CHIESA DI S.ANDREA

Per confortare l'idea che l'"antica contrada camporossina di S.Pietro" sia stata edificata in prossimità se non sui resti di qualche complesso insediativo, pubblico e privato, di età imperiale romana fu utile l'analisi della minore chiesa vicina di S. ANDREA, a 420 metri circa in linea d'aria da S. PIETRO, sul ciglio orientale della provinciale.
Non si può comunque far a meno di non citare una storia alternativa secondo cui il muro esterno della chiesa sarebbe stato strutturato in modo da risultare inglobato in una torre edificata verso il 1145 da un console della Repubblica di Genova Oberto Doria allo scopo di festeggiare la nascita di un figlio (è però opportuno ricordare che non si sono individuate tracce della presunta torre).
E' invece certo, per la presenza di relazioni sull'argomento, che proprio intorno a questa chiesa si ebbe un acceso scontro militare -durante la GUERRA FRA GENOVA E PIEMONTE DEL 1672 fra le truppe sabaude e le forze in ripiegamento del comandante genovese colonnello Prato.
A S. ANDREA i sondaggi hanno infatti evidenziato, oltre ad un'ARULA FUNERARIA o VOTIVA di epoca imperiale romana (murata nell'angolo Sud-Ovest dell'edificio) reperti di tipo diverso, la segnalazione di una piccola necropoli nelle fasce colturali a fronte ed oltre la strada (ove nel Duecento erano le proprietà del latifondista intemelio Intraversati) ed anche monete del buon Impero: si vede poi sul lato est del portale di ingresso una lastra in pietra della Turbia, quasi totalmente infissa nel terreno. Sulla base dei vari dati si è quindi evoluta l'ipotesi che il complesso religioso di S.Pietro e S.Andrea fosse stato eretto sui resti di un sistema pubblico romano, di tipo basilicale fuori mura a sua volta edificato fra I e II secolo d.C.(come permettono di datare le sagomature dei blocchi della Turbia) onde smistare i prodotti commerciali in arrivo od in partenza per la via romea verso il Piemonte.








L’uso dell’ INCENSO risale ad epoche assai remote: già nel libro dei morti egizio e tibetano, fra l’antico ceppo etnico americano dei Vuh e nella Bibbia si accenna al gesto di bruciare l’incenso nel corso di cerimonie religiose o magiche.
In Egitto si soleva ricorrere ai profumi e all’incenso durante l’imbalsamazione dei defunti o lo svolgimento di riti di matrice magica e religiosa. Soprattutto l’olibano (Boswellia Carterii) era tenuto in grande considerazione; questo incenso rappresentava l’elemento più importante nell’ambito del rito dell’offertorio.
La regina Hatschepsut (Nuovo Impero, 18ª Dinastia, verso il 1475 a.C.) gestiva una serie di scambi commerciali con Punt, la leggendaria terra dell’incenso, situata nell’attuale Somalia.
Una spedizione in quella terra è raffigurata su una delle pareti che compongono il suo mausoleo posto a Deir el-Bahari, nei pressi di Luxor.
Gli egizi bruciavano tre volte al giorno un’offerta (o olocausto) in onore di Ra, il dio del sole.
Ogni mattina, al sorgere del sole, si bruciava dell’olibano o un altro tipo di resina.
Quando a mezzogiorno il sole raggiungeva il punto più alto, si bruciava della mirra. Alla sera, in concomitanza con il tramonto, si offriva in sacrificio il famoso kyphi, una miscela composta da sedici ingredienti (nell’Antico Egitto, il 16 era considerato un numero sacro).
Pur se la ricetta di questo incenso è stata scoperta nel papiro di Eber, esistono comunque anche altre varianti del kyphi.
Secondo Plutarco, il kyphi contribuiva ad allontanare le preoccupazioni della vita quotidiana, donando calma, pazienza, un sonno profondo e sogni piacevoli.
