BENEDETTINI MEL PONENTE LIGURE (CENNI ALL'OPERA DI MONASTERI FEMMINILI BENEDETTINI

Coi Longobardi l' eremitismo orientale si disperse ma dal VI sec. si affermava in Liguria il MONACHESIMO BENEDETTINO: la cui lunghissima storia passò attraverso varie esperienze monastiche non escluse quelle del fenomeno benedettino riformato dei CLUNIACENSI e dei CISTERCENSI.
La Regola di S.Benedetto era strutturata secondo un'interpretazione attiva della presenza religiosa. L'analisi toponomastica e topografica di val Nervia attesta (VII-VIII sec.) un incremento dell'agricoltura con l'impianto di nuove piantagioni e di evolute tecniche colturali, con bonifiche, dissodamento di terreni e adeguato sfruttamento boschivo: a questo periodo si deve l'erezione delle originarie chiese, da cui si evolsero quelle di S.Maria Assunta di Nogareto in Castel Doy (oggi Castelvittorio), di S. Tommaso in Pigna, di S.Pietro in Ento ad Apricale, di S.Giorgio in Dolceacqua e di S.Pietro a Camporosso.
Alcune di queste son da correlare al fenomeno benedettino (pur nelle sue diverse accezioni: abbazie di Lerino e Pedona, monasteri di matrice franca di Novalesa, cenobi genovesi benedettini o di temperie benedettina riformata) e divennero punti di riferimento per i poderi rurali del fondovalle (alcuni monasteri rimandano all'influsso benedettino pedemontano, genovese e provenzale attesa anche l'assenza di un complesso diocesano puramente italico strutturato secondo lo schema dell'istituto pievano: S.Maria di Nogareto è da intendersi quale chiesa al centro di un noceto e S. Pietro in Ento deriva da un complesso ecclesiastico regolare che esercitava una sorta di monopolio dell'olivicoltura).
L'influsso benedettino, genovese e provenzale e pedemontana, ha segnato la storia civile e religiosa della vallata nei secoli finali del I millennio: un' evoluzione del monachesimo è da individuare nell'
esperienza cisterciense che in Italia ricevette stimoli dalla predicazione di S.Bernardo di Clairveaux.
Il nemico di Abelardo, il profeta di Citeaux era giunto nel Ponente ligure da Genova ove aveva conciliato, per Papa Innocenzo II, Genova e Pisa, ed aveva creata una situazione difficile per il filonormanno antipapa Anacleto II (RAINARDUS, Tract. Chronolog., p. 203 = G. PENCO, Storia della Chiesa in Italia I, Milano, 1977, cap. V, 5).
Nel ventimigliese lo accolse l'Episcopo Martino e il Santo vi soggiornò predicando assiduamente. A Vallecrosia nella chiesa di S.Bernardo, a lato dell'altar maggiore, è murata una lapide del XVII sec. che è rifacimento di una più antica iscrizione.
In essa si legge " Divus Bernardus hac in Ecclesia Magni Patriarchae Antonji Vallis Rosae conciones tenens ad fidem populum impulit anno 1143 " (la data deve esser corretta al 1133 mentre la storpiatura del toponimo rimanda all'alterazione Vallecrosia o Val Crosa in Vallo Rosa).
Bernardo (1090 - 1153) potenziando l'Ordine Cisterciense e riprendendo il rigore dei Cluniacensi, divenne il teorico dell'antica osservanza, contro le mitigazioni della Regola benedettina e l'asceta dell'agricoltura operosa secondo la tecnica delle grangie.
L'Ughelli nella sua Italia Sacra (tomo IV, col. 433) scrisse che il Vescovo intemelio Giacomo di Castel Arquato dell'Ordine dei Predicatori (1244 - 1251) avrebbe consacrato a S.Bernardo la parrocchiale vallecrosina di S. Antonio: come peraltro si legge in un'epigrafe, simile alla precedente, che il teologo Giovanni Francesco Aprosio, nella sua Locuzione famigliare (Oneglia, 1869) aveva ritenuto copiatura di un marmo antico (Le intitolazioni al Santo , nel XIII - XIV sec., furono numerose a prova di un notevole culto popolare).

Nel ponente ligure il sistema delle "fascie", della grangia, dei terrazzamenti con muri a secco si sviluppò dal XIII sec con la diffusione di molte piantagioni ("ortive, seminative, arborate, aggregate a vigneti e ficheti, ad ulivi").
La grangia benedettina si sviluppò in particolare da metà '200: in tale epoca parecchie chiese vennero cointestate a S.Bernardo, in modo che il loro precedente patrono fu dimenticato dopo un certo tempo.
In Dolceacqua l'area del Convento di S.Maria risponde alle caratteristiche del sistema a grangia ma altresì indica la sovrapposizione di percorsi medievali di matrice monastica a più antichi tragitti liguri e romani, percorsi peraltro controllati da una successione di chiese e strutture religiose atte al culto quanto al ricetto di viandanti e pellegrini.

Procedendo dal Rocchetta Nervina, esisteva una cappella di S. Bartolomeo, citata in un doc. del 1518 con una non meglio identificata " fonte dell'abate ".
Si tratta dei reperti di un sistema monastico e la chiesa fu eretta nel contesto strategico-viario della località Vezione che rimanda all'omonimo vallone proveniente dall'Abelio e che "apre" la mulattiera verso Airole e la Valle del Roia.
Da San Bartolomeo un tragitto romano conduceva ad Oggia (ove si è riscontrata traccia di un culto pagano delle acque) da cui si susseguono la chiesetta di S.Lucia, la cappella di S. Orsola e poi quella di S.Vincenzo che immette a Marcora .
La chiesa di S.Lucia è l'edificio più importante della zona: ha persi i connotati originari ma è sintomatico che a lato della stessa, su una biforcazione e anticipati dai resti di un muro in calce, sorgano 2 ambienti di m. 5 x 3,5 con ingresso sormontato da una monofora e dal soffitto con volta a botte.
A Nord di questi ma a poca distanza, si individuano tracce di un processo di canalizzazione realizzato in una parete rocciosa ( tali edifici denotano, per tipologia, struttura e posizione, le caratteristiche dell'ospizio e non del riparo per animali).
Poiché tal sito si coniuga col complesso del Convento di S.Maria è pensabile che fin qui si estendessero i beni del Priorato benedettino di S.Maria di Dolceacqua.
Questi si sarebbero poi ridotti per la crisi dei Benedettini della Novalesa (l'antico culto per la siracusana Lucia, martire nel III sec. sotto Diocleziano, aveva preso a sfiorire dal XIII - XIV sec. allorché moderni Santi patroni, come Bernardo, cominciarono ad esserle accostati nel titolo sin a surrogarne culto e nome.
In genere la singola intestazione di Lucia fu conservata a chiese campestri o minori, spesso di origine monastica ed a volte semiabbandonate benchè officiate magari annualmente per qualche festività) (G. ROSSI TAIBBI, Martirio di Santa Lucia, Palermo, 1959).
Riprendendo una riflessione cui si è già fatto cenno a riguardo di S.Lucia, si può ribadire che possessi cenobitici coinvolgessero parte dei resti del fondo Oggiano e della località poi detta Barbaira o Balbaira (1186) e quindi sede di una Rocha comitale, da cui prese nome (1230) il paese di Rocchetta Nervina.

Il SANTUARIO DI NOSTRA SIGNORA DELLA NEVE è sito non a caso sull'altura di CIAIXE un'area storica nel contesto della CIVILTA' LIGURE PAGENSE DEGLI INTEMELII : la sua intitolatura non è casuale, così come la sua posizionatura anche se la LEGGENDA che ne descrive le origini, per quanto ammantata di storia, ne stempera i contenuti per vai dell'alto registro agiografico.
In epoca preromana da CIAIXE si estendeva infatti una serie di CASTELLARI LIGURI che in qualche modo controllavano gli spostamenti delle mandrie, i traffici, i nodi strategici.
In epoca romana dalle propaggini di VENTIMIGLIA ROMANA cioè dall'altura di COLLA SGARBA - superato l'ultimo avamposto urbano, quello degli acquedotti romani e della loro sorgente- accedeva ad un vastissimo complesso di insediamenti rustici dislocati in successione verso l'alta valle del Nervia .
Questi tragitti si svilupparono dalla tarda repubblica al buon Impero e fiorirono in rapporto alle potenzialità viarie offerte da quel TRAGITTO DEL NERVIA altrimenti nominato per via erudita VIA DELLE NEVI registrato ancora nella cartografia del XVIII secolo.
Caduto l'IMPERO DI ROMA per crisi interne ed esterne (come la PRESSIONE DEI BARBARI) si ebbe una graduale concentrazione degli antichi insediamenti sparsi e gradualmente si andarono a delineare le topografie fortificate e compatte di quelli che sarebbero da allora stati i centri demici della valle: gli odierni paesi tutti di origine medievale.
Per quanto la VIA DI VALLE avesse perso rilevanza nell'economia chiusa del medioevo (visto che per secoli venne meno l'esigenza del mercato aperto romano e dei supporti della sua RETE VIARIA PRINCIPALE e dei PERCORSI SUSSIDIARI) essa continuò ad essere attiva.
La sua funzionalità continuò a persistere prima e dopo l'ALLUVIONE DEI SARACENI che anche per essa si spostarono e fecero saccheggi.
Coi MONACI BENEDETTINI essa aveva già ripreso una sua importanza e, dopo la sconfitta dei saraceni, con ALTRI BENEDETTINI continuò ad essere attiva per il tragitto Piemonte-Liguria ponentina.
I BENEDETTINI ricalcando in certo qual modo la viabilità romana, finirono per ridisegnarne la topografia, ripristinando, seppur in chiave cristiana, la specificità di siti in cui si son trovate tracce di civiltà pagana.
I BENEDETTINI gestirono il controllo del territorio sia attraverso i COMPLESSI MONASTICI che erigevano lungo di esso sia per mezzo della dislocazione di chiese minori, cappelle, piloni: il caso emblematico di questo tragitto di val Nervia è naturalmente espresso dalla massiccia realtà storica del CONVENTO BENEDETTINO E NOVALICIENSE DI S.MARIA DI DOLCEACQUA.
Per coniugarsi alle chiese dipendenti ad altri poderi o comunque esercitare un controllo continuo culla viabilità di crinale e di mezzacosta (oltre che di fondovalle) i MONACI si valsero del SISTEMA AGRONOMICA DELLA GRANGIA che aveva il vantaggio di formare un'unità di coltivi e di struttura rurali che, continuando ad esprimere l'autorità abbaziale, collegavano tra loro le chiese e gli ospizi.


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I FRANCESCANI

Dall'analisi di due atti del notaio di Amandolesio (3-4 maggio 1263) apprendiamo il nome di due Crociati, tali Michele de la Turbie e Guglielmo di Voltaggio, ma soprattutto si viene a sapere che alla stesura dei documenti, come testimoni e consiglieri, eran presenti dei monaci FRANCESCANI.
La presenza di Frati minori in val Nervia si può datare con certezza dal 1230 perchè il I marzo di tale anno un certo fra Giovanni, accompagnato dai confratelli Zenone e Brito, aveva pronunciata una sentenza arbitrale per rimettere concordia fra gli uomini di Pigna ed Apricale relativamente ai confini amministrativi dei monti ansa et marcola (G.Rossi, Storia del Marchesato di Dolceacqua... cit., doc. V): il religioso aveva pronunciato il suo parere in via ad passum bonda (doc. ricavato dal Rossi da pag. 89 verso del Libro del notaio Lorenzo Borfiga di Isolabona , ora conservato in "Biblioteca Rossi" in I.I.S.L.S di.Bordighera).
Dal rescritto è possibile apprendere che tale località alpestre era un bene indiviso fra Pigna ed Apricale mentre alcune sue aree limitanee costituivano una bandita degli uomini de rocchetta" ed un'altra degli "uomini de Argeleto".
Dalla lettura dell'atto si intende che i Francescani erano stati fatti intervenire, oltre che per le controversie territoriali, onde dirimere un vecchio nodo giurisdizionale pei diritti di pedaggio sui tragitti della zona.
Il riparo a "terruzzo" (terrizzo, dial. = * terrissi ), ricovero per pastori e bestie, che raggiunse l'acme architettonico fra XV-XVII sec., rappresenta l'espressione storica di questa strada della transumanza.
E' pure fatto di rilievo che per tutto l'arco medievale sia esistito un praedium de Veonexi sul percorso della via romea, con colture di tipo vario, aggregate, vineate, olivate ed ortive, e la presenza di numerosi terrissi.

Dall' Argeleto di Pigna all'area di "Lago Pigo" esisteva una serie basilare di collegamenti viari.
Nel tragico conflitto tra GUELFI e GHIBELLINI cioè tra VENTIMIGLIA E SUOI POSSEDIMENTI da una parte e dall'altra GENOVA ed IMPERIALE DORIA dall'altra, proprio quest'ultimo aveva tenuto IN ISCACCO forze superiori grazie alla sua ottima conoscenza di tutti i percorsi tra Val Nervia e val Roia sin alle valli di Lantosca e Turbia.
La pace fu in realtà il risultato conseguente allo stallo delle varie forze in campo: il primo passo verso la pace non a caso fu compiuto dal Signore di Monaco Rainero Grimaldo che fece firmare ai contendenti una tregua nella chiesa di Monaco di S.Michele in data 5 settembre 1362.
La PACE fu stipulata il 24 marzo 1365 in alta val Nervia e non a caso presso il PONTE E LA SORGENTE DI LAGOPIGO.
L'importante documento fu steso dal notaio Emilio Gozzelini di Draghignano essendo presenti il Capitano Pietro Balbo di Coalonga e il giudice ventimigliese Isnardo Gaudini in rappresentanza della casa regnante di Napoli che all'epoca controllava Ventimiglia e da Leonardo Vivaldo e Antonio Roccatagliata procuratori di Gabriele Adorno doge di Genova (e conseguentemente per parte di Imperiale Doria alleato di Genova).
La sostanza del documento di pace detta: ...in territorio Pignae inter dictum territorium et territorium Castrifranchi ad pontem et prope fontem Languipigii....
Il sito non fu scelto casualmente, oltre ad essere una zona che contrapponeva diversi potentati era soprattutto un'area vitale di transizione, una zona di passaggio in cui si sarebbero in seguito confrontati due importanti centri dell'alta valle del Nervia cioè PIGNA, divenuta una potente base dell'espansionismo sabaudo cerso il mare, e CASTELVITTORIO forte caposaldo genovese contro il Piemonte ed a guardia del percorso del Nervia come delle sue diramazioni verso Baiardo.
La CARTOGRAFIA GENERALE si occupò molto di tracciare i percorsi ed i collegamenti per questi siti ma altrettanto si elaborarono interventi particolari sulla zona di LAGO PIGO: essa continuò quindi a conservare l'importanza che le avevano dato i plenipotenziari del XIV sin a tutto il XVIII secolo e particoarmente nel 1600 (quando i conflitti tra Genova e Piemonte esplosero su vasta scala nel 1625 e nel 1672) la ZONA DELLA FONTE DI LAGOPIGO E DEL SUO PONTE divenne oggetto di minuziose ricognizioni cartografice di cui si conservano due interessanti esemplari presso l'ARCHIVIO DI STATO DI GENOVA, di cui UNO RIPRODUCE IN DETTAGLIO LA SPECIFICITA' DEL PONTE DI LAGO PIGO mentre il SECONDO -QUI ELETTRONICAMENTE RESO ATTIVO- PERMETTE DI "LEGGERE" DATI DI RILEVO SU QUEST'AREA STRATEGIACA.
Si trattava peraltro di un'area frequentata da tempi remoti, importante per l'assetto viario ma significativa anche come sito meritevole di insediamenti, di sfruttamento agronomico e dell'impianto di stutture zootecniche.
Peraltro su un'ampia superficie -a riprova di una grande e lunga visitazione umana- la toponomastica risale sino alla romanità del I-II secolo (d'altronde nell'area si rinvennero diverse monete dell'epoca di Marco Aurelio).
Molti nomi scritti in questo documento dimostrano peraltro quanto credito avessero tali percorsi d'altura e crinale per l'oltregiogo: *Bunda (di origine gallica che rimanda al fondo di una zona bassa tra due corsi fluviali: nome che si diffuse tra epoca tardo-romana e primo medioevo), *Marta (massiccio rotondeggiante a prati derivato da un' espressione gotica per "martora", entrato nel latino volgare dal IV sec.), *Munte Cumin o Monte Comune era invece nome di una delle bandite di Pigna (tale oronimo o nome di monte lo si trova registrato per la prima volta in questo arbitrato dei Francescani anche se perse in seguito il suo significato giurisdizionale così che nel 1575 si indicò la località come monte Comune -di nome- ossia diviso -di fatto-).

La presenza dei FRANCESCANI in Val Nervia dal 1230 aveva costituito un evento importante e precoce, tenendo conto che il Fondatore era morto da poco, nel 1226: il fatto sarebbe vieppiù interessante se si potesse provare la contemporanea esistenza di una Domus di frati minori a Ventimiglia o nel Contado.
La tradizione locale e qualche storico di valore come G. Rossi ( Storia della città di Ventimiglia... cit. p. 469) avvalorano in verità questa ipotesi che collocherebbe nel distretto intemelio un Convento francescano molto antico, eretto in concomitanze colle storiche Case di Torino (1228), Moncalieri (1232), Acqui (1244).
Tuttavia la DOMUS SANCTI FRANCISCI risulta legalmente documentata a Ventimiglia solo dalla II metà del Duecento: si apprende ciò dal testamento di Alassina, moglie di Oberto de Dandolo, che dimorava nel forte del Colle di Ventimiglia e che, come fece scrivere, avrebbe voluto esser sepolta presso la chiesa di San Francesco.
La Casa conventuale nel 1258 sorgeva " extra moenia " cioè fuori circuito murario di Ventimiglia e certo Bonifacio ne era frate guardiano mentre un frater Rainerius occupava tra i monaci un soprendente prestigio morale (secondo altri studiosi il nome di Porta Sancti Franciscii in Ventimiglia medievale deriverebbe dalla casa dei Frati Minori che avrebbero abbandonato il primitivo convento, nei pressi di S.Paolo, onde trasferirsi verso il XIV sec. in questa zona ove si trovano, oltre l'arco romanico della porta originaria, le ampie porzioni murarie ad essa collegate).

