Sacrobosco, Ioannes : de
fu astronomo e matematico inglese fiorito nel 1230, nato a Holywood, oggi Halifax, morto a Parigi nel 1244 o nel 1256.
Sulle edizioni compaiono le forme nominali Ioannes de Sacro Bosco; Giouanni Sacrobosco; Ioannes de Sacro Busco; Ioannes de Sacrobusto, Ioannes de Sacro Busto, Giouanni di Sacrobosco; Sacro Bosco; Giouanni di Sacrobusto; Giouanni Sacrobusto.
Aprosio ne la "Biblioteca Aprosiana" dichiara di possedere una sua opera basilare: cioè la "Sfera" o De sphaera mundi, sorta di compendio del celebre testo tolemaico (Almagestum) diviso in quattro capitoli in cui si definisce la Terra come una sfera immobile, posta al centro del firmamento, secondo il sistema tolemaico-aristotelico , sono spiegati i circoli, equinoziale, celestiale, il primum mobile, l'eclittica dello zodiaco, ed ancora si discute su i sette climi, il movimento del Sole e dei pianeti allora conosciuti, le cause delle eclissi lunari e solari, formano il capitolo IV.
Quella di Aprosio è però un'edizione seicentesca: certo di valore non pari all'edizione veneziana del De sphaera mundi di Giovanni Sacrobosco, datata 28 (o 30) febbraio 1488 (come si evince dal colophon) e che si apre con una tavola silografica, realizzata presumibilmente nello stesso periodo in cui fu stampato l'incunabolo.
Nel XVI secolo l'opera prese ad affermarsi e noi abbiamo in particolare studiata questa bella edizione cinquecentesca.
Nell'opera Giovanni Sacrobosco cerca a tutti i costi di costruire un collegamento tra se stesso e Tolomeo Claudio,
volendo meritarsi una onorevole postazione nell'ambito dell'astronomia, quale "scopritore di astri" che in effetti mai scoprì.
Fu comunque un serio studioso di Tolomeo e dei suoi commentatori arabi del XIII secolo, soprattutto Al-Battani e Al-Farhani.
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Si indicano come i sette sapienti greci o i sette savi alcuni filosofi dell'antica Grecia, in particolare del VI sec. a.C., che venivano dai loro contemporanei riconosciuti come tali. Tale riconoscimento non è però unanime, la lista dei nomi varia infatti a seconda dell'autore che la scrive. Sono sempre gli stessi i primi quattro. Essi sono:
Solone da Salamina
Talete di Mileto
Biante di Priene
Pittaco da Mitilene
Cleobulo da Lindo
Chilone di Sparta
Misone di Chene
Platone, che fu il primo ad enumerare i sette saggi (in ), li elenca così:
Di questi vi era Talete di Mileto, Pittaco di Mitilene, Biante di Priene, il nostro Solone, Cleobulo di Lindo, Misone di Chene e per settimo si diceva ci fosse anche Chilone spartano.
Diogene Laerzio nelle sue vite dei filosofi ragguaglia invece le successive elaborazioni di tale lista:
Questi erano ritenuti i (sette) saggi: Talete, Solone, Periandro, Cleobulo, Chilone, Biante, Pittaco. A questi aggiungono Anacarsi lo scita, Ferecide il siriaco, Epimenide il Cretese. Alcuni poi anche Pisistrato il tiranno
Del pensiero dei sette sapienti non ci è giunta alcuna opera, né è possibile identificarne alcun tratto comune. Ci sono giunte tuttavia alcune massime, che si caratterizzano per la loro lapidaria laconicità. Fra queste, ricordiamo:
Conosci te stesso
Nulla di troppo
Ottima è la misura
Non desiderare l'impossibile
Da questi brevi frammenti, che in pratica inaugurano la storia del pensiero occidentale, ci è possibile intravedere la formazione di un sapere di tipo etico, che si distacca dalla religione omerica tradizionale per assumere i connotati propri di un sapere oggettivo e razionale, tipicamente filosofico.
Davide fu un personaggio biblico dell'Antico Testamento. Le sue vicende, facenti parte dell'epica ebraica, sono raccontate nel primo e nel secondo libro di Samuele e nel Primo libro dei Re. Secondo re d'Israele, sarebbe vissuto nella prima metà del X secolo a.C. La descrizione che ne fa la Bibbia è quella di un personaggio dal carattere complesso, capace di grandi crudeltà e generosità, dotato di spregiudicatezza politica e umana ma al tempo stesso in grado di riconoscere i propri limiti ed errori.
Secondo la Bibbia, il pastore Davide - "fulvo di capelli e di bell'aspetto" - era figlio di un efraitita da Betlemme di Giuda di nome Jesse. Entrato a servizio di Saul primo re d'Israele, come citarista per rallegrarne l'umore, depresso a causa di uno spirito negativo, Davide venne quindi unto segretamente dal profeta Samuele su ordine divino come re d'Israele a causa della "perversione" di Saul.
