BORDIGHERA TRA SETTECENTO E OTTOCENTO

INDICE
-Guerra di successione spagnola: l'espansione del Piemonte a scapito del Dominio di Genova
-La guerra di successione al trono d'Austria
-La drammatica situazione politica e militare della REPUBBLICA DI GENOVA
-La guerra di successione nel Ponente ligure
-ASSEDIO E CONQUISTA del CASTELLO DI DOLCEACQUA ad opera delle truppe spagnole del generale Las Minas
-Dal Ponente ligure al Basso Piemonte: assedio di CUNEO, battaglie di Demonte e della Madonna dell'Olmo
-L'INSURREZIONE DI GENOVA del dicembre 1746: l'episodio del "BALILLA"
-Le interminabili vicende belliche nel territorio tra Ventimiglia, Bordighera, Dolceacqua, Francia e Basso Piemonte
-VIOLENTISSIMI SCONTRI tra franco-spagnoli e austriaci presso la testa di ponte del CONVENTO VENTIMIGLIESE DI S.AGOSTINO
-CARLO EMANUELE III di Savoia entra vittorioso in Bordighera e vi pone il suo campo
-La decisiva battaglia dell'ASSIETTA (luglio 1747)
-La PACE DI AQUISGRANA
-Pubblicistica filosabauda: lo SPLENDORE DI TORINO in un poemetto latino del 1750
-Deliberati della Pace di Aquisgrana per il PONENTE LIGURE: la QUESTIONE DEL FINALE
-La rivoluzione francese
-La spedizione dell'Armata d'Italia in Liguria
-Motivazioni dell'impresa: i primi grandi eventi
-L'avanzata francese: lo sfondamento delle difese nemiche
-L'astro di Napoleone
-La I campagna d'Italia di Napoleone: istituzione della Repubblica Ligure e delle altre Repubbliche filofrancesi in Italia
-La crisi dei Francesi e dei loro alleati: Genova assediata dagli Austro-russi
-la II campagna d'Italia di Napoleone
-La dominazione francese
-la Liguria occidentale nell'Impero napoleonico: uno scontro navale cogli Inglesi
-La restaurazione e dominazione sabauda fin all'unità.




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La storia settecentesca di Bordighera si innesta nella storia degli Otto Luoghi. Fatto grave per queste contrade fu la GUERRA DI SUCCESSIONE. I danni furono notevoli, nonostante la neutralità di Genova, visto che al confine intemelio si affrontarono Austro-Sardi e Franco-Ispani asserragliati in "Ventimiglia" e protetti dalla flotta inglese.
Molti problemi furono connessi al vettovagliamento di piemontesi ed austriaci ma, a fronte delle rovine che patì Ventimiglia, i quartieri di soldati in Bordighera non costituirono un problema.

Per l'estremo Ponente ligure la fine del 1745 e i primi del '46 erano passati tranquillamente escludendo la presenza dei francesi in Ventimiglia e il timore di rappresaglie anglo-sabaude.
Dopo la disfatta di Piacenza (16-VI-1746), l'esercito spagnolo, richiamato da Ferdinando VI, era in ritirata per la Riviera Occidentale. I suoi generali , temendo incursioni piemontesi, avevano occupato i crinali per proteggere il fianco nord dell'esercito. Nulla era possibile contro la flotta inglese e il 7 settembre vascelli britannici bombardarono la cavalleria del conte De Gages ai Balzi Rossi: per riparare a Mentone il contingente dovette deviare per un tragitto montano.
Il giorno dopo gli Inglesi tentarono uno sbarco contro la postazione francese dei Balzi Rossi: questa però, con l'aiuto dei granatieri "corsi di Genova" respinse l'aggressione pur dovendo patire un nuovo cannoneggiamento.

Nel frattempo l'esercito sabaudo, guidato dal Re sin a Finale attaccava i borbonici.
La Signoria genovese aveva intanto inoltrato un dispaccio a Ventimiglia col quale si ingiungeva al marchese Doria di non ostacolare l'entrata in città degli Austro-Sardi nè uno sbarco inglese.
Ciò dipendeva dagli accordi di Sampierdarena per cui la Repubblica accettò di disarmare le truppe accettando il protettorato delle forze di Maria Teresa: nella città di frontiera si sciolsero quindi 2 compagnie di milizia locale costituite l'anno prima ed agli ordini dei capitani Roberto Aprosio e Saverio Rossi.
La ragione ufficiale delle autorità per la smilitarizzazione era di non ritardare, coll'ausilio di truppe nel forte intemelio, l'inseguimento dei Franco-Spagnoli da parte degli Austro-sardi. I francesi ancora in città intimarono quindi la resa della fortificazione e il colonnello Tombeu del reggimento La-Sarra, bloccati gli accessi e le comunicazioni, conquistò il forte. I Gallo-ispani, giudicando importante la conquista, rafforzarono la fortificazione per frenare l'avanzata nemica.
Furono disposte nuove batterie, restaurate casematte e mura: sopravvalutando le capacita difensive del castello i francesi minarono anche il ponte sul Roia: abbatteronole cascine circostanti e scavarono trincee presso la chiesa di S. Giuseppe.
Si realizzò poi un cammino coperto che andava dalla piazza d'armi al bastione del Cavo ove furono posti altri cannoni, ponendo poi nuove batterie a guardia dei 4 lati delle mura . Una forza di 20 battaglioni avrebbe difeso il forte entro uno schieramento che, avendo caposaldo in Ventimiglia coinvolgeva La Turbie, l'Escarene e il crinale sin a Sospello . La popolazione era impaurita dall'idea di una città contesa da 4 eserciti e dalla flotta inglese ma non potè far altro che supplicare patrono S. Secondo con un triduo di preghiere.
Mentre l'esercito sabaudo procedeva sulla costa, altre truppe, provenienti dal Piemonte, scendevano le vallate liguri coi rifornimenti. Il 15 settembre i piemontesi di De la Roque raggiunsero Pietra e quelli di Balbiani la cittadina di Alassio; di persona Balbiani (il 23) prese Diano: Oneglia era stata rioccupata, dai monti, da 100 carabinieri e 4 compagnie di granatieri.
Le vittorie austro-piemontesi sui Franco-Spagnoli crebbero di intensità: il 25 cadde Porto Maurizio ed il 27 il Re di Sardegna occupò San Remo con 4 brigate: le forze di De la Roque conquistarono Taggia e contemporaneamente soldati di Balbiani ripresero Pigna in alta val Nervia: il 29 settembre si arrese Dolceacqua.
Don Filippo infante di Spagna, ormai in rotta verso Nizza, aveva già attraversato Ventimiglia, quando il 29 settembre Carlo Emanuele III con la Guardia e truppe austriache entrò a BORDIGHERA unendosi alle forze del Leutrum e del Gurani (6 compagnie di granatieri e 40 ussari) e a quelle di De la Roque (brigata Savoia, brigata fucilieri).
A Bordighera il Re sabaudo apprese che il forte S. Paolo era stato rinforzato e non volendo tentare un assalto frontale, mandò il brigadiere Martini ad aggirare Ventimiglia da Bevera con 1.000 uomini.
I nemici, intimoriti dalla manovra, lasciati a forte S. Paolo circa 200 / 300 soldati del 3° battaglione svizzero di Vigier, si ritirarono alla volta di Mentone.
Il Balbiani (4 ottobre), per ordine del re, spedì da Dolceacqua 2 contingenti (agli ordini del colonnello Alfieri e dal conte Pampara), per assalire Penna: si trattava di 50 carabinieri, 4 compagnie di granatieri e 5 picchetti ciascuno; i 60 uomini a difesa del PONTE.
Ventimiglia era assediata.
Da Nervia il comando austro-sardo mandò il generale Gurani con 4.000 uomini (6 battaglioni di fanti tedeschi) a posizionarsi sopra Bevera e Seglia.
All'alba del 5 ottobre, sul Magliocca, gli Austro-sardi si scontrarono coi Francesi che proteggevano la ritirata dell' armata gallo-ispana diretta a Mentone e Nizza.
I Ventimigliesi, visto che la città era inerme e temendo un attacco austro-sardo al forte S. Paoloi, inviarono i sindaci Nicolino Galeani, Gio Angelo Orengo e Pietro Rossi al quartier reale di Bordighera per consegnare le chiavi di Ventimiglia a Carlo Emanuele III.
Intanto il tenente colonnello Di Palfi entro in città coi suoi granatieri austro-sardi, ben poco disturbato attraversando il Roia, da alcune cannonate delle batterie gallo-ispane di forte di San Paolo. Le truppe tedesche entrarono con ordine in città, ma occupata la Piazza si abbandonarono al saccheggio.
Il re sabaudo, informato di ciò, richiamò il Gurani coi fanti tedeschi e i granatieri del Di Palfi.

Gli Austro-sardi mandarono quindi il capitano d'Autigher a trattare le resa della guarnigione di FORTE SAN PAOLO, comandata dallo svizzero Dieffenthaller. Costui si rifiutò di cedere le armi, e fece rompere parte dell'acquedotto che transitava sotto il forte privando la città di rifornimento idrico. Carlo Emanuele ordinò allora di assediare il castello al generale Bertola col II° battaglione fucilieri, il battaglione Chablais e l'Aosta. Il 10 ottobre le truppe austro-sarde, guidate dal Re, si mossero da Nervia per Dolceacqua e da lì per Bevera e, tramite la strada di S. Antonio, giunse a Mentone.
Bertola con una batteria da 8 pezzi di cannone calibro 24 e 32, sistemati sulle alture di Siestro, aveva preso a cannoneggiare la fortificazione.
Visto che la batteria non otteneva risultati decisivi, ne venne sistemata un'altra, di 4 cannoni calibro 16 e 2 mortai, sul monte Pedaigo che devastò i muraglioni del ridotto della tenaglia abbattendo la parte superiore del maschio.
Il Diffenthaller, comandante del 3° battaglione reggimento svizzeri di Visier, tentò un'orgogliosa resistenza ma la mattina del 23-X-'46, la guarnigione, decimata, si arrese.

I Gallo-ispani, nel corso della guerra di successione al trono imperiale, il 17 ottobre 1746 si erano rifugiati oltre il Varo: tennero presidi nei FORTI di MONTALBANO e VILLAFRANCA presto assediati dai nemici.
Carlo Emanuele III il 19 ottobre entrò in Nizza donde i Piemontesi risalirono la riva sinistra del Varo fino alla confluenza con la Tinee.
Dalla Val Roia, liberata dai nemici, transitarono vari reggimenti di cavalleria sabauda alla volta di Nizza.
I Ventimigliesi dovettero dar alloggio a diversi battaglioni tedeschi del generale Novatin in atto di invadere la Provenza con i Piemontesi. Il pomeriggio del I novembre gli Austro-sardi presero il forte di Montalbano catturandone la guarnigione di 70 uomini e 2 giorni dopo presero il castello di Villafranca.
Si formava un corpo di spedizione in Provenza con campo presso il Varo: vi stavano 37 battaglioni di fanti imperiali con 2.000 cavalieri agli ordini del generale Brown: vi si unirono poi 18 battaglioni di fanteria piemontese con 1.000 cavalieri sotto il Balbiani.
Carlo Emanuele III, prima dell'invasione, sfibrato dalla campagna, s'ammalò di vaiolo: era il 19-XI-1746. Nonostante le cure e i soli 45 anni, il Re, che stava a Nizza, pareva dover soccombere alla malattia. Il principe ereditario assunse il comando coadiuvato dal barone Leutrum comandante dei Piemontesi in Riviera. Il 30 novembre iniziarono le operazioni militari austro-sarde oltre il Varo per occupare la Provenza fino a Tolone. L'armata mosse su 6 colonne: l'avanguardia del marchese Novatin, con 16 battaglioni d'imperiali e la brigata Saluzzo, doveva assalire i Gallo-ispani a nord. Altri 12 battaglioni sotto il comando del generale Roth attaccarono il castello di La Gaude: 9 battaglioni d'imperiali del generale Newhaus si spinsero contro St. Marguerite. La IV colonna, del Balbiani, formata dal reggimento Guardie, dal Savoi, e dal Monferrato, avanzò su St. Laurent. Il generale Petazzi, comandante della V colonna formata da Schiavoni e da 7 compagnie di granatieri imperiali oltre che da 10 compagnie piemontesi, procedette a settentrione del villaggio di St. Laurent. Il generale Sorbelloni, sovraintendente alle operazioni della VI colonna, attraversò il Varo tra questo villaggio e il mare, a capo della cavalleria austro-sarda.
Sul mare le fregate inglesi proteggevano l'avanzata dei loro alleati cannoneggiando le basi nemiche così che il I dicembre gli invasori raggiunsero GRASSE.
I Francesi assegnarono il comando al conte Belleisle e richiamarono le forze spagnole d'occupazione in Savoia.
Con 22 battaglioni di rinforzo e l'ausilio del generale Mirepoix, il Belleisle attestò le truppe sul fiume Siagne presso ANTIBES.
Tra il 15 e il 16-XII-1746 gli Austro-sardi, con il soccorso della flotta inglese, conquistarono le isole Lerins e bombardarono ANTIBES per tutto dicembre e gennaio 47.