La popolazione locale faceva molti lasciti a questo Convento di Francescani ed al suo Ospedale pei poveretti: la chiesa inoltre stava a capo di un'area cimiteriale ormai "prediletta" dalla popolazione per le inumazioni, a scapito dei vecchi cimiteri di matrice benedettina o canonicale dell' "Oliveto" o "S. Michele" , "S.Maria" (not. di Amandolesio, doc.42, del 16 marzo 1259: si veda il caso di Raimondo Soranda che il 19-XII-1260 lasciò a questo convento 20 soldi, il doppio che ad ogni altra Casa intemelia - doc.334).
La rapida comparsa di Francescani nell'agro intemelio era probabilmente connessa sia al fenomeno "Crociato", sia ai "pellegrinaggi nei Luoghi Santi" che alla riscoperta viaria del Ponente ligustico.
I Francescani, che pure mal vedevano certe devianze imperialistiche delle Crociate, erano accetti dalle autorità e già amati dal popolo per il soccorso che portavano in ogni pubblica emergenza: dal concordato che ebbe arbitro il citato fratello Giovanni si apprende inoltre che costui aveva ormai tal conoscenza topografica della valle del Nervia da far pensare che l'avesse percorsa più volte.
Al riguardo può indirettamente convenire lo studio di un testamento, del 29-XII-1258, fatto redigere al di Amandolesio per volere di un certo Ugo Botario.
Questo lasciò 10 soldi genovini all'ospedale de Clusa ed a quello de Rota: tali somme sarebbero servite per comprar "sacconi", cioè giacigli per il riposo degli stanchi pellegrini.
Il Botario lasciò pure 10 soldi all' opera della chiesa di San Michele (presso il cui chiostro voleva esser sepolto) ed altrettanto donò alla cattedrale di S.Maria.
All' opera della chiesa di San Francesco dei frati minori il testatore stabilì invece che spettassero 20 soldi genovini: intendeva egli che con quei danari si vestissero dieci poveri con tuniche, un pari numero con camicie ed altrettanti ancora con pantaloni.
Anche il Botario, pur senza dimenticarsi degli altri Ordini, aveva quindi risentito del messaggio francescano: sì da lasciare a questo Convento il doppio di quanto aveva stabilito per le altre chiese.
Egli lasciò contestualmente 10 soldi sia all'pellegrinaggi religiosi ma pure per le importanti relazioni commerciali.
I porti di Ventimiglia, gli Ospedali, le vie costiere e vallive, soprattutto i ponti lignei da restaurare in continuazione su quei due ribelli corsi fluviali, costituivano ai tempi del Botario un promettente arabesco di porte spalancatesi da poco sul resto del mondo.
Il lascito ai Francescani, relativamente cospicuo, ribadisce a suo modo una giusta ipotesi della Nada Patrone secondo cui la rapida affermazione dei Frati Minori in Piemonte e Liguria era legata alle nuove esigenze economiche, ai processi di urbanizzazione e soprattutto ai riscoperti bisogni di comunicazione internazionale (A.M.NADA PATRONE, Il Piemonte medievale IX,1-2 in PATRONE-AIRALDI, Comuni e Signorie nell'Italia Settentrionale: il Piemonte e la Liguria, in Storia d'Italia, V, Torino, 1986).
Per questa partecipazione alla vita comunitaria i Francescani, più dei Canonici della Cattedrale, risultarono dal 1230 impegnati a conciliare e guidare la borghesia imprenditoriale ed i popolani del territorio intemelio: ancor più dei Benedettini svilupparono l'idea di una grande via di costa che surrogasse il faticoso percorso di sublitorale e si andarono impegnando costantemente alla salvaguardia di quel flusso di viandanti che da ogni dove giungevano sin Ventimiglia onde prender via per le destinazioni più lontane.


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CERTOSINI

Fondò l'Ordine S. Bruno che nel 1084 si ritirò a vita eremitica a Chartreuse per lo scandalo in lui provocato dalla condotta del clero. I Certosini vivevano in capanne dedicandosi a studio, preghiera e lavoro manuale e riunendosi per il pasto e la preghiera. L'Ordine fu diffuso in Italia dal fondatore ma contò pochi aderenti oggi ridotti a circa 600 (del ramo femminile del 1145 restano 4 monasteri).


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I CERTOSINI DI AIROLE SUL NODO STRATEGICO DELLA VIA DEL ROIA (Guelfi e Ghibellini, Patrizi di Ventimiglia, Doria, Repubblica di Genova ed espansionismo sabaudo> le ingerenze degli Angioini)

Guelfi e ghibellini: il momento degli Angioini

Nel XIII sec. Ventimiglia era stata assoggettata dalla potente ed espansionistica Repubblica marinara di Genova.

La media valle del Roia con Breglio e Saorgio (oltre a Pigna in Val Nervia), Sospello capoluogo sulla Val Bevera, assieme a tutta la valle del Varo, erano giunti in possesso di Carlo I d'Angiò che aveva occupato il Nizzardo penetrando nel Basso Piemonte fino ad annettersi il Cuneese, sotto il titolo di "Bailaggio della Contea di Ventimiglia e Val Lantosca".

I decaduti conti intemeli col titolo di "Conti di Tenda" controllavano ormai solo questo sito alpino sino a Briga e nell'oltregiogo tutta la Valle Vermenagna. Nel frattempo sul ceppo comitale si era innestato il sangue vigoroso dei Lascaris (1260), di ascendenza imperiale costantinopolitana, i quali scelsero il ruolo geopolitico di intermediari fra i luoghi tattici, a Nord e Sud, del valico tendasco, persino a scapito degli Angioini, costretti pei loro traffici a valersi dei passi dell'alta Val Gesso.

In tal contesto la fazione guelfa e Carlo I d'Angiò non mancavano di problemi; a prescindere dall'opposizione genovese al loro espansionismo, bisogna ricordare, sulla scia di T. Ossian De Negri, che Carlo non aveva centrato il suo obbiettivo primario: quello di creare un viatico provenzale fra Nizzardo e Basso Piemonte, sì da controllare la "via del sale" da Hières e monopolizzarne il commercio sin a Piemonte e Lombardia. Il Sovrano, fra 1276 e '78, riuscì a ridurre in suo vassallaggio i Lascaris di Tenda, Conti Guglielmo Pietro e Pietro Balbo: tale scontro non dipese però, come scrisse l'Alberti (Storia di Sospello...,p.332), dal " desiderio di vendicarsi della defezione fatta...da due Conti di Ventimiglia" ma fu subordinato ai diversi interessi politici sulla "via del sale", nutriti in pari misura da Carlo quanto dai Lascaris. Il successo angioino non deve tuttavia ingannare. La pace del re con Genova, del 1276, dipese soprattutto dalla mediazione di Papa Innocenzo V ma la Repubblica restò sospettosa ed ostile verso gli acquisti angioini: peraltro i Lascaris di Tenda non accettarono l'umiliazione sofferta e presto la fazione ghibellina prese respiro pei successi di Oberto Doria.
La conquista provvisoria del territorio di Ventimiglia avverrà invece sotto il figlio di CARLO I, il vigoroso Sovrano di Napoli ROBERTO il SAGGIO dal cui operato si ricavano alcune utili ed antiche notizie sulle VILLE di Ventimiglia medievale.


I Doria e la Signoria genovese di val Nervia

Oberto Doria, ammiraglio di fede imperiale e Signore di Loano, godeva di prestigio (per la vittoria di Canea, presso l'isola di Candia, sui Veneziani del 1266) e come Capitano del Comune di Genova coll'acquisto di Dolceacqua (1270) organizzò una Signoria in Val Nervia, onde far da cuscinetto tra guelfi e ghibellini che ne avevan fatto terra di battaglia.
Sulla scia di una gloria militare che sarebbe divenuta eccelsa dopo la vittoria sui Pisani alla Meloria, Oberto avrebbe ampliato i suoi beni di Dolceacqua, Isolabona ed Apricale con l'assimilazione di Perinaldo e poi di S.Romolo e Ceriana, cui era facile accedere dalla Val Nervia per giungere in valle Argentina.
Agli angioini che apertamente miravano al possesso di una loro via tra "mare e Padania", Genova andava quindi opponendo, sullo storico tragitto Nervia di Ventimiglia-Basso Piemonte, la nuova e forte Signoria del suo più celebre esponente militare: così al faticoso tragitto angioino verso Tenda si contrapponeva il tragitto "genovese" del Nervia, ormai di impronta ghibellina.


Il nodo tattico di Airole e la donazione dei Curlo-Le ragioni di un PRIORATO CERTOSINO

In tale contesto di contrapposizioni fra molteplici potenze (Aragonesi ma soprattutto Angioini, Repubblica di Genova, Dominato Sabaudo, Doria di media valle del Nervia), a titolo anche esemplificativo di certe scelte del decaduto patriziato di Ventimiglia, è scioglibile il "nodo di AIROLE" in val Roia e del "lascito con conservazione di possessi alla CERTOSA DI PESIO" del 1273.
FOLCO CURLO, nobile ventimigliese e ghibellino come Oberto Doria, aveva visto Ventimiglia cadere in mano guelfa sotto protettorato angioino.
Egli aveva preso atto che, a fronte dei successi di Carlo, si era tuttavia affermata una robusta Signoria in Val Nervia.
Folco Curlo al momento era un vinto ma, gestendo bene l'antico suo feudo di AIROLE, ben sapeva che avrebbe potuto inserirsi in ogni istante nella contrapposizione fra Carlo e l'ambizioso Doria: concedette così Airole agli operosi Certosini della pedemontana CHIUSA PESIO, sì da porre al sicuro tal luogo ed il suo casato da intrusioni guelfe.
Egli tenne tuttavia un piccolo presidio armato collo scopo ufficiale, approvato dal Parlamento intemelio, di proteggere per gli indifesi Certosini la trasversale di collegamento.
E' facile intendere i disegni reali sotto la scorta delle banali proposizioni diplomatiche.
Nel caso, non improbabile di una crisi angioina, i Curlo avrebbero potuto recuperare parte dell'antico prestigio "offrendo" ai Doria di Dolceacqua un rapido percorso di guerra e commercio sulla base commerciale di Ventimiglia.
I Curlo divenendo "gestori" dell'importante sezione terminale della "via del Nervia" sarebbero stati in grado di porre sempre sulla bilancia degli equilibri politici la loro posizione ed i vari diritti, anche nei riguardi della città.


Tra Regno di Napoli ed Angioini L'origine dell'espansionismo sabaudo in Val Nervia

Nel complesso di tali vicende ebbe poi ruolo importante Ladislao il Magnanimo (1377-1414) Re di Napoli e "titolare" di Sicilia ed Ungheria. Egli succedette al padre Carlo III d'Angiò sotto la reggenza, sino al 1393, della madre Margherita di Durazzo. Per realizzare i programmi egemonici di Carlo I e Roberto, aveva dovuto scacciare da Napoli il cugino Luigi II d'Angiò e sedare colle armi un'insurrezione dei baroni e della popolazione abruzzese.

Luigi II non si diede per vinto e, appoggiato dall' antipapa Giovanni XXIII, iniziò a guerreggiare con l'odiato congiunto. Ladislao il Magnanimo non aveva forze sufficienti a proteggere i suoi domini e per quanto concerneva NIZZA e territori soggetti permise che la popolazione scegliesse un suo nuovo Signore, purché non fosse di fazione angioina.

La scelta, come sopra detto per risolvere i contrasti tra fazioni angioine ed aspirazioni popolari, cadde quindi su Amedeo VII di Savoia che nel 1383 aveva esteso la sua signoria su Cuneo e nel 1383 sopra "Gosier, San Paolo e Barcellona" secondo un disegno di avvicinamento alle coste tirreniche. Nel 1388 il Conte sabaudo ottenne la dedizione di Nizza i cui destini furono da allora connessi con quelli del Piemonte: mentre i Savoia erano così riusciti a coronare l'idea di una base sul Tirreno, la Comune nizzarda ottenne un potente difensore nei riguardi dei Conti di Tenda e Briga e la tutela dei passi d'Entraques e Tenda (caposaldo, tra Provenza, Liguria, Alpi Marittimee Piemonte, di una via del sale sottratta ai piani commerciali angioini e inserita nel contesto strategico dei Savoia).


Il nodo di Airole> Le ragioni seconde di una base certosina piemontese

Neppure gli ultimi studi si sono veramente soffermati sull'importanza geopolitica di Airole, che nei secoli XIV e XV, venuto meno il disegno dei Curlo, era soggetta alla giurisdizione dei Certosini di Chiusa Pesio. Ben presto essi si innestarono sui traffici della "via del sale": in particolare dal XIV sec. quando Amedeo VII, oltre a Nizza e le sue terre, era riuscito ad inglobare Breglio, Saorgio, Sospello, Rocchetta e Pigna.
La casa certosina di Airole era legata al Piemonte ed alla casa madre di Pesio lungo un cuneo territoriale sabaudo: sul tragitto che portava all'oltregiogo (Airole-Monte Abellio-Rocchetta-Marcora-Saorgio-Tenda) i monaci presero ad innestarsi sul flusso mercantile che ruotava sul "percorso del sale". Al riguardo potrebbe acquisir rilievo lo sviluppo di edifici religiosi, probabilmente con finalità di ricetto ed anche di guardia sui tragitti costa-monte o sulle ramificazioni viarie tra valle del Roia, Media ed Alta Valle del Nervia: i Savoia eran soliti organizzare sulle assi viarie (si rammenti la strada Torino-Chambéry attraverso il valico del Cenisio) dei sistemi di accoglienza, a tutela di viandanti, spesso eretti in collaborazione col clero pedemontano. A questo riguardo è noto il consolidamento della tecnica sabauda di deprimere l'autonomismo giurisdizionale di Case religiose, prestigiose ma ormai in crisi come S.Pietro in Novalesa, e di sovrapporsi in qualche modo sui loro vetusti sistemi di ricetto e controllo della vie antiche, come nel caso dell'Ospedale del Cenisio appunto dipendente dall'abbazia di Novalesa: il tragitto "Airole-Pigna" parimenti presenta tracce di una graduale ma inarrestabile sovrapposizione giurisdizionale sabauda su centri abbaziali, cellule religiose ed ospizi di quasi certa origine novaliciense, dal sistema geografico di Oggia e delle chiese di S.Lucia, S.Orsola e S.Vincenzo sino al Convento dolceacquino di S.Maria, da quando la Signoria di media valle entrò nell'orbita dell'espansionismo politico-militare sabaudo.

Lo sforzo storico della Repubblica genovese di assimilare i numerosi possessi liguri di varie Case monastiche pedemontane ebbe parimenti un significato politico ed antisabaudo. L'eliminazione dei priorati ecclesiastici piemontesi, le cui "case madri" erano in qualche modo controllate dallo Stato sabaudo, equivaleva infatti alla soppressione di una testa di ponte per la penetrazione viaria: l'acquisto di Airole, preceduto da interventi diplomatici, assunse per Ventimiglia, e naturalmente per Genova, la valenza di un irrinunciabile intervento strategico onde sottrarre ai Piemontesi un caposaldo prossimo alla costa, da cui questi alimentavano traffici ormai evidentemente dannosi all'economia ligure.


Strada del Roia (leggi), risposta genovese all'espansionismo sabaudo: la necessità repubblicana di riannettere Airole a Ventimiglia

La Valle del Nervia pei Certosini di Airole rimase la direttrice prioritaria onde penetrare nel ventimigliese (cosa che si protrasse a lungo e che può anche analizzarsi dalla foscoliana "Lettera da Ventimiglia" dell'Ortis) e quindi in bassa Val Roia per le diramazioni dall' "Abellio" e dal Convento di Dolceacqua. Essi trasformarono il già abbandonato possesso dei Curlo in una florida villa rurale che prese ad interessare il Parlamento intemelio, impegnato nel XV secolo a trovare nuove aree agricole su cui insediare dei fidi coloni, atteso che nei periodi alluvionali arrivavano con difficoltà al mercato pubblico di piazza i rifornimenti agricoli delle ville rustiche del contado orientale. Alle autorità genovesi e al loro rappresentante ventimigliese, il Capitano di città, premevano invece soprattutto ragioni di ordine strategico e militari visto che lo Stato piemontese, stava palesemente mirando ad aprirsi una strada fino alla costa: la Certosa di Pesio, ormai eletta a baluardo religioso dei Savoia, veniva peraltro guardata con crescente sospetto sì che la sua piccola casa in Airole finì col sembrare al Senato repubblicano un avamposto pedemontano sulla città di frontiera. Assodato che i Savoia avevan messo piede in val Nervia e premevano su quella del Roia dalla base di Sospello il Senato approvò subito l'idea parlamentare intemelia di riacquisire Airole pur versando 150 fiorini d'oro ai Certosini: era sua intenzione fare della villa un avamposto demico repubblicano in bassa valle onde proteggere la base portuale di Ventimiglia. I monaci, ormai circondati da un alone di sospetti, visto l'interessante corrispettivo accettarono la proposizione di vendita e tramite il loro procuratore e priore conventuale Manuele Lascaris dei Conti di Ventimiglia fecero stendere il relativo atto (17-XII-1435) nella Loggia comunale, alla presenza dei Sindaci di Ventimiglia (Antonio Porro, Marco Galleani, Giovanni De Giudici, Giovanni Aprosio, Stefano Sperone ed Antonio Giraudo, essendo garante il parente del Lascaris tal Giorgio priore del Convento benedettino di S.Michele). La Certosa di Chiusa Pesio fece quindi ben fruttare le vendita, acquistando la più vicina località di Torre dei Pagani presso Cuneo: è tuttavia indubbio che per quanto vantaggiosa quella scelta era obbligata e che qualsiasi cavillo giuridico avrebbe solo momentaneamente ritardata la vendita di Airole. Le trasformazioni geopolitiche dei siti, connesse ad eventi militari, economici e diplomatici, avevano alimentata una nuova collocazione politica dell'agro intemelio tra Liguria, Piemonte e Francia. Secondo due pergamene dell'Archivio pubblico di Ventimiglia, perdute ma parzialmente studiate dal Durante nella Histoire de Nice (II,p.88) e da Girolamo Rossi, nel XV secolo si faceva rapidamente largo in Genova e Ventimiglia la convinzione che fosse necessario realizzare una discreta via commerciale e strategica verso il Piemonte, soprattutto per evitare i pedaggi da versare ai Doria, a volte decisamente ambigui, ed ai Savoia lungo il tragitto nervino. Il 22 febbraio 1448 il nobile Aleramo de Puteo, a nome proprio e del fratello Paganino dichiarò di aver riscosso dal Comune intemelio un anticipo sulle 800 metrete e 200 fiorini pattuiti d'oro, quale compenso per la realizzazione di un "..itinerario nuovo da doversi fare a prtire dalla città di Ventimiglia presso l'acqua del Roia sin al luogo di Breglio (notaio Melchio Judex); il 23 aprile 1453 Ruffino de Angeleri procuratore di Paganino de Puteo, abitante di Cuneo, dichiarò d'aver riscosso dal Sindaco intemelio Antonio Arzaigo "..cento fiorini...in occasione di un certo itinerario da doversi fare da Ventimiglia presso l'acqua del Roia sino a Breglio" (il rogito notarile venne steso a Tenda dal notaio di Briga Jacobus Baraduchi = G.ROSSI, Storia della città di Ventimiglia...cit., p.164, n.1). Per quanto si può interpretare quei lavori erano in fieri fra mille difficoltà e nonostante l'affermazione del Durante (Histoire...cit.,p.88) esistono dubbi sulla realizzazione dell'ulteriore tragitto da Breglio a Briga: dubbi che aveva espresso il Padre Somasco Antonio Orengo in un manoscritto inedito (Memorie istoriche della città di Ventimiglia, p.86). Costui accusava la comunità nizzarda di aver sempre attentato per i suoi interessi e per quelli sabaudi a tale opera viaria onde non perdere l'egemenia del commercio del sale: l'affermazione dell'Orengo risulta ineccepibile perchè in quello stesso arco di tempo da parte pedemontana si ebbe un grande risveglio di interesse per i sistemi viari delle valli minori nel Piemonte sud-occidentale, coll'assillante progettazione di sempre migliori e rapidi percorsi per la strata salis. In particolare Cuneo (divenuto nel 1382 epicentro sabaudo per il trasporto del minerale sull'asse Nizza-Asti-Pavia) risultò sede di particolari attenzioni militari e diplomatiche in quanto i Savoia tenevano in gran conto le gabelle o tasse che i negoziatori avrebbero dovuto versare al loro fisco per tal commercio: nel XV sec. essi controllavano Nizza e le Alpi Marittime, sì da progettare una linea politico-economica idonea ad assicurare un buon tragitto dalle saline di Hières sino al colle di Tenda.