Caravaggio:Davide e GoliaL'episodio biblico più famoso riguardante Davide è quello dello scontro con Golia, il gigante filisteo che terrorizzava e insolentiva gli ebrei, sfidandoli a duello. Dopo quaranta giorni Davide accettò la sfida e riuscì, grazie all'astuzia, ad avere la meglio sulla forza, tramortendo Golia con un sasso lanciato da una fionda e poi decapitandolo con la spada del gigante. La vittoria lo rese popolare presso gli ebrei e gli valse l'amicizia di Gionata, figlio del re Saul. Successivamente Davide sposerà la figlia del re, Micol.
La crescente fama di Davide ingelosì Saul che tentò di ucciderlo con una lancia. Davide fuggì, conducendo una vita da bandito e chiedendo anche ospitalità agli alleati dei filistei.
Davide venne poi eletto re di Giuda e, dopo la morte del successore di Saul, anche d'Israele. In questa veste conquistò Gerusalemme, diede impulso allo sviluppo della città, preparò la costruzione del tempio per l'arca dell'alleanza, e condusse vittoriose e spietate guerre contro le popolazioni nemiche (filistei, ammoniti, moabiti, ecc).
Nell'ultima parte della vita Davide, pur avendo un numeroso harem, si invaghì di Betsabea, moglie del suo ufficiale Uria l'Hittita. Per non avere intralci lo fece morire mandandolo a combattere in guerra. Il pentimento di Davide per questa azione, dopo che il profeta Natan gli avrebbe rimproverato la sua colpa, sarebbe all'origine del Miserere, uno dei più famosi Salmi. Tragica fu anche la fine del figliastro Assalonne che sarebbe stato ucciso dopo essersi rivoltato contro di lui. Alla morte del re gli sarebbe successo al trono il figlio Salomone, avuto da Betsabea.
La memoria liturgica ricorre il 29 dicembre.
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Pentesilea (con le varianti Pantasilea e Pentasilea) è una figura della mitologia greca, figlia di Ares e di Otrera.
Fu regina delle Amazzoni e accorse in aiuto di Priamo durante la guerra di Troia. Dove venne uccisa da Achille che, colpito dal suo coraggio, fece restituire il suo corpo ai troiani affinché le dessero una meritata sepoltura.
Versioni succesive, indicano che Pentesilea uccise incidentalmente Ippolita, la regina delle amazzoni precedente a lei, venendo purificata da Priamo. Per sdebitarsi, Pentesilea si unì ai troiani contro gli achei.
È citata da Dante Alighieri nel Limbo dei grandi spiriti del passato accanto ad un'altra vergine-guerriera come Camilla (Inf. IV, v. 124).
Essa e conosciuta anche nella letteratura spagnola (citata per esempio nel poema epico catalano del Tirant lo Blanc di Joanot Martorell, pubblicato nel 1490). Il mito fu riproposto anche in una tragedia di Heinrich von Kleist (1808).
E' citata nell'Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo (Libro Terzo, Canto I, ottava 28), dove viene detto che alla morte di Ettore entrò in possesso della sua spada, quella che sarà poi chiamata Durindana.
I Samaritani (dall'ebraico shamerim, cioè "osservanti della Legge") sono i membri di una comunità ebraica in Terrasanta. L'omonima città e regione (Samaria (oggi Nablus, in Cisgiordania) da loro prende il nome.
Origine
Da un punto di vista strettamente storico i Samaritani sono i discendenti di quanti, fra le popolazioni ebraiche delle nove tribù del regno settentrionale di Israele, rimasero sul posto al momento della deportazione delle elites urbane esiliate dagli assiri (Sargon II si vanta in una sua iscrizione di avere deportato dalla regione in tutto 27.290 persone, quindi palesemente non l'intera popolazione). Questa popolazione di "rimasti", si fuse nel corso dei secoli con una parte delle popolazioni pagane a loro volta deportate in Israele.
Tuttavia secondo quanto afferma la Bibbia, per la quale solo i discendenti delle due tribù del Regno di Giuda erano i "veri" e "puri" ebrei dopo l'Esilio babilonese, i samaritani erano i discendenti unicamente degli stranieri pagani deportati in Israele nel 721 AC, per sostituire le popolazioni ebraiche totalmente deportate.
La visione biblica contrasta però con la persistenza nei territori dell'ex Regno di Israele, anche durante il periodo esilico, sia della cultura materiale esistente prima della conquista assira (il che indica che le popolazioni erano le stesse), sia soprattutto del culto di YHWH (peraltro considerato "illegittimo" dai compilatori dei libri biblici post-esilici).
La Bibbia spiega tale persistenza con una visione divina che aveva insegnato ai popoli pagani nuovi arrivati il culto yahwista, dopo la totale scomparsa degli ebrei dal paese. Ovviamente da un punto di vista strettamente storico si trattò invece di un classico fenomeno di assimilazione dei nuclei stranieri da parte delle popolazioni già esistenti in luogo, numericamente prevalenti.
Nella realtà storica gli ebrei di Samaria, lungi dal convertirsi al paganesimo o abbandonarsi al sincretismo, secondo l'accusa rivolta loro da alcuni ebrei di Giuda, si preoccuparono di preservare il culto di YHWH, fino ad arrivare a costruire (in una data non determinabile del IV secolo a.C.) un loro tempio, separato da quello di Gerusalemme, sul Monte Garizim, officiato da sacerdoti di retta discendenza aronnica.