A Ventimiglia era rimasto un distaccamento piemontese agli ordini del Borea che fece restaurare i muraglioni di forte S. Paolo ed eresse un nuovo muro sul lato occidentale del fortilizio, sì da prolungare la spianata verso sud e realizzare un pozzo d'acqua ai piedi della cittadella. Inoltre si dotarono i magazzini con provviste di legna, olio, candele, vino, carne salata ed altri viveri per 7.000 lire di spesa: si acquistarono 1.000 sacchi (di farina) e 80 botti: per un pò tornò la quiete e presto, senza vinti né vincitori, la Guerra prese la via d'una pur lentissima involuzione

Ma presto sarebbero intervenuti altri gravi eventi ad alterare gli equilibri dell'Antico Regime. Nel 1782 l'espansione urbanistica "fuori delle mura" e "dalla parte di mare" non si realizzò per gli effetti della Rivoluzione francese.
Dal 1789 , fuggendo dalla Francia pervasa dalla RIVOLUZIONE ANTASSOLUTISTICA e ANTIARISTOCRATICA giungevano sempre più numerosi in Nizza sabauda nobili e perseguitati politici.
Molti di loro presero poi la via dei CENTRI DEL PONENTE LIGURE e quindi del territorio della REPUBBLICA DI GENOVA.
In molte località, soprattutto a Ventimiglia, scoppiarono tumulti tra "reazionari" e "progressisti".
Nel '92 la Francia entrava poi in guerra con la Prussia e si costituiva in REPUBBLICA.
Degenerarono presto i rapporti col Regno di Sardegna e i governi non evitarono il conflitto.
Dopo la vittoria di Valmy (20-IX-1792) a capo della truppe francesi il GENERALE MASSENA, passato il Varo, conquistò Savoia e Nizzardo impegandosi in una serie di scontri fin oltre la frontiera ligure e sabauda, nell'attesa di un'invasione ormai inevitabile.
Il Principato di Monaco fu incorporato nel Distretto delle Alpi Marittime (1793).
Nella primavera del '94 i generali Arena e Mouret valicata la frontiera, presero Ventimiglia (6 aprile).
Il 7 passarono per Bordighera e Sanremo occupando (8 aprile) Porto Maurizio e la sabauda Oneglia.
Nel corso delle operazioni, i bordigotti, come i cittadini e i paesani vicini, subirono requisizioni e danni: normalizzatasi la situazione, essi si abituarono al nuovo stato di cose, così che, con tutte le altre genti liguri, sottostavano al dominio francese già da 2 anni prima che iniziasse la campagna d'Italia di Napoleone (primavera 1796).


LA SPEDIZIONE IN ITALIA

LE RAGIONI POLITICO-DIPLOMATICHE DELL'IMPRESA
LE PRIME OPERAZIONI MILITARI
MANOVRE DELLA FLOTTA FRANCESE: IL BOMBARDAMENTO DI ONEGLIA
NUOVE OPERAZIONI FRANCESI: L'ATTACCO AL COLLE DI TENDA E LA SPEDIZIONE TERRESTRE CONTRO ONEGLIA
LA GRANDE INVASIONE: QUATTRO DIVISIONI FRANCESI ALL'ATTACCO DELLE DIFESE AUSTRO-PIEMONTESI
RIPRESA DELL'AVANZATA DEGLI ESERCITI FRANCESI

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La spedizione dell'armata rivoluzionaria francese in Liguria fu per certi versi il perfezionamento delle tattiche militari poste in essere dai generali della GUERRA DI SUCCESSIONE AL TRONO IMPERIALE con il conseguente sviluppo di nuove forme di combattimento e soprattutto di NUOVI ESERCITI.
La causa fondamentale delle operazioni degli eserciti rivoluzionari fu legata alla necessità di consolidare sul fronte occidentale i confini del nuovo Stato,
Per quanto concerne il sud-est dapprima si mosse la diplomazia francese cercando di ottenere dal Piemonte Sabaudo sia Nizza La diplomazia non ottenne però risultati concreti e quando il sovrano sabaudo Vittorio Amedeo espulse l'ambasciatore francese reo di propaganda rivoluzionaria ed antinobiliare, si aprì alla Francia la possibilità di usare questo fatto cene un casus belli e di intervenire in forze sul fronte sud-occidentale.

Il primo bersaglio, rapidamente conquistato, fu la Savoia.
L'armata piemontese ripiegò allora verso meridione attestandosi alla difesa dell'ASSE VIARIA DEL TENDA.
Senza ostacoli concreti le forze rivoluzionarie occuparono quindi la stazione portuale di NIZZA ed invasero tutto il territorio, sin alla ROCCA MILITARE DI SAORGIO e alla VALLE DEL ROIA premendo conseguentemente sulla PORZIONE DI QUESTA VALLE spettante al neutrale DOMINIO DI GENOVA.
Mentre la diplomazia cercava, invano, di comporre le vertenze i francesi completarono varie operazioni militari.
I preparativi di un massiccio attacco ai Piemontesi si concretizzarono nelle successive conquiste di MONACO, MENTONE e Roccabruna.
Ai primi del 1793 (11 febbraio) i francesi attaccarono i piemontesi rinforzati dagli alleati imperiali le cui truppe erano state dislocate sulla linea difensiva che correva dal colle di Raus, all'Auton, al Bruis sino a SOSPEIL.
Le operazioni dei Francesi non ottennero però i risultati sperati.
Il loro attacco fu infatti respinto e le loro stazioni miltari nel nizzardo cominciarono ad essere disturbate, con una sorta di guerriglia dai Barbetti i temuti valligiani valdesi.
Con l'avvento della bella stagione, in giugno, l'armata francese riprese le operazioni sistemandosi su un fronte d'attacco che comportava la simultanea avanzata di tre grandi colonne: il comando dell'Armata d'Italia era adesso nelle mani del generale Brunet.
Ma gli Austro-Sardi respinsero questa nuova ondata dopo un comabttimento ininterrotto protrattosi per tre giorni.
La sconfitta -nei tempi sempre tempestosi delle Rivoluzione- costò Brunet la messa sotto stato d'accusa: pagò il fallimento all'opinione pubblica con l'esecuzione capitale alla GHIGLIOTTINA.
I Francesi temendo una controffensiva degli alleati si rafforzarono nel nizzardo assumendo una posizione di difesa.
Tentando di spostare il conflitto su altri fronti i Francesi intervennero sul mare e una loro SQUADRA NAVALE DA LINEA puntò direttamente su ONEGLIA E SUO TERRITORIO col pubblicizzato programma di indurre la popolazione ad insorgere contro il regime monarchico dei Savoia.
I Francesi tramite una lancia inviarono a terra per parlamentare, preceduti dal segno convenzionale della bandiera bianca, circa venti uomini privi di armi.
Da parte degli Onegliesi non si "ascoltò" quel segnale di non belligeranza: il fuoco serrato, secondo le nuove tecniche dei FUCILIERI falciò quasi tutti gli "ambasciatori".
Per reazione le navi aprirono il fuoco e molte BOMBE ESPLOSIVE o solo DIROMPENTI furono sparate contro la CITTA' dai cannoni dei vascelli da guerra [qui in una "Veduta dal mare del 1793 di G.Bagetti cons. a Torino-Galleria Civica].
La devastazione fu tale che se ne ebbe eco in tutta Italia: il celebre poeta Vincenzo Monti compianse la città ...che ancor combatte e fuma.
Dopo il ritorno degli abitanti ed il parziale riparo dei gravi danni subiti la città fu protetta dalla flotta inglese vera dominatrice del mare.
Presero in quel tempo ad agire, col nome di TIGRI DI ONEGLIA, alcuni EQUIPAGGI CORSARI di Oneglia che colpirono sia le navi francesi commerciali che le imbarcazioni genovesi destinate al traffico mercantile con lo Stato transalpino.

La pubblica ammissione di voler annientare i Corsari di Oneglia, che costituivano un temuto ostacolo per i traffici francesi, fu la ragione nuova di un intervanto francese contro il COLLE DI TENDA e ONEGLIA.
GENOVA di fatto era neutrale ed allora i Francesi per attraversare legittimamente i territori del DOMINIO GENOVESE, diedero alle pubbliche stampe un manidesto con cui affermavano di trovarsi nell'obbligo strategico di "...far passare le truppe su parte del territorio di Genova..." precisando però che tutto sarebbe avvenuto "secondo le leggi della più rigorosa neutralità ed altresì sottolineando che i Genovesi avrebbero trovato in ogni Francese "...un amico ardente e sincero...".
Un abile ufficiale originario di Nizza, il GENERALE MASSENA fu posto a capo dei 20.000 uomini che componevano l'ARMATA D'ITALIA: al GENERALE NAPOLEONE BONAPARTE fu invece affidata la limitata ARTIGLIERIA.
Come accadeva quando si muoveva un esercito rivoluzionario francese (anticipazione di quanto sarebbe accaduto in URSS) esso era accompagnato, per evidenti ragioni propagandistiche ma anche di controllo, da COMMISSARI POLITICI: in occasione di questa impresa si accompagnarono alle forze armate, tra i RAPPRESENTATI DEL POPOLO il giovane Agostino, fratello di Massimiliano Robespierre mentre l'alta carica di COMMISSARIO era ricoperta da Filippo Buonarroti.
Le operazioni militari si sarebbero dispiegate su un fronte di quaranta Km.
Quattro divisioni avrebbero dovuto partecipare all'impresa.
La prima, la "Saorgio", sotto il generale Macquard partendo da cima Abeglio avrebbe raggiunto il Monte Giove e si sarebbe schierata in posizione d'attacco contro la fortezza sabauda di SAORGIO.
La divisione "DEL TANARO" agli ordini del generale MASSENA avrebbe fatto marcia su CIMA GRAI nell'ALTA VALLE DEL NERVIA partendo dal PASSO MURATONE laddove iniziava l'ALTA VALLE DEL NERVIA.
La divisione ONEGLIA comandata dal generale Mouret, quasi replicando l'infelica marcia di 50 anni prima del generale Las Minas, avrebbe puntato nel cuore dei possedimenti sabaudi in Liguria cioè il PRINCIPATO DI ONEGLIA.
esisteva quindi una IV divisione di riserva, sotto il generale François, il cui scopo era di prendere possesso delle alture sopra dolceacqua: evidentemente per evitare una manovra austro-sarda in direzione del complesso fortificato da loro utilizzato durante la Guerra di Successione vale a dire il Sistema fortificato Guibert-Leutrum.
All'opposto gli Austro-Sardi controllavano una linea difensiva che aveva i suoi cardini in Saorgio - Cima d'Anan - Cima Marta - Cima Grai - Colle Sanson - Collardente - Monte Saccarello - Frontè - Tanarello, tenendo altresì molte trincee e ridotte a S.Dalmazzo di Tenda e a Briga.
Essi avevano quindi altri punti di difesa a Carpasio, a Rezzo, sul Monte Grande e sul Pellegrino: complessivamente dovevano proteggere 20 Km. di fronte ma disponevano soltanto di 6000 soldati mentre alla difesa di Oneglia e di Saorgio erano state distaccate varie batterie di cannoni con non più di 1000 soldati per città.
L'inizio delle operazioni data al 6 aprile 1794.
Le operazioni procedono non senza difficoltà: per esempio una colonna francese trova una buona opposizione dei Piemopntesi al PASSO MURATONE e conquista il MONTE GIOVE due giorni dopo quanto previsto.
La "Tanaro" di Massena deve procedere a fatica nella neve e finalmente da MARGHERIA DEI BOSCHI un suo distaccamento riesce a conquistare il GRAI.
Non v'è tempo per celebrare la vittoria: il cattivo tempo obbliga i francesi a ripiegare verso Gouta raggiunta il 10 dopo varie imboscate nemiche.
MASSENA riesce però a sconfiggere i Piemontesi e ad occupare saldamente il Passo di Teglia.
Su Oneglia, praticamente indifesa, da Porto Maurizio si avventa la Divisione Oneglia il giorno 9 aprile: le poche resistenze nemiche -salde solo a S.Agata- vengono sgominate sì che il 16 deve essere chiesta la resa.
Gli 8000 soldati francesi si danno al saccheggio, catturano 12 cannoni e molte munizioni, neppure risparmiano la case private e pubbliche della Repubblica di Genova che pure ha dichiarato la sua neutralità: un distaccamento della divisione procede anzi alla volta di Loano dove viene attaccato il porto, scalo fondamentale per le navi da corsa allestite da Oneglia.