Topografia storica di Airole come nodo strategico commerciale

L'analisi della compravendita di Airole permette poi di ricavare molte notizie utili. Questo sito della valle venne riassimilato dal Comune intemelio per farne un nodo della nuova strada per il Piemonte: il progetto di colonizzare l'area aveva lo scopo di istituire una base demica intemelia lungo il tragitto del Roia e farne un antemurale contro quelle invasioni banditesche che preludevano a spostamenti miltari sabaudi. Tale ipotesi giustificherebbe l'esistenza di qualche struttura militare in valle, la fortificazione dei luoghi di passo e la concentrazione a barriera dei villaggi di Collabassa, S.Michele, Olivetta, Piena, Fanghetto e Libri, sul terminale od in parti nodali di itinerari corrispondenti ad antiche mulattiere.


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GEROSOLIMITANI ED ANTONIANI

Altri fenomeni monastico - cavallereschi che nel XIII sec. comparvero in val Nervia ed anche nell' agro intemelio.
Un cenno particolare spetta ai GEROSOLIMITANI (una fra le emanazioni storiche del FENOMENO CAVALLERESCO RELIGIOSO di cui tra i primi il Contarini fornì un utile ELENCO RAGIONATO) le cui mansioni viarie eran disposte sui vecchi percorsi che portavano da SUSA al mar ligure.
La loro storia fu piuttosto controversa e si può suddividere in alcuni periodi cui, sempre lo STESSO ORDINE, si collega assumendo nomi diversi sì da generare a volte una certa confusione essendo distinte definizioni per una realtà "cavalleresca" sostanzialmente unitaria e con una storia sufficientemente continuata.
La definizione antica e storica è quella di CAVALIERI GEROSOLIMITANI (od OSPEDALIERI) cui in successione cronologica seguono quelle di CAVALIERI DI RODI e quindi di CAVALIERI DELL'ISOLA DI MALTA:




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Originariamente essi ebbero nome di "ORDO MILITIAE SANCTI JOHANNIS BAPTISTAE HOSPITALIS HIEROSOLYMITANI" (traducendo :"Ordine della milizia di S. Giovanni Battista dell'Ospedale di Gerusalemme").
Si trattava di in ordine religioso cavalleresco le cui origini sono da collegare all'istituzione di un OSPEDALE a Gerusalemme ancora prima delle Crociate e finalizzato allo scopo di assistere i già tanti pellegrini che, sfruttando la tolleranza degli Arabi, già si recavano in Terrasanta dall'XI secolo.
L'OSPIZIO e la CHIESA connessa erano dedicati a S. GIOVANNI BATTISTA e la confraternita religiosa che li amministrava seguiva la regola agostiniana (nonostante varie ipotesi al momento attuale non è possibile dire se l'OSPEDALE sia da identificare con quello istituito nella stessa zona dai mercanti di Amalfi nel 1023) Durante la vittoriosa impresa della I Crociata a Gerusalemme era amministratore di questa STRUTTURA DI RICOVERO E CURA tale Gerardo, su cui non si hanno dati specifici.
Data l'euforia della vittoria cristiana l'OSPEDALE fu ingrandito con donazioni e successivamente papa Pasquale II con sua Bolla del 15-II-1113 approvando l'istituzione assistenziale la pose sotto la protezione della Santa Sede.
Morto Gerardo, si ebbe una trasformazione sotto il suo successore RAIMONDO DE PUY.
Ai componenti dell'istituto oltre le funzioni religiose e assistenziali furono allora attribuite PREROGATIVE MILITARI: ci si rese conto che, data la precarietà delle conquiste cristiane in Terrasanta, era necessario fornire a questi "religiosi" la capacità e il diritto di difendere sia la propria chiesa che il loro ospedale.
Così agli ordini religiosi tradizionali che essi dovevano assumere fu aggiunto quello "militare".
I componenti dell'istituto vennero così diversificati: i NOBILI divennero MONACI-CAVALIERI, mentre i NON NOBILI conservarono la fisionomia non guerresca di CAPPELLANI (per i servizi religiosi veri e propri oltre che per le cure assistenziali) e di SERVIENTI-ARMIGERI.
Agli OSPITALIERI o GEROSOLIMITANI (esisteva sostanziale interscambio nella denominazione) fu assegnato un ABITO ORIGINALE caratterizzato da un MANTELLO NERO con CROCE BIANCA SUL PETTO.
Già subito però con RAIMONDO DE PUY la croce bianca fu modificata e divenne la CROCE OTTAGONALE destinata a restare simbolo dell'Ordine.
Inoltre Innocenzo IV nel 1248 autorizzò questi cavalieri a indossare sull'armatura una SOPRAVVESTE NERA.
Sotto papa Alessandro VI, nel 1259, essa fu però ancora cambiata e divenne di COLORE ROSSO.
L'Ordine raggiunse successi e fama specie nella II Crociata partecipando alla spedizione contro Damasco e contribuendo alla conquista di Ascalona: anche in funzione di ciò ebbe particolari riconoscimenti e alla fine papa Anastasio IV nel 1154 concesse l'esenzione dall'autorità dell'ordinario diocesano compreso il patriarca di Gerusalemme.
L'Ordine, che non venne mai meno ai suoi impegni assistenziali, raggiunse notevole potenza e creò molte fondazioni anche in Europa già nel XII secolo.
Per dare un'idea della sua potenza basti dire che l'OSPEDALE DI GERUSALEMME già nell'XI secolo era in grado di dare ospitalità (per riposo ma anche per cura) ad almeno 2000 PERSONE.
Nel 1162, '68 e '69 il GRAN MAESTRO DEI GEROSOLIMITANI od OSITALIERI (Gilberto d'Assaily) aiutò militarmente il re di Gerusalemme Amalrico in ripetute spedizioni contro l'Egitto islamico.
Il Saladino debellò tuttavia a Hittin il 14-VII-1187 le forze cristiane e quindi riuscì a conquistare anche Gerusalemme.
La causa dei Crociati risentì paurosamente della disfatta e anche l'ORDINE DEGLI OSPITALIERI o GEROSOLIMITANI pagò la sconfitta con un notevole ridimensionamento: aveva peraltro visto uccidere molti suoi valenti monaci-cavalieri mente altri erano stati fatti prigionieri.
L'ORDINE abbandonò quindi l'OSPEDALE DI GERUSALEMME e pose le sue basi in Siria a Marquab, organizzando una robusta resistenza alla riconquista araba.
Poichè la TERZA e a QUARTA CROCIATA erano state dei nobili fallimenti il nuovo GRAN MAESTRO DELL'ORDINE (Garin de Montaigu) si recò in Europa per ottenere una nuova spedizione militare: nel corso del suo impegno si curò di ampliare i possedimenti dell'Ordine, grazie a ulteriori donazioni, ed a costituire nuove BASI in Europa, specie CHIESE-OSPEDALI nelle aree portuali donde i Crociati avrebbero preso poi il mare per la Terrasanta (siamo a metà del XIII secolo, nel momento in cui si formarono gli OSPEDALI GEROSOLIMITANI di PORTOMAURIZIO e di OSPEDALETTI nel Ponente Ligure).
La Crociata viene condotta sotto grandi auspici dal giovane imperatore FEDERICO II.
I GEROSOLIMITANI restano però prontamente disillusi in quanto il condottiero cristiano preferisce evitare l'uso delle armi e rifarsi alla diplonazia, facendo stendere un TRATTATO (1244) per cui Gerusalemme tornò sì ai Cristiani ma in un clima di perenne instabilità: ed infatti appena tre anni dopo la città fu presa dai TURCHI KHOVARESMI in piena espansione a danno degli ARABI.
La disfatta dei GEROSOLIMITANI fu notevole.
Il loro GRAN MAESTRO (Guillame de Chateaneuf) fu fatto prigioniero e anche la formidabile fortezza gerosolimitana di Ascalona cadde in mano dei conquistatori islamici.
Luigi IX il Santo di Francia partì allora dalla PROVENZA nel 1250: ed è da notare come proprio in relazione a questo sforzo a metà dello stesso secolo nel territrio di Ventimiglia (notoriamente area di passaggio per la Provenza) proliferassero OSPEDALI e CAVALIERI, RELIGIOSI e NON.
L'impresa del re di Francia si concluse però nella nuova sconfitta di Mansura che ebbe grandi negative ripercussioni sul morale e la compattezza dell'ORDINE che in quell'impresa aveva riposto molte speranze per tornare alla primitiva potenza.
La crisi politico-militare dell'Ordine corrispondeva ad un allentamento dei valori originali susseguenti ad un indebolimento morale dei costumi e contro tutto ciò papa Gregorio IX si vide costretto ad emanare una Bolla nel 1238.
Peraltro gli Ospedalieri o Gerosolimitani erano spesso in contrasto coi Templari in relazione soprattutto al perenne stato di conflitto in Oriente tra Genova, di cui gli Ospedalieri erano alleati, e Venezia.
Poco dopo la metà del XIII secolo si cercò di conciliare queste pericolose divisioni in seno alla Cristianità ma la cosa non impedì a Bibars, sultano d'Egitto e comandante supremo dei Mamelucchi, di occupare la Siria nel 1261 e di mettere termine al principato di Antiochia.
Poco dopo, nel 1271, cadde addirittura il KRAK DEI CAVALIERI e nel 1285 cedette anche IL MARQUAB.
Tripoli si arrese nel 1289 e S.GIOVANNI D'ACRI si consegnò agli invasori musulmani nel 1291.

La sede dell'ORDINE fu allora trasferita nell'isola di Cipro a Limisso.
Poi grazie ai servigi del genovese Vignolo dei Vignoli gli OSPEDALIERI o GEROSOLIMITANI (1308) sottrassero ai Bizantini l'importante isola di RODI.
Qui il GRAN MAESTRO (Folco de Villaret) pose la nuova sede dell'Ordine e per due secoli i Cavalieri vi tennero una posizione di grande prestigio: in funzione di questo radicale cambiamento mutarono allora il nome originario di GEROSOLIMITANI o OSPEDALIERI in quello di CAVALIERI DI RODI.
La posizione strategica dell'isola permise loro di assumere un ruolo egemonico in campo politico e mercantile visto che potevano essere l'ago della bilancia nel contesto di molti rapporti diplomatici ed economici.
In particolare furono stretti accordi commerciali con Genova, Venezia e Pisa oltre che con altre potenze marinare.
Inoltre i CAVALIERI strinsero relazioni mercantili addirittura coi potentati arabi e cercarono persino di addivenire a degli accordi coi Turchi Ottomani, cosa che sarebbe anche riuscita, nonostante la severa condanna del Soglio papale, se il Sultano non avesse preteso anche l'alta sovranità sull'isola di Rodi.
I CAVALIERI DI RODI mirarono, a differenza dei loro predecessori, a costituirsi un vero e proprio domini territoriale che si estendeva da Rodi a molte isole vicine.
Il GRAN MAESTRO DEI CAVALIERI DI RODI era nello stesso tempo PRINCIPE DI RODI mentre il CONSIGLIO DEI CAVALIERI, quasi fosse a capo di una sorta di repubblica aristocratica, si arrogava vere e proprie prerogative sovrane tra cui quelle di coniare moneta, di intrattenere rapporti diplomatici con altri Stati, di organizzare un esercito ed una flotta e di guidarli nel piano generale di una difesa della Cristianità.
Come si intende rispetto alla matrice originaria i CAVALIERI DI RODI andavano deprimendo gli impegni religiosi e assistenziali a vantaggio di interessi politici e socio-economici.
Non è vero però, come qualcuno ha suggerito, che abbiano da questo momento trascurato i primitivi fini assistenziali:
A RODI infatti essi avevano eretto un gigantesco OSPEDALE preposto all'assistenza degli indigenti e degli ammalati.
La secolarizzazione dell'ORDINE fu peraltro connessa al crollo dell'ORDINE DEI TEMPLARI molti beni dei quali pervennero appunto ai CAVALIERI DI RODI.
L'organizzazione definitiva dell'Ordine data a poco dopo questi eventi.
L'organismo base della loro struttura sociale era la COMMENDA (vedi per esempio la COMMENDA GENOVESEDI PRE').
Più COMMENDE, cioè più CASE, formavano un PRIORATO mentre più priorati, all'interno di distinte nazioni, formavano le PROVINCE o LINGUE.
Alla fine del '400 le LINGUE di CAVALIERI DI RODI corrispondevano a otto nazioni: Provenza, Alvernia, Francia, Italia, Aragona, Castiglia-Portogallo, Inghilterra, Germania (comprendente anche Ungheria, Boemia e Scandinavia).
Ogni LINGUA aveva un suo capo cui spettava una delle cariche supreme dell'Ordine come GRAN PRECETTORE, GRAN COMMENDATORE, MARESCIALLO, OSPEDALIERE, GRANDEAMMIRAGLIO, DRAPPIERE o GRAN CONSERVATORE, GRAN CANCELLIER, TURCOPILIERO, GRAN BALI'.
Siffatta struttura garantiva l'internazionalità dell'Ordine al cui vertice stava sempre il GRAN MAESTRO che era eletto a vita dal parlamaento o capitolo generale dei cavalieri.
Per quanto riguarda i servigi svolti per la cristianità è da menzionare che fra tutti prevaleva ormai la funzione militare svolta contro le forze egiziane e turche.
Appoggiati da Venezia e Cipro i CAVALIERI DI RODI occuparono Smirne nel 1344 e la mantennero sino al 1402 quando fu conquistata dai MONGOLI DI TAMERLANO: i CAVALIERI non si diedero però a fuga dissennata ma anzi resero ardua ogni nuova conquista ai Mongoli e di fatto minacciarono sempre la penisola anatolica fondando nel 1408 il castello di S. Pietro dirimpetto all'isola di Cos.
Soprattutto esperti nelle gesta marinare i CAVALIERI impeganarono i Turchi anche in imprese di terra e per esempio nel 1396 parteciparono alla sfortunata impresa di Nicopoli contro Bayazid I.

Dopo la conquista turca di COSTANTINOPOLI i CAVALIERI si trovarono circondati da gravi pericoli.
MAOMETTO II, che li riteneva un grande pericolo, organizzò una spedizione contro Rodi: l'attacco fu tuttavia respinto per la formidabile resistenza organizzata dal GRAN MAESTRO Pietro d'Aubusson.
Nella stessa impresa non riuscì però il MAESTRO Filippo de Velliers de l'Isle Adam quando l'isola, nel 1522, fu assalita dal novo signore dei turchi SOLIMANO IL MAGNIFICO.
Ritiratisi i CAVALIERI DI RODI ottennero nel 1530 il possesso dell'ISOLA DI MALTA dall'imperatore Carlo V: essi furono peraltro penalizzati oltre che dalla sconfitta militare e dalla perdita dei possessi orientali da una notevole crisi di valori interni dipendenti dalla spaccatura della cristianità come conseguenza della RIFORMA PROTESTANTE.

Dando però prova ancora una volta di grandi capacità organizzative essi si riorganizzarono a Malta continuando il loro storico programma di lotta all'espansionismo islamico: ancora una volta cambiarono però il loro nome, mutandolo dal luogo in cui avevano la loro base principale e pertanto divennero il SOVRANO MILITARE OSPEDALIERO ORDINE DI MALTA più sveltamente detto poi ORDINE DEI CAVALIERI DI MALTA.
L'isola fu splendidamente fortificata e nel 1565 fu in grado di resistere a un'aggressione della FLOTTA IMPERIALE TURCHESCA D'OCCIDENTE
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Nell'isola fu poi fodata la cittadella del LA VALLETTA così nominata dal GRAN MAESTRO DELL'ORDINE che fortificò e valorosamente difese l'isola, Jean Parisot de La Valette.
I CAVALIERI DI MALTA parteciparono poi alla battaglia di Lepanto, alla difesa di Candia (1645-1669), alle campagne d'Ungheria con Sobieski e di Morea coi Veneziani.
Proprio nel XVII secolo essi conseguirono ulteriore rinomanza per queste gesta e al loro GRAN MAESTRO fu conferito il titolo di PRINCIPE DELç SACRO ROMANO IMPERO e nel 1630 un grado ecclesiastico equivalente a quello di cardinale.
Nel XVIII secolo si spense però il governo autocratico del GRAN MAESTRO Emanuele Pinto de Fonseca che, inimicandosi la Santa Sede, aveva cacciato dall'isola i Gesuiti.
Con la Rivoluzione Francese l'Ordine fu spoliato dei suoi beni in area transalpina e Malta divenne terra di nobili francesi in fuga.
Nel 1792, conquistata l'isola, Napoleone ottenne la cessione dell'isola che non tornò più ai CAVALIERI DI MALTA.
Molti CAVALIERI DI MALTA si rifugiarono presso lo ZAR DI RUSSIA PAOLO loro protettore che fu eletto "gran maestro" anche se la Santa Sede non riconobbe l'ATTO essendo lo ZAR DI RELIGIONE ORTODOSSA E CONIUGATO.
Dopo la morte di Paolo I un CAPITOLO DELL'ORDINE attribuì la carica di GRAN MAESTRO DELL'ORDINE ai PONTEFICI ROMANI: usanza che da allora mai più venne meno.
Dopo le sedi provvisorie di Catania e di Ferrara da 1834 l'ORDINE DEI CAVALIERI DI MALTA si stabilì in ROMA (nel 1961 Papa Giovanni XXIII ne approvò la carta costituzionale).
L'ORDINE è oggi retto dal GRAN MAESTRO che regge un CONSIGLIO di quattro rappresentanti dei PRIORATI ed è costituito da tre LINGUE (Italiana, Spagnola e tedesca) oltre che da 13 ASSOCIAZIONI dei diversi Stati.
I suoi membri cui viene richiesta una specifica patente di nobiltà sono a loro volta distinti in: CAVALIERI DI GIUSTIZIA (che pronunciano gli ordini religiosi), CAVALIERI DI OBBEDIENZA (che formulano voto di obbedienza ai superiori) ed infine CAVALIERI E DAME DI ONORE EDI DEVOZIONE (accanto a questi si citano poi categorie minori e cappellani per le funzioni religiose: l'attività dell'ORDINE si esplica nella gestione di ospedali, ambulatori, in opere di assistenza e beneficenza: vedi sotto voce "MALTA, ORDINE DI", il G.D.E. della U.T.E.T. di Torino: anche per i riferimenti bibliografici).