In Egitto, si soleva utilizzare l’incenso anche nel corso di cerimonie segrete, di canti rituali nonché durante la declamazione di testi sacri.
Come in Egitto, anche in Mesopotamia l’uso dell’incenso rivestiva una funzione di spicco nell’ambito dei riti che accompagnavano la sepoltura.
In seguito, l’impiego del cedro, del calamo aromatico, del mirto e di altri legni aromatici è stato integrato alle cerimonie religiose e magiche.
Le tavole che recano incisi i caratteri cuneiformi e che risalgono a circa 3000 anni prima dell’avvento del Cristianesimo indicano a loro volta una serie di ricette destinate alla preparazione di profumi e dell’incenso.
Nell’Antico Testamento si accenna a più riprese alla tradizione che consiste nello svolgimento di riti sacrificali in cui è previsto l’atto di bruciare l’incenso.
Gli antichi ebrei sono venuti a conoscenza dell’uso dell’incenso in Babilonia e in Egitto.
Le loro prime ricette relative alla preparazione dell’incenso s’ispirano presumibilmente al kyphi egizio. Al mattino e alla sera, gli ebrei bruciavano l’incenso sull’altare del tempio.
Si soleva bruciare l’incenso anche durante le cerimonie sacrificali nonché in occasione del primo raccolto di frutta.
Durante una visita a re Salomone, la regina di Scheba o Saba, una striscia di terra situata nell’Arabia sud-occidentale, fece dono al sovrano di una singolare quantità di sostanze aromatiche.
Nell’antichità, gli scambi commerciali vedevano regolarmente protagonisti l’incenso e i profumi.
Le carovane degli ebrei trasportavano olibano dal Mar Rosso e da Galaad (Transgiordania), galbano e storace dalla Siria nonché benzoino e ladano fino all’Egitto, per vendervi il prezioso incenso.
Gli egizi erano principalmente interessati all’olibano e alla mirra, che acquistavano in massicce quantità.
All’epoca di Plinio, la produzione di olibano era monopolio di un numero ristretto di famiglie arabe.
Agli uomini reclutati appositamente per raccogliere la gommoresina era vietato - per l’intera durata del raccolto - avere rapporti sessuali o venire a contatto con i cadaveri.
Fra gli antichi Greci, l’incenso e i profumi avevano un ruolo importante in quanto veicoli che consentivano di comunicare con gli dei.
Fino all’VIII secolo a.C., questa popolazione non conosceva affatto l’incenso, pur non essendo all’oscuro degli olocausti a base di legno di cedro, limoni e rose.
Non è escluso che si debba ai Fenici la diffusione dell’incenso in Grecia.
Questo popolo di mercanti vantava un’indubbia competenza in materia d’incenso nonché di olocausti offerti alla dea dell’amore Afrodite sull’isola di Cipro.
In seguito, l’incenso sarebbe divenuto un elemento di grande rilievo nell’ambito dell’amore e della vita di coppia.
I greci sperimentarono l’anice, l’iris, il giglio, la maggiorana, la salvia e la rosa.
L’olibano, la cannella, la mirra, il nardo e lo zafferano furono “importati” dall’Egitto, dalla Fenicia e dalla Siria.
L’olibano proveniva dall’Arabia ed era bruciato sostanzialmente nel corso dei riti sacrificali, ma anche per allontanare i demoni e gli spiriti maligni.
A Zeus, Demetra, Ermes e ad altre divinità si soleva offrire incenso nonché biscotti, frutta, miele e farina.
Per armonizzarsi con gli dei del focolare domestico, si bruciava perlopiù legno di cedro, mirto e olibano.
L’incenso, di norma molto costoso, era considerato un dono d’immenso valore.
Durante la conquista dell’Egitto, della Grecia e di alcune aree del Medio Oriente, i Romani sono venuti a conoscenza delle pratiche magiche e religiose compiute dalle popolazioni indigene, che offrivano sofisticati olocausti in onore delle loro divinità.