Nonostante i successi ottenuti i Francesi devono predisporre una nuova campagna di invasione non essendo stati in grado, a causa della stagione nevosa, di occupare tutti gli obiettivi di guerra.
Interviene quindi la DIVISIONE DI RISERVA con lo scopo di occupare TRIORA e l'ALTA VALLE ARGENTINA cercando contempareanemente di conquistare i passi di Collardente, della Mezzaluna e la dorsale della VALLE ARROSCIA.
Dopo la conquista francese di CIMA GRAI dell'11-IV-1794 gli Austriaci ripiegano avendo come scopo di rinforzare le difese su NAVA stendendo uno schermo protettivo sin a S.Bernardo di Garessio.
La DIVISIONE ONEGLIA conquista però il COLLE DI NAVA il 16 aprile, quindi si spinge fin ad Ormea e successivamente occupa Garessio.
Le operazioni tendono a diventare incalzanti: si va delineando un vasto PIANO DI OPERAZIONI come si ricava da questa CARTA ripresa dal prezioso volume di Agostino Ronco intitolato "La Marsigliese in Liguria".
Viene occupata PIEVE DI TECO quindi il 25 aprile il MASSENA raduna le sue forze in MOLINI DI TRIORA al terminale strategico della VALLE ARGENTINA.
Mentre altre truppe curano dei diversivi una colonna della DIVISIONE SAORGIO cerca di raggiungere CIMA MARTA punto vitale dei percorsi di ALTA VAL NERVIA.
Successivamente le forze guidate dal Lebrun tentano uno sfondamento partendo dall'area di PASSO MURATONE.
senza trovare grossa resistenza i soldati francesi procedono verso il TORAGGIO, l'ALTA VALLE e la Gola dell'Incisa in direzione di CIMA GRAI.
Finalmente la colonna agli ordini dello Hammel raggiunge la vetta del Grai attaccandone la ridotta che i Piemontesi difendono blandamente preferendo subito una ritirata tattica: l'ufficiale francese li insegue però e li sconfigge a Testa di Nava ( sul campo restano 400 Francese e 150 Austro Sardi, ma di questi 250 vengono fatti prigionieri).
Le vicende diventano però incerte vista l'improvvisa forte resistenza austro-piemontese.
La colonna Bruslè assieme al MASSENA partendo da Testa di Nava conquista Colle Sanson e si avvicina a Collardente.
La DIVISIONE del Francois viene sconfitta e bloccata sul fronte destro vista la vittoriose resistenze nemiche del monte Saccarello e del Frontè.
Il Massena, senza i dovuti rinforzi, tenta comunque di prendere il forte di Collardente ma i suoi due assalti falliscono con perdite di una certa rilevanza.
La DIVISIONE SAORGIO procede invece le sue operazioni verso CIMA MARTA che costituisce una postazione davvero importante nell'ALTA VALLE ma che è -proprio per questo, ben difesa dagli Austro-Sardi che vi hanno eretto forti DIFESE di cui tuttora avanzano rilevanti tracce.
Mentre intanto il generale Macquard si impegna ad attaccare i Sabaudi sul fronte destro, le forze del generale Banquier assalgono il forte della Beola (Milleforche) che viene abbandonato dai Piemontesi di cui 250 cadono prigionieri del nemico.
Nella difesa austro-sarda si è comunque aperta una falla e per questo varco si fanno affluire dai Francesi le truppe di riserva che si avvicinano a SAORGIO che perlatro il generale Marquard sta già tentando di accerchiare.
Mentre i Piemontesi si ritirano sulle posizioni del COLLE DI TENDA, i Francesi prendono possesso delle postazioni abbandonate dal nemico,
SAORGIO il 28 aprile è soggetta ad un massiccio attacco ma, grazie anche alle buone fortificazioni, non cede fin a quando, sorprendentemente, nella notte il suo difensore, generale Saint-Amour comandante della guarnigione di Saorgio, si arrende aai Francesi senza lottare.
Sarà per i Piemontesi magra consolazione l'accusa di tradimento mossa al generale Saint-Amour: il 2 maggio Saorgio è ormai in mano francese e seguirà lo stesso destino Tenda il giorno 7 dello stesso mese.
Massena ottiene altre vittorie, investendo la sempre minore resistenza dei nemici: le sue operazioni si estendono ormai a Limone e a Borgo S.Dalmazzo.
A Limone però egli si arresta per i gravi eventi che sconvolgono la Francia dove cade il Regime del Terrore e dove Robespierre viene ghiglittinato con il fratello già al seguito dell'Armata d'Italia: anche Napoleone conosce un periodo di carcere (14 giorni) ad Antibes fin a quando non si dimostra che non aveva particolari connivenze coi capi della rivoluzione.
La vittoria francese nel Ponente ligure è comunque un dato acquisito, evidente per la consistenza dei territori occupati e delle importanti stazioni militari.

Nel '97, sulla scia dei SUCCESSI DI NAPOLEONE E DELL'ARMATA D'ITALIA si costituì a Genova il GOVERNO PROVVISORIO DELLA REPUBBLICA LIGURE che subito intraprese una assidua CAMPAGNA PUBBLICITARIA A FAVORE DELLE NUOVE IDEE, DEL NUOVO REGIME POLITICO E IN AVVERSIONE ALLA VECCHIA NOBILTA' GENOVESE di cui a titolo documentario pare interessante riproporre qui alcune importanti testimonianze.
Gradualmente si soppressero le amministrazioni locali, fra cui la "Magnifica Comunità di Ventimiglia" e quella degli "Otto Luoghi": il 26-VI-'97 la deputazione degli "Otto Luoghi", ratificandosi a Genova la Costituzione della Repubblica, pronunciò un discorso che celebrava la fine dell'antico regime.
Il vecchio territorio repubblicano fu distinto in 28 distretti e Bordighera risultò fusa in quello del Roia di cui era capoluogo Ventimiglia.
Nel '98, domata una CONTRORIVOLUZIONE a Genova e pacificati in Ventimiglia rivoluzionari e conservatori, l'ordinamento repubblicano fu dimensionato in 20 distretti e i paesi di quello del Roia entrarono in quello delle Palme con capoluogo Sanremo: Bordighera divenne Capo Cantone con Giudice di Pace di I classe. Nel 1800, dopo che gli Austro Sardi ebbero riconquistata la Liguria e quindi anche Ventimiglia, la nobiltà intemelia spinse il Generale Elzinitz a restaurare il vecchio regime e la dipendenza degli "Otto Luoghi" da Ventimiglia (20-V- 1800). Ecco qui proposto il proclama di Elzenitz =
Alla Amministrazione di Ventimiglia
Le otto ville che avanti l'entrata dell'armata nemica si trovavano sotto la giurisdizione della città di Ventimiglia, rientrano nuovamente sotto la medesima pel ritorno dell'antico ordine, godendo dei medesimi privilegi; e in conseguenza sono riguardate come facienti arte del territorio della detta città. La requisizione fatta per l'armata imperiale dopo la nostra entrata deve essere comune a tutto questo territorio. E' dunque giusto che ne sia fatta la divisione tanto del passato che dell'avvenire e le suddette otto ville sieno obbligata a fornire il loro contingente regolato conforme i loro mezzi dall'amministrazione della città. Dal mio quartier generale a Nizza li 20 maggio 188.
Elzinitz
.
(Fonte. G. Rossi, Storia della città di Ventimiglia, Oneglia, 1886, pag. 284 e nota)
Napoleone, vincendo a Marengo (14-VI-1800) riaffermò il dominio francese e nel 1802 attuò un III ordinamento della Repubblica Ligure in 6 distretti: Bordighera con Ventimiglia, Sanremo, ed i paesi vicini, fu inserita in quello degli Olivi.
Con l'Impero napoleonico, la Repubblica Ligure fu soppressa e divisa in 4 dipartimenti francesi (1804): Bordighera rimase ascritta, fin alla Restaurazione(1815), a quello delle Alpi Marittime, circondario di Sanremo.
Durante la dominazione francese, nel Ponente serpeggiava uno stato di disagio, sia per timore di invasioni che per il rallentamento dei commerci, a causa dei corsari francesi e onegliesi.
Nel '93 una carestia colpì, con la Liguria occidentale, anche Bordighera, costretta a rifornirsi di "granaglie e commestibili per la popolazione ": la situazione si aggravò negli anni seguenti specie fra aprile '94 e primavera '96 viste le requisizioni di guerra del fieno per le bestie. Ad aumentare la crisi nell'estate '94 giunse un'epidemia. Il ventennio francese in Liguria occidentale fu distinto da difficoltà economiche ma è doveroso ricordare che proprio i Francesi crearono le basi per l'incremento di traffici e commerci.
Nel PONENTE LIGURE risultarono incentivati i traffici ed in particolare il commercio dell'olio dopo la realizzazione (1804, 1810 e quindi conclusa nel 1828) della STRADA DELLA CORNICE (oggi "via Aurelia") voluta dal BONAPARTE (che secondo alcuni antiquari e storici -ma è ipotesi alquanto dubbia- anche per dimostrarne l'efficienza l'avrebbe inaugurata per ampi tratti percorrendola con QUESTA CARROZZA): l'interazione di questo NUOVISSIMO E COMPLETTO TRAGITTO COSTIERO con le realizzazioni della moderna tecnologia, come saranno decenni dopo i compimenti della COMUNICAZIONE DEL TELEGRAFO A FILI e la STRADA FERRATA, contribuiranno al rapido sviluppo socio-economico della MODERNA REGIONE LIGURE.
In particolare la STRADA DELLA CORNICE (l'attuale statale AURELIA) fu la I linea costiera di comunicazione ininterrotta in Liguria dai tempi in cui i Goti distrussero la romana JULIA AUGUSTA. Una corrente di traffico si sviluppò sul litorale ligure: la parte più vicina alla Provenza fruì di gran transito di merci e viaggiatori. In Bordighera la nuova strada dopo l'Arziglia non saliva al paese sul Capo, ma correva nella piana, fiancheggiando la spiaggia. Il vecchio paese, con le strette porte, non rispondeva più alle nuove esigenze: gli abitanti della villa, attratti dai traffici lungo la Strada della Cornice , vi si trasferirono, fabbricando case ai suoi margini: poco per volta strutturarono, ai lati della via, il I nucleo di una moderna città.
Seguendo però quanto ha utilmente scritto (con uso di documenti d'epoca) Vincenzo Agnesi ne La Riviera [autore poi ripreso in modo competente da N. Drago (pp.78-80)] non bisogna credere che la STRADA DELLA CORNICE sia "nata" dalle gesta napoleoniche senza problemi.
Il Bonaparte non ebbe infatti a disposizione il lungo tempo (la celebre PAX) che permise ad Augusto di potenziare la Julia Augusta: quasi certamente, pur nel contesto di una realizzazione celermente portata avanti, il risultato archiettonicamente più clamoroso dell'impresa napoleonica con probabilità fu soprattutto la edificazione del PONTE SAN LUIGI tra Ventimiglia e Mentone.
Il regno del generale corso durò relativamente poco e, in effetti, dopo la sua caduta quella STRADA COSTIERA che senza dubbio era andata a colmare un grave limite viario della Liguria, ancora EVIDENZIATO DA RELAZIONI DEL XVIII SECOLO, cominciò celermente a CADERE IN ROVINA per l'assenza di qualsiasi decorosa manutenzione.
Non è un caso la relazione della turista inglese lady Blessington che solo pochi anni dopo la caduta di Napoleone, durante un viaggio per la STRADA DELLA CORNICE nel 1823, pur ammirando i paesaggi e descrivendo il fascino di quell'escursione, mise in risalto la necessità di PROCEDERE PER QUELLA VIA ANCORA A DORSO DI MULI.
Solo una casualità permise il recupero dell'iniziativa stradale napoleonica e cioè il fatto che nel 1826 si ipotizzò un VIAGGIO PER LA LITORANEA dei "restaurati" Sovrani Sabaudi.
Il meccanismo celebrativo dell'Antico Regime, del tutto restaurato, impose l'adeguamento della STRADA DELLA CORNICE alle ESIGENZE DI COMODITA' DEI SOVRANI [non sembra peraltro un caso che la CITTA' DI SANREMO, come si evince dal MANOSCRITTO BOREA, commemorando la morte del SOVRANO SABAUDO CARLO FELICE, abbia attribuito a questi la RESTAURAZIONE DELLA LITORANEA (nominata nelle iscrizioni funebri dedicate al Sovrano VIA EMILIA)].
Da siffatta ostentazione di servilismo (e magari di fedeltà, dipende dai punti di vista) emerse comunque un opportuno riadattamento della STRADA LITORANEA la cui storia dal 1826 (anche se il VIAGGIO REGALE POI NON AVVENNE) fu soltanto in crescendo: anche se contrariamente a quanto si dice, per la sveltezza di certe opere storiografiche, rimasero da compiere diversi lavori che utilmente furono completati solo in tempi posteriori.

Contestualmente Napoleone procedette ascrivendo la Repubblica ligure nella compagine del vasto Impero da lui creato si impegnò ad esercitare anche sul suo clero, come su quello dei vari Paesi da lui assimilati [ma peraltro continuando un'OPERA già intrapresa dalla Repubblica rivoluzionaria ligure], una forma di controllo che mirava da un lato a laicizzare il nuovo Stato e dall'altro aveva lo scopo di regolamentare i vari aspetti della vita ecclesiastica, sì da farsene un sostegno irrinunciabile: da qui derivò tra l'altro l'importante DECRETO CONCERNENTE LE FABBRICHE (CHIESE): di seguito è QUI riproposto un utile INDICE per visualizzare i vari aspetti in cui, anche per concedere uniformità alla gestione di legati, lasciti e patrimoni, vengono laicizzati (si veda la TERMINOLOGIA USATA) e ristrutturati vari aspetti della vita ecclesiastica in Liguria ponentina come in ogni altra contrada dell'IMPERO (anche per offrire la lettura del documento nel suo recupero archeolinguistico, l'INDICE INFORMATICO rimanda al TESTO ORIGINALE visualizzato elettronicamente, da far scorrere e analizzare "cliccando" su un apposito comando chiaramente indicato in utile didascalia: essendo la pagina del testo antico più ampia dello schermo si raccomanda di farla sempre scorrere col "puntatore" onde poter visualizzare per intiero il documento).


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Nel 1812 s'era costituito a Bordighera un gruppo d'abitazioni, detto Sobborgo della Marina e il nome comparve in una relazione francese del 19-VII-'12, quando 2 fregate e un vascello inglesi sbarcarono circa 200 uomini tra la batteria di cannoni al Capo e quella della Ruota, in regione Bagnabraghe: volevano dar prova di forza dopo che il 14-VII-1811 una loro nave era stata bombardata [dal 1783 eran state poste a guardia del mare 2 batterie di cannoni alla Ruota e sul Capo : i 3 pezzi del Capo, disposti intorno alla POLVERIERA DEL MARABUTTO, eran detti "Butafoegu, Tiralogni e Cagastrasse"]. Così il 19-VII-1812 gli inglesi marciarono contro il Capo: portarono via i cannoni, sin alla Cappella di S. Sebastiano.




