CONVENTO DI DOLCEACQUA

LE ORIGINI

Nell'XI sec. un monaco di NOVALESA avrebbe celebrato in una sua Cronaca l'epopea dei monaci di S. Benedetto che, dal cenobio del Moncenisio, si sarebbero sparsi sulle regioni colpite dai SARACENI a recarvi conforto. Quei monaci, fra XI e XII sec., seguendo vie liguri-romane, erano giunti in val Nervia: vi portarono nuove tecniche artigianali e l'olivicoltura. I nobili locali non furono alieni da concessioni: molte carte dell'abbazia son scomparse ma è sopravvissuta la Bolla di Eugenio III (9-II-1151) con cui a Novalesa si confermarono possessi tra Italia e Francia, in Piemonte, Liguria e Lombardo-Veneto (la pergamena rimanda a un atto più antico di Innocenzo II, del periodo fra 1130 e 1143). Tra i possessi abbaziali si legge che in episcopatu Vigintimiliensi i Benedettini tenevano una ecclesiam sancte Marie Dulcisaque.
I Benedettini avevano ricevuto il Priorato di Dolceacqua per donazione feudale e lo indicavano con un toponimo latino prossimo all'attuale: i codici principali riportano Dulcisaque: C.M.CIPOLLA, Monumenta Novaliciensa Vetustiora I, Roma 1898, Acta, app.VI = IAFFE', Regesta Pontif. Roman.,I ed. n. 6625, II ed. n. 9549.
Il toponimo è in rapporto col dial. Douzaga-Dousaga=doc. del 1186-7, già in Arch.Reale di Torino, Inventario Oneglia, Maro, Prelà, mazzo 31, n.1. In età carolingia l'abbazia di Novalesa, fondata il 30-I-726 dal franco Abbone, godeva splendore come luogo di spiritualità e centro di cultura.
A rendere famoso il monastero avevano concorso abati come Eldrado e Frodoino e il fatto che il cenobio sorgeva su un ganglio di traffico alpino, fra regni di Franchi e Longobardi.

>Nel sec. VIII facevano capo a Novalesa terre e Priorati o monasteri minori: erano diffusi perlopiù in territorio francese stendendosi dalla Casa Madre a Digione e Besançon per giungere, attraverso Vienne e Grenoble, alle case della valle del Rodano ed ai possessi di Marsiglia e Tolone.
Fra VIII e IX sec. si spostò l'asse del dominio abbaziale verso la pianura italica: il processo fu imponente dal 926, dopo l'invasione saracena, quando i monaci si trasferirono a Breme.
Dopo i saccheggi la Casa Madre fu ricostruita e, fra X-XI sec., conseguì splendore con l'ampliamento dei possessi italiani, specie nella valle del Tanaro, a compensazione delle perdite in area francese ( le cappelle minori del cenobio susino vennero affrescate da un ignoto pittore lombardo mentre la chiesa madre fu ingrandita su nuovo disegno archittetonico).
Gli Abati acquisirono nuovi Priorati costieri che, come quello dolceacquino, sostituendo i perduti insediamenti navali di Marsiglia e Tolone.

BENEDETTINI, FEUDATARI E COMUNI

Sul Priorato di Dolceacqua per assenza di fonti è arduo identificare il potere che favorì i Benedettini: varie case nobiliari, tra cui il potente casato della Marca Arduinica, rinvigorirono i contadi, resi deserti dalle scorrerie, con lasciti ad Ordini monastici.
Così fu per l'abbazia di San Onorato che via, via nell' XI sec. ottenne S.MICHELE DI VENTIMIGLIA e SEBORGA, terre presso Perinaldo e mulini con campi a coltura lungo il Roia. Anche il Vescovo Tommaso, secondo uno spirito di cooperazione tra Diocesi e monachesimo, lasciò ai frati altre terre, a Carnolese presso Mentone.
Il 4-VII-1049 Adelaide di Susa aveva lasciato al monastero genovese di S. Stefano: l'erede della Marca Arduinica cedeva un terreno, coi connotati della Curtis Regia o bene diretto fondiario feudale, a un ordine monastico vigoroso perché lo rinvigorisse: Villaregia era vicina a CAPO DON e questo era stato, prima che insediamento monastico e paleocristiano, una stazione stradale romana, a guardia delle vie di mare, costa e monte.
Adelaide fu prodiga anche verso i Novaliciensi (Cipolla,II, doc. LXX) ma risulta impossibile dire se abbia donato loro l'agro dolceacquino; in linea comparativa con Villaregia si può affermare che la chiesa conventuale novaliciense di S.MARIA DI DOLCEACQUA fosse sorta su un'area di antichi insediamenti, tipologicamente vicina alla Curtis Regia longobarda od alla Villa Regia dei Franchi: l'indagine topografica ed archeologica ha qui identificate le sovrastrutture della corte rustica signorile come sorgenti, campi e rovine, terre ortive e seminative, strade di comunicazione e gangli viari.
A proposito di questo insediamento dei Benedettini della Novalesa nel ponente ligure è da ricordare la devozione che essi alimentarono in Ventimiglia per S. Secondo.