Gli abitanti di quelle terre avevano creato una serie d’importanti strutture commerciali, entro cui fervevano grandi attività, e dove i proprietari scambiavano incenso e profumi provenienti dall’India e dai paesi africani.
Scrive Ovidio che a Roma, in occasione della festa dei pastori, si prediligeva una miscela d’incenso a base di alloro, olive ed erbe aromatiche.
L’olibano fungeva da incenso di base che veniva bruciato su piccoli altari portatili insieme a radici di costus, mirra e zafferano.
L’incenso veniva utilizzato tanto in ambito domestico, in onore delle divinità della casa, quanto all’interno dei templi.
I Romani rappresentavano inoltre dei riti sacrificali, cospargendo l’altare di vino e bruciando incenso di alloro e zafferano.
Nel II secolo d.C., l’incenso fu importato dal regno dei Nabatei, che all’epoca faceva parte della provincia romana dell’Arabia.
La capitale Petra si trovava in prossimità dell’attuale capitale della Giordania, Amman.
Essa era il centro del commercio di incenso e di spezie provenienti dalla regione che costeggia l’Oceano Indiano e dalla Penisola Arabica.
A Roma, non lontano dal Foro di Trajano, si snodava la Via Piperatica o via del pepe, dove si erano insediati i mercanti romani di erbe aromatiche e spezie.
Anticamente, il produttore di profumi e d’incenso ricopriva peraltro il duplice ruolo di medico e farmacista.
All’inizio, i primi cristiani non bruciavano l’incenso poiché questo rituale richiamava troppo la fede giudaica.
Tuttavia, a partire dal V secolo d.C., è diventata una consuetudine utilizzare l’incenso nel corso delle cerimonie religiose e di purificazione.
I padri della Chiesa hanno conosciuto l’olibano e la mirra attraverso il Nuovo Testamento, poiché questi tipi d’incenso erano parte integrante dei tre doni offerti a Gesù Bambino dai Tre Re Magi venuti dall’oriente.
Infine, a partire dal XIV secolo, l’uso dell’incenso si è esteso anche ai vespri, alle processioni e ai riti funebri.
La tradizione araba, per quanto attiene all’incenso, risale ad epoche assai remote.
Già secoli prima dell’avvento del Cristianesimo, gli arabi importavano profumi e incenso dall’India e dalla Cina.
Durante le Crociate, i cavalieri europei, grazie ai contatti stabiliti con i mercanti arabi, hanno avuto modo di conoscere ogni sorta di fragranza.
Venezia riforniva l’intero continente europeo di saponi, profumi e incenso.
Venezia è anche la città che nel XVI secolo ha istituito il primo ed importante centro di profumi in Europa.
L’Italia sarebbe divenuta il principale crocevia europeo in ambito commerciale riguardo alla vendita di legno di cedro, lavanda, rosmarino, rosa, legno di sandalo, resine di gomma e resine aromatiche, fragranze di derivazione animale, cipria e radici profumate. Nella cultura islamica, l’incenso viene bruciato in segno di sacrificio nei confronti dei santi nonché durante le cerimonie nuziali, dopo un decesso e nel corso dei riti funebri. Gli indiani di fede musulmana bruciano l’olibano nell’intento di estromettere dalle loro abitazioni il »malocchio« e altri spiriti maligni. I musulmani ricorrono soprattutto all’aloe, allo storace, ai semi di coriandolo e al benzoino.
Gli indù importano l’olibano da tempo immemore. A casa o nei loro templi, sono peraltro soliti bruciare legno di sandalo, benzoino, fiori secchi, semi, radici e qualità di legno straordinariamente fragranti.
L’essenza di canfora, tanto per citare un esempio, è dedicata alla divinità di Krishna.
Anche gli indovini indiani raccolgono piante o resine sacre.