Gli ANTONIANI arrivarono nel Ponente Ligure non solo per dare ricetto ai viandanti ma soprattutto col fine di assistere e soccorrere i malati di ergotismo e gli erpetici. Il coinvolgimento coi patrizi e coi discendenti della famiglia comitale intemelia, che a questi frati produsse effetti benefici, fece sì che l'Ordine fiorisse in Liguria occidentale: la loro fortuna si sviluppò in modo direttamente proporzionale all' aumento dei traffici in queste contrade, con una sempre maggior frequenza di individui " foresti" malati o sospetti di "portar contagio", temutissimo quelli di lebbra e di peste.

La canonica di S. Antonio di Ranverso era stata fondata appena nel 1180, presso Torino, iniziando quasi subito l' espansione del vecchio Ordine da cui derivava, quello canonicale di S. Antonio di Vienne: ed infatti verso la metà del XIII sec. un OSPEDALE ANTONIANO esisteva in Ventimiglia ( e sull'atgomento si era già dilungato con discreti risultato il CANONICO NICOLO' PEITAVINO)ed i suoi FRATRES o VIENNORUM od ANTONIANI avevano delle proprietà nell'AREA di Camporosso, dove, secondo una solida tradizione monastica, sfruttavano la cava d'argilla delle TERRE BIANCHE (i frammenti di laterizi nella tomba bordigotta di LUCREZIANO e quelli di tegola scoperti a La Colla di Dolceacqua, che risalgono al I-II sec.d.C., furon realizzati con questo tipo di argilla: Albintimilium...cit.,p.222 = Guida di Dolceacqua cit.,p.14).
L'argilla grigiastra delle Terre Bianche, come peraltro quella dell'ALMABLANCA, tuttoggi risulta possedere, se trattata in soluzione acquosa, proprietà dermatoprotettive e rinfrescanti, giovevoli nella terapia sintomatica dell'ergotismo.

Nel Duecento i monaci Antoniani ebbero il merito di tentare nuove strade diagnostiche e curative contro queste malattie epidermiche ed oltre ad acque termali ed argille curative si valsero delle proprietà salutari attribuite al grasso della carne di maiale: in parecchie chiesuole della vallata esistevano un tempo affreschi impressionanti (fatti poi ricoprire dai Parroci) di uomini disperati dal volto suino (quelle immagini eran correlate per alcuni alla tradizionale equivalenza simbologica maiale-demone mentre a giudizio non trascurabile di altri costituirebbero un ricordo delle grandi affezioni dermatologiche contro cui quei monaci combatterono, acquisendo il diritto di immunità di pedaggio sui pascoli pubblici, pei maiali che allevavano, caratterizzati dal marchio Tau tipico del loro Ordine).


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CERTOSA DI CHIUSA PESIO>Comune del Piemonte, in una zona boschiva in PROVINCIA DI CUNEO, di circa 94,05 Km.q. di superficie, a 575 m. s.l.m., di quasi 4000 ab. detti Chiusani: la fama deriva però al luogo per esservi stata eretta la Certosa di Chiusa Pesio che tanta influenza ebbe, per la cultura spirituale e la vita di relazione del Piemonte di nord-ovest e la Liguria ponentina.


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Il ruolo delle MONACHE DELL'ORDINE BENEDETTINO, per quanto estremamente inferiore a quello dei confratelli dello stesso potente ordine religioso, è stato abbastanza trascurato negli studi sul ponente ligure sia in merito alla pochezza del loro numero sia -e soprattutto- in dipendenza di una notevole resistenza feudale alla loro opera.
Verso i primi dell'XI secolo, come laboriosa conseguenza del crollo dell'IMPERO CAROLINGIO con la morte nell'888 dell'IMPERATORE CARLO IL GROSSO l'Italia feudale risultò frazionata in una serie di stati pseudonazionali mediamente identificati in grandi Marche (Marchesati) a loro volta suddivisi in un mosaico di "stati vassali", in genere Contee.
La Liguria Occidentale, in quest'opera di frazionamento, era pervenuta fra i possessi della MARCA DI TORINO, facilmente detta MARCA ARDUINICA: essa giunse al potente OLDERICO MANFREDI che nel 1028, assieme alla moglie BERTA fondò a CARAMAGNA PIEMONTE un MONASTERO BENEDETTINO FEMMINILE: secondo l'uso feudale concesse poi alle monache vari beni per il loro sostentamento e tra questi vari luoghi e paesi in Piemonte e, a guisa di accesso alla linea del mare, una metà del CASTELLO DI PORTO MAURIZIO col la relativa CORTE DI PRINO E DI CARAMAGNA.
Si trattava di una procedura usuale a favore delle grandi case religiose pedemontane e non (si veda l'emblematico caso di NOVALESA il cui principato ecclesiastico fu esteso con possessi nella media VALLE DEL NERVIA) incoraggiate dalla feudalità nel finalizzare un enorme sforzo di apostolato su larga scala, teso sì a portare la voce del vangelo in ogni contrada ma soprattutto a rinvigorire contrade che erano state desolata dalle incursioni dei SARACENI.
Le religiose, ispirandosi all'attivismo religioso e civile del loro Ordine, istituirono quindi a PORTO MAURIZIO un grande MONASTERO (nel sito oggi all'incrocio tra le vie Cascione e XXsettembre) cui fu annessa la limitrofa CHIESA DI S.MARIA ASSUNTA.
Tutto l'XI secolo fu caratterizzato dall'opera delle monache che finalizzarono quelli che erano i programmi dell'Ordine e del potere civile che le aveva favorite: così intorno al MONASTERO si coagularono piccoli insediamenti di villani e rurali: le suore, acquisendo sempre più meriti fra la popolazione, non ebbero difficoltà -a fronte di un potere civile lontano e indifferente o piuttosto impotente- ad estendere la loro influenza anche sul territorio di DOLCEDO che assorbirono nel loro PRINCIPATO.
Le BENEDETTINE tra l'altro andavano ottenendo sempre maggiori consensi (superando nettamente in ciò i più moderati confratelli) anche perché invece di assumere un ruolo di prudente neutralità si espressero spesso in sostegno dell'idea antifeudale di autonomia che andava serpeggiando ovunque e che preludeva alla svolta del LIBERO COMUNE.
I MARCHESI DI TORINO,, pur sempre gelosi dei loro diritti feudali, non potevano certo accettare questa situazione e -qui come altrove- pur cercando di non inimicarsi il prestigios Ordine ritennero opportuno un mutamento istituzionale.
Così -per effetto delle pressioni della GRANDE NOBILTA'- il Vescovo di Albenga -alla cui DIOCESI spettava il territorio di DOLCEDO- scorporò dal PRINCIPATO ECCLESIASTICO FEMMINILE DI CARAMAGNA la CHIESA DI DOLCEDO e l'affidò ai MONACI DI LERINO parimenti di tradizione benedettina ma derivanti da quel fenomeno monastico insulare -più antico ancora dell'esperienza benedettina- che aveva dato ottime prove di amministrazione territoriale senza interferenze col potere temporale.


Secondo quanto ha scritto G.Meriana nel suo volume sui "Santuari in Liguria" la leggenda vuole che in un tempo indecifrabile un cacciatore, visto un colombo selvatico, lo abbia ucciso al volo sì che la preda sia finita entro un roveto dove fu cercata invano.
Nella sua vana impresa di recupero il cacciatore avrebbe trovata invece una STATUETTA DELLA VERGINE.
La raccolse per cederla agli abitanti della villa che, per celebrare la miracolosa icona, le eressero una cappella cui fu dato nome di MADONNA DELLA NEVE visto che lo straordinario evento sarebbe occorso in un giorno di cattivo tempo, mentre sulle montagne cadeva abbondante la neve.
Cose ver e finte si mescolano nel racconto e meritano di essere analizzate:
Un punto che però sfugge al Meriana è la topografia antica dell'attuale SANTUARIO.
Egli analizza con la solita precisione i connotati geografici del sito e scrive (p. 229): "Il santuario si raggiunge da Camporosso in val Nervia con la strada degli Olandesi e dalla strada che collega Ventimiglia con Limone piemonte, deviando sulla destra in località Roverino per Magauda e Ciaixe".
Il suo ragionamento non fa una piega, ma è alla rovescia: è di un "pellegrino moderno" che dalla Liguria ascende ad una base santa.
Per secoli, e ben oltre il XVI, la VIA DEL NERVIA fu uno dei percorsi viari di scambio tra Liguria e Piemonte.
Giunta a Dolceacqua la via offriva varie diramazioni e procedeva per distinti percorsi.
La ragione era che anticamente nessun viandante che scendesse dal Piemonte, come nessun Pellegrino che dalla Liguria volesse andare in Piemonte potevano evitare di calcolare l'imprevedibilità del TORRENTE NERVIA le cui piene potevano rendere impraticabile la linea viaria di fondovalle, specie per gli epocali IMPALUDAMENTI ALLA FOCE eliminati solo in tempi relativamente recenti.
Per questi viandanti, nel caso di simili emergenze, era necessario evitare le terribili paludi di Nervia e partendo da Ventimiglia per il Piemonte ascendere al sito delle MAURE/ MAULE; S.CRISTOFORO/S.GIACOMO e di lì procedere sulla direttrice dei possedimenti monastici sin al sito della CAPPELLA DELLA NEVE e quindi addentrarsi nell'area di DOLCEACQUA sui tragitti controllati dal locale CONVENTO BENEDETTINO per poi da lì scendere sul fondovalle e proseguire per la via romea del Nervia.
La migliore relazione di questo tragitto di mezzacosta e d'altura si ricava dall'analisi di uno scritto del grande letterato italiano UGO FOSCOLO mettendone in confronto le CONSIDERAZIONI con note della cartografia militare di cui egli si serviva in un periodo di grandi piogge che avevano impaludato il NERVIA e reso impraticabile il superamento di un largo tratto della VIA DI COSTA PER VENTIMIGLIA.
L'analisi di tanti dati suggerisce però varie considerazioni topografiche e storiche: -Nel XIV secolo la chiesetta del terminale di questo supposto viaggio dal Piemonte alla Liguria è quella del S. CRISTOFORO: e non è superfluo dire che si tratto di un santo particolare, facilmente connesso al teorema dei VIAGGI DEL PELLEGRINO DI FEDE.
-Il nome però a metà '400 linguisticamente "morendo" e quindi sotto il profilo delle competenze sociali -visto che si tratta di un culto ufficiale e non di un nome locale- è da ricercare il perché della sua GRADUALE ESTINZIONE a favore del nome e del culto di S.GIACOMO peraltro collegato coi fermenti del pellegrinaggio verso S.Giacomo di Compostela.


I TRINITARI (importante espressione del FENOMENO CAVALLERESCO RELIGIOSO di cui tra i primi il Contarini fornì un utile ELENCO RAGIONATO)sono un Ordine religioso (nome ufficiale "Ordo SS.Trinitatis redemptionis captivorum") fondato da S.Giovanni di Matha e da S.Felice di Valois nell'eremo di Cerfroid (diocesi di Meaux-Francia) nel XII secolo.
Eretti i primi tre conventi i fondatori si recarono a Roma per ottenere da Papa Innocenzo III nel 1198 una propria REGOLA.
Nel 1213 esistevano già una quarantina di conventi tra Francia, Spagna, Italia, Portogallo, isole britanniche, Grecia, Cipro, Gerusalemme ecc.
Nel 1244 le case erano salite a 600.
L'Ordine fiorì soprattutto in Francia (100 conventi) e nelle isole britanniche (40): dalla PROVENZA l'Ordine esercitò un certo influsso sulla Liguria ponentina sì che tuttora a TAGGIA si può ammirare la CHIESA - ORATORIO INTITOLATA ALLA SANTA TRINITA' e per questo detto ORATORIO DEI TRINITARI ma sulle cui particolarità e sulla cui vera identità cultuale e culturale, con il vero nome di ORATORIO DEI ROSSI ha indagato e scritto con competenza Antonio Zencovich [non è comunque da dimenticare l'analoga, più recente ma altrettanto importante, CONFRATERNITA DEI TRINITARI istituita presso la CHIESA CONVENTO DI S. CROCE o SANTUARIO DEL MONTE CALVARIO IN PORTO MAURIZIO].
Specialmente nel XVII secolo la storia e la vita dell'ORDINE furono segnate da una serie pubblicazioni, alcune ormai piuttosto rare, come questo prezioso VOLUME del 1637 che racchiude fra le sue pagine le vicende istituzionali e storiche dell'ORDINE, l'elenco dei PREVILEGI e dei DOVERI dei Confratelli il regolamento e le sue modificazioni attraverso i secoli, la rassegna completa delle Bolle papali concernenti l'ORDINE con l'indicazione delle varie indulgenze, dei doveri degli ascritti, delle opportune indicazioni sulle manifestazioni processionali e liturgiche.
Le riforme illuministiche di Giuseppe II posero fine all'esistenza dei conventi di TRINITARI in Serbia, Polonia, Rutenia, Austra, Ungheria, Boemia ecc.
In Italia tali conventi vennero soppressi da Napoleone dopo le sue conquiste.
In Spagna e Portogallo la soppressione -per ordine dei Governi- data invece dal 1835.
L'Ordine è lentamente risorto in Italia dal 1870 (in Spagna dal 1879) e si è sparso in varie contrade del mondo.
SCOPO dell'Ordine era quello di RISCATTARE i cristiani caduti prigionieri dei musulmani e ridotti in SCHIAVITU'.
L'ORDINE ne otteneva la libertà sia pagandone il prezzo sia sacmbiandoli con prigionieri infedeli.
I mezzi forniti per il riscatto erano le elemosine raccolte da speciali collettori.
Un terzo di esse serviva per il mantenimento dei religiosi dell'Ordine, un terzo valeva per il riscatto degli schaivi dei musulmani ed un terzo ancora serviva per la manutenzione di quegli OSPEDALI che l'Ordine dapprima curò per il ristoro dei PELLEGRINI e quindi come vere e proprie STRUTTURE DI CURA E DEGENZA.
L'Ordine ebbe varie suddivisioni nei secoli.
Nel 1578 i padri Claudio Aleph e Giulio di Nantoville per desiderio di maggior perfezione vollero tornare all'austerità originaria ottenendo l'approvazione da Gregorio XIII.
Si costituirono le branche degli SCALZI e dei CALZATI.
Nel 1599 il beato Giovanni Battista della Concezione (1561-1613) si staccava dai CALZATI.
Papa Clemente XIV riuniva poi le varie branche sotto il nome di CANONICI REGOLARI DELLA SS.ma TRINITA'.
I TRINITARI vestivano di bianco e poratavano sul petto una croce rossa e azzurra mentre la cappa ed il cappuccio erano neri.
In Francia erano anche detti "Mathurins" visto che il loro principale convento era dedicato a S.Maturino.
Diversi furono i rami femminili dell'Ordine.
Le TRINITARIE OSPEDALIERE votate all'assistenza degli infermi sorsero nel XIII secolo e parteciparono del vasto fenomeno delle strutture ospitaliere collegate al fenomeno dei PELLEGRINAGGI DI FEDE.
Nel '500 queste si fecero suore di clausura prendendo nome di TRINITARIE CALZATE.
Le TRINITARIE SCALZE furono istituite nel 1609 dal beato Giovanni Battista della Concezione.
Le RECOLLETTE TRINITARIE furono poi istituite nel 1681 dalla Venerabile Angela Maria della Concezione.
Bibl: AA.VV., Dizionario degli Istituti di perfezione, Roma, 1978.






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I MORTI DIFENSORI DEI VIVI

L’“assalto degli spettri” in un dipinto seicentesco dell’Oratorio dei Rossi a Taggia e il Trattato dell’altra vita et dello stato dell’anima in essa, di Luca Pinelli da Melfi

Non toccate li nostri amici e benefattori

Un uomo camminava da solo nel crepuscolo.
Portava addosso un mantello, ma lo teneva slacciato: non doveva far freddo quella sera.
E’ raro che lo faccia a Taggia e anche trecentocinquant’anni fa non era molto diverso da adesso. E poi non è detto che fosse inverno: allora la gente (quella per bene s’intende) si vestiva di tutto punto anche se faceva caldo, consolandosi magari con il pensiero dei patimenti ben più acerbi sofferti da Nostro Signore sulla Croce…
Contro il nero mantello si stagliava una bianca croce di Malta e sulla giubba, nera anche quella, risaltava un’identica insegna.
Era chiaro che il simbolo per lui voleva dire qualcosa.
Forse si trattava di un cavaliere gerosolimitano, certo di un nobile.
Alle porte del paese qualcuno lo stava aspettando con intenzioni non del tutto amichevoli.
E pertanto, a un giro di strada, quattro tipi dall’aspetto patibolare gli vennero addosso con le spade sguainate.
Anche lui tirò fuori la sua (e intanto il mantello gli scivolava in terra), ma c’era poco da fare da solo contro quattro: la situazione sembrava proprio senza vie di scampo.
Quand’ecco, all’improvviso, alla chiesa vicina si udirono le campane suonare a stormo e dal triplice portale venne fuori uno stuolo di scheletri: qualcuno con addosso il sudario; altri, la maggior parte, senza nemmeno quello.
I trapassati si slanciarono contro i quattro malandrini al grido di “non toccate i nostri amici e benefattori” (ovvero, per la precisione, non toccate li nostri amici e benefattori.
Difficile combattere contro gli spettri: a parte lo sconcerto, c’è il problema non secondario che, se anche li trafiggi nel punto esatto dove una volta c’era il cuore, sono capaci di mettersi a ridere, di quel sorriso poco estasiante che sanno fare i morti.
Così, in pochi secondi, i masnadieri ebbero la peggio; si ritrovarono a terra, senza nemmeno rendersi conto di cosa fosse successo, e poi via, a gambe levate….
Non è la scena di un “romanzo gotico” dell’Ottocento, ma la ricostruzione di un evento miracoloso accaduto a Taggia intorno alla metà del secolo XVII, protagonista appunto il signore con la croce di Malta sul petto, il quale, dopo il lieto fine della disavventura, ritenne opportuno realizzare un singolare ex voto, dedicato ai defunti che lo avevano tirato fuori dai pasticci.

