Dal V sec. una Chiesa, sempre più collaboratrice dello Stato, iniziò ad assimilarne parecchie funzioni pubbliche sin a proporsi come interlocutrice nella soluzione dei quesiti giurisdizionali e politici.
Si è sostenuta l'esistenza di una PALEOCRISTIANA CHIESA INTEMELIA, eretta a Nervia sul diruto teatro romano, poi trasformato in area cimiteriale per le inumazioni sui gradoni della cavea.
A tal proposito non è da dimenticare la lettera che il canonico della cattedrale intemelia Giovanni Francesco Aprosio scrisse a Girolamo Rossi il 5 agosto 1891.
Secondo il religioso, stranamente sottovalutato da un disattento Rossi, nel 1836, nell'area nervina, come detto in prossimità del teatro romano, ai tempi della sua giovinezza, prima che si alterasse il complesso viario per l'ultimazione della STRADA DELLA CORNICE, sarebbero ancora esistiti i resti di una vasta chiesa paleocristana, andata poi diruta per le devastazioni longobarde.
A suo dire il canonico avrebbe anche misurato di persona la grandezza dell'antica fabbrica, trascrivendone nel 1829 due frammenti di lapidi [che in verità sembrerebbo appartenere alle costumanze d'un'epoca molto più tarda, fatto peraltro plausibile visto che sullo stesso luogo forse fu innalzato un minore edificio cultuale]: in una di siffatte lapidi egli avrebbe letto l'iscrizione Depositis Humili Secundi loco/ Sanctis Reliquis Nervia vederat/ Augustus voluit Virginis reditus/ Tandem reddere pignora (vedi E. Viola, Culto e tradizione per il Santo Patrono di Ventimiglia San Secondo in "Rivista Ingauna e Intemelia", N.S., anni XXI-XXV, 1969 - 1970 [edita nel 1995]): a questo proposito si deve dire che, almeno per non irridere, come da qualcuno si fece (ed a torto) le considerazioni del religioso, vale la pena di scorrere una PREVISIONE DI BILANCIO DEL PARLAMENTO INTEMELIO al cui PUNTO 24 venne citata (assieme ad una CHIESA DI BEVERA) una CHIESA DI NERVIA (toponimo già all'epoca usato specificatamente per indicare l'area sita sulla riva sinistra del torrente Nervia peraltro occupata da una prebenda episcopale.
La rilevazione proposta dalla seicentesca PREVISIONE DI BILANCIO sono importanti per due motivazioni: da un lato, come detto, concorrono nel modo più esaustivo possibile a sostenere l'esistenza di una CHIESA DI NERVIA ancora nel XVII secolo, che siffatta chiesa, di spettanza della Comunità di Ventimiglia e ville, non costituisse una parrocchia ma come tempio sacro fosse verisimilmente mantenuto in buono stato o per antiche motivazioni di fede o per qualche cerimonia periodica in essa celebrata.
Il fatto che fosse affidata ad un manutentore pubblico, a salario del locale PARLAMENTO, equivale a sostenere che la preoccupazione generale consistesse nell'evitare il degrado dell'edificio: per conseguenza era come sottolinearne la valenza cultuale e pubblica.
La manutenzione di un edificio corrisponde da sempre alla sua tutela e conseguentemente ai ripari contro i danni dell'usura e del tempo; ciò parimenti non esclude che un edificio soggetto ad usura possa essere non solo ristorato per quanto concerne gli elementi portanti ma altresì per gli arredi: su questo piano di riflessioni ecco che acquistano un loro significato le lapidi indubbiamente seicentesche verisimilmente deposte in occasione di qualche cerimonia connessa col crescente culto del martire tebeo S. Secondo.
Indagini recenti, col ritrovamento, tra l'altro, di due FRAMMENTI di pluteo di influenza culturale propria dei Longobardi sembrerebbero rafforzare la descrizione dell'antico canonico Aprosio ed avvalorare l' esistenza (peraltro prudentemente avanzata dallo stesso Nino Lamboglia) di un edificio paleocristiano a Nervia di Ventimiglia: rifacimenti edili longobardi nell'area, della II metà del VII sec., confortano anche l'idea di insediamenti civili connessi ad una persistente attività portuale (al proposito è importante quanto si legge in una Comunitaria Previsione di Spesa del Cancelliere intemelio G.B.Simondi del 4-III-1616 laddove, alla rubrica 24, ove vien fatto cenno a una delibera per il pagamento degli stipendi a due manutentori delle chiese antiche di Bevera e di Nervia: in C.B.A.,"Fondo Bono",ms.1, carte 429 v-30 r, v. B.DURANTE-F.POGGI, Storia della Magnifica Comunità..., cit., pp. 164-6).