Accendono un fuoco con rami di cedro, si coprono il capo con un fazzoletto e si protendono verso le fiamme per inalare il fumo profumato.
I buddisti tibetani bruciano l’incenso per invocare gli spiriti del bene e allontanare i demoni.
I buddisti di Ceylon, l’attuale Sri Lanka, offrono al Buddha soprattutto fiori e profumi.
I cinesi utilizzano l’incenso nelle processioni, nelle cerimonie funebri e di purificazione nonché nel corso di riti magici in onore delle divinità della casa e durante l’oracolo con i Ching.
Negli anni Sessanta, soprattutto i giovani hanno intrapreso una ricerca atta a rivelare gli strati più profondi del loro sé. Ciò ha permesso loro di conoscere le tradizioni e i riti magici dell’Africa, dell’America oltre che del Medio e dell’Estremo Oriente. Fra le conseguenze dello studio delle filosofie e delle tecniche di meditazione orientali, come ad esempio lo yoga, occorre annoverare la diffusione dell’incenso anche nei nostri paesi in veste di strumento atto a rilassare o al contrario ad instaurare un livello di concentrazione della psiche tale da consentire l’approdo a stati di coscienza superiori. Oggi, l’incenso viene importato dal Maghreb, dai paesi arabi, dall’India, dal Tibet e dall’America Centrale. L’incenso viene normalmente prodotto sotto forma di bastoncini, polvere, grani o coni, ed è reperibile pressoché ovunque (da Il libro dell’incenso. Meditazioni, ricette e aromi per profumare la nostra vita di Erna Droesbeke, Xenia Edizioni, 2000 Traduzione dal tedesco di Cristina Luisa Coronelli)





Esiste un confine fra una cosmesi "buona" e una "cattiva" ?.
L’interrogativo sulla valenza terapeutica od estetizzante della cosmesi nasce con Galeno e accompagna la storia della bellezza e della moda ma anche della medicina. "Lo scopo dell'arte del trucco è di procurare una bellezza acquistata, mentre quello della cosmetica, che è parte della medicina, è di conservare nel corpo tutta la sua naturalezza, a cui si accompagna una naturale bellezza ...rendere più bianco il colorito del viso con medicamenti, o più rosso, o farsi i capelli ricci o rossi oppure neri, o, come fanno le donne, accrescerne a dismisura la lunghezza, queste ed altre simili sono operazioni della perniciosa arte del trucco, non dell'arte medica": Così appunto Galeno, medico greco (131-201 d.C.) che segnò i confini tra cosmesi buona, con funzione conservativa della bellezza naturale, e cosmesi cattiva, distinzione che è rimasta per molto tempo.
"Se le odiose lentiggini deturpano la bellezza del viso e non riescono ad avere efficacia i doni della natura benigna, spalma insieme, sulle guance ruchetta e aceto. Ti farà bene anche la cipolla temperata dal dolce miele, e mescolerai rape crude ed aceto, oppure il vizio del volto sarà eliminato da sangue di lepre" scrive Quinto Sereno Sammonico nel suo Liber medicinalis; "Le macchie del viso si curano con fiele sia di toro che d'asino, da solo, temperato con acqua, evitando di esporsi al sole e vento dopo che la pelle si è distaccata" precisa Plinio Seniore nella monumentale Naturalis Historia.
Nei secoli successivi il Cristianesimo condannò le pratiche di bellezza esaltando il pudore.
Ogni intervento sul corpo era un doppio peccato: di lussuria e di orgoglio.
Per Tertulliano, teologo del III secolo d.C., "Peccano contro di Lui le donne che si opprimono la pelle di unguenti, si tingono le guance di rosso e gli occhi di nero. Ciò che è dato per natura, viene da Dio, ma quello che è artificio, è opera del diavolo".
Significativo poi è il grottesco ritratto satirico di una certa Galla fatto da Giovenale: "lei se ne sta in casa ma i suoi capelli sono altrove, la dentiera se l'è tolta per la notte come si toglie un vestito e la sua faccia non dorme con lei: il suo corpo è riposto in cento vasetti"(!).