I Trinitari erano soliti dedicarsi al riscatto degli schiavi cristiani, rappresentati in massima parte dalle prede delle razzie piratesche. A Taggia, però stranamente, di ciò pare che si occupassero i Bianchi, aderenti alla più antica confraternita del Gonfalone.
In effetti i Rossi non si ricollegavano all’Ordine istituito alla fine del secolo XII dai SS. Giovanni di Matha e Felice di Valois (non sarebbero stati infatti rossi per abbigliamento ma biancocrociati), ma all’Arciconfraternita romana dei Pellegrini e dei Convalescenti, fondata nel Cinquecento da S. Filippo Neri.
Ora attraversiamo la chiesa fino al presbiterio.
A sinistra sta la porta della sacrestia: là sopra, dalla parte interna - se le cose non sono cambiate in questi ultimi tempi - è appeso un quadro di circa un metro di larghezza e qualcosa di più in altezza (cm. 121 x 99, per i pignoli), con una scena che a prima vista può lasciare perplessi.
Niente Madonne o Santi: qui ci sono degli scheletri.
E’ una cosa un po’ strana, sebbene non si possa negare che anche loro abbiano una parte di rilievo nella religione cristiana, sviluppatasi tra gli ossari delle catacombe e che per questo qualcuno ha accusato di necrofilia. E più che mai una simile tendenza era viva nell’epoca barocca.
Dicevamo infatti che si tratta di un’opera seicentesca: Padre Angelico potrebbe quindi averla vista, lui che a Taggia era abbastanza di casa. Al tempo in cui vi si aggirava per frequentare la locale accademia dei “Vagabondi”, il dipinto aveva poco più di tre lustri e la dedica in basso a sinistra (per chi guarda), che purtroppo non possiamo più decifrare, era sicuramente leggibile.
Forse ci avrà dato un’occhiata, per curiosità, ma poi si sarà messo a parlare d’altro. In verità quella roba non poteva dire molto a uno come lui che, prima di venire via da Venezia, si era fatto raffigurare da Carlo Ridolfi, pittore alla moda, e in seguito si era fatto corrispondente del Casoni e del Fiasella, e che teneva nella biblioteca le Vite del Soprani con i ritratti dei più famosi artisti del tempo: con le cose del popolo aveva poco da spartire.
Perché proprio di cose del popolo si trattava: quella ingenua scenetta dei morti che accorrevano in soccorso del malcapitato signore in nero, pur nella sua modestia, rappresentava un piccolo trattato di escatologia contadina, quasi una summa embrionale delle teorie diffuse in zona riguardo a ciò che si credeva potessero operare i morti in favore dei vivi, dal posto che occupavano nell’altro mondo.
Anche i religiosi, s’intende, avevano le loro responsabilità nell’infondere simili credenze, ma ben prima di loro l’argomento aveva rappresentato uno dei cardini della spiritualità pagana. E i relativi rituali, in una zona conservatrice e appartata come la valle Argentina, si erano abbarbicati alla memoria collettiva, pronti a riemergere dal letargo, al pari di certi olivi vecchi secolari che, quando uno pensa siano definitivamente seccati, a un certo punto mettono di nuovo i germogli e ricominciano a fare i frutti….

Un “ex voto” dedicato ai morti

Il quadro dei Defunti che difendono i vivi, di autori ignoti (al plurale, come vedremo), si trovava da tempo nella sacrestia dell’Oratorio della Confraternita dei Rossi, in condizioni di scarsa visibilità a causa dell’altezza e del buio.
Perciò si è dovuto aspettare a lungo prima che qualche studioso si decidesse a osservarlo con attenzione: il che, per quanto ne sappiamo, è accaduto una prima volta nel 1989, al tempo della catalogazione ministeriale, quindi l’anno successivo, con la comparsa di un articolo di Fulvio Cervini sul Bollettino della Comunità di Villaregia.
Più di recente, in occasione della mostra “Il mare tra insidia e devozione” (Taggia, Oratorio dei Rossi, 15. XII. 1999 - 15. II. 2000), una delle quattro organizzate dalla Regione Liguria per la serie “La devozione e il mare”, ne è stato effettuato il restauro, di cui si sentiva molto la necessità, e che ha fatto scoprire alcune singolari caratteristiche prima difficilmente rilevabili.
Diciamo subito qualcosa a proposito del dipinto che, come osserva il Cervini, si può considerare un atipico ex voto dedicato ai morti.
Il suo valore è quindi soprattutto etnografico, piuttosto che storico-artistico.
Esso raffigura, sullo sfondo di un paesaggio che si presume voglia alludere alla valle di Taggia, una cappella in primo piano che dovrebbe essere l’oratorio dei Rossi.
In realtà né l’uno né l’altra si approssimano al corrispettivo reale, ma di ciò parleremo in seguito.
Dalla chiesa, provvista di triplice portale e campanile a vela, sulla cui facciata campeggia il motto, già riferito, non toccate li nostri amici e benefattori, fuoriesce uno stuolo di scheletri che, brandendo ossa umane, si lancia contro un gruppo di uomini armati di spada, con giubbe di vari colori. Intanto, a destra, un personaggio in cappa nera, col Rosario in mano e al petto una croce di Malta, che compare anche sul mantello a terra, sta in piedi attonito al centro della zuffa, senza prendervi parte.
La pulitura ha messo in evidenza l’intervento di due mani diverse: la prima di chi ha realizzato il paesaggio (e si direbbe quella di un professionista); l’altra del dilettante che ha eseguito la scena in primo piano.
Una radiografia potrebbe dirci se sotto quest’ultima si nasconde qualcosa che costituiva il soggetto principale di un’opera preesistente, o se invece il quadro è stato eseguito in due tempi.
Nella seconda ipotesi si dovrebbe ritenere che l’autore dello sfondo non risiedesse sul posto, ma in qualche centro artistico maggiore: Genova forse, o magari anche Roma, città alla quale i Taggiaschi guardavano con maggiore interesse che non alla propria Dominante.
Da quelle parti, infatti, per chi aveva bisogno di un pittore, non c’era che l’imbarazzo della scelta, potendosi rivolgere tanto alle piccole botteghe artigianali quanto agli atelier dei maggiori artisti.
All’ombra di questi ultimi, in particolare, vivevano schiere di aiutanti specializzati a raffigurare singoli elementi del prodotto finito, in una sorta di catena di montaggio.
Si trattava di semplici artigiani, pagati di conseguenza, che non perdevano l’occasione di arrotondare i propri guadagni, se qualcuno gli proponeva di dipingere i soggetti con cui erano soliti cimentarsi nel loro “primo lavoro”.
Benché, nel loro campo, possedessero una notevole abilità e fossero in grado di operare in un tempo minore e anche meglio del padrone, di rado è accaduto che qualcuno dei loro nomi giungesse fino a noi.
Tra di loro non dovevano mancare quelli specializzati negli sfondi i quali infatti, spesso, anche nelle tele dei pittori famosi, si vedono ricorrere in forme ripetitive, tali da far presumere l’intervento degli aiuti.
A uno di questi avrebbe potuto rivolgersi il committente del dipinto, fornendo una generica descrizione della valle di Taggia, oppure acquistando un paesaggio già pronto.
L’altra novità emersa dal restauro è la data 1652 che si legge nel cartiglio in basso a sinistra.
La scritta (che, a decifrarla per intero, avrebbe soddisfatto ogni nostra curiosità) era troppo rovinata per risultare recuperabile nella sua interezza.
Comunque la datazione, un po’ più tarda di quanto si sarebbe potuto presumere sulla base dei riscontri stilistici, ci aiuta a collocare l’opera in un preciso contesto storico, caratterizzato da una estrema intransigenza sulle questioni religiose: quello successivo alla guerra dei Trent’anni.

Fumetto “ante litteram”

L’interpretazione finora data al dipinto ipotizza un assalto sacrilego all’edificio sacro, sventato dall’intervento dei morti ivi sepolti. Si tratta senz’altro di una ipotesi suggestiva, che permette di riferirsi a opere di ben più alto livello, come il Furto sacrilego di Alessandro Magnasco, dove una torma di scheletri balzati fuori dagli avelli brandendo torce accese mette in fuga due incauti ladruncoli che cercavano di introdursi in una chiesa.
Senonché, come già notavamo, ci sembra più plausibile un’altra chiave di lettura (che lo stesso Cervini prende in esame, seppure relegandola in una nota), corrispondente appunto alla trama del racconto con cui abbiamo iniziato: vale a dire l’aggressione ai danni del personaggio con la croce di Malta sul vestito e il Rosario in mano. In effetti gli attributi religiosi che ostenta mal si accordano con la figura di un profanatore di chiese e poi la scritta non toccate li nostri amici e benefattori si trova chiaramente dalla parte dei defunti e si deve intendere come pronunciata da loro, in una sorta di fumetto ante litteram.
Beneficiario del miracolo sarebbe dunque il personaggio longocrinito in cappa nera il quale, molestato da un gruppo di banditi, o piuttosto di bravacci alle dipendenze di qualche signore, se non addirittura di soldati, non potendosi affidare alle armi, aveva preferito confidare nell’aiuto del Cielo: si era messo a recitare il Rosario e, grazie all’intercessione della Vergine aveva ottenuto che i defunti gli venissero in aiuto..
Perciò, piuttosto che difendere “i vivi” al plurale, quei morti sembrano accorrere in soccorso di una singola persona e la scritta (che si potrebbe benissimo assumere come titolo dell’opera) andrebbe spiegata nel senso di un artificio retorico inteso a dare maggior forza all’asserzione, proponendola in forma generale anziché particolare. Ma è possibile in alternativa ritenere che l’elogio intendesse associare al protagonista della scena l’intero clan familiare di appartenenza, poiché vari indizi ci fanno pensare che si trattasse di un figlio della nobiltà clericale del posto.
Circa il fatto che l’edificio raffigurato sia proprio l’oratorio della Trinità, come accennavamo all’inizio, è lecito avere dei dubbi. Ad essi si oppongono però delle considerazioni deduttive, sia perché il quadro, per quanto risulta alla memoria del posto, è sempre stato lì, sia per la presenza di una tonaca rossa addosso allo spettro che si affaccia lugubremente dalla porta di centro..
Perciò le alternative sono due: o il quadro non ha niente a che vedere con la chiesa dei Rossi e nemmeno con Taggia (ma ci sembra poco verosimile), oppure si deve ammettere che l’oratorio della SS. Trinità sia passato, nel corso del Seicento, attraverso una fase costruttiva di cui le fonti non ci hanno fatto sapere nulla e quindi la sua costruzione sia anteriore a quella, citata concordemente, del 1690.
Infatti, se la scarsa verosimiglianza del paesaggio potrebbe derivare dall’essere stato reso liberamente da un forestiero che la valle di Taggia non l’aveva mai vista, una totale difformità dell’edificio resterebbe senza giustificazione, in quanto è assai probabile che la scena in primo piano sia stata realizzata da uno del posto, se non dallo stesso donatore.
Quasi in ogni paese esistevano dei pittori autodidatti, specializzati negli ex voto, genere che trovava una consistente domanda a livello popolare: dilettante per dilettante, non c’era ragione di andarne a cercare uno altrove.

Dico adesso che negare l’altra vita…

Prima sarà il caso di fornire qualche nozione elementare a proposito delle teorie proposte ai devoti dell’età della Controriforma sullo stato delle anime nell’Aldilà ed è utile di un libro custodito all'Aprosiana.
Si tratta di un manualetto in volgare, sulle cui indicazioni i pastori d’anime potevano rispondere alle domande che i fedeli rivolgevano loro sul delicato argomento di cosa era giusto credere che i fratelli defunti potessero fare, o meno, una volta giunti nel regno delle tenebre.
E'opera del gesuita Luca Pinelli da Melfi, stampata a Torino nel 1606, dal titolo Trattato dell’altra vita et dello stato dell’anima in essa.
Primo e ovvio postulato, fondamentale non soltanto per la religione cristiana, è l’esistenza dell’altra vita; dubitarne costituisce il massimo della temerarietà e dell’eresia. Eppure, se ci si preoccupava di sancire il basilare assunto, vuol dire che anche allora esistevano dei temerari che osavano negarlo.
Ad essi il gesuita si rivolge con queste fiammeggianti parole: Dico adesso che negare l’altra vita, e tenere che con la morte si dà fine ad ogni cosa, è errore e peccato horrendissimo, non solo perché la santa Chiesa maledice, scommunica e anatematizza quel Christiano, che tiene tale heresia, e non solo perché questo è un aperire la porta ad ogni sorta di sceleraggine… ma è horrendissimo perché nasce dalla maggior superbia che possa essere, ed è accompagnato dalla più temeraria presuntione che si possa immaginare… Non è presuntione grandissima il pensare che tutto il Mondo si sia ingannato eccetto tu? E’ possibile che tu sappi più di tutti i Santi Dottori, più de gli Apostoli e più di Christo, figliuolo di Dio e sapienza increata?
Quindi cita la vicenda, riferita da S. Agostino, del medico Gennadio di Cartagine, il quale aveva concepito un simile dubbio, non riuscendo a capacitarsi di come potesse l’anima operare senza il corpo. Tuttavia non aveva smesso di operare rettamente e per questo ottenne il soccorso del Signore. Una notte vide in sogno un giovane bellissimo che, dopo avergli ordinato di seguirlo, lo condusse dentro una città incantata dove si udivano voci e musiche divine. Li senti? disse. Sono i canti dei Beati. E gli mostrò molte altre cose che l’altro al risveglio non ricordava più.
La notte successiva apparve di nuovo.
Sai chi sono?
Certo. Sei l’angelo che mi ha guidato in quel posto meraviglioso, dove ho udito cori celestiali.
Come hai visto e sentito tutto questo? Eri sveglio?
No, dormivo>.
E adesso?
Anche adesso sto dormendo.
I tuoi occhi sono aperti?
No, chiusi.
E pur tuttavia mi vedi… L’altro, imbarazzato, non rispose.
Vedi Gennadio, se mi riconosci vuol dire che possiedi sensi diversi da quelli corporei e così, quando sarai nell’altra vita, la tua anima vedrà senza occhi, toccherà senza mani e parlerà senza lingua.
Se i suffragi dessero all’anime dannate qualche refrigerio…
Dunque, primo postulato: esiste un Aldilà.
Esso si suddivide in tre regni, chiamati “ricettacoli”, che sono, come tutti sanno, l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. I primi due si trovano sulla Terra; l’altro al di là delle stelle, nell’Empireo. Che si trovi proprio lassù e non altrove non è un dogma di fede, ma non è da buoni Cristiani dubitarlo: starebbe per l’esattezza, secondo alcuni, alla distanza di 1.799.995.500 miglia (tre miliardi di chilometri, più o meno).
Secondo postulato: dopo la morte le anime non sono più in grado di aggiungere o togliere nulla al loro merito.
Possono operare il bene, se stanno nella Residenza dei beati, oppure il male, trovandosi in compagnia di Belzebù, ma non cambiano in nulla il proprio destino: la condizione da esse raggiunta è definitiva.
Qualcuno, nei primi secoli del Cristianesimo, riteneva invece che nei regni ultraterreni avrebbe avuto luogo una progressiva purificazione e tutte le creature sarebbero ascese alla gloria di Dio, Satana compreso, e dell’Inferno non ci sarebbe stato più bisogno. Si trattava della teoria dell’apokatastasis, o “ricominciamento” di Origene, che conobbe molti fautori in età medievale, prima di venire proclamata eretica.
Ma nell’età della Controriforma i teologi, forti di prese di posizione ufficiali, assicuravano concordi che l’Inferno era destinato a rimanere e ben pieno, che solo a pensarci la buona Santa Teresa si sentiva mancare il respiro.
E non si era mai dato il caso che qualcuno avesse cambiato di sede: quanto si riferiva a proposito di Traiano, riscattato dalle preghiere di S. Gregorio, o casi simili, altro non era che leggenda.
Si escludeva quindi ogni intervento della Grazia nel regno dei dannati, di cui parlavano invece delicate leggende medievali, come la Visio apocrifa di S. Paolo, in cui, grazie all’intercessione del Santo, veniva concesso alle anime un giorno di riposo in occasione della Pasqua, o quella di S. Baronto, della fine del VII secolo, dove si narra che i dannati, purché avessero compiuto almeno un po’ di bene nel mondo, ricevevano quotidianamente all’ora sesta (a mezzogiorno) un briciolo di manna dal cielo.
Restava invece aperta a migliorie la condizione delle anime del Purgatorio, le quali non erano però in grado di provvedere a sé stesse e avevano bisogno che in loro favore intervenissero i vivi mediante offerte, funzioni sacre e preghiere.
Cosa succedeva a intercedere in favore di uno che si pensava in Purgatorio, mentre invece era precipitato in Inferno? I voti - era la risposta - servivano a conforto dei vivi, come credito per l’Aldilà, non per il condannato.
Anche a tale riguardo, però, alcuni un tempo asserivano che qualche beneficio il Signore avrebbe potuto concederlo, punendo il reo citra condignum, meno cioè di quanto si sarebbe meritato.
Ma il Cardinale Bellarmino, nel libro II De Purgatorio, al capitolo 18, tiene assolutamente che i suffragi a i dannati non giovino, e di questo parere è S. Tommaso… Se i suffragi dessero all’anime dannate qualche refrigerio o alleggerimento, la Chiesa pregaria per esse, il che non solo non fa, ma proibisce.
E se, al contrario, il destinatario era già asceso in Paradiso? In un caso del genere i voti confluivano nel Tesoro della Chiesa: una sorta di riserva alla quale attingevano le anime che ne avevano necessità. Era l’interessato stesso che, trovandosi in credito di indulgenze, si rivolgeva a Padre Eterno affinché le girasse a questo o quello.
I beati dunque potevano intercedere per chi si trovava nel regno di mezzo? Senza dubbio. Solo che non erano in grado di abbreviarne di un minuto le pene. Altrimenti - commentava il domenicano spagnolo Domenico Soto - in un attimo avrebbero vuotato il Purgatorio, data la forza che il loro intervento aveva presso l’Altissimo.
Allora perché pregavano?
Affinché Dio si degnasse di accogliere le offerte dei viventi, o li inducesse a fare suffragi, se per caso se ne dimenticavano. O ancora, come abbiamo detto, per smistare in favore di altri le satisfattioni avanzate, o convincere i colleghi a concedere le loro. In teoria potevano anche rivolgersi a Cristo per domandare a prestito le sue, ma quelle erano già prenotate, perché di legge ordinaria Christo applica le sue satisfattioni per il suo Vicario. Onde è verosimile che l’Anime beate non faccino tale domanda.