Inoltre i samaritani hanno sempre osservato i precetti mosaici così come espressi nel Pentateuco, e si sono sempre considerati discendenti di Abramo e quindi eredi del suo patto con YHWH. Di più: secondo la versione samaritana della storia, sono stati semmai i Giudei a deviare dalla retta religione, "aggiungendo" innovazioni "devianti" alla corretta fede mosaica, di cui ovviamente loro si ritengono i soli ed ultimi depositari.
Dopo l'esilio babilonese
Secondo la versione dei fatti fornita dalla Bibbia, dopo il ritorno dall'esilio, i Samaritani tentarono di opporsi alla ricostruzione del Tempio di Gerusalemme, e sotto Antioco IV si allearono con i pagani contro i giudei.
Tuttavia la Bibbia stessa ammette che le "genti del paese" (am aaretz), cioè i discendenti di coloro che non erano stati mandati in esilio mescolati con i popoli deportati in Israele, offrirono la loro collaborazione per costruire assieme il Tempio e officiarlo assieme. Solo quando i "ritornati" resero chiaro che non intendevano mescolarsi con le "genti del paese" (considerate "razzialmente impure" per i loro matrimoni con non-ebrei), costoro assunsero un atteggiamento ostile, appellandosi al sovrano persiano perché fermasse la costruzione del Tempio - ma anche la fortificazione militare di Gerusalemme, correttamente letta come un'intenzione di dominio sulla regione circostante.
Questo è il quadro che emerge dal racconto biblico, che però semplifica in pochi episodi un processo che fu molto meno lineare ed univoco di quanto racconti il testo che abbiamo recepito. Lo stesso caos in cui ci sono pervenuti i due libri principali sul ritorno dall'Esilio, il Libro di Esdra e il Libro di Neemia, ricchi di anacronismi e contraddizioni, mostra che essi sono una compilazione "a posteriori" e molto rimaneggiata di una storia che fu molto più complessa di quanto ci sia stato tramandato.
Ad esempio, il fatto che i Samaritani abbiano adottato come loro la redazione del Pentateuco elaborata dai Giudei durante l'esilio (sia pure epurandola in seguito per mostrare che il "vero" culto era quello sul Monte Garizim, non quello di Gerusalemme), mostra che almeno all'inizio ci fu un'intesa pacifica fra le due popolazioni dei "rimasti" e dei "ritornati", e un profondo scambio culturale.
La Bibbia giudaica stessa conserva tracce di un dibattito, che fu sicuramente aspro, fra il partito politico dei ritornati che volevano fondersi coi "rimasti", e quello dei ritornati che intendevano mantenere la separazione assoluta dalle "genti del Paese" come condizione per preservare la purezza del culto ebraico. Il Libro di Rut rappresenta per esempio una voce dissenziente, che mostra una donna non ebrea, vedova di un ebreo, mentre si comporta in modo esemplare verso l'ebraismo e il popolo ebraico, tale da meritarsi di diventare bisnonna del re-eroe Davide (la polemica politica in questo punto doveva essere palese ai destinatari dello scritto, anche se oggi a noi può sfuggire). La presenza di questo ed altri testi nel canone biblico dimostra che il partito politico di cui erano l'espressione fu a lungo sufficientemente forte da impedirne la messa al bando prima che diventassero "canonici".
Se dunque i libri della Bibbia scritti dopo l'esilio presentano la decisione di separare la comunità giudaica dei "ritornati" da quella delle "genti del paese" come una decisione chiara, netta, presa senza tentennamenti, la documentazione storica - a iniziare proprio della Bibbia - mostra che essa fu la conclusione finale di un lungo scontro politico che per un lungo periodo iniziale sembrò far prevalere il partito della fusione fra i "rimasti" e i "ritornati".
Quale che sia il modo in cui si svolse lo scontro, è la Bibbia stessa ad attestare che, quando fu imposto a tutti i membri della classe sacerdotale di cacciare le loro mogli non ebraiche e i figli avuti da loro, un sacerdote che non volle sottostare a questa imposizione considerava i samaritani sufficientemente "ebrei" ed "ortodossi" da fuggire presso di loro con la famiglia, garantendo così la continuazione della linea sacerdotale legittima al culto del loro Tempio.
Quanto all'ostilità fra le due confessioni religiose, essa è un dato di fatto storicamente accertato, ma nel giudicarla vanno tenuti in considerazione anche elementi quali il fatto che alla fine non furono i pagani bensì i Giudei a radere al suolo il tempo di Samaria (sotto Giovanni Ircano, nel 123 a.C.).