Lo specchio è la porta dell'inferno, strumento diabolico della donna civetta che, secondo Etienne de Bourbon, "aveva sette teste come il drago: una per il giorno, una testa per la notte, una per le feste civili, una per le cerimonie religiose, una per stare in casa, una per uscire, una per gli estranei".
Nonostante l'anatema religioso di matrice medievale, le donne continuano ad utilizzare i cosmetici pur dimensionandone l'ostentazione e l'applicazione rispetto alla grande tradizione classica.
Risalgono al XIII ed al XIV secolo i primi trattati di medicina in cui si codificano i canoni estetici e in cui sono presenti ricette utili per risolvere inestetismi cutanei, quali le macchie e le rughe.
Per il Medioevo la bellezza è quella adolescenziale in quanto a 25 anni la donna, appesantita dalle gravidanze, viene considerata "deserto d'amore".
L’incarnato riluce del candore di un giglio o della neve, proprio ad avvalorare la sua natura virginale.
Per aumentare l'impatto visivo luminoso, le donne si depilano la fronte applicando un miscuglio di solfuro naturale di arsenico e calce viva e per evitare la successiva ricrescita dei capelli utilizzavano un composto a base di sangue di pipistrello o di rana, succo di cicuta o ceneri di cavolo bagnato nell'aceto.
I capelli sono tassativamente biondi e vanno lavati con un impasto di cenere, bianco d'uovo e sapone.
Molto importante l'acconciatura che utilizzava delle ciocche false, dei cuscinetti di crine, il tutto adornato con fili di perle o d'oro.
In epoca umanistica e quindi rinascimentale il canone della ninfa medievale cede il passo alla donna vera, dalle forme arrotondate, dagli occhi neri e dal caldo incarnato, così come è raffigurata nel dipinto di Tiziano "Venere allo specchio" (1555 circa).
È l'epoca di Caterina dé Medici, regina di Francia, fautrice della bellezza barocca ed ambasciatrice del modello italiano all'estero.
Le donne dell'epoca risultano ancora bionde: va di moda il cosiddetto "biondo veneziano" ottenuto con un preparato schiarente messo in posa sui capelli, lasciati asciugare al sole utilizzando un cappello a larghe tese che lasciava scoperta la sommità del capo.
L'incarnato è ancora chiaro, ottenuto con l'uso della biacca opaca. La trasparenza del volto è sempre molto importante, espressione di nobiltà e purezza d'animo. La moda scopre il seno rigorosamente incipriato; le mani, anch'esse bianche, indossano ogni notte dei guanti al cui interno si trova un miscuglio schiarente a base di miele, mostarda e mandorle amare.
Compaiono i finti nei per coprire lentiggini ed altre discromie cutanee.
La loro posizione assume significati diversi: assassino quando è accanto all'occhio, malizioso sulla piega del sorriso, sbarazzino sul labbro superiore, sfrontato sul naso, discreto sul labbro inferiore.
Risale a questo periodo la parola maquillage con il significato negativo di barare, truccare. Anche gli uomini non disdegnano l'uso dei belletti e dei profumi.
Si dice che Mazarino si truccasse per sembrare più giovane, con grande vantaggio a livello diplomatico.
Nel ‘600 la donna elegante, nonostante i rigori controriformisti ricorre, al pari che nell'epoca umanistico-rinascimentale, all'uso della cosmesi esaltando ancora il pallore del volto, stemperato da un sottile rossore sulle gote.
La parola fard , di derivazione francone, ha il significato di 'tenero".
L'abbronzatura è messa al bando e le donne utilizzano dei veli per coprire il decolleté.
Fa la sua comparsa il rossetto, a uso esclusivo delle persone di rango e indossato indistintamente sia da uomini che da donne.