Il tempo ha stravolto l'architettura del Convento di S.Maria e già nel secolo scorso G. Rossi non ritenne di poterne approfondire le vicende: diede solo una scorsa alle ricerche di Carlo Cipolla, che aveva decifrato le carte di Novalesa, né svolse sondaggi sul campo. I resti della chiesa erano ormai risultato di modificazioni del corpo originario dell' XI-XII sec. mentre la chiesa denota tracce di edilizia di tardo XII sec. solo nelle strutture inferiori. Per disegnare la topografia del complesso, senza indagini archeologiche, bisogna rifarsi a dati generali e fonti conservate nella biblioteca-archivio di Novalesa o in rogiti dei notai antichi che lavorarono a Dolceacqua: dopo la Bolla del 1151, la chiesa di S.Maria fu citata in qualche atto privato.
Secondo un rogito del notaio di Amandolesio actum in Dulci Aqua il 12-III-1263 aveva due proprietà in morga de Villatalla; a fine secolo divenne nota quale Sancta Maria Motae o (de Mota): il nome comparve il 14-V-1293 in atti del notaio Giorgio Bonsignore che accennò ad una terra Sanctae Mariae Motae.

I beni dei conti in Dolceacqua, ai primi del XIII secolo, stavano ormai passando al popolo grasso, a mercanti arricchiti o all'aristocrazia di Genova: nel 1230 Fulcone de Castello aveva preso dominio, acquisendola dal Conte Oberto dei Ventimiglia, della rocca di Podium Rainaldi (Perinaldo) e della villa del Gionco. Lanfranco Burbonino acquistò nel 1255 dai feudatari intemeli metà del luogo e del castello di Dolceacqua: ammiraglio della flotta genovese sarebbe caduto in disgrazia nel 1270 per non aver dato battaglia ai Veneziani a Trapani e, onde pagare una grave multa, svendette i beni di val Nervia (latifondista fu poi Desiderato Visconti che il 6-I-1256 acquistò i beni rimasti indivisi in Dolceacqua). I diritti passarono, tra XII e XIII sec., al Comune di Dolceacqua uscito indenne dagli scontri fra Guelfi e Ghibellini. Il Comune fu citato la prima volta in un atto del di Amandolesio il 29-VIII-1262: era una conferma di Lanfranco Burbonino delle convenzioni fra il Conte Manuele ed i consoli locali Raimondo mulinarius, Roberto Bonanato, Enrico ferrarius e Bonipar de Villa.

Non era stato facile per Dolceacqua scuotere il sistema feudale, per quanto in aperta crisi, e nel 1232 il conte Oberto, volendo riaffermare diritti fiscali (sotto forma dell'antico BANNUM), fomentò una rivolta contro il Comune di Dolceacqua anche se, in difficoltà per gli eventi, fu obbligato, onde rientrare nel castello , a sottoscrivere altre convenzioni.

Nella Storia del Marchesato di Dolceacqua G. Rossi aveva sostenuto che la falda collinare, ove sorge la chiesa conventuale e da cui si domina il castello, fosse stata organizzata con terrapieni, catapulte e ordigni sì da assalire le forze comitali nel fondovalle e dominare il castrum (castello).
Terrazzamenti , in linea collo sperone del il Castello, sono riscontrabili a fianco della portigliola che dà accesso ad un vano, con volta a botte, alterato da interventi murari recenti, dove si individua ancora, fra archi e nicchie, edilizia di XII-XIII secolo.
Se è arduo collegare il terrazzamento agli eventi del 1232, è semplice connettere il toponimo Mota al concetto di assemblea popolare in opposizione alla nobiltà feudale: ciò non preclude l'opinione che il consesso sia avvenuto in un sistema fortificato in osmosi col monastero favorevole all'esperienza guelfa (Rezasco, 640; sarebbe stato infatti insicuro lo spazio del "Parlamento ordinario" in Plano Dulcisaque).