Gesù e i samaritani
Al tempo di Gesù, l'ostilità fra giudei e Samaritani è ancora viva, i samaritani vengono considerati scismatici, se non veri e propri pagani. Gesù stesso (Matteo10,5) proibisce ai suoi discepoli di predicare in città samaritane, trattandole come ostili a priori. Ma è proprio per questo motivo che Gesù, raccontando la parabola del buon samaritano, sceglie uno di loro come esempio per spiegare l'attenzione che bisogna avere verso il prossimo (Luca 10,25-37), mostrando che è preferibile un "eretico" "senzadio" come un samaritano, ma che si comporta con amore verso il prossimo, di quanto non siano dei sacerdoti, le cui convinzioni siano del tutto ortodosse ma che si comportano senza alcuna carità verso il loro prossimo. Il vero credente, per questa parabola, è chi nelle azioni fa le cose giuste, e non chi si reca al culto nel tempio più "ortodosso". La parabola perde quindi oggi una parte del suo significato se si trascura il carattere di "miscredenza" che la parola "samaritano" portava con sé presso la mentalità ebraica ortodossa.
Lo stesso vale per l'episodio della "samaritana al pozzo" (Giovanni 4), il cui comportamento è ancora più "paradossale" in quanto lei, "miscredente" se non "pagana", è capace di comprensione di cose che i credenti ortodossi, che pure hanno avuto l'educazione necessaria per comprenderle, non arrivano a capire.
Ancora in Luca 17,11-19, quando Gesù guarisce dieci lebbrosi, uno solo di loro è capace di gratitudine e va da lui a ringraziarlo, ed è un samaritano.
Gesù stesso (Giovanni 8,48) è accusato dai suoi nemici di essere o posseduto dal diavolo, oppure samaritano.
Samaritani e Giudei
L'ebraismo di discendenza giudaica, che è quello praticato ormai da tutti gli ebrei del mondo ad eccezione di appena un migliaio di samaritani, ha respinto fin da dopo l'Esilio lo status ebraico dell'ebraismo di discendenza israelitica, giudicando gli ebrei samaritani scismatici, stranieri, pagani, impuri; la loro ebraicità era considerata incerta da alcuni rabbini del periodo talmudico, che li accusavano di adorare le colombe; il matrimonio tra ebrei e samaritani era proibito.
Oggi una piccola comunità di un migliaio di samaritani, di lingua araba, ancora guidata da una gerarchia sacerdotale, sacrifica l'agnello pasquale sul monte Garizim, luogo santo samaritano da oltre due millenni, vicino a Nablus. I Samaritani possiedono una loro versione del Pentateuco, che interpretano letteralmente, e anche se non considerano i Profeti e gli Agiografi come testi sacri, credono nel messia e nella resurrezione. Buona parte delle discordanze fra la versione samaritana del Pentateuco e quella giudaica mira peraltro a stabilire sul monte Garizim, anziché sul Monte del Tempio di Gerusalemme, il "vero" luogo del culto di YHWH. Come altri settari posteriori, quali i Sadducei e i Caraiti, anche i samaritani possiedono un loro calendario.
Significato moderno
In Svizzera vengono anche così chiamati i volontari che si rifanno agli ideali di Henri Dunant, che è pure il fondatore della croce rossa. Il movimento samaritano [1] si occupa di diffondere nozioni basilari e approfondite sul primo soccorso, in particolar modo impartisce corsi soccorritori, obbligatori per ottenere la licenza di condurre. I corsi dai samaritani sono riconosciuti dall'associazione internazionale ResQu
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SUPERBIA: Nella religione cattolica è uno dei sette vizi capitali (lussuria, accidia, gola, avarizia, invidia, ira, superbia), contrapposti alle tre virtù teologali (fede, speranza e carità) e alle quattro virtù cardinali (giustizia, fortezza, temperanza, prudenza). Il superbo tende a comportarsi in maniera scorretta perché ritiene di essere migliore degli altri, che cerca costantemente di dominare anche psicologicamente, godendo nel farli sentire dei pusillanimi al suo confronto sì da poterne condizionare la vita.
I simboli che nell'arte accompagnano la raffigurazione della superbia sono generalmente il pavone, lo specchio (nel quale a volte si scorge il riflesso di Satana: sullo specchio le dissertazioni aprosiane sono peraltro estesissime) e il pipistrello.
Nell'iconografia rinascimentale può capitare anche di trovarla con attributi come il leone o l'aquila.
Cesare Ripa autore molto stimato da Aprosio nella sua Iconologia (le voci sono in ordine alfabetico) dà di tale vizio questa definizione:
SUPERBIA.
Donna, bella, & altera, vestita nobilmente di rosso, coronata d'oro di gemme in gran copia, nella destra mano tiene un Pavone, & nella sinistra uno Specchio, nel qual miri, & contempli se stessa.
La Superbia, come dice S. Bernardo, è un appetito disordinato della propria eccellenza, & però suol cadere per lo più ne gli animi gagliardi, & d'ingegno instabile. Quindi è, che si dipinge bella, & altera, & riccamente vestita.
Lo Specchiarsi, dimostra, che il Superbo si rappresenta buono, & bello à se stesso vagheggiandosi in quel bene, che è in sé, co'l quale fomenta l'ardire senza volger giamai gli occhi all'imperfettione, che lo possono molestare.
Però si assimiglia al Pavone, il quale compiacendosi della sua piuma esteriore, non degna la compagnia de gli altri uccelli.