Però per Giacomo Casanova (1703-1770) "una donna è mille volte più attraente quando esce dalle braccia di Morfeo che dopo un'accurata toilette".
Nel XVIII secolo la cosmetica femminile apprezza ancora i toni tenui ed anzi furoreggia il pallore, solo che trattasi di pallore autentico; l'artificiosa cosmetica barocca lascia infatti luogo al volto naturale che esprime i suoi sentimenti e meglio, in particolare, se emaciato e sofferente.
E’ l'epoca delle brune, che ingrandiscono lo sguardo con la belladonna o l'atropina.
Nasce la fisiognomica, disciplina medica che diagnostica le malattie attraverso i tratti del viso e che deduce il carattere della persona.
Per la prima volta la bellezza non soggiace ad un canone ideale: è ancora una bellezza bianca e splendente grazie all'uso delle maschere da notte e dei prodotti esfolianti che cancellano rughe ed efelidi.
All'inizio dell'800 la classe borghese si distingue dal proletariato per la pulizia e lo scrupolo d'igiene.
L'abitudine di farsi il bagno cresce di pari passo con l'installazione delle stanze destinate alle abluzioni.
Ma ci vorrà molto tempo prima che l'igiene diventi una pratica quotidiana; all'epoca si consigliava di lavarsi i capelli ogni 2 mesi, i piedi ogni 8 giorni ed i denti una volta alla settimana (!) "Che cos'è la bellezza ? Una convenzione, una moneta che ha corso solo in un dato tempo e in un dato luogo" così pensava Henrik Ibsen (1828-1906), autore di "Casa di bambola" (1879) in cui la protagonista, Nora, preannuncia il movimento femminista: decide di vivere autonomamente nel momento in cui diventa consapevole di non essere, per il marito e per la società che la circonda, che una futile e graziosa bambola.
E per l'epoca, la bellezza ideale è caratterizzata dalla sobrietà.
Paul Perret sentenzia: "La borghese non si trucca, si dà una sistemata".
Il maquillage, che finalmente perde tutti i suoi connotati negativi, utilizza la cipria, il cold-cream ed il mascara.
Nel 1863 Charles Baudelaire scrive "Eloge du maquillage", in cui riconduce la bellezza all'idea dell'artificio: "Tutto ciò che è bello è il risultato del ragionamento e del calcolo.
Tutto ciò che viene dalla natura è orribile".
La mania del ballo che contagia la Parigi dell'epoca, colpisce tutte le donne della classe media, soprattutto le operaie e le donne di facili costumi.
Impazzano il cancàn, il Moulin Rouge e le Folies Bergére e ripresi nei dipinti di Toulouse-Lautrec e Degas.
All'immagine della bellezza borghese si contrappone quella popolare, sempre molto truccata, con labbra rosse, occhi bistrati e capelli raccolti di premura.
"La donna ha diritto all'esercizio quotidiano dei muscoli e dei nervi: ha diritto a far respirare la pelle, all'igiene dei tessuti, alla gioia del corpo nella sua interezza.
Solo così diventerà un essere elegante, sano ed equilibrato, e non sarà più la creatura di peccato e voluttà dipinta in secoli di cattolicesimo moraleggiante" H. Beranger (1900).
Sono cambiati i tempi: la donna scopre il corpo, fa attività fisica.
Finisce l'epoca dei corsetti che modellavano la figura: tutto è demandato alla ginnastica. La donna moderna ha il ventre piatto, il seno piccolo e le spalle muscolose: un corpo androgino che emana ambiguità e che è libero di amare chi vuole.
Alla fine degli anni Venti, si scopre il piacere di una pelle femminile abbronzata, non più espressione di appartenenza a una classe sociale inferiore, ma segno di salute e benessere fisico: Coco Chanel istiga le donne ad abbandonare l'ombrello che proteggeva la pelle dai raggi solari, ad eliminare i guanti e ad accorciare le gonne. Come sarà l'immagine femminile nel 3° Millennio? La risposta in un aforisma di Arthur Bloch "La bellezza è soltanto epidermica. La bruttezza arriva fino all'osso".