Da un atto del di Amandolesio (1263) si sa dell'esistenza di una "Confraternita dello Spirito Santo" o Conflaria di Dolceacqua, che partecipava alla politica in senso avverso ai Conti; era un'associazione religiosa di mutuo soccorso per uomini e donne appartenenti al popolo grasso di mercanti e artigiani: contribuivano alla vita sociale con doni in natura ad agosto (cereali, grano,avena, segale) ed in ottobre (vino-castagne).
La "Confraternita" era presieduta da Priori mentre i Massari amministravano denari e lasciti, per aiutare i bisognosi, e custodivano i prodotti nei magazzini societari (le celebrazioni sociali, "di fraternità", si tenevano con banchetti nelle feste di Pentecoste e ai primi d'agosto).
L' associazione, benché pacifica, si era alla fine inserita nella lotta antifeudale portando il contributo di spiccato associazionismo; il successo dell'impresa ebbe tal rinomanza che il nome dell'assemblea popolare divenne un toponimo ed alla chiesa monastica di S.Maria fu attribuito l' appellativo mota divenendo S.Maria dell'Assemblea del popolo: alla chiesa conventuale di Dolceacqua poi si attribuirono qualità curative e nel XV sec. la "Beata Vergine sarebbe stata denominata della Muta per il fatto d'aver restituita la favella ad una muta fanciulla" forse CARACOSA figlia di ENRICHETTO DORIA, moglie di Ceba Doria dei Signori di Oneglia e madre di ANDREA DORIA ammiraglio, "Restauratore" (PER CARISMA MILITARE ED ABILITA' DIPLOMATICA) della Signoria dopo l'occupazione dei Grimaldi [però in un rogito di Giorgio Bonsignore (14-V-1293) era ancora comparso il toponimo antico TERRA SANCTAE MARIAE DE MOTA e altre volte si sarebbe letto questo nome nei documenti prima della vicenda di Caracosa: la FAVOLA in realtà fu creata dai DORIA perché ENRICHETTO fu definito pagano avendo rapito ai Benedettini il Convento per impossessarsi delle sue terre (l'espediente miracolistico riavvicinò ai Doria il popolo: Sommario di alcuni miracoli operati dalla Beatissima Vergine della Muta di Dolceacqua, Marchesato degli Eccell. Signori Doria, Diocesi di Ventimiglia, in Carmagnola, per Buggio Cayre, 1687 = Caffaro, 18-19 maggio 1898).
Nel '500 Motta (dial. mòta) pareva oramai del tutto inspiegabile anche se già aveva una storia europea: derivava dal lat. volgare motta, *mutta da *mut, "sporgenza", voce del sostrato mediterraneo accostato al lat. movita.
Di stesso tipo sono il francese mota, "altura, rialzo" ed il francese antico mote, "fortezza costruita su un' altura"(sec.XII): così è per il tedesco Gemote e l'inglese moot.
In vari toponimi, come per S.Maria della Mota , si assiste alla convivenza dei significati di "assemblea" con quelli di "fortilizio": Motta San Giovanni, Motta Santa Lucia e S.Maria di La Motta non a caso sede di un priorato novaliciense ed ora frazione di Pancalieri.


TRASFORMAZIONI, DECADENZA, DISTRUZIONE

G. Rossi (Storia del Marchesato cit., p. 24,n.2) scoprì in un rogito del notaio Andrea da Cairo in Genova che il Signore di Dolceacqua ENRICHETTO DORIA, raggiunto con "qualche espediente" un non facile accordo colle famiglie del luogo, aveva ottenuto con rescritto favorevole di Papa Nicolò V (18-III-1446, A.S.Genova, filza S, f. 117) che l'impoverita cappella del Castello, intitolata a S. Antonio, fosse potenziata assimilando quella Beatae Mariae de la Mota: l'avrebbe rilevata dal Priorato di S.PIETRO DI VASCO DI PAGNO, benedettino e novaliciense cui, per la decadenza della Casa Madre, era stata affidata l'amministrazione del subpriorato di Dolceacqua.

Dal XV sec., per le esigenze dei fedeli e costruito un grande edificio intitolato al patrono della Cappella gentilizia del Castro, in luogo dell'antico S. Giorgio venne istituita la nuova PARROCCHIALE DI S.ANTONIO il cui campanile risulta strutturato su un'arcaica torre della cinta delle mura [l'interno è affrescato in gusto barocco anche si vi si trovano altre gemme pittoriche: si segnala, di Ludovico Brea, il Polittico di S.Devota del 1515, realizzato per lascito di Francesca Grimaldi vedova di Luca Doria Signore di Dolceacqua. Costei, con testamento ricco di impegni filantropici e benefici, aveva sancita la somma di 25 scudi affinché il celebre pittore di Nizza L. Brea (ca. 1450/ 1522 o '23) di primigenia formazione provenzale (per influsso delle scuole del Duranti e del Mirailhet) completasse (prima del S. Giorgio di Montaldo Ligure, ultima sua opera) questo lavoro di Dolceacqua ravvivato dalle ultime energie dell'artista e privo dei limiti manieristici della sua produzione conclusiva: a prescindere da qualche indolenza formale non decisiva e mai greve, il polittico di S. Devota emette segnali artistici densi di spiritualità e sostenuti dal vigore della migliore produzione del Brea].