La Corona, nel modo detto, dimostra, che il Superbo è desideroso di regnare, & dominare à gli altri, &, che la Superbia è regina, overo radice, come disse Salomone, di tutti i vitij, &, che frà le corone, & nelle grandezze si acquista, & si conserva principalmente la Superbia di che porge manifesto essempio Lucifero, che nel colmo delle sue felicità cadde nelle miserie della Superbia. Però disse Dante nel 29. del Paradiso:
Principio del cader fù il maladetto
Superbir di colui, che tu vedesti
Da tutti i pesi del Mondo costretto.
Et però si dice per Proverbio: A cader va chi troppo in alto sale.
Il vestimento rosso, ci fà conoscere, che la Superbia si trova particolarmente ne gli huomini colerichi, & sanguigni, li quali sempre si mostrano alteri, sforzandosi mantenere questa opinione di se stessi con gli ornamenti esteriori del corpo.
[parzialmente tratto da "Wikipedia - l'enciclopedia libera on line"]
Il gesuita Pellizzari Francesco, figlio di Giovanni Battista Pellizzari, nasce a Piacenza alla fine '500 La sua data di nascita non è infatti storicamente certa, ma si colloca tra il 1595 e il 1596. Più certezze, si hanno invece per la data di morte, avvenuta nel 1651.
Tra le frastagliate e scarne informazioni che sopravvivono fino a oggi, spiccano i lavori svolti in Spagna come agente del padre per il commercio di libri. Conosciuto come il piacentino Pellizzarius Franciscus, si dedica alla stesura di un'opera importante, grazie anche ai recenti studi dei passi dedicati alla condizione, giuridica e sociale, delle monache nel Seicento italiano.
Pubblica la sua prima opera dedicata all'economia dei conventi e dei monasteri e alla disciplina giuridica degli stessi nel 1644 dal titolo Tractatio De Monialibus (1 esemplare alla Biblioteca Aprosiana Tractatio de monialibus in qua resolvuntur omnes fere quaestiones (et ex his plurimae adhuc non tractatae) quae de ijs excitari solent in communi, et in particulari ... accessit formularium licentiarum ... Editio secunda ab ipsomet authore recognita et multis additionibus usque utilissimis aucta. Authore P. Francisco Pellizzario ... , Venetiis : apud Paulum Baleonium, 1646. - [24], 590, [48] p. ; 4°) .
messa poi all'indice dei libri proibiti nel 1693. L'opera in piena pergamena rigida con titoli in oro sul dorso venne ristampata appunto nel 1755, dopo che furono apportate le correzioni imposte dalla Sacra Congregazione dell'Indice (Index Librorum prohibitorum: Pellizzarius Franciscus. Tractatio de Monialibus. Donec corrigatur. Decr. 21 Apr. 1693. Correcta autem juxta editionem Romanam anni 1755. permittitur"). Questo trattato fu tradotto dalla lingua latina in quella volgare a beneficio delle monache e di altri religiosi.
Nel 1651 pubblica la sua seconda opera Manuale Regularium, un lavoro ben noto e probabilmente il più quotato e citato su le regole religiose. Questo comprende tutto un trattato generale sullo statuto dei monaci nelle comunità. Questi particolari trattati, che dovevano descrivere le classi e i particolari stati nella vita ecclesiastica, comprendono: gli ordini principali, la professione del vescovo, il diritto penale degli impiegati normali e gli studi particolari su determinati ordini, in particolare il 10° Trattato parla delle principali obligazioni delle monache e specialmente dei tre voti religiosi povertà, castita e obedienza e della clausura [testo da Wikipedia - on line]
Si riproduce qui dall'esemplare da raccolta privata dal testo poi censurato atteso che Aprosio potè conoscere solo questa versione e non quella espurgata secondo le indicazioni del S. Uffizio:
Tractatio de monialibus, in qua resolvuntur omnes fere quaestiones (& ex his plurimae adhuc non tractatae) quae de iis excitari solent in communi, & in particulari. ... Accessit Formularium licentiarum; quarum vsus in monialium gubernatione solet esse frequentior. Authore p. Francisco Pellizzario Placentino
Turtureti, Vincenzo, autore siciliano e religioso di gran rinomanza atteso che fu cappellano del re spagnolo Filippo IV; visse a cavallo tra XVI e XVII secolo: di lui secondo il Servizio Bibliotecario Nazionale si conservano:
In riferimento alle Amazzoni Franz Schreiber, di Berlino, pubblica, , nel Pfälzischen Presse del 27 aprile 1915 un
articolo dal titolo Donne combattenti, nel quale, sulla base di esempi antichi, moderni e
contemporanei, prova che, nel corso della storia, la presenza di soldatesse non è una rarità :
Sofronio Eusebio Girolamo (Stridone, Dalmazia 347 - Betlemme settembre 420), fu un traduttore della Bibbia dal greco e dall'ebraico al latino. È commemorato come santo (san Girolamo, in latino Hieronymus) dalla Chiesa cattolica, per cui è anche padre della Chiesa e dottore della Chiesa. Nell'iconografia è spesso rappresentato come un vecchio dalla barba bianca intento a scrivere, e per i suoi studi legati all'antichità è considerato il patrono degli archeologi.