Storia e profumi vengono spesso associati……soprattutto perché possedendo particolari proprietà batteriostatiche ed antisettiche, venivano nell'antichità utilizzati nelle cerimonie religiose e nei trattamenti delle malattie.
I profumi rispondevano allora alle esigenze di una cultura..basti pensare all'India, dove la liturgia buddista prevedeva il lavaggio delle statue degli dei con acque profumate. Ma bisogna attendere il VI-VII sec.A.c. per trovare l'esistenza di una tecnica di espressione dei fiori, rappresentato da un bassorilievo di "Raccolta e pressione dei Gigli" che si può osservare al museo del Louvre.
A partire dal primo millennio si manifestarono fenomeni di vitale importanza: - tra XI e XIII secolo, nacque la Scuola di Salerno e la scienza degli Arabi; - Venezia si propose come centro di scambio attivo di spezie fino al sec. 1797 quando fu ceduta all'Austria.
Tuttavia è in Oriente, India, Persia, Egitto che si sviluppa la preparazione degli oli essenziali ed entra nella già millenaria vicenda di essenze e profumi la storia della distillazione.
Fu il medico svizzero Paracelso a mettere a punto la teoria della Quintessenza, rappresentante la parte realmente efficace di qualsiasi droga e proponendola come lo scopo della farmacia.
In Francia le corporazioni d'arte e di mestiere come quella dei Profumieri e dei Guantai, ripartite in piccolo numero di famiglie, creeranno l'industria del Profumo dei Fiori basata sulla cultura delle piante a profumo e sulla produzione degli olii essenziali.
Nel XVIII secolo la tecnica dell'estrazione dei profumi dai fiori, per mezzo cioè di corpi grassi, a freddo, per contatto, senza immersione, si affermò come una delle tecniche che restituivano più fedelmente l'odore dei fiori.
Il sorgere di industrie di raffinazione del petrolio, permise verso il 1879/1880 di utilizzare per l'estrazione di profumi dai fiori l'etere di petrolio.
Tutte queste ricerche avevano portato ad una quasi perfezione nella fabbricazione degli oli essenziali e dei prodotti d'estrazione per mezzo di corpi grassi e solventi volatili, ma non portavano niente sulla conoscenza della loro composizione.
I primi documenti sulla profumeria risalgono alla CIVILTA' EGIZIA, secondo la cui cultura le fragranze, il cui controllo era proprio dei sacerdoti, avevano la proprietà di fare da tramite alle aspirazioni umane nell'aldilà. Presso questo popolo il profumo era completamente naturale e divenne un elemento nell'arte di guarire. La civilizzazione del Nilo ha trasmesso sulla pietra dei suoi monumenti tutta un'iconografia dei procedimenti di preparazione di oli, resine, liquori fermentati. Basti pensare all'imbalsamazione del faraone, che prevedeva dopo la privazione del corpo delle viscere e la pulizia con olio di pino dello stesso, il riempimento con mirra, cassia, cannella e cedro, per essere successivamente avvolto con bende impregnate di olii aromatici. Successivamente gli egizi, iniziarono ad impiegare le sostanze odorose anche per l'igiene quotidiana, che vide il nascere di una vera e propria industria dei profumi.
Nell'antica GRECIA, il mito e il culto della bellezza, trovarono nel profumo una perfetta unione, ed è proprio grazie a personaggi quali Erodoto e Ippocrate, i più grandi medici dell'antichità che apprendiamo la conoscenza che i Greci avevano dei profumi. Fu nella sublime Atene di Pericle che gli odori buoni ("euodia"), raggiunsero il loro apogeo, nonostante il veto di alcuni personaggi illustri quali Socrate. È sufficiente far riferimento al "Trattato degli odori" di Teofrasto, considerato il testo base della profumeria antica per comprendere l'importanza che veniva da essi attribuita al profumo.