Imperiale Doria avrebbe poi affidato il Convento agli Agostiniani Scalzi della Porta Carbonara di Genova.
Il 29-VI-1623 i Consoli del Comune, con voto del Parlamento , ratificarono tal donazione: i Consoli Stefano Barone e G.B. Salvatore precisarono nel documento la speranza che il monastero riprosperasse: l'Ordine agostiniano concentrò le iniziative per restaurare il convento ampliando l'edificio sì da sfruttare l'impianto della prima casa monastica.
Le trasformazioni furono consistenti e per ottenere spazi nuovi si sopraelevarono le strutture: si ingrandì per esempio il Chiostro di cui affiora, coperta da terra e vegetazione, la vecchia pavimentazione.
Il rifornimento idrico arrivava ad una fontana (si vedono ruderi nel perimetro claustrale) resa impermeabile con frammenti ceramici che canalizzavano l'acqua.
Gli Agostiniani si dedicarono alla propaganda, all'apostolato e alla repressione delle devianze religiose più che alla cura dei campi: erano ben visti dai potenti sia perché patrocinavano l'equilibrio dei rapporti socio-politici sia in quanto illustravano la zona colla loro cultura , prestando istruzione ai giovani meritevoli e sottraendo alle amministrazioni il compito di mantenere pubbliche scuole [il successo storico degli Agostiniani in quest'epoca e segnatamente nel Ponente ligure è abbastanza documentato: basti a titolo d'esempio menzionare che, con un processo analogo a quello di Dolceacqua, ottennero la cessione della CHIESA DI S. GIORGIO DI CAPPADOCIA DI CERVO a patto di restaurarla ed erigervi un loro convento].
L'erudito seicentesco D. A. Gandolfo, agostiniano ma del cenobio della Consolazione in Ventimiglia, fu portavoce della diffusione del culto per S.Maria di Dolceacqua e tra presunti miracoli accreditò la novella che un giovane Doria, affetto da rachitismo, fosse stato graziato dalla Genitrice del Cristo, cui fu consacrato dalla madre: per divulgare la devozione verso la chiesa gli Agostiniani fecero incidere medaglioni commemorativi in rame per le festività della Vergine: un esemplare fu visto da G. Rossi nella collezione di A. Arroscio e già alla fine dell''800 essi erano rarità da antiquari (v'era effigiata la Vergine col bimbo in braccio, recante uno scettro con la scritta "Effigie miracolosa della Vergine S.S. della Muta").
Dal'600 a metà '700 il Convento ebbe rinomanza sì che il marchese Bartolomeo Doria, stanco sotto il peso di preoccupazioni mondane, testò di ricovrarsi in esso a meditare, dopo aver abdicato per il figlio Carlo Emanuele (6-I-1686).
Gli Agostiniani, grazie all'appoggio finanziario di Vicari ed Inquisitori, eressero infine una bella chiesa barocca, di cui sopravvive una cappella mentre ne cadde il corpo centrale, sotto cui è una nicchia con sepolture, manomesse da tempo, tuttora da scandagliare e studiare.
I DANNI di XVIII e XIX secc. per la guerra di successione austriaca, la conquista e l'anticlericalismo napoleonico e poi l'interpretazione antipapista delle leggi siccardiane segnarono per sempre la crisi dell'organismo agostiniano, il suo abbandono e la frammentazione dei possessi: il corpo principale pervenne infine alla famiglia locale Dall'Orto, anche se al XVIII secolo già risale l' originaria
SOPPRESSIONE DEL CONVENTO DELLA MOTA DI DOLCEACQUA.
La ragione per cui i regimi ottocenteschi, pur alienando i beni monastici, non abbiano utilizzato l'edificio ad altri scopi come spesso accadeva, dipese dal fatto che la casa conventuale era giunta ad un livello di degrado da rendere impossibile dei correttivi: oltre ai danni di tempo e natura l'edificio era stato saccheggiato durante l'assedio del castello di Dolceacqua essendo postazione per una batteria di cannoni: inoltre, trovandosi i possessi abbaziali sulla diramazione che dal sito portava in val Roia, l'area conventuale sopportò movimenti di truppe, coi danni che ogni evento del genere comportava (una visione architettonica evidenzia sulla fronte dell'edificio volta a valle il segno di veloci interventi murari, di vani precariamente sigillati, di rozzi riempimenti di terrapieni da attribuire al periodo che va dalla guerra di successione all'epoca napoleonica: altri danni, non quantificabili furon portati al complesso dal terremoto in Liguria del 1887).






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