Non è semplice delineare i caratteri della primigenia influenza ecclesiastica in Ventimiglia romana e nelle valli interne: in compenso risulta facile intendere che l'importanza portuale e strategico-viaria della città attrasse barbari ed imperiali, così che di volta in volta la Chiesa finì col seguire la sorte dei vincitori.
L'ipotesi che nel VII sec. esistessero due aree intemelie, quella antica e nervina per nulla abbandonata ed il più sicuro insediamento sul CAVO a ponente del fiume Roia, si può ribadire con altre ragioni ancora: una Cattedrale a Ventimiglia medioevale è stata supposta sulla base di un ritrovamento di frammento decorativo del VII sec., reimpiegato nel muro di chiusura della cripta. Le considerazioni architettoniche confermano l'idea già espressa di una occupazione longobarda più tarda rispetto a quella di Nervia, dove i frammenti di pluteo e le tracce di restauro son databili al VII secolo. Fra i manufatti reperiti nei restauri della Cattedrale comparvero sì resti di plutei, pilastrini, e lastre scolpite del VI-VII sec., ma era materiale riutilizzato, preso da altri edifici: vi si rinvennero invece un pluteo con girandole e margherite dell'VIII sec., un altro con croci gigliate (II metà dell'VIII sec.) ed un terzo con croci gigliate (stesso periodo) che sembrano rimandare all'epoca di Liutprando e dell'apertura verso il linguaggio figurativo della "bottega delle Alpi Marittime" che, dall'ultimo quarto dell'VIII sec. all'epoca carolingia, influenzerà (dopo le espressioni artistiche del monastero pedonense) la scultura nella Francia mediterranea e nella Liguria ponentina (AA.VV., La scultura a Genova e in Liguria - dalle Origini al Cinquecento, Genova, 1987, I, p. 37, 39, 40, 45, 123, 128: sono interessanti i rilevi di "S. Ponso" a Cimiez abbazia fondata da un San Siacrio, vescovo di Nizza nell' VIII sec., che attualmente sarebbe ignoto se non gli fosse stata intitolata, quale espressione di un influsso francone su un'area longobarda una vetusta chiesetta nell'alta val Nervia: H. SAPPIA, Les evéques de Nice in Nice Historique, 2, 1889, p.136.
Per trovare una data di discussione sulla topografia ecclesiale di Ventimiglia bisogna risalire ad un rogito (13-V-1260, doc. 243) del notaio G. di Amandolesio (LAURA BALLETTO, Atti rogati a Ventimiglia da Giovanni di Amandolesio dal 1258 al 1264 in Collana Storico-Archeologica della Liguria Occidentale, XXIII, Ist. Intern. di Studi Liguri-Museo Bicknell, Bordighera, 1985) secondo cui i CANONICI DELLA CATTEDRALE, organizzati potentemente nel CAPITOLO DELLA CATTEDRALE rigovernarono alcune loro proprietà, per una nuova distribuzione dei possessi terrieri o prebende colle rendite connesse.
Dal documento si apprende che i Canonici, appartenenti al popolo grasso della città se non al rango aristocratico, avevano vinta la secolare controversia che qui, come in tutta Italia, li aveva contrapposti ai potenti ordini monastici del passato (è emblematico che alla stesura dell' atto, nella Canonica della Cattedrale, fosse presente Paolo Preposito del Monastero in Bordighera di S.Ampelio dipendente dal convento benedettino di Montmajour: il cenobio bordigotto era in degrado, dopo aver raggiunto fama nell'XI sec., e le sue proprietà andavano ora a confluire nelle 2 prebende episcopali, dall'acqua del Nervia sin verso Genova, giunte al Preposito Rinaldo). Alcuni Ordini regolari stavano smobilitando parecchie case minori ed i Canonici, rispolverando antichi diritti della Cattedrale, ebbero schiusa la facoltà di assimilare possedimenti monastici, anche di S.Onorato in Lerino, suddividendoli in 8 grandi proprietà che si estendevano per la costa intemelia.