Nell'aprile del 1814, dopo l'abdicazione del Bonaparte sconfitto a Lipsia dagli alleati, gli inglesi entrarono in Genova e restaurarono la Serenissima Repubblica , fra la contentezza di tutti i ceti sociali sfiancati dai lunghi anni delle guerre napoleoniche. Si trattò comunque di un atto provvisorio perchè un anno dopo il Congresso di Vienna, per un quasi naturale appagamento dei Savoia, la Liguria fu assegnata al Regno di Sardegna. Bordighera divenne allora Comune indipendente con proprio Sindaco: il territorio della Contea di Ventimiglia venne di nuovo smembrato senza essere eretto in Provincia. La Liguria occidentale restò così divisa nelle tre province di Nizza, Sanremo e Oneglia: Bordighera rientrò in quella di Sanremo. Benchè da anni non esistesse più la "Comunità degli Otto Luoghi" come istituzione politico-amministrativa, sopravvivevano interessi comuni tra gli otto paesi, che i Sindaci continuarono a trattare in maniera collegiale, pur rendendosi ormai inevitabile una revisione amministrativa che si protrasse, non senza contrasti, fra il 1819 ed il 21 giugno 1848 quando una delegazione, composta dall'Intendente della Provincia, dall'Avvocato Fiscale e dal Prefetto del Tribunale di Sanremo, pose fine ad ogni controversia, delineando i reciproci territori comunali. Dal 1815, tuttavia, gli otto borghi erano a tutti gli effetti Comuni autonomi, per cui le pratiche amministrative ordinarie venivano svolte dalle autorità dei singoli enti locali, secondo l'ordinamento e l'organizzazione sabaudi rapidamente estesi alla Liguria.






L' UNITA' D'ITALIA viene di fatto sancita dal Parlamento italiano convocato a Torino il 18 febbraio 1862: la prima e fondamentale decisione è l'approvazione della legge promulgata il 17 marzo 1861 che nel suo articolo unitario dice: "Il re Vittorio Emanuele II assume per sé e i suoi successori il titolo di re d'Italia".
Ribadendo un'affermazione storica di Cavour si impone a tal punto la necessità di FARE GLI ITALIANI: tenendo soprattutto conto che molte assimilazioni degli ex Stati italiani sono avvenute per via militare e/o in dipendenza di plebisciti.
La situazione più grave vige comunque nel Mezzogiorno d'Italia.
Mentre infatti a Torino si avvia l'ottava legislatura, al Sud capitolano ancora le ultime sacche di resistenza borbonica dove stanno forze fedeli a Francesco II re delle Due Sicilie: Gaeta, Messina, Civitella del Tronto.
Il Governo italiano, capeggiato dalla Destra liberale, nei riguardi del Mezzogiorno, assume tra il 1860 ed il 1865 gli aspetti di una vera e propria lotta per LIQUIDARE (è questa la parola usata dallo stesso Cavour) il GARIBALDINISMO (con la completa riforma dell'esercito meridionale ad opera del tenente colonnello Genova di Revel capo della direzione speciale del ministero della guerra distaccato a Napoli) ed estirpare il brigantaggio che, più correttamente, si dovrebbe definire BANDITISMO SOCIALE.
Scrive giustamente Paolo Massa in un interessante articolo qui proposto: Una volta assorbiti i "traumi" necessari all'organizzazione del nuovo stato nazionale, il Governo italiano e la Monarchia cercano di realizzare la trasformazione economica, con gradualità e nello stesso tempo con discontinuità, ma senza arresti. In alcuni periodi (1880-'87, 1896-1913) essa è anche assai rapida e profonda e determina l'industrilizzazione del paese ed una forte urbanizzazione. In altri (1863-80) investe solo settori particolari, se pur importanti, determinando un'estesa commercializzazione dell'agricoltura; il declino doll'autoconsumo contadino in alcune zone in cui ancora sopravviveva; la formazione di un mercato nazionale; lo sviluppo di una rete di trasporti moderni con le ferrovie e la navigazione a vapore. In altri periodi emergono potenti concentrazioni finanziarie: in una parola il paese muta anche se con lentezza.
Non si può non tenere presente, infatti, il permanere di una serie di problemi di base che ancora derivano da secoli di politiche econorniche individualistiche, essendo stata la penisola divisa in numerose e disomogenee entità politiche.
In realtà l'Italia preunitaria ha ospitato attività manifatturiere avanzate per l'epoca, ed è stata molto ricca, come segnala anche l'elevato numero di prospere città che non trova confronto nel resto dell' Europa.
Tuttavia, la frammentazione politica e la conflittualità endemica; l' esagerata insistenza su manufatture di lusso ad alto prezzo; lo spostamento dell'asse dei traffici dal Mediterraneo all'Atlantico ha prodotto un vistoso declino dell'econornia nel Seicento e una persistente arretratezza nel Settecento.
Anche per questi motivi il decollo economico del nuovo Stato è lento e alterno, caratterizzato dalla persistenza di attività tradizionali (come quella serica) e la stentata introduzione di nuovi settori industriali, nonostante il programma di ferro lanciato dai primi Governi.
La trasformazione inoltre opera, più spesso nella società civile che in quella politica, che ha tra le sue priorità la sicurezza militare e la ricerca dell' autonomia finanziaria.
Ancora pesanti sono poi gli strappi sociali da ricucire: il popolo dei vari Stati di "Ancien Regime" è stato spesso solo spettatore del compiersi dell'unità della penisola, né molto più larga è stata la partecipazione dei ceti borghesi.
Dalla carenza di un rapporto con le masse -è stato scritto- traggono origine molti dei caratteri distintivi della vita politica italiana e della mentalità della classe di governo, che non trovano piena soluzione neppure con l'andata al potere della Sinistra, la cui riforma elettorale del 1882, pur allargando notevolmente il corpo degli elettori, rimaneva ben lontana ancora dal suffragio universale.
Un' ulteriore distinzione tra Italia reale ed Italia legale si ha poi per effetto del già accennato contrasto tra movimento nazionale e Chiesa: il mondo cattolico, attestato su una posizione di con danna che coinvolge in pratica tutto il Risorgimento ed i risultati politici che ne sono conseguiti, finisce per doversi confrontare con un anticlericalismo talora anche assai aspro.
La Liguria, e Genova in particolare, non assistono in maniera passiva ai mutamenti politico-istituzionali del XlX secolo, ma ne sono protagonisti non secondari.
Dal punto di vista politico, subito dopo la Restataurazione, la classe dirigente, rappresentata da aristocratici, professionisti, borghesi, si attesta in molti casi in una posizione di attesa sterile e di protesta per aver perso l'antico splendore; vive delle memorie del passato, incapace di creare stimoli nuovi.
"Stagnazione" è il termine più usato dagli studiosi di questo periodo per definire le condizioni del settore manifatturiero ligure.
Dopo la metà del secolo, nel cosiddetto decennio cavouriano, tuttavia, le graduali riforme; l'emanazione dei Codici; il miglioramento delle norme che regolano il commercio; la crescita dei traffici marittimi; il maggior interesse degli operatori economici per i problemi del porto e delle comunicazioni (del 1853 è la ferrovia Genova - Torino; del 1856 la Genova - Voltri); nuovi investimenti di capitale in attività innovative, danno origine ad una crescita in vari settori; ricordiamo ancora che, se nel 1844 era stata fondata la Banca di Genova, diventa una importante realtà, nel 1846, la Cassa di Risparmio, ad un tempo opera pia ed istituzione bancaria preposta alla raccolta dei depositi, destinata ad avere un crescente impatto sociale sulla collettività.
In quello stesso anno, poi, Genova ospita anche l'VIII Congresso degli scienziati italiani, a cui cerca di offrire una immagine degna di essere presa in considerazione.
E' vero che si è di fronte ad un dibattito di studiosi, ma vi partecipano numerosi esponenti della scienza internazionale, e gli "Atti del Convegno",pubblicati l'anno successivo, offrono interessanti ed utili spaccati sull'economia, la demografia, l'istruzione, la sanità, la giustizia ed altri importanti aspetti della realtà genovese e ligure in senso più ampio.
Non si può poi non sottolineare come i cattolici genovesi e le loro organizzazioni abbiano in questo periodo ancora un peso determinante nelle vicende della città, anche se i contrasti sono inevitabili nella difficoltà contingente di conciliare religione e patriottismo.
Notevole è però, nell'età cavouriana, lo sforzo di rinnovamento del mondo cattolico, auspice una personalità di alta statura pastorale e politica come Andrea Charvaz, I'arcivescovo di origine savoiarda la cui presenza a Genova (1853 1869) era state voluta da Cavour per attuarvi una politica di conciliazione e di moderazione.
Sono gli anni in cui Tommaso Reggio è Rettore della Basilica gentilizia di S.Maria Assunta di Carignano e collabora attivamente al giornalismo cattolico. Non è improbabile quindi che sulle capacità di mediazione e di rinnovamento che egli dimostrerà durante il periodo dell'episcopato genovese abbia anche influito la figura di questo suo predecessore: non a caso il Reggio è stato definito "cattolico liberale", oltre ad essere per nascita membro di una tra le più antiche famiglie genovesi ed introdotto negli ambienti di corte.
Certo è che egli abbandona il giornalismo cattolico con la caduta del potere temporale dei papi, che segna contemporaneamente l'inizio del percorso politico che conduce i cattolici dall'opposizione al governo del paese.
Dal punto di vista economico, la svolta che orienta la Liguria verso un particolare modello di sviluppo avviene però negli Anni Ottanta: il capoluogo è ormai una delle città più popolose della penisola, dopo che nel 1874 sono stati assorbiti alcuni Comuni del Levante e della Val Bisagno (Foce, San Fruttuoso San Martino d'Albaro, Marassi Staglieno e San Francesco) portando la popolazione urbana a superare i centosessantamila abitanti.
La città è inoltre logisticamente collocata al centro di quella che, nonostante la depressione generale, è I'area forte dello sviluppo economico nazionale, cioè il triangolo formato da Liguria, Piemonte e Lombardia.
Il porto di Genova, in questo contesto è il primo scalo nazionale per dimensioni e per volume di traffico: sono vivaci le esportazioni di prodotti agricoli, ma anche quelle dei cosiddetti prodotti di prima trasformazione, come la seta ritorta, l'olio di olive, gli agrumi; importazioni consistenti si registrano poi in alcuni comparti significativi, come il carbone e i rottami di ferro, le caldaie ed i macchinari, il cotone.
Il ceto armatoriale ligure sta però percependo con ritardo il significato economico della evoluzione tecnologica che si sta compiendo: "poca attenzione" -annota un documento della Camera di Commercio del 1879 -è state prestata fino ad ora alla trasformazione che "andavasi operando all'estero nei mezzi di trasporto marittimo, colla sostituzione del ferro al legno e del vapore alla vela".
Nel 1880, infatti, nel Congresso degli armatori di velieri tenutosi a Camogli, si rivendicano ancora premi per la costruzione di questo tipo di scafi.
A fine secolo, con l'avvento definitivo del vapore ed il decollo industriate, il Porto di Genova assumerà di fatto una funzione nazionale, ma l'avvio dei lavori che permettono allo scalo ligure di dotarsi delle attrezzature necessarie a svolgere tale ruolo è del 1875: la donazione di venti milioni di lire da parte di Raffaele De Ferrari, duca di Galliera (si tratta del 15% del patrimonio del nobile genovese) permette infatti di potenziare le infrastrutture di un porto che sta diventando il punto di riferimento dell'area economica interregionale in cui, già a quella data risultano concentrate l'80% della manodopera operaia; l' 80% dell' industria cotoniera; la quasi totalità dell' industria serica; circa la metà di quella laniera; l'84% degli stabilimenti siderurgici ed il 75% degli altiforni a carbone di legna.
In questi anni è nuovamente sindaco di Genova (dopo esserlo stato negli anni Sessanta) il barone Andrea Podestà, egli stesso imprenditore e finanziere; personaggio illuminato, particolarmente sensibile al problema della formazione di una capace classe dirigente (è tra i promotori della Scuola Superiore di Scienze Economiche e Commerciali), egli traghetta la propria città verso la fine del secolo XIX dopo aver assistito a cambiamenti epocali: la vivace presenza nel contesto economico locale e nazionale di importanti capitani di industria, come Raffaele Rubattino e Carlo Bombrini, protagonisti di importanti cambiamenti nella strategia industriale dei rispettivi settori di operatività; l'affermarsi della Navigazione Generale Italiana, dei Lavarello, dei Piaggio, che agiscono ormai su scala internazionale in maniera competitiva; il crescere dell'Ansaldo, che è confortato nei suoi sforzi produttivi dalla nuova politica protezionistica attuata dal Governo italiano.
Un grande Sindaco -Andrea Podestà- inizia a pensare, nel settembre 1877, alle celebrazioni colombiane del 1892, che condurrà da protagonista, anche se con grossi problemi finanziari, poiché verranno a mancare i contributi agevolati ed i prestiti richiesti allo Stato per i miglioramenti edilizi ed i festeggiamenti.
"Le sue risorse, (di Genova) -scrive il Ministro del Tesoro nel 1889- il suo credito, sono tali da poter uscire senza imbarazzi e senza disagio da un periodo eccezionale di spese, delle quali è dato fin d'ora di poter presagire un largo e prossimo concorso".
All'inizio del mese di agosto del 1892, poco dopo l'apertura della grande Esposizione genovese (inaugurata il 10 luglio ed in programma fino al 5 dicembre sucessivo), entra in San Lorenzo il nuovo Arcivescovo della città, Monsignor Tommaso, dei marchesi Reggio.
Un mese dopo, quando i Sovrani Umberto I e Margherita visitano Genova, partecipando ad una lunga serie di festeggiamenti e di cerimonie pubbliche, l'alto prelato avrà modo di dimostrare per la prima volta, accanto allo zelo pastorale ed alla sensibilità sociale, anche le proprie capacità diplomatiche nei rapporti con i Savoia e di raccordo con la vita civile, accompagnando personalmente la Regina a visitare la Cattedrale di San Lorenzo in occasione dell' inaugurazione del Museo del Tesoro, a cui la Sovrana presenzia; qualche giorno dopo la visita riguarda l'Ospedale di Sant'Andrea di Carignano, donato alla città dalla duchessa di Galliera
[testo di Paolo Massa ripreso da "La Casana", Supplemento 200/2 > articolo Il nuovo progetto economico-sociale della Liguria ottocentesca].