Studiò a Roma, nel 379, ordinato prete dal vescovo Paolino, si recò a Costantinopoli dove poté perfezionare lo studio del greco sotto la guida di Gregorio Nazianzeno (uno dei "Padri Cappadoci"). Risalgono a questo periodo le letture dei testi di Origene e di Eusebio. VI./1. UNAM SANCTAM (18. 11. 1302)
a) (DS 870") Unam sanctam ecclesiam catholicam et ipsam apostolicam urgente fide credere cogimur et tenere, nosque hanc firmiter credimus et simpliciter confitemur, extra quam nec salus est, nec remissio peccatorum, sponso in Canticis (cf. Cant. VI,8) proclamante: ÆUna est columba mea, perfecta mea. Una est matri(s) suæ, electa genetrici suæ;" quæ unum corpus mysticum repræsentat, cuius (corporis) caput Christus Christi vero Deus. In qua unus Dominus, una fides, unum baptisma. Una nempe fuit diluvii tempore arca Noe, unam ecclesiam præfigurans, quæ in uno cubito consummata unum, Noe videlicet, gubernatorem habuit et rectorem, extra quam omnia subsistentia super terram legimus fuisse deleta. (DS 871") Hanc autem veneramur et unicam, dicente Domino in Propheta: ÆErue a framea, Deus, animam meam (cf. Psalm. XXI,21), et de manu canis unicam meam." Pro anima enim, id est pro se ipso, capite simul oravit et corpore, quod corpus unicam scilicet ecclesiam nominavit, propter sponsi, fidei, sacramentorum et caritatis ecclesiæ unitatem. Hæc est tunica illa Domini inconsutilis , quæ scissa non fuit, sed sorte provenit. (DS 872") Igitur ecclesiæ unius et unicæ unum corpus, unum caput, non duo capita, quasi monstrum, Christus videlicet et Christi vicarius Petrus, Petrique successor, dicente Domino ipsi Petro: ÆPasce (Ioa. XXI,17) oves meas." Meas, inquit, et generaliter, non singulariter has vel illas: per quod commisisse sibi intelligitur universas.
a) Per imperativo della fede noi siamo costretti a credere ed a ritenere, che vi è una sola Santa Chiesa Cattolica ed Apostolica, e noi fermamente la crediamo e professiamo con semplicità, e non c'è né salvezza né remissione dei peccati fuori di lei - come lo Sposo proclama nel Cantico: ÆUna sola è la mia colomba, la mia perfetta; unica alla madre sua, senza pari per la sua genitrice". Essa rappresenta l'unico corpo mistico, il cui capo è Cristo, e (quello) di Cristo è Dio, e in esso c´è un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Una sola infatti fu l'arca di Noè al tempo del diluvio, che prefigurava l'unica Chiesa; ed era stata construita da un solo braccio, ebbe un solo timoniere e un solo comandante, ossia Noè, e noi leggiamo che fuori di essa furono sterminati tutti gli esseri esistenti sulla terra. Questa (Chiesa) noi veneriamo, e questa sola, come dice il Signore per mezzo del Profeta: ÆLibera, o Signore, la mia anima dalla lancia e dal furore del cane, l'unica mia". Egli pregava per l'anima, cioè per Se stesso - per la testa e il corpo nello stesso tempo - il quale corpo precisamente Egli chiamava l'unica Chiesa, a causa dell'unità dello Sposo , della fede, dei sacramenti e della carità ecclesiale. Questa è quella veste senza cuciture del Signore, che non fu tagliata, ma data in sorte. Dunque la Chiesa sola e unica ha un solo corpo, un solo capo, non due teste come se fosse un mostro, cioè Cristo e Pietro, vicario di Cristo e il successore di Pietro, perché il Signore disse a Pietro: ÆPasci le mie pecorelle". ÆLe mie", Egli disse, parlando in generale e non in particolare di queste o quelle, dal che si capisce, che gliele affidò tutte.
b) Sive ergo Græci sive alii se dicant Petro eiusque successoribus non esse commissos: fateantur necesse (est) se de ovibus Christi non esse, dicente Domino in Ioanne, unum (Ioa. X,16) ovile et unicum esse pastorem. (DS 873") In hac eiusque potestate duos esse gladios, spiritualem videlicet et temporalem, evangelicis dictis instruimur. Nam dicentibus Apostolis: ÆEcce gladii duo hic," in ecclesia scilicet, quum apostoli loquerentur, non respondit Dominus, nimis esse, sed satis. Certe qui in potestate Petri temporalem gladium esse negat, male verbum attendit Domini proferentis (Matth. XXVI,52). ÆConverte gladium tuum in vaginam." Uterque ergo (est) in potestate ecclesiæ, spiritualis scilicet gladius et materialis. Sed is quidem pro ecclesia, ille vero ab ecclesia exercendus. Ille sacerdotis, is manu regum et militum, sed ad nutum et patientiam sacerdotis. Oportet autem gladium esse sub gladio, et temporalem auctoritatem spirituali subiici potestati. Nam quum dicat Apostolus: ÆNon est potestas nisi a Deo; quæ autem (cf. Rom XIII,1) sunt, a Deo ordinata sunt," non autem ordinata essent, nisi gladius esset sub gladio, et tanquam inferior reduceretur per alium in suprema. Nam secundum B. Dionysium lex divinitatis est infima per media in suprema reduci. Non ergo secundum ordinem universi omnia æque ac immediate, sed infima per media et inferiora per superiora ad ordinem reducuntur. Spiritualem autem et dignitate et nobilitate terrenam quamlibet præcellere potestatem, oportet tanto clarius nos fateri, quanto spiritualia temporalia antecellunt. Quod etiam ex decimarum datione, et benedictione, et sanctificatione, ex ipsius potestatis acceptione, ex ipsarum rerum gubernatione claris oculis intuemur.