Giustificazioni

I vivi oltretutto, intercedendo per le anime dei trapassati, facevano qualcosa di utile anche per le proprie, secondo la teoria della “giustificazione”, in base alla quale i teologi hanno a lungo dibattuto sul problema di come sia possibile acquisire merito presso Dio.
Secondo i Cattolici ciò necessita una preparazione da parte del fedele.
Invece i
Protestanti, negando il libero arbitrio, ritengono che ogni grazia dipenda dalla fede.
Ciò rappresentò uno dei temi più spinosi del contenzioso della Riforma, al punto da venir discusso al Concilio di Trento per sei mesi di fila.
Il problema filosofico che stava dietro la disparità di vedute era in realtà piuttosto delicato e rendeva comprensibile la complessità del dibattito, ma non l’intolleranza che ne derivava, per cui il fatto di negare il libero arbitrio e condividere il pessimismo di Calvinisti e Luterani, convinti che tutto nell’uomo fosse peccato, era visto come un crimine di eresia perseguibile dai tribunali dell’Inquisizione e, per gli ostinati, foriero delle peggiori conseguenze.
L’argomento è di recente tornato alla ribalta in seguito alla definizione comune raggiunta tra Cattolici e Protestanti, come risultato del dialogo interreligioso che ha contraddistinto la preparazione al Giubileo e ha visto il momento più spettacolare nell’apertura della Porta Santa della basilica paolina, il 18 gennaio 2000, alla presenza dei rappresentanti delle confessioni cristiane non cattoliche.
Ma molta acqua doveva passare sotto i ponti prima che ci si potesse mettere d’accordo, o quasi, a tale riguardo.
Uno dei principali motivi del contrasto dei secoli passati era di natura eminentemente terrena e riguardava il valore da attribuire alle opere materiali, tra le quali si annoverava, per esprimersi in termini correnti, il finanziamento volontario del clero da parte dei fedeli.
Dal punto di vista teologico ciò costituiva un tema di secondaria importanza, ma al lato pratico era forse quello su cui i propagatori della dottrina cattolica insistevano di più. I fedeli timorati non erano perciò lontani dal pensare che la rapidità con la quale si poteva ascendere al regno dei Cieli, o farci salire amici e parenti passati a miglior vita, si computasse in ragione diretta delle proprie elargizioni in denaro.

Il “tesoro” delle sacre indulgenze [il tema delle indulgenze]

Su ciò è significativa la figura di un domenicano che nei primi anni del secolo XVII operò a lungo nel Ponente ligure.
Era di Ceriana, si chiamava
Angelo Maria Lauro (o forse Laura, cognome diffuso in zona).
Da giovane, dopo essersi formato in qualità di lettore nel convento di Taggia, aveva ricevuto l’incarico di predicare nelle vallate ed esortò gli abitanti di Baiardo a fondare una Confraternita del Rosario, per praticare e diffondere la caratteristica forma di preghiera ritenuta istituita dal fondatore dell’Ordine.
I Baiardesi seguirono il consiglio e, nel 1605, inoltrarono tramite un altro domenicano di Taggia, padre Dionigi Lombardi, una domanda di approvazione che venne concessa dal Superiore generale di Roma, Ludovico Ystella di Valenza, dietro alcune condizioni.
La prima era che non ce ne fosse già una sul posto.
La seconda che potessero accedervi senza distinzione uomini e donne.
La terza che ad essa venisse dedicata una cappella nella chiesa parrocchiale, con un dipinto raffigurante la Madonna in atto di consegnare la corona a S. Domenico. La quarta che, se mai i Domenicani si fossero insediati da quelle parti, il sodalizio religioso si sarebbe sciolto e ogni sua sostanza sarebbe confluita all’Ordine.
Il Nostro aveva poi chiuso la carriera a Genova, nel convento di Santa Maria di Castello, dedicandosi alla stesura di un trattato che parlava appunto di indulgenze e venne dato alle stampe nel 1643 (nove anni prima della scena raffigurata nel dipinto, il cui protagonista, se era di Taggia, aveva dunque discrete probabilità di conoscere sia il libro sia l’autore).
Il titolo era: Il Tesoro delle Sacre Indulgenze dal P. F. Angelo Maria Lauro da Ceriana Theologo domenicano raccolto, spiegato e diviso in due parti.
Nella Prima si spiegano l’Essenza, le Specie, le Cause e gli Effetti di detto Tesoro. Nella Seconda si mostrano le dispositioni necessarie e i Difetti occorrenti in coloro, che devono arricchirsene.
Le indulgenze, come è noto, erano - e sono ancora - gli sconti di pena che il fedele cattolico guadagna (o “lucra”, per esprimersi con il termine tecnico che mette in evidenza la natura fondamentalmente mercantile del procedimento), per sé o per altri. Nell’età della Controriforma, come dicevamo, mezzo privilegiato per conseguirle erano le opere di beneficenza a favore degli enti religiosi: anche a compierle in peccato mortale non perdevano la loro efficacia, a differenza delle preghiere: “aurum non olet… in excelsis Deo”.
In realtà la questione non era tanto semplice e, tra gli stessi esperti, qualcuno non era affatto d’accordo.
Ma il Lauro, che nel capitolo dedicato all’argomento riferiva le opinioni espresse sia in un senso sia nell’altro, nelle voci dell’indice riportava il concetto sempre in forma positiva e non interrogativa, mostrando di non nutrire dubbi al riguardo.
E s’intende che non era il solo.

Miracoli del Rosario

In alternativa si potevano far recitare messe, oppure pregare con impegno.
A tale scopo il cerianese esaltava l’efficacia del Rosario, “qual da Sommi Pontefici è stato arricchito di tante Sacre Indulgenze”, e di cui, come accennavamo, aveva fatto opera di promozione nelle vallate di casa.
Esso, oltre ai defunti, giovava molto anche ai vivi. Il diavolo in persona avrebbe confessato una volta che contro chi lo recita abitualmente non può farci nulla, affermando testuale: Niuno qual perseveri divotamente nell’essercitio del Santissimo Rosario si dannerà nell’Inferno, perché esso ottiengli la vera Contritione, a cui seguita valida Confessione, e de’ loro peccati il perdono da Sua Divina Maestà (parole poco diaboliche, all’apparenza, ma si sa che da quello ci si può aspettare di tutto).
Il frate citava poi un fatto, di cui avrebbe avuto diretta notizia, accaduto in Spagna a un uomo di pessimi costumi, il quale si era iscritto per ragioni di comodo nella compagnia del Rosario, ma lo diceva in quel modo che poteva un huomo di sì infernale vita, com’egli era.
Un bel giorno egli si ammalò e giunse vicino a morte. Invano i parenti cercavano di convincerlo a chiedere perdono a Dio: non soltanto non ne voleva sapere ma, se cercavano di condurlo alla ragione, bestemmiava con maggior impegno.
Era ormai in agonia quando due confratelli videro una folla di spiriti infernali affaccendassi intorno alle sue finestre. Andarono a visitarlo e lo trovarono intento a maledire il nome dell’Altissimo e tutto il corteo del Paradiso, che pareva diventato un diavolo a sua volta.
E proprio in quel momento udirono una voce dal cielo: Fratelli del Rosario, aiutatelo voi!.
Accostatisi al letto, attaccarono con la preghiera di S. Domenico.
Ci vuole un’ora buona per recitarla tutta: tempo più che sufficiente per stremare chi si fosse trovato anche in condizioni migliori del poveretto.
Questo, dopo un po’, scoppiò in pianto e chiese di confessarsi..
Fu subito esaudito e non solo tornò nella grazia di Dio, ma guarì e visse ancora per diversi anni, al fine di rimediare al male commesso..
A questo punto viene da domandarsi se il protagonista del nostro dipinto non fosse per caso pure lui associato al benemerito sodalizio.
L’ipotesi non è da scartare: all’ombra di tutti i conventi domenicani proliferavano le compagnie del Rosario, il cui numero si era andato moltiplicando in maniera esponenziale dopo la vittoria di Lepanto del 7 ottobre 1571 e l’istituzione della festa relativa..
Anche a Taggia, senza dubbio, ce n’era una..
E se il nostro eroe, come tutto lascia credere, aspirava con impegno alla gloria del Paradiso, niente di più facile che avesse provveduto ad iscriversi..
Poi, davanti ai suoi aggressori, aveva estratto di tasca la coroncina magica e si era messo a pregare. Ovvio che mancava il tempo per scorrerla tutta, o anche solo dire un’Avemaria.
Ma ugualmente l’aveva impugnata come un talismano.
Non aveva forse funzionato per propiziare il trionfo della Lega cristiana? Dunque era un’arma di sicura efficacia contro gli avversari della Chiesa e, se lui era candidamente persuaso di identificare il miglior esemplare di cattolico, non aveva difficoltà a considerare alla stessa stregua i suoi personali nemici.

Pene del Purgatorio

Ma continuiamo col Tesoro delle sacre indulgenze.
Tutte le disgrazie del mondo - assicurava il Lauro - sembrerebbero spassi e diletti, se messe a confronto con le pene del Purgatorio.
E riferiva il caso, tratto da Vincenzo di Beauvais, di un sacerdote gravemente ammalato il quale, sperando di arrivare in fretta alla fine dei suoi dissesti terreni, ogni giorno implorava il Signore che lo prendesse con sé, ma sempre invano.
Una notte gli apparve un angelo a dirgli che in capo a due anni sarebbe stato accolto in Paradiso.
Io non posso resistere così a lungo!
Preferisci forse farti due giorni di Purgatorio?
Ma certo!
Il brav’uomo dunque spirò e cominciò a subire ultraterrene.
Senonché il tempo scorreva, i patimenti non diminuivano e la salvezza promessa non arrivava mai.
E un bel momento l’angelo ricomparve.
Allora, come andiamo?
Credo che tu sia un diavolo protestò il tapino.
Mi hai ingannato, perché sono qui da una vita e questo strazio non finisce mai.
Ma come. Ci sei solo da mezza giornata!
Dici davvero?
Ti assicuro di sì.
Allora, ti prego, riportami dov’ero!
Sopporterai con pazienza i tuoi mali per altri due anni?
Anche fino al giorno del Giudizio, se Dio lo volesse!
Quindi argomentate quanto ineffabilmente grave e grande sia il loro tormento e quanto grande sia la crudeltà di coloro i quali, aiutarle potendo e dovendo, né pur a questo pensano.
Ohimè, ohimè, che crudeltà mai questa?…
Che mentre erano vivi i vostri parenti, consanguinei, amici, domestici, famigliari, benefattori e simili altri, gl’offendeste, affliggeste e disgustaste talvolta passi…
Ma offenderli e affliggerli morti, abbandonandoli in quelle voracissime fiamme di quel fuoco del Purgatorio, il quale quanto a sostanza è l’istesso ch’il fuoco dell’Inferno, questo no, questo no, che passar non può che per un colpo di lancia crudele!…
E crudeltà tale non istimo deggia passare, che con horrendissimo castigo della Divina Giustitia…

Poi il domenicano riportava l’episodio di quel soldato che, prima di defungere, incaricò un parente di vendere il suo cavallo, che ormai non gli serviva più, e dare il ricavato in beneficenza. L’altro eseguì la prima parte dell’incarico, ma trattenne la somma.
Solo un mese dopo si decise a completare le volontà del trapassato.
Il quale gli apparve il giorno stesso, con aria poco lieta.
Disgraziato! gli disse suppergiù:
Per colpa tua ho dovuto subire trenta giorni le fiamme del Purgatorio.
Ma tu finirai dritto all’Inferno!
.
E poco dopo, mentre lo sciagurato si trovava in compagnia di alcuni amici, si udirono nell’aria terribili strepiti di leoni che ruggivano, tori che muggivano e lupi ululanti.
Alla fine un turbine lo prese e lo portò via, nel regno dei dannati.
Ohimè, e se con sì severa giustitia castigò Sua Divina Maestà chi trenta giorni ritardò sodisfare a quel legato pio, e che farà di coloro i quali non sodisfarebbero mai, se non vi fussero da Giudici astretti?… Iudicium sine misericordia illi, qui non fecit misericordiam!.

Anime nel sottosuolo

Dunque, nell’età della Controriforma, le torture inflitte alle anime dimoranti a tempo determinato nel sottosuolo si erano fatte molto dure, forse perché anche da quelle parti si era verificato il fenomeno, noto come “inasprimento delle pene”, che in ogni tempo rappresenta un’implicita ammissione di debolezza da parte del potere.
Nelle epoche anteriori la situazione era invece alquanto più rilassata e ne è una prova la Visio Tungdali, della fine del IX secolo, in cui un re colpevole di aver peccato contro il sesto comandamento faceva sì la sua brava penitenza per tre ore al giorno immerso nel fuoco con le parti basse, ma per il tempo restante se ne stava tranquillo e beato sul trono, in un palazzo bellissimo. Ma è chiaro che se i fedeli si fossero immaginati i propri cari in condizioni analoghe, tutto sommato non insopportabili, si sarebbero prodigati con minore impegno per acquistare in loro favore coupons di misericordia divina.
Parlavamo di anime temporaneamente relegate sottoterra. Lo spunto a occuparci di questo vecchio problema ci viene dalla frase: quel fuoco del Purgatorio, il quale quanto a sostanza è l’istesso ch’il fuoco dell’Inferno.
I religiosi, dopo molto discutere, erano infatti giunti alla conclusione che il regno intermedio se ne stesse sottoterra, benché per ordinatione divina qualche anima si purghi in altro luocho, collegato mediante un condotto ignifero con l’Inferno, da cui attingeva l’elemento necessario alle operazioni di tortura, ma non comunicante con esso in maniera diretta.
Perciò non era vero che ci venissero i diavoli per comminare le pene, in quanto non par conveniente che quell’Anime che sono giuste, e che in questa vita sono state vittoriose de i Demoni, siano poi da essi tormentate.
Qualche volta Dio poteva anche decidere in tal senso, ma solo in casi eccezionali. Comunque si trattava di fuoco materiale. E le anime che ci si rosolavano dentro, se qualche volta potevano uscire dal loro “ricettacolo” per speciale concessione di Dio, quel fuoco se lo portavano addosso, per subire anche in trasferta la sacrosanta penitenza.
Diamo allora un’occhiata al nostro dipinto. Non si vede traccia di fiamme intorno ai defunti che, secondo quanto tutto lascia credere, dovevano essere acquartierati nel Purgatorio. E’ un elemento sospetto, e non certo l’unico.
Ma concediamoci ora una breve annotazione riguardo il caso del sacerdote che, dopo mezza giornata di prova nel regno dei più, venne riportato dall’angelo in mezzo a noi: forse la sua vicenda, ai nostri giorni, verrebbe classificata come una “morte apparente”. Erano situazioni che si davano anche in passato e venivano spiegate col dire che, sia pur di rado, le anime potessero rientrare nel corpo da cui erano uscite, a patto che fossero state assegnate al Purgatorio e non all’Inferno o al Paradiso. Tutti i resuscitati da Cristo, Lazzaro in primis, o per intercessione dei Santi, si trovavano dunque nel “ricettacolo” di mezzo, temporale e non eterno come gli altri due.

Ma solamente sanno in genere che sempre stiamo in pericoli…

Quanto tempo, in media, si poteva alloggiare nel Purgatorio?
Tra i teologi non vigeva la massima omogeneità di vedute.
Domenico Soto era dell’avviso che non ci si stesse in genere più di dieci anni, venti al massimo, sufficienti in questo basso mondo per cambiar vita persino ai peccatori più incalliti. Ma perché allora - obiettava il Pinelli - la Chiesa concedeva indulgenze di cento o duecento anni e continuava a pregare per i fedeli morti da secoli?
Altra domanda poco attuale per l’uomo di oggi, ma che comunque è il caso di porci, dato che interessa direttamente il contenuto del quadro dei Defunti che difendono i vivi: era possibile alle anime abbandonare i luoghi loro assegnati per rendersi visibili ai viventi? Non a loro piacere; perché se così fosse, osservava S. Agostino, ogni notte verrebbe mia madre a trovarmi, lei che per essere sempre con me mi seguì per mare e per terre.
Possono però farlo con una speciale dispensa di Dio e molti casi del genere sono riportati dalle Scritture e dai Padri della Chiesa. Di solito il loro scopo era di invitare a ravvedersi chi si trovava nell’errore; oppure di invocare suffragi a proprio beneficio.
Ma non è questa la fattispecie del dipinto. Dunque, si sarebbe potuto chiedere un teologo pignolo di allora (e si sa che ce n’erano), era lecito a quell’uomo in pericolo invocare l’aiuto dei defunti? No. Desiderare le apparizioni delle anime, anche a fini leciti, non è senza pericolo, né è sempre bene.
E quanto a invocarle, al Cardinale Bellarmino… pare soverchio e indarno invocare l’anime del Purgatorio, perché quell’anime per ordinario non possono conoscere in particolare quel che si fa tra noi, ma solamente sanno in genere che sempre stiamo in pericoli.
Insomma, sebbene la Chiesa non negasse la validità delle apparizioni, necessarie per confortare le proprie teorie su quanto avveniva dalla parte di là, non le accettava molto volentieri se ad averle erano i non addetti ai lavori.
E ancora: potevano quei morti essere al corrente di cosa stava accadendo al loro benefattore? Neppure questo, se è vero - come abbiamo detto - che le anime non sono in grado di conoscere in dettaglio ciò che avviene quaggiù, ma solo che in un modo o nell’altro si sta sempre in un mare di guai. Esse sono ormai segregate da questa vita e non hanno interesse a occuparsi di ciò che vi succede, secondo quanto insegnano concordi S. Agostino e S. Gregorio. Si può sempre dare l’eccezione, ma in ogni caso non ne vengono a conoscenza da sole, non possedendo cognitione sensitiva, bensì per divina dispensatione et per spetie infuse da Dio.
Ed è qui la lacuna più grave: che Dio, simboli a parte (ma è noto che a rimpiazzare con i simboli Colui al quale si riferiscono si commette idolatria), in questo guazzabuglio non appare. Manca del tutto l’elemento che, in ogni dipinto “per grazia ricevuta” fatto secondo le regole, caratterizza il resoconto dell’evento miracoloso: l’immagine delle Persone divine, oppure della Madonna o, in subordine, di qualche Santo del Paradiso. Qui nessun abitante della Residenza celeste fa la sua comparsa: si tratta davvero di un ex voto dedicato ai morti!