Scrive in maniera esemplificativa dei timori governativi il parlamentare Pier Carlo Boggio [ Garibaldi o la legge...? (Torino, Per Sebastiano Franco e figli, 1861) nel "Paragrafo IV" di tale lavoro - pp. 17 - 20 intitolato La Spedizione di Sicilia e la spedizione del Tirolo]: nella fattispecie l'autore si riferisce al PROGETTO DI UN'IMPRESA GARIBALDINA NEL TIROLO AUSTRIACO ma implicitamente finisce col tirare in ballo tutta la preoccupazione governativa per il GARIBALDINISMO, il riaffermarsi dei DEMOCRATICI e ancor più per un'altra temuta impresa del generale nizzardo, quella mirante alla CONQUISTA DI ROMA
Non senza slanci retorici ma anche con avvedutezza politica il Boggio scrive a proposito dei progetti sul TIROLO: "Garibaldi con mille seguaci salpa da Genova, approda a Marsala, libera la Sicilia, passa sul Continente, mette in fuga re Francesco e dona dieci milioni di sudditi a re Vittorio Emanule II: dunque Garibaldi con cinquecento giovani che potevano quandochessia diventar mille, era in grado di occupare il Tirolo, prendere Vienna e liberar la Venezia; il ministero non avea diritto di impedirgli il riscatto della patria"".
Questo, in iscorcio, il discorso che in quattro dì c'introna ogni momento gli orecchi.
Rispondiamo che anzitutto i
Mille di Garibaldi non poterono da soli prendere Messina nè Capua; e molto meno avrebbero potuto tentare di prendere Gaeta. Non contestiamo il coraggio e l'ardimento dei garibaldini veri: di coloro che si son battuti; perchè, pur troppo, per cento camicie rosse che si batteano, erano mille altre che batteano il lastrico sicuro delle città pacifiche, salvo ad assaltar la cassa ad ogni principio di mese per averne lo stipendio; come meritato dica chi legge. Ma per quanto valorosi e intrepidi fossero i soldati di Garibaldi, essi non poteano, senza grosse artiglierie, senza parchi di assedio, senza, in una parola, il sussidio dell'esercito regolare prendere le piazze forti che resistessero.
Dunque non è esatto dire che i
Mille conquistarono la Sicilia e l'ex-reame di Napoli, dacchè Messina, Capua e Gaeta si arresero alle armi regie, e non senza lotta.
Molto meno può dirsi che Garibaldi donasse dieci milioni di sudditi a Vittorio Emanulele, essendo più esatto il dir anzitutto che la nazione acquistò dieci milioni di cittadini di più, per il voto concorde e spontaneo che questi emisero per la loro riunione al Regno italiano con Vittorio Emanuele; inoltre è pur debito dello storico il ricordare che questa manifestazione della volontà nazionale ardentemente affrettata dal pubblico universal desiderio, patì indugi e trovò ostacoli per opera esclusiva dei soliti plagiarii di Garibaldi che con ogni maniera di artificii procrastinarono la votazione del plebiscito.
Fatte queste premesse, è pur facile soggiungere che 500 o 5.000 o 50.000 volontarii non potrebbero prendere il
Quadrilatero [complesso fortificato austriaco di Mantova, Legnago, Peschiera, Verona: n.r.], più di quello che non abbian potuto prendere la cittadella di Messina nè Gaeta; e che per conseguenza l'impresa di Sarnico per liberare Venezia era una vera e solenne utopia del genere di quelle, per influsso delle quali Mazzini a quando a quando mandava centinaia di vittime inconsapevoli a farsi sgozzare, senza profitto della patria, dagli sgerri e da' carnefici dell'Austria.
Sarà vero che le trombe di Gedeone abbiano fatto crollare le mura di Gerico; ma tutti i paroloni altisonanti coi quali ci assordano da quattro giorni in poi per provarci che la sola presenza di Garibaldi fra quei 500 adolescenti avrebbe sgominato l'esercito austriaco e smantellatene le fortezze; tutti quei bei paroloni non isbaraglierebbero un battaglion di Croati nè diroccherebbero un rivellino a Mantova.
E' dunque un vero e grossolano sofisma la citazione di Marsala e Calatafimi. Nulla è di comune fra la spedizion di Sicilia e quella del Tirolo. La prima doveva riuscire e riuscì: la seconda avrebbe prodotto null'altro che l'ecatombe di quei giovanetti illusi che si lasciavano condurre tranquilli e fidenti ad inutile macello.
Però un altro effetto lo avrebbe ancora prodotto la spedizione del Tirolo se fosse riuscita: essa ci avrebbe tirata addosso l'Austria, quando non eravamo in grado di difenderci: essa ci avrebbe ingolfati in una guerra che non siam preparati a fare: essa ci avrebbe meritata la disapprovazione di tutta l'Europa civile, l'abbandono dei nostri stessi alleati...
-Questi i frutti certi, inevitabili dell'impresa di Sarnico!
Ma che importa di tutto ciò ai plagiarii di Garibaldi?
L'abbandono della Francia?...ma non gridan essi ad ogni istante che la Francia è la nemica nostra? non dicevano, pochi giorni fa, ai Romani che
"una muraglia d'odio" deve sorgere tra loro e i Francesi?
E' vero che se non era la Francia, la guerra del 1959 o non si faceva o riesciva la riproduzione di quella del 1849: è vero che i colli di Montebello, la pianura di Magenta e il poggio di Solferino son bagnati di sangue sparsovi dai Francesi per inaffiarvi la sacra pianta della libertà e della indipendenza d'Italia: ma non importa: la Francia è la nostra nemica - lo dicono i plagiarii di Garibaldi.
E' vero che tra questi ha grado principalissimo quel medesimo Bertani, il quale, allorquando nel gennaio 1859 il prode generale davagli festante la notizia della guerra imminente coll'Austria, subito, mostrando più paura che entusiasmo, interpellavalo ansiosamente se almeno avremmo avuto i Francesi con noi...Ma non importa, ora che il loro sangue per noi lo hanno dato, possiamo essere impunemente ingrati. E' una moda di importazione austriaca.
Ma anche l'Europa avrebbe protestato contro la invasione, in tempo di pace, senza provocazione, del territorio germanico: e la Confederazione
[tedesca] rimasta neutrale nel 1859 avrebbe dovuto immediatamente dichiararci la guerra. Che importa?
-I 500 volontari avrebbero in pochi giorni preso Vienna ed emancipati tutti i popoli dalla oppressione e dalla servitù secondo il voto fatto da Garibaldi il mese di marzo in Genova.
Il poeta latino si burlava degli Egizi che adoravano le cipolle, ed ai quali così nascevano gli Iddii nell'orto.
Oh sanctas gentes/ Quibus haec in hortis nascuntur numina
Con quanta maggiore ragione vorremmo buralrci ora di coloro cui sbucciano nel cervello sogni siffatti, se per mala ventura non toccasse alla Patria il farne le spese...
Quidquid delirant Reges, plectuntur Achivi!






Verso il novembre del 1860, carico di gloria, Garibaldi ha preso stanza a Caprera: la sua esistenza da novello "Cincinnato" non è tuttavia quieta. Un fremito attraversa l'Italia e sono tante le lettere che lo raggiungono, sia da parte di singoli cittadini, che di organizzazioni operaie che di intiere città.
Il generale nutre un grande progetto, che tuttavia non può non riuscire sospetto al governo torinese della Destra Storica di Cavour (che mira soprattutto a consolidare e piemontizzare il nuovo e complesso stato italiano): proprio mentre Cavour e consensualmente Vittorio Emanuele II si propongono di dimensionare ed inquadrare (anche attraverso un sottile lavoro politico di epurazione dei quadri ufficiali più apertamente legati a Garibaldi o comunque volti a ideali democratici) l'esercito meridionale che ha debellato al Volturno le armate borboniche di Francesco II, Garibaldi nutre il contrastante ideale di mobilitare le imponenti forze che già furono al suo seguito nell'impresa dei "Mille" sotto l'insegna dei Comitati di Provvedimento per Roma e Venezia.
La delusione di Garibaldi, difronte alla realizzazione del piano governativo, diventa alla fine estrema.
L'"Esercito Meridionale" (data la sua eterogeneità e la pericolosa valenza rivoluzionaria) come detto ha finito per diventare invece un problema secondo gli intendimenti di Cavour e per questo -sorprendendo un impreparato Garibaldi- lo Stato porta celermente avanti la liquidazione della Nazione Armata e l'assimilazione delle forze giudicate fedeli e sicure -dopo la citata aspra selezione soprattutto dei quadri ufficiali- che finisce per essere assorbita entro l'Esercito REGOLARE
E' quindi inevitabile che il ritorno di Garibaldi a Torino verso i primi di aprile del 1861 (in qualità di deputato per il Collegio di San Ferdinando di Napoli) coincida con un suo aperto scontro nei confronti del Primo Ministro proprio sul tema del Corpo dei Volontari Italiani e conseguentemente sul problema del riarmo e della guerra liberatrice del Veneto e di Roma.
La seduta parlamentare del 18 aprile, prima, l'incontro con Cavour presso Vittorio Emanuele II, dopo, ed infine la lettera di Garibaldi a Cavour del 18 maggio successivo scandiscono le tappe ravvicinate di uno scontro che non ha possibilità di giungere ad un credibile compromesso: Cavour muore improvvisamente il 6 giugno 1861.
Tornato a Caprera Garibaldi vive momenti personali di estrema delusione nonostante il continuare delle epistole di apprezzamento da ogni parte del mondo.
Mentre il nuovo ministro Bettino Ricasoli aspira a cercare una qualsiasi soluzione diplomatica e pacifica della QUESTIONE ROMANA, Garibaldi punta la sua attenzione di accanito interventista verso Venezia, il Friuli e , genericamente, l'est d'Europa.
Il suo esercito ha patito le liquidazioni e le assimilazioni di cui si è detto ma il generale non disdegna di procedere ad un reclutamento analogo a quello che fu possibile per l'impresa dei "Mille": anche per questa ragione guarda con estrema simpatia all'istituzione di una Società Nazionale per il Tiro a Segno, ritenendola una palestra ottimale per la formazione bellica di una gioventù mediamente non avvezza all'uso delle armi (e per questa ragione accetta la vicepresidenza di siffatta Società).
Dalle basi della Società e del suo processo di diffusione panitaliano, nella primavera del 1862 Garibaldi fa prendere il via ad una chiarissima campagna propagandistica per un nuovo reclutamento.
L'idea di un intervento nel TIROLO non coglie impreparato nessuno, anche perchè tutte le attività avvengono alla luce del sole, visto anche -giova dirlo- una presa di posizione governativa decisamente contraddittoria sin dall'inizio della propaganda di tale progetto.
La diplomazia entra però velocemente in azione, viste soprattutto le posizioni contrarie della Francia e della Confederazione germanica (della Prussia in particolare): dalla blandizie e da un sostanziale disinteressamento, a fronte delle pressioni diplomatiche, il Governo della Destra (come detto preoccuopato eminentemente di conferire stabilità al nuovo Stato) procede velocemente ad arresti ed alla soppressione di ogni preparativo bellico contro il Tirolo sino al momento finale dei sanguinosi scontri di piazza a Brescia: e proprio in merito a ciò si PRONUNCIA E PUBBLICA l'onorevole Boggio.

Garibaldi sta comunque divenendo un "problema" per la politica della Destra Storica.
Fallite le operazioni contro il Tirolo, Garibaldi sposta la sua attenzione verso il meridione, dove l'annessione ha finito per assumere i tratti dell'occupazione e dove sa di poter contare sull'appoggio di tanti suoi antichi sostenitori.
Egli non ha in vero nessun programma sovversivo: vuole piuttosto riprende in pieno la QUESTIONE ROMANA.
Le proteste della Francia non frenano la volontà garibaldina di interventismo e nel contempo il ministro Rattazzi, anche per evitare uno scontro diretto ed impopolare con l'"eroe dei due mondi", preferisce -sbagliando- attendere, come sembrano far presagire i tempi e le notizie diplomatiche, un'insurrezione popolare a Roma, che tuttavia ritarda.
Tale ritardo induce Garibaldi a lasciare la Sicilia ma non per ritirarsi a Caprera (come vanamente suggeritogli da emissari governativi) ma per raggiungere il continente e, risalendo il Meridione, assalire lo Stato Pontificio.
Temendo le ritorsioni francesi (ma anche per salvaguardare la propria autonomia) il Governo giunge allo scontro armato.
Il colonnello Emilio Pallavicini, cui è affidata l'impresa, manda ad ASPROMONTE in realtà un solo battaglione: ma tale forza è sufficiente, il 29 agosto 1862, per aver ragione della debole formazione capeggiata da Garibaldi, che peraltro resta ferito.
Il generale è quindi arrestato e imprigionato nella fortezza del Varignano dove rimane sino al 5 ottobre 1862, allorché può tornare libero in forza di un'amnistia e quindi sottoporsi ad un'operazione per risolvere i problemi datigli dalla mai risolta ferita patita nello scontro di Aspromonte.