Con l'età imperiale, anche a ROMA, si ha il trionfo del profumo in tutti i suoi aspetti; i ricchi infatti conservavano gli oli profumati in vasi di terra cotta e cornici di rinoceronte, dal momento che consideravano l'uso dei profumi come uno dei più onesti piaceri dell'uomo. Durante i conviti nella Domus Aurea di Nerone, per esempio, da un soffitto d'avorio traforato cadevano sugli ospiti petali di rosa impregnati di essenze preziose…… Purtroppo con la decadenza dell'Impero e la nuova morale imposta dal Cristianesimo, l'arte del profumo cadde nella più totale dimenticanza.
Al MONDO ARABO si devono le maggiori e principali innovazioni tecnologiche del campo della profumeria, dalla serpentina all'alambicco, alla distillazione a vapore attribuita ad Avicenna. I profumi venivano vissuti come corollario della meditazione e dell'estasi ed offrivano appaganti piaceri terreni; nella costruzione delle moschee, ad esempio, veniva aggiunta in dosi abbondanti oltre alla malta, anche l'essenza del musk; il Corano ne fece uno dei simboli del paradiso islamico ed infine Maometto, li annoverava fra le tre cose da lui più amate in vita: "Apportano bellezza e piacere sia al corpo che allo spirito".
Nell'EUROPA MEDIEVALE i profumi furono messi al bando per diversi secoli a causa del rigore del Cristianesimo e fu solo con l'avvento dei Crociati che gli stessi furono riportati nel vecchio continente. Le città marinare italiane, ricoprirono così ben presto il ruolo di crocevia delle essenze provenienti dall'Oriente e lo fecero con enorme entusiasmo. Fu nel 1370 che fu prodotto il primo profumo alcolico, l'acqua della Regina d'Ungheria, anche se il vero centro della profumeria europea fu l'illuminata Firenze di Lorenzo de' Medici, dove tutti gli oggetti di uso quotidiano vennero impregnati di essenze, cani inclusi!! Tuttavia con Caterina de' Medici, Reggente del Regno francese, ed il suo profumiere Renato Bianco, fu la Francia a detenere il primato nella produzione di fragranze, utilizzo di oli, pomate profumate e saponi per la Corte, ancor oggi incontrastato.
Solo alla fine del XIX secolo però nasce la PROFUMERIA MODERNA a Parigi, "ville lumière" che vide il sorgere di lussuose boutique di profumieri quali Guerlain, Bourjois, Molinard, Roger et Gallet. Il cambiamento della società europea era diretto alla ricerca di nuovi simboli di ricchezza, lusso e benessere e con il passare degli anni il profumo divenne la rappresentazione più diretta di stati d'animo, modi d'essere e stili di vita. Tutto ciò fu accompagnato dal sorgere delle prime pubblicità e dal moltiplicarsi delle creazioni profumate, dovute anche e soprattutto ai progressi della chimica. Nel 1876 si ebbe il sorgere della prima fabbrica di ingredienti sintetici: vaniglina, curarina, eliotropia, aldeidi……che trovarono una straordinaria legittimazione nel rinomato Chanel n°5, nato nel 1921, che deve il suo successo alla notevole presenza di queste ultime. Furono questi sconvolgenti ma allo stesso tempo travolgenti "Anni Folli" che videro il trionfo del progresso, il boom dell'Alta Moda ed il suo sodalizio con il mondo del profumo….fra i grandi sarti che fecero un tutt'uno di moda e profumo possiamo ricordare Coco Chanel, Jean Patou, Molyneaux, Luis Vuitton, Worth. Da allora fino ai giorni nostri, le mode sono cambiate, ma la concezione del profumo è rimasta immutata nel tempo nella sua dimensione straordinariamente complessa di sogno, sorprese, emozioni, desiderio, esplosiva seduzione.