Essi, onde limitare i confini prebendali, si valsero dei riferimenti topografici con chiese e strutture edili spesso costruite, come ha dimostrato l'archeologia, su impianti romani: fu il caso di S.Pietro in Camporosso, della Chiusa di Latte, di San Vincenzo ai Piani di Vallecrosia, della Chiesa della Rota tra Bordighera ed Ospedaletti: i Canonici avevano finito così per calcare col territorio diocesano la topografia costiera del municipio imperiale di Albintimilium, lasciando agli ordini monastici il controllo dell'entroterra ove gli insediamenti romani non si erano evoluti oltre la dimensioni delle Ville rustiche.
Altro testimone di indagine è S. PIETRO primitiva parrocchiale di Camporosso, ora cimiteriale: l'abside ed il campanile sono dell'XI sec. ma l'edificio poggia su una chiesetta più antica, individuata coi restauri del 1967-69, che era ad una navata. Per quanto si ricava da rogiti notarili questa chiesa, nel XIII sec., dava nome alla più importante contrada di Camporosso e già da 2 secoli presiedeva ad un'area cimiteriale. Per la sua realizzazione furono usati blocchi sagomati di pietra della Turbia, usati pei migliori edifici di Ventimiglia romana: altri blocchi di simile pietra son sparsi nelle vicinanze, impiegati nei muri e persino in piazza del paese come sedili pubblici. Su un'area di 500 m. dalla chiesa sono stati segnalati 167 frammenti di presunto materiale edile della Turbia.
Dei 72 visti e identificati in base alle dimensioni della parte visibile, 22 superano la misura del metro, 13 hanno dimensione fra il metro ed i 50 cm. mentre i restanti 37 sono di misura inferiore ai 50 cm. (solo 7 denotano lavorazione a solco o cornice). Distribuzione e concentrazione degradano procedendo dal nucleo di S.Pietro (dai 180 ai 200 m. si trovano frammenti riutilizzati nei muri più antichi): questo induce a credere che ad un'implosione del corpo ecclesiale verso il V-VI (quasi di sicuro una demolizione, come nei pressi di S.Rocco-S.Vincenzo ai Piani di Vallecrosia, ove nello spazio della chiesetta vi sono reperti d'un edificio imperiale più grande) sia seguita fra VI-VII e XI sec. un'espansione, per cui i blocchi maggiori, difficilmente trasportabili, furon usati in loco a differenza dei frammenti minori reimpiegati in complessi murari più lontani.
Vista la quantità del materiale è impensabile, come nel caso dell'edificio vallecrosino, che il materiale sia stato portato dai ruderi della città romana : la precarietà dei trasporti, del tragitto e dei mezzi disponibili tra VI-VIII sec. nega questa ipotesi nè altera tale giudizio un'eventuale postdatazione, al IX e XI sec., quando la sabbia eolica aveva ormai coperti gli edifici romani di costa.
Diversi studiosi, tenendo conto di altri ritrovamenti nelle vicinanze di S.Pietro (frammenti di tegole romane, reperti di un'anfora greco-marsigliese del IV sec.a.C. nel vallone-lato Nord della cinta muraria cimiteriale), hanno elaborata la teoria che esistesse un insediamento ligure e poi romano nella zona, idonea alla vita di relazione> Per confortare l'idea fu utile l'analisi della minore chiesa vicina di S.Andrea, a 420 metri circa in linea d'aria da S.Pietro, nei cui pressi parimenti si son trovati documenti di romanità.
Questo sito fu un nodo viario da cui procedevano itinerari su Ventimiglia romana ed una trasversale, verso la val Roia: al riguardo ha rilievo un testamento del 5-XII-1260 (di Amand. doc. 324) per cui Anfosso Rainerio di Camporosso, volendo esser sepolto presso S.Pietro di Camporosso, lasciò una somma per la manutenzione del ponte di legno sul Roia da tenersi ad opera della Confraternita del ponte (fatto che si riscontra in altri lasciti, anche per la Confraternita del ponte in legno sul Nervia"). Costui ordinò poi di pagare 4 lire ad un viaggiatore che per lui, da S.Pietro, andasse a pregare nel "Santuario iberico di S.Giacomo di Compostella" (fatto consueto pei mercanti pedemontani che commissionavano, a mercenari delle preghiere, di procedere per loro verso le Chiese spagnole) e lasciò 56 soldi per curare e vestire "i poveri e gli stanchi pellegrini in Terrasanta" (il documento risulta significativo in quanto ribadisce l'importanza viaria del territorio di Ventimiglia, della val Nervia e delle loro chiese coi relativi ospizi).