Nel 1862 da SARNICO, Comune della Lombardia ora in provincia di Bergamo, tentò di prendere il via il tentativo garibaldino di invadere il territorio veneto con volontari d'accordo con esuli delle Venezie e con alcune società mazziniane.
Quello che sarà meglio noto come IMPRESA DI SARNICO o più correttamente IMPRESA DEL TIROLO AUSTRIACO fallì sul nascere per la presa di posizione del Governo italiano che il 15 maggio 1862 procedette all'arresto di Francesco Nullo e di altri volontari.
Truppe regolari portarono questi garibaldini in catene a Brescia per esser incarcerati in attesa di provvedimenti giudiziari: la cosa suscitò la reazione di tanti simpatizzanti di Garibaldi che cercarono con la forza di liberare i prigionieri.
Ne derivarono scontri gravissimi, con feriti e morti, proprio a Brescia.
I FATTI DI SARNICO divennero presto una questione nazionale che finì per contrapporre la politica moderata del Governo italiano della Destra Storica e i "Rivoluzionari" (più estesamente mazziniani e garibaldini).
La Camera, alla fine di lunghe discussioni, approvò i provvedimenti del Governo.
In tale contesto si posero gli interventi oratori dell'onorevole Pier Carlo Boggio che diede alla stampa due opuscoli: il PRIMO quasi subito dopo i cruenti fatti fu stampato il 21 maggio 1862 mentre il SECONDO vide la pubblicazione più tardi il primo giugno 1862 e fu in parte suggerito dall'idea, espletata con successo, di giustificare agli occhi dei deputati l'inevitabile ma impopolare PROCESSO DI SARNICO




Il discorso sul BANDITISMO SOCIALE è complesso e affonda le sue radici sin nella storia della cultura e della civiltà italiana.
Come giustamente scrive A. Capone nel suo contributo alla Storia d'Italia (edita a Torino da U.T.E.T. volume XX, Destra e Sinistra - da Cavour a Crispi, 1981, pp. 45 - 47) Il BRIGANTAGGIO POST-UNITARIO più correttamente si deve definire BANDITISMO SOCIALE e rappresentò una risposta tipica delle società rurali nel momento di passaggio, sostanzialmente atipico da un'organizzazione sociale su base familiare ad un genere di moderna società capitalistica. In effetti nel periodo iniziale dello sviluppo socio-economico delle regioni meridionali, in periodo preunitario, il BRIGANTAGGIO aveva avuto i connotati di una risposta sociale drammatica a momenti di crisi estrema come guerre, invasioni, carestie ed era destinato a svanire contemporaneamente allo sparire delle situazioni critiche: costituiva cioè un fenomeno endemico di una povera società agraria in cui v'era popolazione in eccesso a fronte della richiesta di mano d'opera. Dal 1860 i caratteri del BRIGANTAGGIO ENDEMICO si alterarono in direzione di quelli del BANDITISMO SOCIALE. Si trattava di un fenomeno per certi aspetti speciale, di una sorta di evoluzione del FENOMENO DELINQUENZIALE LA CUI STORIA E' DA PERCORRERE ONDE TRACCIARE UNA PARTE SOSTANZIALE DELLA STORIA DELL'ITALIA POSTUNITARIA.
Infatti esso non era, come spesso semplicisticamente si sostiene, solo un aumento degli uomini sani che, abbandonando il lavoro o la ricerca di lavoro, si concedevano ad una vita di rapine.
Col BANDITISMO SOCIALE si manifestava piuttosto la "disgregazione di un'intera compagine sociale, la ascesa di classi e strutture sociali nuove, la resistenza di intere comunità o popolazioni alla distruzione del proprio modo di vievere" come ha lasciato scritto E.J. Hobsbawm nel suo lavoro I banditi,il banditismo sociale nell'età moderna, pp. 18 e 20-21 (Einaudi, Torino, 1971, edizione terza)
Nel DOMINIO DI GENOVA la CRIMINALITA' ORGANIZZATA DEL BANDITISMO (BRIGANTAGGIO) raggiunse l'acme tra il XVI ed il XVIII secolo, assumendo varie tipologie, perlopiù connesse comunque alla connotazione prima espressa del BRIGANTAGGIO ENDEMICO sostanzialmente distinto nelle due forme, meglio definite di VIOLENZA LOCALE e VIOLENZA CONTADINA.
La decadenza di Genova e l'inserimento della Liguria nel contesto del Regno Sabaudo, poliziescamente ben organizzato ed attrezzato contro la criminalità in generale ed il brigantaggio in particolare frenò e alla fine fece decadere la piaga sociale del BRIGANTAGGIO LIGURE che non si evolse giammai in direzione del BANDITISMO SOCIALE.
Il BANDITISMO SOCIALE si sviluppò semmai in Francia, a fronte di un contesto demico ed economico in violenta trasformazione, a fronte della quale la vecchia compagine sociale volta per volta reagiva in modo peculiare, ma soprattutto con l'organizzazione di bande complessamente strutturate cui -come nel caso di quella del bandito soprannominato CARTOUCHE- erano attribuite le idee (non condivisibili razionalmente ma comunque alimentate dalla fantasia, e non solo da quella popolare) di una criminalità in qualche modo positiva e in lotta aperta col corrotto potere istituzionale, perpetratore di continue ingiustizie sociali.

Il Banditismo sociale nel Mezzogiorno italiano
Nel Sud d'Italia il banditismo sociale assunse in effetti la tipologia di una sorta di "una rivoluzione di masse e di una guerra di liberazione guidata da banditi sociali".
La situazione del Meridione nella crisi dell'unificazione attribuì al banditismo sociale meridionale caratteri specifici pur sotto il lato politico. La forza d'urto dei banditi e la mancanza di ogni programma a lunga scadenza resero tale forma di banditismo uno strumento efficace nelle mani di partiti e classi sociali meglio inserite nel contesto produttivo moderno. Così tale forma di "delinquenza organizzata" divenne nel Meridione un aspetto basilare dello scontro a tre che si giocava fra moderati, raclicali e borbonici.
L'energia del brigantaggio non sarebbe stata efficace senza la rete di complicità che coinvolgeva tutti i ceti del paese.
E' tuttavia possibile che all'interno di tale rete un ruolo fondamentale sia stato svolto dagli "stati intermedi contadini" attratti dall'idea di una gestione ad essi giovevole della questione demaniale ed anche ad una ripresa della lotta politica.
La partecipazione degli stati intermedi contadini a molte "reazioni" fu effimera.
Tuttavia anche se siffatti strati sociali, sempre in balia di speranze, delusioni e rancori, collegati alle vicissitudini delle operazioni demaniali, non scesero in campo apertamente in favore del brigantaggio, gli fornirono, sin alla fine del 1863, un buon appoggio, che, seppure insieme ad altri aiuti, giustifica la sopravvivenza delle bande e il loro rinascere dopo sconfitte pesanti, il loro abituale vantaggio nella sorpresa, e, contemporaneamente, l'isolamento dell'esercito nella sua opera di repressione, la titubanza delle guardie nazionali ed ancora le perplessità nello schierarsi dei "galantuomini".
Questi strati intermedi contadini sono da identificarsi con quella " parte del corpo sociale" che, come scrisse nel 1860 (20 dicembre) "Il Popolo d'Italia", "...è formata fra noi dai mezzari e piccoli proprietari e fittavoli agricoli".
Ai medesimi strati si riferisce Giustino Fortunato ("Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano. Discorsi politici", 1880 1910, vol. I, Laterza, Bari, 1911, pp. 85 - 86), cui attribuisce la colpa de "la ormai quasi totale esclusione dei municipi dei maggiori censiti, la dannosissima incentiva dei privati domini, quella nube di non so quale sospetto, che involge quasi dappertutto, l'ordine e il progresso della prudenza territoriale... Da qui il sobillare indefesso dell'orecchio dei contadini, così proclivi alla credulità, per diritti o realmente o bugiardamente conculcati, di falsi tribuni gaudenti a spese del gravoso bilancio comunale; le occupazioni a mano armata".
In questo contesto la repressione del brigantaggio postunitario rientrò in un'azione politica complicata e comunque volta ad impedire lo stabilirsi di un legame fra insurrezione contadina e movimento radicale. Non è casuale che l'anno 1863 segni il graduale distacco fra strati intermedi contadini e brigantaggio, e l'accentuarsi della crisi politica della sinistra .
Nei tempi intermedi fra le "reazioni" dell'autunno 1860 e l'arresto di Josè Borjes comandante legittimista catalano, che guidò parzialmente il brigantaggio dal settembre I86I e che fu poi catturato e fucilato a Tagliacozzo l'8 dicembre (1861), il brigantaggio acquisì carattere politico in senso borbonico.
Le "reazioni" dell'autunno 1860-inverno I861 furono infatti sostenute dallo spodestato Sovrano borbonico Francesco II, cui lo Stato Pontificio aveva concesso il proprio territorio come utile base operativa.
Nei mesi iniziali del 1861 forti bande operavano al comando di Giovanni Piccioni nell'Ascolano, di Angelo Camillo Colafella nel Chietino, di Chiavone (Luigi Alonzi) al confine pontificio, di Carmine Crocco ex bracciante dei Fortunato e Ninco Nanco, alias Giuseppe Nicola Summa, in Basilicata.
La lotta governativa avverso le bande armate acquisì in breve tempo subito connotati assolutamente militari.
Il 23 ottobre Fanti sentenziò la competenza dei tribunali militari straordinari per i briganti e quanti opponessero resistenza con le armi; nel mese di novembre vennero proclamati in stato d'assedio vari comuni della provincia di Teramo.
Contemporaneamente taluni militari quali il generale Pinelli presero ad esercitare pressione affinché si estendesse la pena capitale tramite fucilazione agli insorti sorpresi in armi ed ai sobillatori.
I1 generale Giacomo Durando, succeduto al Della Rocca a capo del VI corpo d'armata destinato al Mezzogiorno, ottenne, nel giugno 1861, un aumento da 51 a 57 battaglioni potendo quindi disporre di una forza complessiva di circa 20 mila uomini.
Nonostante la consistenza di queste forze fu praticamente impossibile arginare nell'aprile 1861 la sollevazione avvenuta in Basilicata sotto la guida di Crocco e con l'ausilio dichiarato dei contadini e di svariati proprietari terrieri: l'evidente colore politico dell'impresa fu segnato pubblicamente dal fatto che le forze banditesche, in grado di conquistare basi importanti come Venosa e Melfi, marciavano sotto le insegne della vecchia bandiera dei Borboni.
Nelle settimane successive il brigantaggio si spinse apertamente contro i liberali in Irpinia, Capitanata, nel Casertano dove operavano le bande La Gala, forti di circa 300 uomini cui si erano aggregate formazioni minori.
All'ingresso vittorioso dei banditi, in vari comuni fu ammainata la bandiera sabauda e innalzata quella borbonica: si ebbero gesta criminose, vendette private, addirittura si instaurarono governi provvisori.
In dipendenza di tutto ciò la risposta governativa non si fece attendere sul piano militare di repressione.
Nell'estate 1861 le truppe regolari procedettero ad una scientifica distruzione dei paesi ribelli, con le fucilazioni in massa degli abitanti.
A Gioia del Colle, in seguito ad uno scontro cruento, i regolari procedettero quindi all'uccisione di 100 popolani ed alla fucilazione di un'altra ventina il giorno seguente.
Nella primavera-estate di quell'anno tutto il Sud d'Italia giaceva in una situazione drammatica, aggravata dall'improvvisa morte di Cavour i cui successori, per quanto mossi da buoni intenti, non godevano certo delle stesse qualità sì da lasciare perplessi sui futuri destini di queste vaste regioni dell'Italia appena unificata.
Il nuovo governo presieduto da Bettino Ricasoli che ebbe il dicastero degli esteri, risultò composto: da Minghetti (interno), Bastogi (Finanze) Peruzzi (lavori pubblici), De Sanctis (istruzione), Miglietti (grazia e giustizia), Cordova (agricoltura e commercio), Menabrea (marina), Delia Rovere (guerra).
Quando il generale Cialdini giunse a Napoli verso luglio, ottenne che una buona parte dell'esercito italiano schierato sul Mincio fosse trasferito nel Sud: in questo modo i 22.000 soldati di Fanti divennero entro pochi giorni quarantamila e raggiunsero la cifra di cinquantamila verso la fine dell'anno. In un biennio il loro numero venne raddoppiato, di modo che nel 1863 il Gran Comando del La Marmora poteva mettere in campo truppe per il considerevole numero di 105.209 uomini, vale a dire l'equivalente dei due quinti di tutte le forze armate di cui disponeva l'Italia.
Cialdini progettò l'ideazione di un'alleanza coi democratici per combattere insieme la reazione borbonico-clericale e contestualmente reprimere con efficacia il brigantaggio.
Pantaleoni meglio di tutti espose la situazione in un rapporto al Minghetti, nel quale, riflettendo il punto di vista dei moderati, scriveva: " La deferenza che Cialdini mostra per Nicotera, Fabrizi, Tripoti non piace troppo... Nel resto Cialdini è popolare. Non così De Blasio il quale a farsi una popolarità pare che ci minacci di una tale infornata di impiegati quasi tutti del partito d'azione " .
Le guardie nazionali stanziali vennero affiancate da guardie nazionali mobili, almeno due per distretto: il loro arruolamento fu realizzato senza distinzioni a sinistra ebbe grande successo, sì che in pochi giorni si presentarono circa 600 ufficiali garibaldini, e a Napoli in soli due giorni 8000 volontari. Entro il 14 del mese di agosto erano state create 69 compagnie che insieme ammontavano a decine di migliaia di uomini, il meglio, in pratica, del volontarismo meridionale unitario di estrazione borghese e piccolo borghese.

