva di accedere ad altre stanze sopraelevate; vi sono poi una fognatura con pozzetto in marmo traforato, due vasche in mosaico per il bagno, di cui una semicircolare, e altri ambienti con resti di intonaci parietali.
Complicati sistemi di rifornimento idrico furono creati in epoche sbalorditivamente remote.
Nel monastero di Christchurch, a Canterbury, si installò un impianto idraulico completo nel 1150.
Vicino alla sorgente c'era un serbatoio principale, in forma di torre rotonda, dalla quale si dipartiva un tubo sotterraneo di piombo che passava attraverso cinque cisterne di decantazione oblunghe, ciascuna munita di suspirail o apertura per controllare la pressione; di qui, il tubo passava sotto le mura della città ed entrava nel territorio del monastero.
Raggiungeva quindi un lavabo, dove alimentava un serbatoio collocato su un pilastro per creare una centrale di distribuzione.
Da questa si dipartivano due tubi: uno andava al refettorio, al retrocucina e alla cucina; l'altro andava al forno, alla distilleria e alla sala degli ospiti, e infine a un altro lavabo vicino all'infermeria.
Nei lavabi, sottili rivoli d'acqua si riversavano ininterrottamente nelle vaschette.
Altre diramazioni alimentavano il bagno e una cisterna che serviva agli abitanti del luogo.
L'acqua in eccedenza si raccoglieva in una vasca di pietra per i pesci, e di lì passava a una cisterna accanto alla cella del priore e quindi alla "vasca" del priore, dove arrivavano anche l'acqua in eccedenza del bagno e l'acqua piovana dei tetti, in modo da formare un energico flusso purificatore che correva attraverso lo scarico principale sotto le latrine o "retrodormitori".
Inoltre, esisteva una riserva d'emergenza: nel cortile dell'infermeria c'era un pozzo, e accanto a questo una colonna cava collegata al condotto principale, nel quale si poteva così immettere l'acqua del pozzo in modo che l'erogazione non venisse sospesa nei tempi di siccità.
Brevi diramazioni, chiamate purgatoria, servivano per lavare periodicamente le tubazioni.
L'efficienza di questo sistema idraulico può spiegare come mai il monastero rimase immune dalla peste nera nel 1349.
Il tracciato dell'impianto idraulico della Certosa di Londra è indicato dalla "Watercourse Parchment", la "pergamena del corso d'acqua", esposta nella sala-archivio della Certosa stessa.
Nel 1430, un certo John Feriby e sua moglie Margery, concessero al priore e al convento una fountain (sorgente d'acqua) e un tratto di terreno attraverso Irlington per installarvi una conduttura sotterranea.
Dalla sorgente, l'acqua passava in un tubo di piombo e in un canale di pietra, con suspirails come a Canterbury. Da una torre-cisterna nel chiostro principale si dipartivano diramazioni per portare l'acqua al lavabo, alla lavanderia, al caseificio e alla distilleria.
Poiché il certosino viveva quasi isolato, cucinandosi i pasti da sé e coltivando un orticello personale, ogni cella aveva la propria provvista d'acqua.
L'abbazia di Praglia, situata ai piedi del Monte Lonzina nei Colli Euganei (Padova), è dotata di 4 chiostri.
Il chiostro doppio che risale al 1490, ha un pozzo ancora funzionante per l'approvvigionamento idrico.
Il chiostro pensile, che risulta sicuramente il più interessante, risale al 1495, come è attestato da una iscrizione posta sull'architrave del pozzo, attribuito all'architetto Tullio Lombardo.
Esso è ubicato nella stessa posizione del chiostro medievale, di cui ricalca all'incirca la geometria, il pavimento è lastricato con ottima trachite con andamento leggermente convesso, per favorire la raccolta dell'acqua piovana nella sottostante grande cisterna (magnifico spazio funzionale ricavato nella roccia del monte Lonzina e costruito con pilastri e volte).
L'acqua raccolta dai tetti, veniva filtrata attraverso uno strato di sabbia fine, per poi essere prelevata dal pozzo.
Il chiostro botanico risale al 1490 ed è dotato di una fontana, alimentata dalla sorgente del monte Lonzina.
Infine, il chiostro rustico del 1550, sistemato dalla parte del monte Lonzina, serviva come spazio di fattoria.
Il Santuario di S. Maria delle Grazie di Covignano (Rimini), conserva ancora a lato della chiesa, un classico chiostro francescano di stile cinquecentesco.
Rifatto dopo la distruzione bellica, presenta al centro il tradizionale pozzo conventuale con cisterna sotterranea.
Infatti ad una profondità di circa 5 metri, si trova la cisterna dotata di un filtro a carboni, che serviva a captare e depurare le acque raccolte dai tetti.
Nelle fortezze medievali erette per far fronte agli assedi prolungati, il pozzo era un elemento di prima necessità, non solo nella cerchia dei bastioni difensivi, ma all'interno dell'ultimo rifugio, il "mastio" vero e proprio.
Spesso i castelli sorgevano in posizioni elevate e l'approvvigionamento d'acqua era assicurato da cisterne, alla maniera di quanto era stato fatto in ambito greco e romano che raccoglievano la pioggia.
Le superfici di raccolta erano: la corte, i tetti o le terrazze delle torri degli edifici e persino i cammini di ronda.
Usualmente l'acqua veniva filtrata prima di essere ammessa in cisterna con filtro a ghiaia e sabbia.
Nella fortezza normanna, il cannone del pozzo veniva elevato a volte fino al primo piano e anche più su, come protezione accessoria contro gli assedianti, se avessero invaso il pianterreno.
L'acqua si poteva attingere a qualsiasi piano.
A Newcastle, il pozzo si trova in una torre d'angolo del mastio e a entrambi i lati della fonte principale vi sono vaschette o nicchie nelle pareti con tubi e condotti che alimentano le altre parti del forte.
Dalla fine del secolo tredicesimo i masti non si costruirono più, e il pozzo venne situato nella corte centrale, o in una torre speciale come a Carnarvon, dove l'acqua veniva distribuita da una cisterna rivestita di piombo per mezzo di canali di pietra.
Nella Rocca dei Conti Guidi a Modigliana (915 - 1376, Forlì), dove si ritrova un peculiare esempio di tonacatura impermeabile, scavi archeologici hanno portato alla luce un sorprendente impianto di captazione, filtraggio e contenimento dell’acqua piovana.
La superficie interna delle tre cupole sovrapposte e del cilindro che le contiene sono tonacate con uno spesso strato di malta di cocciopesto e rifinite di uno stucco oleoso ancor di cocciopesto.
Questa tecnica, che ricorda le affascinanti rifiniture "sagramate", tipiche di quell’area, non si avvale dell’opera marmorata superficiale. Ciò non toglie che il manufatto non sia stato, a suo tempo, trattato adeguatamente per ottenere che diventasse impenetrabile all’acqua.
Di fatto, un intonaco di cocciopesto, anche se ben battuto ed assodato, ha una porosità superiore a qualsiasi altra crosta marmorata.
Ragione per cui questi manufatti sono molto più avidi d’olio di quanto non lo siano i comuni intonaci di calce e sabbia: anzi, queste materie sembrano non saziarsi mai, ed assorbono l’olio sino a farlo penetrare nelle loro più profonde ed intime vacuità, conferendo allo strato di rifinitura, una volta essiccata, uno straordinario potere di contenimento dei liquidi.
E’ poi riconosciuto, che gli intonaci di calce e cocciopesto, per la loro composizione chimica e la loro struttura, garantiscono le qualità organolettiche dell’acqua.