L' edificio romanico di S.GIORGIO in Dolceacqua integra ed in un certo qual modo amplifica le riflessioni sullo sviluppo dei movimenti religiosi in valle del Nervia, sviluppo visto anche in rapporto con una precedente vicenda di insediamenti romano-imperiali e di un vasto programma cattolico-romano di sovrapposizioni cultuali. Nel XIII secolo la chiesa era officiata da un collegio di Canonici: si trattava quindi di una chiesa importante, retta da un capitolo collegiale, che nelle chiese non cattedrali esercitava in modo solenne il servizio divino. Presso l'Archivio di Stato di Genova (notai ignoti, filza IV) esiste un documento del 28-IX-1296 secondo cui il canonico Jacopo Manfredo "coadiutore" dichiarava di esser rimasto unico reggente di S.Giorgio per la morte di Ottone "presbitero" (ecclesiastico del secondo grado gerarchico, fra diacono e vescovo, dell'ordine cattolico) e "preposito" (in senso generico "superiore di una comunità" ed in senso stretto "priore claustrale di una abbazia benedettina").
Con la denominazione di TEBEI (argomento che ha sempre appassionato i ricercatori: come si vede da questo volume del '500)si indicano solitamente i MARTIRI TEBEI cioè i soldati dell'esercito romano coscritti nel contesto geopolitico, ai tempi della Tetrarchia, della provincia tebana in Egitto: sulla cui tragica vicende molto si è dibattuto, anche in tempi remoti, per esempio già nel IV secolo d. C. dallo scrittore ecclesiastico S. EUCHERIO D'ARLES.
Il patrono ventimigliese S. SECONDO venne appunto in Italia come uno degli ufficiali della legione tebea, di cui SAN MAURIZIO era comandante generale.
Una ricorrente, ma non generalmente condivisa interpretazione storica, che la legione tebea sia stata trucidata ad AGAUNO nella Svizzera, per non avere voluto partecipare, trattandosi in massima parte di soldati ormai convertiti alla religione cristiana, ad un sacrificio idolatra imposto dall'imperatore romano Massimiano, prima di muovere guerra ai Bagaudii.
E' generalmente sostenuto che che SAN SECONDO sia stato ucciso prima dell'intera legione, "ante beatum Mauritium et ceteros post vincula et carceres".
Rinaldi nei suoi Annali dice "prima che l'esercito andasse oltre i monti", come pure il Baronio, "antequam Alpes superasset romanus exercitus".
La legione tebea da Vercelli dovette transitare per Vittimulo, prima di proseguire per Ivrea e Aosta fino ad AGAUNO ove fu perpetrato l'eccidio di massa.
La prima tappa dopo Vercelli dovette effettuarsi a VITTIMULO, perché a passo di marcia, difficilmente l'esercito avrebbe potuto raggiungere in un giorno Ivrea.
A Vittimulo vi doveva sicuramente esistere uno di quei tanti posti rifornimento di viveri e di sosta per la notte, fondati e disseminati da Augusto in tutto l'Impero Romano, chiamati comunemente mutationes-mansiones.
San Secondo non vi giunse però come uno dei comandanti, ma in catene, per aver osato professare apertamente la sua fede. Scadeva anzi il quel giorno, narrano le sue Passio, il tempo concessogli per ravvedersi; ma il suo credo in Cristo non venne meno e la sua testa cadde sotto la spada del boia.
Il Cristianesimo riceveva in quel giorno il suo battesimo di sangue anche nel Biellese: esempio per i soldati-cristiani tebei e probabilmente anche per la piccola comunità cristiana di Vittimulo, che raccolse le spoglie del martire e le conservò come una reliquia.