b) Se quindi i greci o altri dicono di non essere stati affidati a Pietro e ai suoi successori, devono per forza confessare di non essere tra le pecorelle di Cristo, perché il Signore dice in Giovanni che c'è un solo gregge e un (solo e) unico pastore. Proprio le parole del vangelo ci insegnano che in questa Chiesa e nella sua potestà ci sono due spade, cioè la spirituale e la temporale, perché, quando gli Apostoli dissero: ÆEcco qui due spade" - che significa nella Chiesa, dato che erano gli Apostoli a parlare - il Signore non rispose che erano troppe, ma che erano sufficienti. E chi nega che la spada temporale appartenga a Pietro, ha malamente interpretato le parole del Signore, quando dice: ÆRimetti la tua spada nel fodero". Quindi ambedue sono nel potere (a disposizione) della Chiesa, la spada spirituale e quella materiale. Però quest'ultima dev'essere esercitata in favore della Chiesa, l'altra direttamente dalla Chiesa; la prima dal sacerdote, l'altra dalle mani dei re e dei soldati, ma agli ordini e sotto il controllo del sacerdote. Poi é necessario che una spada sia sotto l'altra e che l'autorità temporale sia soggetta a quella spirituale. Perché quando l'Apostolo dice: ÆNon c'è potere che non venga da Dio e quelli (poteri) che sono, sono disposti da Dio", essi non sarebbero disposti se una spada non fosse sottoposta all'altra, e, come inferiore, non fosse dall'altra ricondotta a nobilissime imprese. Poiché secondo san Dionigi è legge da Dio, che l'inferiore sia ricondotto per l'intermedio al superiore. Dunque le cose non sono ricondotte al loro ordine alla pari e immediatamente, secondo la legge dell'universo, ma le infime attraverso le intermedie e le inferiori attraverso le superiori. Che il potere spirituale supera in dignità e nobiltà tutti quelli terreni dobbiamo proclamarlo tanto più apertamente quanto lo spirituale eccelle sul temporale. Il che, invero, noi possiamo chiaramente constatare con i nostri occhi dal versamento delle decime, dalla benedizione e santificazione, dal riconoscimento di tale potere e dall'esercitare il governo sopra le medesime.
c) Nam, veritate testante, spiritualis potestas terrenam potestatem instituere habet, et iudicare , si bona non fuerit. Sic de ecclesia et ecclesiastica potestate verificatur vaticinium Hieremiæ (Hier. I,10). ÆEcce constitui te hodie super gentes et regna" et cetera, quæ sequuntur. Ergo, si deviat terrena potestas, iudicabitur a potestate spirituali; sed, si deviat spiritualis minor, a suo superiori; si vero suprema, a solo Deo, non ab homine poterit iudicari, testante Apostolo (I. Cor. II,15): ÆSpiritualis homo iudicat omnia, ipse autem a nemine iudicatur." (DS 874") Est autem hæc auctoritas, et si data sit homini, et exerceatur per hominem, non humana, sed potius divina (potestas), ore divino Petro data, sibique suisque successoribus in ipso, quem confessus fuit petra, firmata, dicente Domino ipsi Petro (Matth. XVI,19): ÆQuodcunque ligaveris etc." Quicunque igitur huic potestati a Deo sic ordinatæ resistit, Dei ordinatione resistit , nisi duo, sicut Manichæus, fingat esse principia, quod falsum et hæreticum iudicamus, quia testante Moyse (Gen. I,1), non in principiis, sed in principio coelum Deus creavit et terram. (DS 875") Porro subesse Romano Pontifici omni humanæ creaturæ declaramus, dicimus, diffinimus et pronunciamus omnino esse de necessitate salutis. Dat. Laterani, XIV Kal. Dec., Pont. nostri Ao. VIII.