Perché possano coricarsi, se fossero stanche del cammino…
L’idea che si possa, dopo la morte, ritornare sui luoghi dell’esistenza [sotto specie di SPETTRI (RITORNANTI NELLO SPIRITO) ma anche di RITORNANTI NELLA CARNE (DEMONIZZATI) in dipendenza cioè di manifestazioni diaboliche come VAMPIRI o NON MORTI, orrorifica leggenda questa alimentata dall'effettiva non comprensione scientifica di CATALESSI E/O MORTI APPARENTI] costituisce un punto fermo delle tradizioni popolari di ogni tempo e luogo, poiché sempre la fantasia e il sentimento della gente hanno cercato di negare la definitività del passaggio, allo scopo di superare l’angoscia che si prova nel constatare lucidamente la precarietà della condizione umana.
Si tratta, insomma, di un mito antichissimo - forse un archetipo - e ciò spiega come consuetudini analoghe si ritrovino anche tra etnie lontanissime.
In un passo di un’opera data alle stampe nel 1669 il missionario Clemente Tosi descriveva così quelle dei Cinesi:
Si persuadono che [le anime] ritornino alle loro case native, dove assegnano una stanza per loro commodo et adagiato albergo. Tengono per certo che si pascano de’ cibi nostrali; onde temendo che non siano mal trattate dalla fame, apprestano loro secondo le proprie possibilità mense assai laute e copiose. Discorrono e confabulano con esse domesticamente, benché non le veggano e non le sentano già mai. Il primo dì dell’anno, passata la mezza notte, lasciano la porta di casa aperta, perché possano ritornare all’usata magione, nella cui soglia tengono un catino d’acqua, perché possano lavarsi i piedi, se fossero imbrattati… Dentro, da un de’ lati pongono uno strato, dall’altro una mensa imbandita di varie vivande, perché possano o coricarsi, se fossero stanche del cammino, o refocillarsi, se fossero infievolite dall’inedia.

Tradizioni sorprendentemente simili esistevano in contesto cristiano cattolico e specificatamente nelle nostre stesse regioni.
Ai morti, nel periodo tempo a loro dedicato, si faceva trovare il fuoco acceso e il desco imbandito con cibi più raffinati di quelli che vi facevano comparsa negli altri giorni dell’anno (s’intende che poi se li mangiavano i vivi, non prima però di aver esaurito le cerimonie prescritte).
Alimento di rito erano le fave, già usate dai Romani e in seguito venute in odore di stregheria, alla cui forma si ispiravano i “dolci dei morti”, tuttora diffusi nell’Italia meridionale.
In alcuni luoghi si credeva che i trapassati rimanessero nelle loro case fino all’Epifania e che in quei due mesi bisognasse stare attenti a non muovere la catena del camino, per non farli scappare, cosa che avrebbe portato sfortuna.
L’Epifania era una delle varie manifestazioni del culto popolare per i morti o, almeno, lo era diventata.
La Befana era l’antenata che veniva a premiare, in nome dei defunti, chi era stato più diligente a ricordarsi di loro nei giorni precedenti l’inizio del nuovo anno.
Ma essa rappresentava (forse) anche la proiezione di una antica dea dell’abbondanza, che la gente aveva finito per chiamare con nomi vari, tutti allusivi della sua missione di benefattrice: Satia, Richella, Abundia.
Oppure, con qualche reminiscenza pagana, Hera, Heroida, Erodiade, Eradiana.
Un contrasto tra le credenze popolari e la dottrina ufficiale esisteva peraltro già al tempo dei Romani, quando di periodi dedicati ai defunti ce n’erano due: uno “buono” e uno “cattivo”.
Il secondo, più antico, si identificava con gli esorcismi dei Lemuria, che i contadini erano soliti celebrare nella prima metà di maggio.
In quell’occasione il paterfamilias si alzava di notte e, dopo essersi lavato le mani per tre volte, si aggirava per la casa, gettando dietro la schiena fave che i morti avrebbero raccolto.
Poi, battendo su un vaso di bronzo, ripeteva ad alta voce: Manes exite paterni! (cioè, traducendo,“Spiriti dei padri, andatevene via!”).
In seguito la religione pagana cercò di soppiantare tali riti con quelli dei Parentalia, cui vennero dedicati nove giorni alla fine dell’anno (che allora cadeva in febbraio), durante i quali avevano luogo cerimonie pubbliche più controllabili - e probabilmente anche più redditizie - nei templi dedicati agli dei dell’Olimpo.
I giorni in cui il popolo celebrava i Lemuria vennero dichiarati “nefasti”.
Ma il loro ricordo rimase vivo nel sentimento comune e il Cristianesimo, nel sostituire le feste preesistenti con le proprie, collocò in quel periodo la Pentecoste, che in qualche modo si riferiva a faccende di spiriti: Spirito Santo, anziché dei morti, ma per la sovrapposizione cultuale era ben accetta dai nuovi fedeli.
Peraltro la consuetudine di onorare gli antenati in primavera non incontrò all’inizio ostilità da parte della Chiesa, ma anzi conobbe qualche forma di ufficializzazione se, in una Regula monachorum attribuita a Isidoro di Siviglia (morto nel 636).
La festa dei morti veniva subito dopo quella dello Spirito Santo.
La gente del resto non rinunciò ai Parentalia, che vennero anticipati in modo da adeguarli al nuovo calendario civile, sfociando nelle celebrazioni di Capodanno, poi divenuto Epifania.
Perciò, anche in età cristiana, i morti continuarono a venire ricordati in due periodi dell’anno: sia nei giorni successivi al solstizio d’inverno (la nascita del Sole, poi identificata nella natività di Cristo), sia in quelli corrispondenti agli antichi Lemuria.
Ci sono indizi per ritenere che, nella seconda occasione, alcune persone “elette” - donne per lo più - cercassero di mettersi in contatto con l’Aldilà mediante pratiche sciamaniche.
In alcune zone d’Europa consuetudini del genere sono peraltro rimaste vive fino in tempi recenti.
Riti analoghi avevano luogo (forse) anche a Taggia e dintorni, sul genere di quelli confluiti nella festa della Maddalena.
Ma anche nel primo periodo, quando i defunti ricambiavano simbolicamente la visita resa loro dai vivi a Pentecoste, c’erano (forse) delle donne - le stesse che a primavera si mettevano in contatto con gli spiriti? - che, facendo ricorso a sostanze psicotrope, immaginavano di volare nell’aria, per rendersi interpreti dei desideri dei trapassati.
Nella loro immagine si condensava (forse) quella delle ministre di una antica divinità, che un testo risalente allo scorcio del primo millennio, il famoso Canon Episcopi, identificava in Diana, sorella di Apollo, dea della Luna, delle selve e degli animali.
Poi la figura di queste sacerdotesse si identificò con quella delle “malefiche” e, quando la caccia alle streghe ebbe ufficiale inizio nei primi anni del secolo XV, S. Bernardino da Siena non mancò di stigmatizzare le imprese di quelle “vecchie rincagnate” che andavano in giro con Heroida nella notte dell’Epifania.
S. Bernardino, come è noto, passò per queste contrade e, trattandosi di un confutatore di eresie, non si può escludere che tra i suoi compiti, più o meno “segreti”, vi fosse quello di estirpare le tradizioni originariamente legate al culto dei morti poi divenute invise all’autorità ecclesiastica.
Senonché esse, qui come in tutti i luoghi provvisti di un retaggio ancestrale radicato nella più remota antichità, avevano attecchito in maniera troppo profonda per poter essere spazzate via di colpo e si erano andate amalgamando in maniera inestricabile al tessuto della religione ufficiale.
Spesso proprio le confraternite avevano contribuito alla loro conservazione.

E con questi percotendo fare tumulti e rumori grandissimi…

Ci pareva, fin qui, di avere in mano almeno una piccola certezza: che i NOSTRI SPETTRI [ma sembra quasi consequenziale ipotizzare il mistero orrorifico e variamente interpretato dei RITORNANTI] fossero ANIME DEL PURGATORIO, perché soltanto quelle avevano serie ragioni per sentirsi debitrici nei confronti dei vivi. Potevano, in teoria, essere salite da poco nella Residenza beata e non aver dimenticato gli aiuti in virtù dei quali c’erano giunte prima di quanto stabilito in primo appello. Ma, francamente, era possibile che si presentassero in una foggia così poco spirituale?
Intendiamoci, l’iconografia del tempo era molto concreta, per non dire brutale e a chi voleva raffigurare un trapassato non si offriva immagine migliore di quella dello scheletro: c’era dietro d’altronde una tradizione secolare di danze macabre, di incontri dei vivi con i morti e di trionfi dell’Eguagliatrice. Nell’iconografia dell’Aldilà le anime potevano presentarsi come corpi nudi, stilizzati quanto basta (prima di Michelangelo, almeno) per non ingenerare turbamento nei fedeli ma, nel momento in cui ritornavano nel mondo, era inevitabile che si rimettessero addosso quanto al mondo era rimasto di loro.
Osserviamo ad esempio l’antiporta delle Prediche quaresimali del gesuita Francesco Zuccarone, stampate a Napoli nel 1668. Si vede al centro una figura femminile risollevare uno scheletro, mentre il Tempo, con la clessidra e la falce della morte in mano, se ne sta seduto a terra in un angolo, in attesa di riprendersi ciò che è suo.
Ebbene, quell’ossame allude all’autore, passato a miglior vita prima di poter fare conoscere al pubblico la sua opera.
Una rappresentazione del genere avrebbe urtato la sensibilità di epoche meno necrofile, ma nel Seicento non sembrava incongruo simbolizzare in quel modo anche una buon’anima che con ogni probabilità si trovava già in Paradiso.
Senonché ogni cosa ha un limite.
Qui, in primo piano, una coppia di trapassati è intenta a massacrare poco cavallerescamente l’avversario finito a terra; dietro, un loro collega suona a stormo le campane.
Un altro, al centro, afferra alla gola il suo nemico, mentre due, a destra, maltrattano i propri rispettivi e un terzo accorre a dar manforte, brandendo una mezza cassa da morto quasi sulla testa del “benefattore” (non ci sembra il caso di andare in cerca di significati reconditi in questo particolare, considerata la rozzezza del lavoro).
Intanto uno, con addosso un sudario, dirige le manovre come un direttore d’orchestra e altri si tengono pronti a intervenire armati di ossa umane, mostrando scarso rispetto - verrebbe da osservare - per i titolari delle medesime, i quali dovevano essere loro amici, conoscenti e antenati… Difficile che arrivassero giù dal Cielo.
E se invece - è l’ipotesi un po’ inquietante che si affaccia per un attimo - fossero venuti dall’Inferno?
Perché quello di bastonare i vivi era un lavoro che le anime dei dannati sapevano svolgere in maniera egregia, grazie all’attributo della “gravezza”, concesso loro non benignamente dall’Altissimo per far sentire in pieno i tormenti materiali, ma che al momento opportuno li metteva in grado, cosa impossibile ai beati, di scatenarsi in imprese degne del loro temperamento, pure prendendo martelli o altri strumenti e con questi percotendo fare tumulti e rumori grandissimi….
Senza contare che il più volte c’era un diavolo che li accompagnava e a lui, Deo permittente, quasi nulla era impossibile: entrare dentro un cadavere, ammassare un corpo aereo e compiere molte imprese in deroga alle leggi ordinarie della natura. Ma, se venivano da laggiù, ciò che facevano non interpretava certo la volontà di Dio: evocare i morti era competenza dei maghi “artificiali”, non dei buoni Cristiani.
L’“amico e benefattore” di defunti era per caso un empio necromante?

Inconsapevoli eresie

No, in tutta franchezza non ci sembra possibile.
Non fosse altro che il quadro si trova in una chiesa e ci è rimasto per secoli, sotto lo sguardo attento (si presume) di generazioni di cappellani i quali, se avessero subodorato qualcosa di losco, non avrebbero perso tempo a riferire per via gerarchica, come succedeva appena si affacciava un pur minimo sospetto di eresia. Invece né i religiosi del posto, né quelli che venivano da fuori ci hanno mai fatto caso.
Oppure avranno pensato che sarebbe stata fatica vana cercare di contraddire quanto la gente sosteneva a proposito dei morti: che, quando era il loro momento, venivano anche a dispetto dei Santi. Tutti, senza eccezione: sia che in vita avessero fatto il bene, sia che fossero stati delle carogne.
In apparenza cosa poteva avere a che fare Dio con tutto ciò? Quello era il Sequestratore che teneva schiavi i parenti nelle sue prigioni e, per lasciarli liberi, pretendeva che lo si pagasse.
E i suoi ministri erano i sensali della tratta.
Anche i pirati di questo mondo avevano i propri emissari in certi affari!
Non erano insomma forse troppo lontane dal sentimento comune le “atrocissime heresie” che Eliseo Masini, nel Sacro Arsenale, metteva in bocca a un reprobo, poi condannato alla reclusione perpetua: che i chierici pensavano solo a chieder soldi, che preti e frati erano peggiori dei Turchi e, se quella era la Chiesa di Cristo, la passione del Salvatore era stata più dannosa del peccato di Eva…
Stiamo inventando, obietterà il lettore: non risulta che là si esprimessero concetti sediziosi di questo tipo. Magari altrove, ma non a Taggia, feudo clericale, con tutte le chiese che ci sono, figuriamoci!
Eppure si sa cosa dice la gente, quando è sicura che nessun testimone scomodo l’ascolti: la maldicenza è connaturata all’animo umano e a quello ligure in maniera particolare.
E anche in una terra cattolica come il nostro Ponente la dissidenza esisteva e vi circolavano personaggi sospetti, come l’eretico ginevrino nominato nella cronaca del Calvi, il quale vi ronzava settant’anni prima con la speranza di far proseliti, ma a Taggia non osava entrare, perché ci stavano i Domenicani.
La verità è che i divulgatori dell’eresia riformata (soprattutto calvinista) avevano intuito che la Liguria era, in potenza, una terra fertile per il loro messaggio.
E, se qui c’erano i Domenicani, il loro ruolo si poteva anche interpretare, mutatis mutandis, come quello di un presidio di sbirri in un territorio di banditi.
Ma torniamo al nostro “amico e benefattore”.
Se qualcuno gli avesse dato dell’eretico… Lui certo non lo era, perché per esserlo è necessaria la consapevolezza e l’ostinazione nell’errore.
E frasi come quelle appena riferite si guardava bene dal pronunciarle, quanto meno ad alta voce.
Ma, se anche solo gli avessero fatto capire che nel suo modo di intendere la religione c’era qualcosa che non quadrava, sarebbe rimasto molto stupito.
Come, non andava forse a messa la domenica e le feste comandate? Non si confessava, non faceva la Comunione a Pasqua? Non pregava e non pagava?
Onorava, insomma, tutti gli obblighi imposti a un buon Cristiano.
Un po’ recriminando, magari, come sempre, quando si è costretti a fare qualcosa per forza, ma con sacrosanta diligenza.
E senza farsi venire idee strane, come quel medico amico di Sant’Agostino che si preoccupava di come avrebbe potuto vedere e sentire nell’altro mondo, senza occhi e senza orecchie.
Perché, circa i defunti, lo sapevano tutti che stavano lì ad ascoltare quanto si diceva di loro, proprio come le donnette del paese, e se c’era qualcosa che non gli andava a genio erano capaci di capitare di notte a piantar grane.
E comunque una volta all’anno venivano di sicuro: quando bisognava preparare loro i letti.
E ancora grazie che si fossero adattati a farlo il due di novembre e non in momenti più imbarazzanti per le coincidenze liturgiche della Chiesa: perché loro, c’è da scommetterci, avrebbero preferito ritornare in primavera!