Il discorso sulla VALENZA CULTUALE (E GEOPOLITICA) dei MARTIRI TEBEI (ed aggiungiamo noi di MARTIRI PSEUDOTEBEI) ai fini del necessario fenomeno di RICRISTIANIZZAZIONE di vaste aree territoriali in Liguria e Piemonte (sia dopo le scorrerie saracene che certe conseguenti o contemporanee devianze eterodosse) è stato sviluppato recentemente con acume e molto coraggio da Gianni De Moro.
E' ormai assodato, soprattutto dopo gli studi della Nada Patrone, la necessità che ebbe la Marca ardunica di affidare ai grandi monasteri pedemontani un ruolo essenziale sia per la riorganizzazione dei territori sia per la soluzione dei molteplici problemi di scollegamento spirituale che vi si erano sviluppati.
Contestualmente, visto anche che da un lato, per quanto sconfitti, i Saraceni continuavano, operando per bande organizzate, a costituire un pericolo soprattutto sotto forma di brigantaggio e che, d'altro canto, le devianze dei pravi homines interagivano con altre esperienze anticattoliche, la rivitalizzazione del cristianesimo con l'impianto di un rassicurante culto per santi guerrieri parve (e probabilmente fu) una soluzione ottimale, grazie -come detto- alla "forte spinta promzionale" prodotta dai monasteri pedemontani.
Nel contesto di queste acquisizione il culto dei Santi Martiri Tebei, con tutte le divagazioni agiografiche e storiche che finì col comportare, fu una fra le più significative opzioni.
S. MAURIZIO, il Dux Thebaeorum, assieme ai suoi compagni di martirio aveva la strutturazione emblematica per sorreggere l'idea di un cristianesimo rinnovato, forte e militante.
Parimenti era significativo il fatto storico della devastazione operata dai Saraceni contro il Santuario dei Tebei ad AGAUNO verso il 940.
La spedizione punitiva da parte dell'offesa Cristianità non s'era fatta attendere: nel 954 venne infatti portata avanti una spedizione antimusulmana sotto le insegne di S.MAURIZIO come scrive il Ducis e gradualmente prendono vigore, dopo la sconfitta saracena, tutte quelle figure della tormentata vittoria cristiana, in un modo o nell'altro connesse cogli invasori: così S.Maurizio e S.Dalmazzo (i cui santuari eran stati devastati dagli infedeli) oppure S. Bernolfo vescovo d'Asti, S. Benedetto vescovo d'Embrun, S. Teofredo o Chiafredo diversamente ma tutti comunque vittime degli invasori islamici (De Moro (p.128).
In definitiva, seppur con modalità alquanto diverse, per la ricristianizzazione delle aree desertificate spiritualmente, oltre che sotto il profilo demografico e socio-economico, si fece ricorso ad un espediente già collaudato ai tempi della lotta del Cristianesimo coi culti idolatrici cioè con una serie di sovrapposizioni cultuali cui non era estranea l'introduzione del culto per vigorosi santi cristiani di matrice guerriera.
L'indagine sulla geopolitica che dopo la crisi di X-XI secolo contribuì, parimenti, alla propagazione del culto ligure occidentale dei TEBEI, per quanto completabile sulla scorta di altre indagini, si distribuisce armonicamente: troviamo esempi importanti del culto mauriziano nei titoli parrocchiali di PORTO MAURIZIO, di CONIO e di RIVA LIGURE, nell'altare della chiesa parrocchiale di TORRIA, nell'OSPEDALE DI SANREMO, nella CAPPELLA DI CASANOVA LERRONE e più genericamente in un culto per S. Maurizio menzionato nell' AREA DI VALLEBONA.
Accanto a quello per SAN MAURIZIO si può menzionare per l'estremo ponente il culto per S. SECONDO particolarmente nella scomparsa CAPPELLA DEL VALLONE DI SAN SECONDO e quindi in merito all'ORATORIO DEI NERI e a due altari della CATTEDRALE in Ventimiglia medievale.
E' quindi piuttosto significativo il culto per S.ETOLO proprio di PORTO MAURIZIO: il De Moro (pp.135-135) fa notare che, non riscontrandosi negli Acta Sanctorum od in consimili repertori, la menzione di questo personaggio, la tradizione culturale locale ha finito per relegarlo nel campo del leggendario, facendone uno scudiero di San Maurizio, espressamente originario di questo centro ligure.