La lotta al brigantaggio e la ingovernabilità politica del Mezzogiorno
La politica di Cialdini fu caratterizzata in parte dallo sforzo di colpire mortalmente i quadri della reazione politica: vescovi (ad esempio vennero cacciati quelli di Napoli, Salerno e Teramo, e rapidamente in forza di queste epurazioni si giunse a contare 71 sedi episcopali vacanti di titolare), clero e nobiltà legittimista (cioè filoborbonica).
Per altro verso il Cialdini si impegnò a favorire un suo incontro quale Luogotenente coi democratici al punto tale da suscitare le vigorose proteste dei moderati napoletani e le dimissioni di Silvio Spaventa, loro capo carismatico.
Il significato della sostituzione di Spaventa col De Blasio, accetto ai democratici, fu accentuato dal ruolo svolto da Nicotera mediatore fra il Luogotenente e la sinistra.
Il Nicotera, con altri deputati e membri dell'opposizione spedì al Cialdini un "indirizzo" che era ispirato, nel programma, a realismo e a moderazione, ma che mirava indubbiamente alla creazione di un fronte politico antigovernativo: "Invocando confidente l'appoggio del partito popolare-liberale - vi era detto - voi avete compreso che la questione è altamente ed esclusivamente politica".
Per contro, realisticamente, Pisanelli scriveva a Massari il 3 agosto: "Cialdini ha creduto trarre forza dal partito estremo, che non ha vera forza, ma che ne può acquistare una grandissima col suo appoggio".
La necessità per il governo di Ricasoli di mantenere l'appoggio delle minoranze moderate meridionali -e cioè delle uniche basi sicure, per quanto esili, nel Mezzogiorno fece fallire l'esperimento Cialdini che sospese l'arruolamento delle guardie mobili il 16 agosto e dette le sue dimissioni, che tuttavia per il momento non furono accettate.
Lo stesso giorno Nicotera nuovamente irrigiditosi nell'opposizione scriveva al Bertani: "Siamo nelle istesse condizioni di prima, cioè ostinazione da parte del governo nella via fatale di esclusivismo, diffidenza ed avversione al partito d'azione. Non abbiamo fatto opposizione a Cialdini come ai suoi precursori, e che ne abbiamo avuto? Nulla più di qualche parola di lode, ma si continua a guardarci come nemici e ci si nega perfino il diritto di farci ammazzare pel bene del nostro paese. Intanto la reazione inferocisce sempre più, e l'avversione ai piemontesi si sta mutando in odio implacabile per le fucilazioni che essi eseguono".
Ed in realtà così era. Infatti, mentre il brigantaggio si estendeva ed incrudeliva, la spietata repressione operata dal Cialdini, priva sempre più della copertura politica del partito democratico e in assenza di un quadro politico adeguato, andava somigliando sempre più a una carneficina.
In luglio e agosto le bande brigantesche occuparono interi paesi in Terra di Lavoro, nel Molise, ne1 Beneventano, nell'Avellinese, nell'Aquilano.
In provincia di Caserta i briganti attaccarono un treno carico di truppe. In Basilicata, Crocco, che era riuscito a raccogliere sotto di sé una forza di circa 1000 uomini organizzata militarmente, trucidò a Ruvo del Monte 17 persone, proprietari terrieri e liberali. Le rappresaglie del Cialdini si rivolsero allora allo sterminio non già di singole bande di briganti, ma delle intere popolazioni dei paesi insorti, indiscriminatamente colpite.
Il 7 agosto le bande guidate da Cosimo Giordano occuparono Pontelandolfo, la cui popolazione proclamò un governo provvisorio, e uccisero 45 militari e un ufficiale del 36° fanteria.
I bersaglieri procedettero allora alla fucilazione di chiunque si fosse trovato nel paese che fu incendiato e interamente distrutto. Giuseppe Ferrari che aveva visitato il luogo della spaventosa tragedia ricordò in Parlamento il dramma di un padre che aveva visto fucilati due figli di sentimenti liberali, commentando: "Appena osai mormorare che non così s'intendeva da noi la libertà italiana ".
Nel solo secondo semestre del 1861 vi furono, ufficialmente registrati, 733 fucilati, 1093 uccisi, 4036 fra arrestati e costituiti, per un totale di 5822 briganti posti fuori combattimento.
Ma la gravità della situazione non riguardava solo il problema del brigantaggio, che era sintomo e non causa delle condizioni di ingovernabilità del Mezzogiorno.
Fra i democratici vi fu chi invocava un nuovo inter vento di Garibaldi, che "dovrebbe venire con o senza il volere del governo... e rifare il cammino dell'anno scorso... sempre con il programma Italia e Vittorio Emanuele e riconquistare all'Italia questa parte meridionale che certamente sarebbe perduta se si continuasse col sistema del governo".
Un'altra presa di posizione, sintomatica per la sua estrema gravità, fu quella di Massimo d'Azeglio, che in una lettera del 2 agosto a Carlo Matteucci, poi pubblicata, scriveva: "La questione del tenere Napoli o non tenerlo, mi pare che dovrebbe dipendere più di tutto dai Napoletani, salvo che vogliamo, per comodo di circostanze, cambiare quei prin cipi che abbiamo sin qui proclamati. Sinora siamo andati avanti dicendo che i Governi non consentiti dai popoli erano illegittimi... A Napoli ab biamo cacciato egualmente il Sovrano per stabilire un Governo sul consenso universale. Ma ci vogliono, e pare che non bastino, 60 battaglioni per tenere il Regno, ed è notorio che, briganti e non briganti, tutti non ne vogliono sapere. Mi diranno: -e il suffragio universale?- Io non so niente di suffragio, ma so che di qua dal Tronto non ci vogliono 60 battaglioni, e di là sì. Dunque deve esser corso qualche errore. Dunque o cambiar principio, o cambiar atti, e trovar modo di sapere dai Napoletani una buona volta se ci vogliono si o no. Perché a chi volesse chiamar Tedeschi in Italia, credo che quegli Italiani che non li vogliono, hanno diritto di fare la guerra. Ma ad Italiani che, rimanendo Italiani, non volessero unirsi a noi non abbiamo diritto di dare archibusate".
Era chiaro, per altro, che entrambe le vie suggerite erano politicamente impraticabili. Accettare la tesi d'Azeglio avrebbe significato riconoscere di fronte all'Europa il fallimento politico e morale dell'unificazione con conseguenze gravissime per la stessa sopravvivenza dello Stato.
Napoleone III del resto, facendo leva su un eccidio di contadini avvenuto nel Casertano, notificava all'Europa che "Les Bourbons n'ont jamais fait autant ".
Ricasoli pertanto il 24 agosto inviò alle cancellerie dell'Europa una circolare nella quale si sosteneva la tesi, dettata palesemente dalla ragion di Stato, secondo cui Roma era la principale causa del brigantaggio; ciò serviva a ribadire, seppure contro nemici in parte fittizi, la volontà dello Stato di attenersi alla "logica irresistibile" della sua unità politica. A tale logica apparteneva del resto il gesto compiuto da Ricasoli il 9 ottobre 1861 e cioè la soppressione delle luogotenenze di Toscana e di Napoli, e poi di Sicilia.
Tale decisione era espressione dell'orientamento della Destra moderata favorevole ad un rigido accentramento amministrativo; per altro non tutta l'opposizione democratica era favorevole al decentramento.
Scrisse ad esempio qualche tempo dopo su tale questione Giuseppe Lazzaro: nel 1799, 1815, 1821 "le restaurazioni si fecero perché la rivoluzione rispettò l'autonomia locale, perché Napoli rimase centro del Governo, talché non si trattò che di mutare la persona che era capo dello Stato, e parte del personale...La rivoluzione del 1860, ancorché monarchica, fu più radicale di quella stessa repubblicana del 1799.
Allora le province dal Tronto a Reggio rimasero autonome in politica: oggi l'autonomia fu ristretta, ed è in questo che consiste il vero radicalismo dell'unità italiana".
Quando fu inviato a Napoli il generale La Marmora come prefetto e capo clel VI Gran Comanclo, il brigantaggio andava perdendo i suoi più evidenti legami con il legittimismo borbonico per diventare spesso l'occasione di una lotta politica generalizzata nella quale i democratici svolgevano certamente un ruolo rilevante. E in questo senso è giusta l'osser vazione che l'arrivo del La Marmora a Napoli assumeva "un chiaro significato politico di rilancio della discriminazione antidemocratica ".
. Del resto, a partire da questa data le vicende dell'accrescimento o del declino del brigantaggio corrono parallele alle vicende della lotta fra governo moderato e forze democratiche per il controllo del potere.
Già in novembre erano state presentate da Ricciardi, Zuppetta e dal duca Proto di Maddaloni, alcune interpellanze sulfa situazione delle province meridionali, ma ad esse si era opposto, tra gli altri, il Presidente del Consiglio, con lo specioso motivo che "Le piaghe delle Province napoletane non vi è medico che possa guarirle con degli specifici partico lari".
Su proposta di Saffi, pod, le interpellanze furono rimandate e abbinate alla discussione sulla questione di Roma; sicché dal 2 all'11 dicembre fu tenuto un dibattito assai ampio in cui venne esaminata praticamente tutta la politica dei moderati nel Mezzogiorno.
Da quel dibattito si ricava l'impressione che, per quanto riguarda l'analisi della condotta dei governi luogotenenziali in materia di amministrazione, vi fosse una larga convergenza di giudizi tra gli oratori moderati e radicali.
La questione di fondo era piuttosto un'altra, ed era squisitamente politica.
La enunciò, con equilibrio e obiettività, il moderato Pisanelli. "Mi pare -egli affermò- che il governo abbia ondeggiato per la persuasione di doversi poggiare sopra un partito politico. Ora, o signori, al di fuori e al di sopra dei partiti politici ci era il paese... Io intendo che sia desiderabile che tutti i cittadini prendano una posizione politica, che, in conseguenza tutta la cittadinanza si risolva in partiti politici: ma questo fatto, in un paese, come Napoli, nuovo alla vita politica, deve aspettarsi, non deve sforzarsi nè colla violenza nè colle blandizie governative". Inoltre -ricordava Pisanelli a proposito dello scioglimento dell'esercito meridionale e del modo in cui esso fu attuato- ciò aveva significato " disconoscere che nelle Due Sicilie l'iniziativa era stata presa dal partito rivoluzionario...disconoscere l'importante servizio che il partito rivoluzionario aveva reso alla cause d'Italia... era lo stesso che respingere uomini che prima avevano combattuto il governo del Re e poscia al re si accostarono , era lo stesso che costringerli alla ribellione".
Agostino Bertani, più puntualmente di tutti, riassunse il significato e la natura dell'opposizione meridionale, riprendendo in parte gli argomenti del Pisanelli: "E' l'incertezza, è la debolezza nella condotta politica del Governo, ben oltre quella nella amministrativa; è nella sua avversione dichiarata e provata al partito largamente liberale, immenso a Napoli".
Alcuni moderati si sforzarono di eludere questa che era la questione centrale del dibattito e, ad esempio, Massari negò l'esistenza di una questione napoletana, laddove vi era solo una "grande questione amministrativa".
Ma più grave fu la posizione del Ricasoli che addirittura disse di essere lieto del dibattito che si stava svolgendo perché -egli dichiarò- "ho avuto l'onore di riscontrare che tutto quello che è stato dagli onorevoli deputati durante quattro giorni suggerito fu già in precedenza dal Governo messo in pratica".
Un discorso, questo del Ricasoli, che fu così sintetizzato dal Petruccelli: "Non un programma, non una giustificazione, non un conto reso, nulla! ".
Silvio Spaventa accusò Bertani e i democratici meridionali di non essere unitari, di essere associati con tutti gli elementi municipali e borbonici del paese", e terminò il suo grave discorso affermando che il criterio principale del governo nel Mezzogiorno doveva consistere nello "scernere tutti gli elementi organici e governativi" che potessero assicurare l'adesione della maggiorità devota al nuovo ordine politico".
Ciò era la lucida enunciazione del criterio politico seguito dai moderati del Mezzogiorno che li rese in pochi anni una esigua e non certo amata minoranza incapace di rappresentare, come si diceva, il paese reale.