Ci si potrebbe chiedere - sempre dall’alto del razionalismo scettico del nostro secolo - cosa fosse successo nella realtà.
Pochi oggi, in effetti, sarebbero disposti a credere che un drappello di scheletri fosse davvero emerso dalla terra per fare un piacere a un amico rimasto a tormentarsi in superficie, si trattasse pure del più caro che avevano. Se qualcuno era saltato fuori a suonare le campane e a suonarle di santa ragione (non le campane) a quei tipacci coi baffi, non si trattava certo di cadaveri.
E anche solo a pensare che gli spiriti dei trapassati si fossero messi a fare il tifo per una delle parti…
Perché dovrebbe aver voglia di rituffarsi nel mondo chi, finalmente, con l’aiuto del Cielo (non da solo, che non vale) si è liberato dalla sua miseria? Un’anima, appena che le resti un poco del comprendonio che aveva (e i religiosi assicuravano che, anzi, gliene veniva ancora) non dovrebbe sentire nostalgia per questa vita, non più di quanto un attore possa aver piacere di rimettersi addosso i panni di scena, appena giunto al fondo di una commedia senza capo né coda, dove un povero guitto incede corrucciato sul palcoscenico per un’ora e poi tace per sempre.
Un racconto fatto da un idiota, pieno di grida e di furia, ma vuoto di significato
.
Altro che immischiarsi in una rissa!
Su quale fenomeno fosse accaduto in concreto, ognuno è libero di lasciar correre l’immaginazione.
Qualche rumore improvviso, uno di quei versacci caratteristici che fanno i gatti quando litigano, tale che, se gli spettri avessero un grido distintivo, non lo si potrebbe immaginare diverso. Oppure una luce strana, e poi le campane che si mettono a suonare da sole, o così sembra.
Eventi poco prodigiosi, se valutati a mente fredda, ma sufficienti a infondere coraggio a chi credeva senza riserve nei miracoli e a gettare nel terrore gli altri, che magari non si sarebbero spaventati di fronte a un plotone di archibugieri, ma davanti a certe cose sì, non meno superstiziosi del loro antagonista e perciò in svantaggio psicologico, anche a essere in quattro contro uno.
Soprattutto se era notte… Già, chissà perché, fin dal primo momento ci era venuto da pensare che il brutto incontro avesse avuto luogo in realtà tra le tenebre, nonostante le nubi rosate che fanno pensare a un tramonto e il paesaggio soffuso di quel chiarore strano che hanno di solito i paesaggi barocchi (ossidazione dei pigmenti, vi dirà qualcuno poco inclinato alla poesia).
Sarà per le lumeggiature che evidenziano gli scheletri, quasi all’improvviso li avesse rivelati un fulmine, sarà perché l’idea della morte ci fa pensare alla notte…
Ma torniamo a noi.
Stavamo avanzando alcune considerazioni estemporanee nella logica di un moderno: operazione un tantino sconveniente, a detta dei filologi, perché non tiene conto dello spirito collettivo del passato.
E a quel tempo al soprannaturale ci si credeva e anche le persone serie vi indulgevano senza problemi.
Persino i giudici.
Perciò a uno che si fosse fatto acchiappare in casa d’altri era lecito sostenere, con ragionevoli speranze di essere creduto, che erano state le streghe a portarcelo.
E un tipo rispettabile, scoperto sul più bello a combinare qualche birbonata, poteva dire che il diavolo aveva ingannato i testimoni, mostrando loro cose non vere: i trattati dei demonologi garantivano che questo succedeva.
Certo una seconda volta sarebbero stati più cauti a dargli retta, ma la prima, in assenza di provvedimenti condizionali, ci si arrangiava così.
Discutibile forse per la certezza del diritto.
Senonché a quei tempi vigeva una gerarchia di valori diversa da quella di adesso, perché tutti preferivano sognare, come sempre, quando non ci sono evasioni migliori.
Così, alquanto libero, era il rapporto dell’uomo con l’oggettività e nessuno si faceva scrupolo a infarcire di eventi soprannaturali i propri racconti.
Che i religiosi e i religiosi e letterati lo facessero è sicuro, perché ne restano le testimonianze scritte.
Molto meno si sa dei discorsi del popolo ma, se in qualche modo riuscissimo a ricostruirli, probabilmente li scopriremmo non molto diversi da quelli che erano soliti declamare la domenica i preti arrampicati sul pulpito.
Attori anche loro, in fondo, disposti a esibirsi con grande sfoggio di mimica e di arte oratoria (la teatralità era un carattere peculiare del Seicento), per tirar fuori dal loro metaforico cappello a cilindro racconti a tinte corrusche che la gente ascoltava tanto più volentieri quanto più ricordavano i gusti, semplici e forti, di quello che mangiava.
Storie imbottite di miracoli, di presenze immateriali, di angeli e diavoli che sfrecciavano nelle ore notturne per paesi e città (a volo, s’intende) con frequenza ben maggiore dei mezzi pubblici oggi.
Un andirivieni alquanto grottesco secondo il giudizio di un’epoca come la nostra, in cui varie circostanze, ma soprattutto l’illuminazione artificiale, hanno fatto scappare i fantasmi dai luoghi abitati, come dicevamo altrove.
Non ci sarebbe stato dunque da stupirsi se il protagonista della nostra storia avesse avuto la pretesa di sostenere che i fatti si erano svolti esattamente come li aveva fatti raffigurare.
Eppure è improbabile che dentro di sé ne fosse proprio sicuro. Perché, se non era un vaneggiatore a tempo pieno, non poteva non rendersi conto di come la realtà sia in genere molto più banale di quanto vorremmo che sia.
Tuttavia non rinunciava a fare come i bambini, quando si vantano di essere stati protagonisti di imprese strabilianti: se qualcuno li induce a ragionare, ammettono alla fine, con un po’ di vergogna, di essersele inventate, ma in prima istanza antepongono sempre la fantasia all’oggettività.
Si capisce: quella ha le sue leggi ferree, noiose, ostili anche, e soprattutto riduttive del concetto che uno ha di sé stesso.
Perché l’uomo, nella sua immaginazione, si situa sempre al centro dell’universo, mentre nei confronti della realtà è solo un grano di polvere.
E gli uomini, all’epoca, si ritenevano fulcro e fine della Creazione e anch’essi, in prima istanza, tra un’ipotesi verosimile e una assurda, che non fosse però in contrasto con i dogmi e, soprattutto, risultasse gratificante per la loro autorappresentazione, erano portati ad accogliere come “più probabilmente” vera la seconda.
Un paradosso per noi, non per il modo di pensare di allora, che accomunava agli individui senza cultura anche molti di coloro che si definivano “filosofi”, ad eccezione di quanti impersonavano le avanguardie della scienza nuova.






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Il termine Epifania (dal greco epifàinomai = " appaio") venne utilizzato sin da epoche remote onde testimoniare, specie in ambito ellenistico e orientale, l' apparizione di una divinità sulla Terra; gradualmente con la divinizzazione di parecchi desposti il termine finì per venire usato anche allo scopo di provare la comparsa ali loro popole di quei mmonarchi orientali in cui i sudditi erano stati avvezzati a vedere una sorta di incarnazione della potenza divina.
In ambito cristiano fu poi univeralmente detta Epifania l'apparizione del Cristo sulla Terra sì che il termine passo indicò la festa cristiana (6 gennaio) che celebra la manifestazione di Gesù nei suoi tre momenti dell'adorazione dei Magi, del Battesimo nel Giordano e del miracolo di Cana.
Per una selezione popolare alla fine, ma solo nel mondo occidentale, solo il primo di siffatti momenti divenne oggetto di particolare devozione popolare.
Antonio Zencovich, nel testo da cui si è giunti a questo collegamento, ipotizza una fra le ragioni principali di convergenza tra la festa cristiana e la presumibile festa pagana che essa ha finito per surrogare: Epifania come celebrazione del fiorno originario di culto dei defunti secondo la valutazione calendariale pagana.
In senso probabilmente più ampio l'Epifania ha finito per assumere i connotati di una festa importante per il popolo cui sono collegate, nella tradizione, molte credenze e costumi che richiamano antichi riti pagani , non solo quello connesso al culto dei morti, assieme naturalmente ad episodi della liturgia cristiana.
A dimostrazione che nel contesto ellenistico o comunque orientale, se non di influsso orientale, a testimonianza del Battesimo nel Giordano si benedicevano solennemente sino a tempi recenti in Egitto e in Europa orientale i fiumi mentre In Sicilia permane l'uso d'immergere tre volte un Crcifisso nell'acqua santa o di condurlo in processione lungo la riva del mare per abbandonarlo alle acque: vuole la tradizione che in seguito a siffatto gesto l'acqua diventi potabile.
Riti popolari distinti ci rammentano la scenografia del Battesimo del Cristo: in Bulgaria quando cade questa festa si usava portare ad un corso d'acqua o ad una fonte vicina ed importante le immagini sacre che si conservavano nella casa e il vomere, per lavarle. Inoltre le persone malate o deboli venivano immerse nell'acqua per purificarle da presunti malefizi e conseguire guarigione.
E' però fuor di dubbio che a livello popolare questa festività liturgica è identificata con quella della visita dei Re Magi al Bambinello e dell'offerta dei doni.
La tradizione si è diversificata in ambito cattolico sotto una notevole varietà di forme che magari ricalcano forme distinte di precedente ritualità pagana. Nel Veneto gruppi di ragazzi girano per le case e cantano laudi in onore della Sacra Famiglia o che celebrano la venuta dei Magi. Essi sono preceduti dal portatore di un'asta di legno in cui sta appesa una stella di carta e in cima alla quale è stato posto un lumicino.

In Toscana le rappresentazioni popolari assumono forme ancora distinte: si tratta delleBefanate (in Trentino dette Beghenate) che possono avere valenza sia sacra che profana . Quelle di argomento sacro ridisegnano il viaggio dei Magi e in esse è centrale la figura della Befana equiparata ad una indovina: diversamente le rappresentazioni profane intendono sceneggiare una sorta si di litigio tra coppie di pretendenti, che nella logica, fausta conclusione risolvono le contese sposandosi.
Befanate son pure chiamati i canti che i fanciulli intonano di casa in casa per ricevere regali. Tali manifestazioni resistono in Calabria, Abruzzo, Sicilia, Puglia e ripetono le varie costumanze regionali generalmente conosciute con la denominazione di canto della strenna. Nell'area di Taranto si tiene il dì dell'Epifania invece una vera e propria rappresentazione popolare: a questa partecipano molti personaggi ma nel suo contesto il ruolo centrale è ancora quello del viaggio dei Re Magi.
Nella tradizione popolare, come detto, il personaggio della Befana ha finito per diventare un corollario quasi inscindibile rispetto all'Epifania con cui erroneamente è confusa: si tratta di una buona vecchietta che nella notte dal 5 al 6 gennaio visita le case, lasciando regali per i bambini buoni e pezzi di carbone per i monelli.
Ma a questa Befana positiva gli antichi retaggi di tradizioni millenarie hanno custodito una figura meno importante, di un'altra befana, una figura brutta e rozza che si dà al fuoco liberatore dopo che i fanciulli l'hanno condotta attraverso il borgo: queat consuetudine dipenderebbe dal fatto che, retaggio di anticchissime costumanze calendariali, tale festività sarebbe ancora intessa quale prosecuzione cerimoniale del principio dell'anno.
Nelle cerimonie religiose cattoliche è costumanza panitaliana quella del bacio al Bambinello quale simbolo di amore e fedeltà: in ambito popolare i canti della strenna, I presagi, i prodigi o fatti meravigliosi e le rappresentazioni drammatiche rinnovano costumanze del ciclo del Natale.
Il collegamento con la superstite cultura pagana dei presagi è evidente per esempio n Romagna ove si usava questo giorno sostare nei quadrivi sì da comporre un discorso di auspici colti dalle parole "rubate" ai passanti.
In Sicilia si reputa che se il vento soffa nella sera dell'Epifania, tutto l'anno risulterà ventoso.
In Campania si tentano dei veri e propri pronostici sulla sorte, benigna o nefasta, di una persona facendo bruciare una foglia di ulivo nel fuoco: nel caso la foglia si bruci la persona in questione sarà destinata a morire entro l'anno mentre, in caso opposto,la vita le arriderà.
In Toscana i contadini sturano bottiglie di ottimo vino pregiato se attarverso il pertgio fuliginoso del camino riescono a vedere tre stelle, presagio di buona annata.
Le donne giovani sono le principali protagoniste della ritualità degli auspici. Dalla bruciatura della foglia d'ulivo apprenderanno se si sposeranno o meno nell'anno (come accade in Sardegna), oppure dalla forma che assumerà un certo quantitativo di piombo fuso gettato nell'acqua, sarebbero in grado di interpretare la condizione del marito (così accade ancora in Sardegna, ma anche in Campania, Calabria, e regioni limitrofe).
Un tentativo di resagio proprio delle fanciulle romagnole risulta basato sulla prova dei tre fagioli (due dei quali sono sbucciati: uno interamente e l'altro a metà). Essi sono collocati sotto il cuscino del letto e la mattina svegliandosi la ragazza ne prenderà casualmente uno. Secondo la tradizione il suo futuro marito sarà ricco, di condizione agiata o povero, secondo che avrà trovato il fagiolo con l'intera buccia, con la buccia a metà o del tutto sbucciato.
In ambito calabrese le ragazze andando a letto la sera della vigilia dell'Epifania recitano speciali canti. Nel caso che nei loro sogni apparirà una chiesa addobbata a festa o un giardino in fiore ne trarranno un segno di fortuna per le loro speranze.
In alcune zone del Piemonte è invece predominante l'uso, alla sera dell'Epifania, che le ragazze da marito lancino una ciabatta o uno zoccolo contro la porta della stalla onde ricavarne auspici su un loro eventuale matrimonio osservando la posizione che viene a prendere l'oggetto.
Durante questa festa è in molti luoghi ben resistente l'abitudine di accendere fuochi.
Nel Veneto venivano accesi falò con fasci di spini per bruciare i fantocci effigianti la Befana: mentre divampava il fuoco gli astanti gridavano brusa la vecia,
Poco diversamente in Friuli dischi infuocati (cidulis)vengono fattii ruzzolare nei banchi scoscesi delle valli.
Tra i prodigi si citano poi quelli usuali in Romagna, regione in cui la tradizione popolare vuole che che nella notte dell'Epifania i muri delle case diventino di ricotta.
Nelle Marche e nell'Abruzzo, invece, si riputa che gli animali parlino col pregiudizio che non debbano essere ascoltati, rischiandosi in tal caso una morte atroce.
Anticamente si era soliti cadendo la festa dell'Epifania di annunciare con feste i fidanzamenti, dei quali si avevano speciali forme dette danzamenti in prova, che costituivano in pratica un gioco e un nel contempo un presagio.
In Toscana (e altrove) gruppi di giovani d'ambo i sessi si riunivano e scrivevano i loro nomi su pezzetti di carta, che poi, tirati a sorte, avrebbero segnalato le diverse.
I fidanzati si comportavano in prosieguo di tempo da autentici innamorati e se la prova dava esito positivo si festeggiava il fidanzamento ufficiale: ed i fidanzati in prova venivano chiamati befani.
Una tradizione singolare, venuta ormai meno in Italia ma testimoniata ancora in certi in paesi europei (Seignolle la ritiene tuttora viva in Provenza), è quella del "re della fava".
Si vuole che, attraverso i sottilissimi ma altrettanto resistenti legami che hanno connesso certe ritualità del paganesimo e del cristianesimo, il personaggio si colleghi col re dei Saturnalia: l'episodio burlesco confermerebbe l'idea che con l'Epifania si aprirebbe il periodo lungo del carnevale (in Sicilia è peraltro usuale il proverbio: Per i tre Re / tutti olè: vale a dire per l'Epifania mettiamoci tutti in festa visto che inizia il carnevale).
Il re della fava era sorteggiato per via di una torta entro cui s'impastavano tre fave di colore naturale e una nera. Chi trovava la fava nera veniva proclamato re della fava ed aveva il privilegio di scogliersi la regina. Nel XVIII secolo tale costumanza fu in gran voga pure tra la nobiltà. In Provenza il re della fava sarà imvece colui che durante il pranzo dell'Epifania, consumando la sua porzione di una particolare focaccia di forma anulare, cosparsa di zucchero e ornata di frutti canditi (galette o tourte des rois), riceverà dalla fortuna la fava introdotta nella torta nel corso dell'impasto: nell'evenienza che la fava capitasse a una donna, questa risulterà regina della serata.
L'Epifania ha dato origine, nelle diverse regioni italiane, a detti e locuzioni speciali. Questo fatto risulta importante perché testimonia il costume locale. Così si riscontra a Raiano (provincia de L'Aquila) dove si dice La Pasque e La natale / se reveste lu villane / La Pasuqua befanie / se reveste la signurie: con tale ritornello si voleva alludere al fatto che mentre a Pasqua ed a natale i villani mettevano gli abiti buoni, alla Befana questo poteva essere un privilegio esclusivo dei maggiorenti locali piuttosto noto è peraltro il proverbio ligure-piemontese che detta L'Epifania tutte le feste si porta via / il carnevale tutte le feste torna a portare [ vedi in particolare B. BOTTE, Les origines de la Noel e de l'E., Lovanio, 1932]





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Il Seicento fu un secolo strano, pieno di contraddizioni e, se da una parte si continuavano a pubblicare il Malleus Maleficarum di Sprenger e Krämer e il De probatione spirituum di Jean de Gerson con tutto il loro bagaglio di terrorizzanti superstizioni, dall’altra, come testimonia Antonio Zencovich sempre attento in questo campo di investigazioni, esisteva un nutrito stuolo di oscuri uomini di scienza che, pur legati a metodi superati, stavano preparando l’avvento del razionalismo.
Alla Biblioteca Aprosiana si Ventimiglia se ne potrebbero trovare moltissimi.
Un testo significativo ivi custodito, in cui si affronta l’argomento dei fatti strani di cui si renderebbero protagonisti i morti, è opera del medico Christian Friedrich Garmann, s’intitola De miraculis mortuorum, opera edita a Lipsia nel 1670 per i torchi di Joahan Gabriel Güttner.
Non vi si parla di miracoli in senso teologico ma di “meraviglie” a riguardo delle scoperte che si possono fare in merito ai defunti, anche nel caso di eventuali inumazioni.
Aveva sempre fatto scalpore tra gli umili e gli ignoranti (senza escludere però diversi eruditi) il fatto che ai cadaveri continuassero per un certo arco di tempo a crescere i capelli e le unghie, o che intorno ai sepolcri si evidenziassero fiammelle ( appunto i fuochi fatui) od ancora che si percepissero degli scricchiolii (testimonianza di un più stretto legame esistente tra vivi e morti, in un tempo in cui i cimiteri non erano lontani dai centri abitati).
In particolare a riguardo dei rumori provenienti dalle tombe, l’autore contesta l’opinione di chi riteneva si trattasse delle streghe intrufolatesi là dentro per nutrirsi di carne umana: quelle infatti succhiano, non mordono precisa il medico dimostrando di convivere in bilico fra scienza e credenze superstiziose: "vivos laedunt, non mortuos; soli expositos, non solo obrutos…" (p. 31).
Al tempo vigeva peraltro la credenza popolare che le streghe fossero in grado anche dopo la morte provocare pestilenze qualora i loro persecutori non avessero avuto l’accortezza di tagliar loro la testa prima di seppellirle.
Il Garmann sostiene nel suo volume che non sussiste motivo per credere a una cosa del genere in quanto come sostiene il proverbio (che egli per maggior correttezza riporta in italiano nel testo): "morta la bestia, morto il veneno" (p. 41). Tra le cose che comunque destavano maggiore impressione nel popolo era constatare come a volte il cuore dei morti non bruciasse: ciò si era verificato a proposito di Zwingli quando lo avevano messo sul rogo e tutti dicevano che era stato il demonio a lasciare un segno tangibile della sua stima per l’eresiarca.
Che il diavolo potesse fare certe cose lo pensava in effetti anche il celeberrimo Martin Delrio. Secondo le note del Garmann in tutto ciò non sussisteva alcunché di magico.
Se quel particolare organo fosse stato esposto un po’ più più a lungo alle fiamme inevitabilmente sarebbe andato a fuoco pure lui.
Il medico precisava subito che la combustione era stata semplicemente ritardata dall’umidità che stava dentro all'organo (pp. 71-72): la paura degli addetti alla combustione finiva poi per quantificare l'eccezionalità di un prodigio che aveva la sua buona giustificazione fisica e chimica.
Tutte queste considerazioni non impedirono però che il retaggio delle superstizioni popolari continuasse a sopravvivere, anzi a prolificare innestato su una serie di eventi apparentemente non spiegabili connessi ad una serie di osservazioni, anche teoricamente rigorose ma permeate di ancestrali paure, che sorprendentemente si colloca nel periodo apparentemente fulgido per la lotta alle superstizioni dell'ILLUMINISMO.






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