A provare invece l'influenza della chiesa piemontese nella Liguria postsaracena e l'impianto di culti per martiri Tebei o comunque per martiri guerrieri è intercorsa una scoperta archeologica avvenuta a Trino Vercellese per opera di S. Borla (Trino dalla preistoria al medioevo, Trino, 1982, pp. 113-119): nell'area cimiteriale della locale chiesa di San Michela, dalla tradizione indicata come il luogo di martirio di un ascritto alla legione tebea, tal San Atilio, Tetuo o -appunto- Etolo, è stata individuata una sepoltura paleocristiana in cui è stato ritrovato un frammento fittile di reimpiego ove si legge il nome ATILIUS: di fronte a queste prove non si può non concordare con il De Moro laddove sostiene che "l'Etolo portorino...non può che essere stato trasferito in Riviera ad opera di tramiti cui risultava ben nota la tradizione vercellese poi totalmente cancellata dal tempo fino a trasformarlo in santo autoctono".
Sondando a raggiera il campo non si possono far a meno di citare i culti tipicamente ingauni per SAN FIORENZO e SAN FEDELE (pur tra varie perplessità e opposizioni ascritti al complesso dei TEBEI) come la devozione locale, col relativo tolo parrocchiale, a LENZARI, in merito a SAN PROCESSO e SAN MARTINIANO, che sicuramente son stati erroneamente confusi coi TEBEI.
Ancora il De Moro (p.129) sviluppa una serie di ulteriori utili riflessioni, allorquando collega il culto particolare per SAN TIBERIO a PIGNA in ALTA VALLE DEL NERVIA con il processo di penetrazione della TRADIZIONE MONASTICA PEDEMONTANA e con l'interferenza in queste arre del potere politico di matrice aleramica o arduinica: erra, per mancanza di indagini sul campo, il De Moro solo nel momento in cui tra le VIE DI SCAMBIO MARE MONTI di siffatte interferenze cultuali e politiche, a lato della "VIA MARENCA" (come suol dirsi, con nome invero linguisticamente decettivo) che passava per l'areale dell'IMPERO E DELL'ARROSCIA, cita un'improbabilissima VIA DEL ROIA a fronte della ben più documentata e antica VIA DEL NERVIA, e nemmeno cita la fondamentale VIA DELLA VALLE ARGENTINA.
Un ulteriore elemento polisemico sulla duplice interferenza, civile e politica, dell'area pedemontana in Liguria occidentale è data dal caso di CARAMAGNA, nel contesto portorino, dove ancora a detta del De Moro (p.133) (che comunque utilizza una discreta bibliografia cui si rimanda il lettore) il pagus Pradariola sei Carmaniola fu realizzato in epoca tardoantica per surrogare un qualche centro, magari un castrum, di non impossibili origini bizantine, entrato in grave crisi dopo le plausibili rovine apportate dai Saraceni: si veda a titolo integrativo N. Lamboglia, Toponomastica storica dell'Ingaunia dell'antichità, Albenga, 1933, p.77.
E' in questa area che Olderico Manfredi e Berta, per conto del ramo marchionale arduinico, fecero dono nel 1028 di una CURTIS all'ABBAZIA DI MONACHE BENEDETTINE DI SANTA MARIA di CARAMAGNA - PIEMONTE nel cuneese, in val di Maira: con acutezza il De Moro (p.133, nota 78) rimuove probabilmente una vecchia incognita in merito alla donazione nell'odierno imperiese del 1028: L'uso della specifica toponomastica Caramaniola nel momento in cui, a rigore, l'insediamento specifico non doveva essere ancora avvenuto può far supporre che già in precedenza alla donazione del 1028 si fossero registrate in zona immissioni antropiche pedemontane provenienti dal pagus di Carmagnola. Una simile ipotesi postulerebbe un precedente intervento arduinico da situarsi tra il 972 ed il 1028 giustificando, anche a posteriori, la decisione di assegnare alla nuova abbazia piemontese possedimenti e territori in zone tanto lontane dalla sua normale sfera d'influenza".
E' comunque sintomatico che pure a CARAMAGNA-PIEMONTE fosse vivo un culto per SANTI TEBEI: per esempio in abbatiali ecclesia Sanctae Marie si veneravano SAN GIORGIO, SAN MAURIZIO ed infine SAN TIBERIO.