Aspromonte. Lo stato d'assedio
I1 nuovo governo presieduto da Rattazzi fu formato il 3 marzo 1862 e risultò così composto: Rattazzi (presidenza ed esteri ad interim), Sella (finanze), Petissi (guerra), Persano (marina), Depretis (lavori pubblici), Pepoli (agricoltura), Mancini (istruzione), Cordova (giustizia), Poggi (senza portafogli).
I1 governo Rattazzi rappresentò, sotto certi aspetti, una ripresa della politica personale di conciliazione con i radicali meridionali tentata dal re nel 1860-61.
Anche ora l'iniziativa monarchica, mal concordata con Napoleone II, si proponeva l'utilizzazione del garibaldismo in chiave meramente nazionale e, al fondo, la rottura dei suoi rapporti con la democrazia meridionale.
Non a caso, ad esempio, in questo clima, si manifestò in talune ali esterne del partito d'azione, il timore che una pacificazione del Sud attuata da Garibaldi d'accordo col governo servisse solo a rafforzare la posizione del Ministero, senza che ciò corrispondesse ad alcuna concessione politica verso la Sinistra del Mezzogiorno; che anzi a quest'ultima si sarebbe tolto ogni potere di contrattazione nei confronti del Governo.
Su questo punto, del resto, si aprì un dissidio politico e regionalistico fra l'ala settentrionale e quella meridionale della Sinistra che era incline ad accettare la strategia rattazziana.
La Sinistra, ad ogni modo, seppure divisa al suo interno, prese una serie di iniziative unitarie che dovevano servire a profittare delle aperture rattazziane, evidenti nelle proposte di assorbimento di quanto rimaneva dell'ufficialità garibaldina nell'esercito ordinario, e nel viaggio, sostanzialmente propagandistico, di Vittorio Emanuele nel Mezzogiorno.
Dopo la costituzione, nel marzo, dell'Associazione Emancipatrice Italiana che riuniva in un'unica organizzazione tutti i circoli democratici, compresi quelli mazziniani, i deputati della Sinistra costituirono una commissione composta da Montanelli, Miceli, Lazzaro, De Boni e Lovito, che










INDICE DEL DECRETO CONCERNENTE LE FABBRICHE (CHIESE):
-CAPITOLO I - DELL'AMMINISTRAZIONE DELLE FABBRICHE [INTENDI, SEPPUR IN SENSO GENERICO, CHIESE: DA "CAPPELLE", "ORATORI" "OPERE PIE", ATTRAVERSO I GRADI GERARCHICI SUPERIORI, SIN ALLE "CHIESE CATTEDRALI"]
-SEZIONE I - DEL CONSIGLIO
-PARAGRAFO I - DELLA COMPOSIZIONE DEL CONSIGLIO
-PARAGRAFO II - DELLE SEDUTE DEL CONSIGLIO
-PARAGRAFO III - DELLE FUNZIONI DEL CONSIGLIO
-SEZIONE II - DELL'UFFIZIO DEGLI OPERAI [PER "OPERA" INTENDI "COMPONENTI, DI VARIA ESTRAZIONE, DEL CONSIGLIO DELLA CHIESA"]
-PARAGRAFO I - DELLA COMPOSIZIONE DELL'UFFIZIO DEGLI OPERAI
-PARAGRAFO II - DELLA SEDUTE DELL'UFFIZIO DEGLI OPERAI
-PARAGRAFO III - FUNZIONI DELL'UFFIZIO
-CAPITOLO II - DELLE ENTRATE, DEI PESI E DEL CONTO DI PREVISIONE DELLA FABBRICA OSSIA OPERA
-SEZIONE I - DELLE ENTRATE DELLA FABBRICA [LE RENDITE DELLA CHIESA]
-SEZIONE II - DEI PESI DELLA FABBRICA [LE SPESE CHE LA CHIESA DEVE SOSTENERE PER I SUOI COMPITI RELIGIOSI, SOCIALE, AMMINISTRATIVI: LEGGI ANCHE "ONERI DI GESTIONE"]
-PARAGRAFO I - DEI PESI IN GENERALE
-PARAGRAFO II [SIC! PER "PARAGRAFO II"] - DELLE RIPARAZIONI [SPESE PER RESTAURI]
-PARAGRAFO III - DEL CONTO DI PREVISIONE DELLA FABBRICA O SIA OPERA [BILANCIO DI PREVISIONE PER LA GESTIONE ORDINARIA DI UNA CHIESA]
-CAPITOLO III
-SEZIONE I - DELL'AMMINISTRAZIONE DEI BENI DELLA FABBRICA [NORME VARIE PER LA GESTIONE DEL PATRIMONIO DELLA CHIESA: IN PARTIC. LA CASSA PER CUSTODIRE TITOLI VARI E DENARO LIQUIDO]
-SEZIONE II - DEI CONTI [NORME PER IL TESORIERE E LA TENUTA DEI LIBRI CONTABILI DI CHIESE E EDIFICI DI CULTO]
-CAPITOLO IV - DEI PESI DELLE COMUNITA' PER IL CULTO [NORME PER I PARROCCHIANI VERSO L'AUTORITA' ECCLESIASTICA DI PERTINENZA]
-CAPITOLO V - DELLE CHIESE CATTEDRALI, DELLE CASE VESCOVILI E DEI SEMINARJ [NORME SPECIFICHE PER QUESTI EDIFICI DI CULTO, RESIDENZA E FORMAZIONE CULTURALE E TEOLOGICA DEGLI ECCLESIASTICI]






Marco Foscarini, ambasciatore veneto a Torino nel 1743, in una operetta manoscritta, parlando della strada litoranea annotò: " La strada alla ripa del mare è angustissima e dominata dagli Appennini, dove s'incontrano frequenti passi impraticabili per una armata e li soli paesani, essendo gente armigera, bastano a guardarli".
Una turista inglese, lady Blessington, desiderando nel 1823 compiere un viaggio da Nizza a Genova scrisse: "Siccome noi sentivamo una grande contrarietà a viaggiar sopra una feluca, determinammo di procedere verso Genova attraverso la strada detta Cornice, che ammette due modi di trasporto: la sedia con portatori o il dorso del cavallo, o meglio il dorso del mulo...Non vi può essere un modo più piacevole di viaggiare che sul dorso dei muli. Il loro passo e l'ambio, un modo intermedio tra il rapido e il trotto. Non è affaticante, gli animali hanno un piede così sicuro che non fanno un passo falso anche sulla peggior strada. La nostra compagnia comprendeva 13 persone e ad esse erano addetti due mulattieri, il cui compito era quello di frustare i muli ed allontanarli da quella parte della strada che era considerata pericolosa. E' penoso vedere questi poveri uomini che trottano su e giù lungo la comitiva sotto i raggi del sote che è realmente bruciante sebbene siamo soltanto alla fine di marzo. La strada talvolta diverge dalla riva del mare e passa su burroni fittamente boscosi il cui tappeto erboso pestato dalle zampe dei muli esala un delizioso odore di timo silvestre e altre piante aromatiche che qui crescono in abbondanza. Ma il mare raramente è perduto di vista per più di quindici minuti ed il ritorno ad esso fa sempre piacere. Fino a che non vidi il Mediterraneo, non avevo altro aggettivo per il mare che sublime, ma qui è bellissimo"(la passione esotico-turistica della nobildonna inglese tendeva ad esaltare la natura ligure-mediterranea ma, sotto il profilo più prosaicamente utilitaristico, permette di evincere oggi che la napoleonica STRADA DELLA CORNICE nei primissimi anni '20 del XIX secolo non aveva la strutturazione di un'arteria di vera utilità: non erano quindi granché cambiate le condizioni viarie da quando PIO VII rientrando in Italia dalla prigionia a Fontainebleau, nel 1814, attraversò la riviera ligure su una portantina).
Quando Napoleone cadde, la strada fu abbandonata e andò abbastanza velocemente in rovina data la carenza di pronte riparazioni. L'occasione di riattarla si presentò tuttavia nel 1826, quando fu prospettata l' eventualità che Carlo Fellce vi transitasse.
Carlo Felice, diventato re di Sardegna dopo l'abdicazione del fratello Vittorio Emanuele I nel 1821, avrebbe dovuto raggiungere NIZZA partendo da GENOVA: in un primo tempo, tra l'aspettativa generale, si ipotizzò un innovativo viaggio per la strada corriera della Cornice ma quasi subito si apprese ovunque, da lettera del Governatore Generale della Divisione di Genova del 4/XI/1826, che il corte regale avrebbe proceduto su vascelli della flotta, partendo dal porto di Genova.
Nella stessa missiva, seppur fra vari punti interrogativi, si avanzava comunque l'ipotesi che il ritorno per il ritorno da Nizza potesse invece avvenire per via di terra.
In funzione dell'ipotesi di un VIAGGIO REGALE si inaugurarono frenetici lavori per riattare la già cadente strada della Cornice, lavori che, data la ristrettezza del tempo a disposizione, furono portati avanti anche nei giorni di festa e alla domenica stessa.
In data 16/XII/1826, venne tradotta alle autorità di Oneglia un'epistola del Governo Generale della Divisione di Nizza che sembra preludere ad un effettivo viaggio di ritorno di Carlo Felice e della consorte Maria Cristina seguendo la via di terra e conseguentemente il tracciato della Strada della Cornice:
"Sembra fuor di dubbio che le Loro Maestà, partendo da Nizza per far ritorno in Genova, passeranno per la strada del litorale. Quindi con questo corriere raccomando a codesto signor Intendente di dare tutte le possibili disposizioni affinché la strada Provinciale sia sollecitamente riattata in modo che non presenti alcun pericolo ed offra un comodo passaggio in carrozza agli augusti personaggi. Due o tre giorni prima della partenza dei sovrani spedirò questo Signor Ispettore del Genio Civile a riconoscere lo stato delle strade. Intanto io mi lusingo che ta Signoria Vostra Illustrissima di concerto col prefato signor Intendente non lascerà nulla d'intentato, affinché, per quanto è possibile non vi sia alcuna cosa a desiderare. Quanto alle pubbliche dimostrazioni di gioia, che le Comunità della Provincia vorranno senza dubbio esternare per festeggiare la fausta circostanza del passaggio delle Loro Maestà io esorto la Signoria Vostra Illustrissima a non apporvi altro limite che quello dell'ordine, di cui hanno in ogni occasione dato prove ed a secondarne lo slancio in tutto ciò che non potrà essere causa di turbamento o sconcerto. Però siccome la strada Provinciale non è molto spaziosa, e che ogni benché minimo fragore spaventerebbe i cavalli e produrrebbe inconvenienti io Le ingiungo così di proibire severamente ogni sparo di mortaretti, fucili od altra arma qualunque al tempo del passaggio delle Loro Maestà". Il 23 dicembre il senatore Giacomo Antonio Melissano da Nizza scrisse quindi al sindaco di Oneglia d'aver fatta pressione al fine che Carlo Felice optasse per il persorso litoraneo della riviera "potendo col mezzo della portantina supplire in alcuni punti all'incomodo e alla difficoltà della carrozza".
Nella Storia della città e del principato di Oneglia del Pira al proposito di questa circostanza si legge poi: "Questa civica amministrazione assicurata che Sua Maesta avrebbe qui pernottato, tutti i possibili preparativi ordinò per ben riceverla. Fu scelto per suo alloggio il casamento della famiglia Belgrano, siccome avente a mezzogiorno un'ampia loggia, ove lo sguardo piacevolmente si spazia sul mare, e situato sulla piazza S. Francesco di Paola, in facile comunicazione con i casamenti laterali. Non starò ad accennare ad una ad una le dimostrazioni di giubilo a cui preparavasi questo popolo innamorato del suo re. Non devo per altro tacere che una marittima illuminazione formata sopra dei battelli doveva rappresentare la figura del nuovo porto a cui si aspira". A disilludere tutti intervenne però una seconda lettera con cui ancora il senatore Melissano, il 25 dicembre troncò le aspettative da lui stesso suscitate: "...purtroppo il re non passerà per via terra...".
La delusione fu considerevole e solo parzialmente venne dissipata la convinzione di stare realizzando un'importante opera pubblica: così i lavori sulla strada litoranea continuarono sino a quando la Vice Intendenza informò il 24/I/1827 che erano stati ultimati.
Da questa data in effetti si può in effetti datare l'efficienza della moderna STRADA DELLA CORNICE pur riconoscendo i meriti e le intuizioni di Napoleone I, senza la cui moderna capacità di prevedere le esigenze future probabilmente la Liguria avrabba ancora tardato a riavere un'efficiente asse viaria.
E nonostante tutto rimasero vari lavori da completare.
Per esempio nel Ponente estremo il tratto di STRADA DELLA CORNICE che portava dal torrente Nervia al fiume Roia venne CONCLUSO solo anni dopo, precisamente nel 1836.
Parimenti nell'areale di Oneglia sia il TORRENTE PRINO che il TORRENTE IMPERO dovettero ancora essere superati per via di un GUADO (ci vollero ancora 20 anni circa prima che l'impresario Giordano realizzasse il PONTE SUL PRINO e parimenti occorse parecchio tempo affinché il TORRENTE IMPERO risultasse superabile in forza del PONTE SOSPESO costruito da Luigi Bonardet).











La STRADA CORRIERA DELLA CORNICE già qualche anno dopo la CADUTA DI NAPOLEONE denunciava difetti tali da renderne auspicabile (seppur fra opinioni diverse) un opportuno restauro.
A tale proposito è utile leggere quanto scrisse in proposito il VICE INTENDENTE SABAUDO SPINOLA nel 1819 al SINDACO DI VALLECROSIA la cui popolazione stava appunto, in parte, migrando verso la ZONA COSTIERA dove scorreva la STRADA CORRIERA ed ove si andavano sviluppando, molto lentamente, alcuni flussi mercantili:
"...Non ravvisandosi dal Governo conveniente sistemare la strada corriera verso Savona e verso Nizza in altro modo che per renderne il corso meno disagevole ai Corrieri ed a' mulattieri, l'Illustrissimo Signore conte Caccia con sua lettera del 20 Dicembre spirante mi previene che più nel novero delle Comunali che delle Provinciali deve la medesima essere contemplata. In seguito di tale decisione converrà nella formazione del Causato farsi carico di quei restauri che sarebbero necessari per stabilire la spesa, detratti però i lavori eseguibili da Cantonieri...".
Da queste poche parole si intende che il Governo centrale del Regno sabaudo non riusciva ancora ad intuire l'IMPORTANZA VIARIA COMMERCIALE DELLA STRADA COSTIERA: per le autorità, come in fondo per lo stesso Napoleone, l'essenza basilare della VIA DELLA CORNICE sarebbe stata quella di PERCORSO STRATEGICO e comunque funzionale soprattutto a spostamenti celeri fatti su singole cavalcature (da CORRIERI GOVERNATIVI quindi o da MULATTIERI) senza ancora valutare la possibilità e l'importanza del grande TRAFFICO MERCANTILE PER VIA DI CARRIAGGI, di per sè lento, bisognoso di sufficiente ampiezza stradale e di adeguate sovrastrutture (ponti o guadi efficienti per esempio): sarebbero occorsi alcuni anni per giungere alla definitiva visione di una GRANDE ARTERIA DI COSTA davvero degna dell'antica Julia Augusta.