Le monache verisimilmente incentivarono l'insediamento di coloni provenienti dalla piemontese CARAMAGNA: questi, attratti come spesso accadeva dalla fruttuosa protezione monastica, non tardarono ad arrivare e verisimilmente portarono con sè il toponimo del sito di provenienza e lo applicarono al vallone sito a nord-ovest della città, venendo quindi a realizzare un secondo centro col nome di luogo ominimo: CARAMAGNA IN LIGURIA appunto.
Una serie di riflessioni molto interessanti imposta ancora il De Moro (p.133) in merito alla realizzazione di un'antica PARROCCHIA DI S. MAURIZIO a PORTO MAURIZIO realizzata sul colle della località e per la cui identificazione lo studioso si augura un'opportuna campagna di scavi.
Stando ai dati da lui raccolti il ripopolamento dell'area portorina dopo l'epoca dei Saraceni sarebbe da collegare con l'attivismo di monaci provenienti da PINEROLO quindi ancora da un complesso abbaziale pedemontano (MONASTERO DI SANTA MARIA) ove si veneravano tra l'altro i santi guerieri Giorgio, Maurizio e Tiberio.
Essi, favoriti da una donazione di Adelaide di Susa del 1064, avrebbero introdotto il culto tebeo per SAN MAURIZIO in un contesto demico che avrebbero favorito, sotto il profilo coloniale, incentivando trasferimenti di popolazione rurale dall'agro pinerolese.
Il citatissimo De Moro cerca altresì non senza ingegno, ma forse su basi più intuitive che concretamente documentate, di collazionare, come espressione di un relitto culturale della migrazione coloniale da Pinerolo al mar ligure, la presunta triade tebea dei Santi Maurizio, Giorgio e Tiberio, venerata nel centro pedemontano, con la triade delle compagne di Porto: S. Maurizio, San Giorgio e S. Tommaso.
Occorre però precisare che di questa portorina primigenia Ecclesia Sancti Maurici la citazione più antica risale al 1103 ed è custodita in documento di donazione a favore dei monaci di Lerino redatto dall'episcopo ingauno Adalberto
In epoche remote la località, con il toponimo di Tarnaiae sarebbe stata la capitale del popolo celtico dei Nantuati [secondo i linguisti tale nome sarebbe da collegare al celtico nantua nel senso forse di "insediamento vallivo"] appunto stanziato nel secolo I a. C nella regione a sud e oriente del lago di Ginevra.
Dopo la conquista romana la città venne ascritta alla tribù Sergia e successivamente mutò il proprio nome in quello di Agaunum (oggi Saint.-Maurice-en-Valais).
Nel 57 a.C. Cesare inviò contro i Nantuati Servio Sulpicio Galba con la XII legione.
All'epoca augustea quste genti, assieme a quelle degli Uberi, dei Seduni e quindi dei Veragri, vennero amministrativamente incluse nella Provincia delle Alpi Graie e Pennine.
Per correttezza storica giova ricordare come vari studiosi, dal Leclercq, al Delehaye, al Dupraz, non convengono affatto con la teoria, più genericamente filocattolica, di un eccidio di MARTIRI TEBEI ad opera di Massimiano nella località di Agauno nell'attuale Vallese, in Svizzera.
Secondo una tarda agiografia molti legionari sarebbero invece sfuggiti al massacro e, disperdendosi in vari paesi, si sarebbero dedicati alla predica del Santo Vangelo: anche per questa ragione tanti santi locali, soprattutto in Piemonte, sarebbero detti appartenenti alla legione tebea.
S. MAURIZIO, in particolare, condottiero dei Tebei, per esempio secondo la versione di S. Eucherio, vescovo di Lione morto nel 450, sarebbe da accomunare ai martiri Esuperio, Candido e Vittore.
Il ritrovamento delle loro ossa in un antico cimitero cristiano avrebbe suscitato l'opinione fideistica che tutte le salme ivi rinvenute fossero state dei soldati tebei divenuti martiri per la persecuzione di Massimiano.
Difronte a queste contraddizioni, una consistente scuola storiografica ha preferito che le vicende riguardanti Maurizio siano da collegare ad un episodio locale innestato nel contesto d persecuzioni anticristiane di Diocleziano finalizzate ad una "purga" dell'esercito stesso.
Le presunte reliquie di S. MAURIZIO furono comunque portate a Torino nel 1591 dove si conservano nella cappella della santa Sindone.