c) Poiché la Verità attesta che la potestà spirituale ha il compito di istituire il potere terreno e, se non si dimostrasse buono, di giudicarlo. Così si avvera la profezia di Geremia riguardo la Chiesa e il potere della Chiesa: ÆEcco, oggi Io ti ho posto sopra le nazioni e sopra i regni" e le altre cose che seguono. Se dunque il potere terreno devia, sarà giudicato dall'autorità spirituale; se poi il potere spirituale inferiore degenera, sarà giudicato dal suo superiore; ma se è quello spirituale supremo, potrà essere giudicato solamente da Dio e non dall'uomo, come afferma l'Apostolo: ÆL'uomo spirituale giudica tutte le cose; ma egli stesso non viene giudicato da nessuno." Questa autorità infatti, benché conferita ad un uomo ed esercitata da un uomo, non è umana, ma piuttosto divina, attribuita per bocca di Dio a Pietro, e resa intangibile per lui e per i suoi successori in colui che egli, la pietra, aveva confessato, quando il Signore disse allo stesso Pietro: ÆQualunque cosa tu legherai ecc." Perciò chiunque si oppone a questo potere istituito da Dio, si oppone all'ordine di Dio, a meno che non pretenda come i manichei che ci sono due princìpi, il che noi giudichiamo falso ed eretico, perché - come dice Mosè - non nei principii, ma nel principio Dio creò il cielo e la terra. Per consequenza noi dichiariamo, stabiliamo, definiamo ed affermiamo che è assolutamente necessario alla salvezza di ogni creatura umana che essa sia sottomessa al Romano Pontefice. Data in Laterano, nell'ottavo anno del Nostro Pontificato. San Bonaventura da Bagnoregio
1 - Horae subcesiuae de nobilitate gentilitia, in tres libros diuisae. Auctore dom Vincentio Turtureto Siculo, Philippi 4. regis Hispani cappellano
...Nunc primum prodeunt cum duplici indice,
Lugduni : Sumptibus Ludouici Prost, Haeredis Rouille, 1624
- [28], 186, [14] p. ; 4o
- Marca (Aquila su globo contornata da due serpi: In virtute et fortuna) sul front.
- Segn.: *-3*4 4*" A-2B4
- Front. stampato in rosso e nero
- Impronta - elo- s,u* i-u- Inci (3) 1624 (R)
- [Variante del titolo] Horae subcesivae de nobilitate gentilitia, in tres libros divisae. ...,
-
Localizzazioni: Biblioteca nazionale centrale - Firenze
- Biblioteca Trivulziana - Archivio storico civico - Milano
- Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II - Roma
Turtureti, Vincenzo,
Sacellu [!] regium hoc est De capellis et capellanis regum liber singularis cum notis perpetuis pro capella Aulae Hispanae d. Vincentij Turtureti Siculi ...,
Matriti : apud Franciscum Martines, 1630 (Matriti : ex officina typographica Francisci Martinez, 1630)
- [14], 126, [20] c., [1] c. di tav. : front. calcogr. ; 4o
- Segn.: " cv4 2cv8 A-P8 Q6 R-S8 T4
- Front. calcogr. inciso da Jean de Courbes
- Iniziali e fregi xil.
- Impronta - ame- o.9. s.a- satu (3) 1630 (A)
- [Variante del titolo] Sacellum regium hoc est De capellis et capellanis regum liber singularis cum notis perpetuis pro capella Aulae Hispanae d. Vincentij Turtureti Siculi ... ,
-
Localizzazioni: Biblioteca nazionale centrale - Firenze
- Biblioteca Trivulziana - Archivio storico civico - Milano
- Biblioteca della Societa' napoletana di storia patria - Napoli
- Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II - Roma
- Biblioteca universitaria Alessandrina - Roma
"Già nell’anno 529 a.C., il re dei Persiani Ciro fu sconfitto [co scrisseme Erodoto sui Messageti e Sciti guidati dalla regina Tomyris]
]da un esercito comandato da Tomiri, regina dei Messageti.
Anche di Zenobia, regina di Palmira, che visse nel terzo secolo dopo Cristo, sappiamo che spesso montava armata a
cavallo per condurre personalmente le sue imprese di guerra in Egitto e in Asia anteriore. Per inciso, Zenobia era una
delle meravigliose donne principesche dell’antichità, allo stesso tempo piena di grazia e di spirito, tanto che il retore
Longino, suo amico e consigliere, grazie alla conoscenza di lei avrebbe destato entusiasmo con il suo celebre libro “Del
sublime”, in cui egli con fine senso critico fa conoscere la grandezza della storia del pensiero e della scrittura.....
Varium et mutabile semper femina:
varia e cambia in continuazione (il cuore) di donna.(Virgilio, Eneide, IV, 569).
Sulla nave troiana Enea sta riposando attendendo l'alba per rimettersi in mare dopo la decisione di abbandonare Didone e seguire il corso del destino che lo porterà alla foce del Tevere. Nel sonno gli appare Mercurio invitandolo a salpare immediatamente l'ancora e uscire in mare aperto, prima che la regina di Cartagine, già pentita per la concessione fatta, glielo impedisca. Heia age, rumpe moras. Varium et mutabile semper femina (= "Muoviti, rompi gli indugi, è della donna essere mutevole").
Ceriziers, Rene : de erudito gesuita francese, autore in proprio ma anche esperto traduttore, specie dall'italiano in francese, divulgatore culturale, nato probabilmente nel 1609 e morto nel 1662; secondo il SERVIZIO BIBLIOTECARIO NAZIONALE delle sue opere nelle biblioteche italiane si trovano:
Ceriziers, Rene : de
Ceriziers, Rene : de, 2: Tome 2. L'innocence reconnue, A Lyon: Justet, Jacques, 1660
Augustinus, Aurelius
Ceriziers, Rene : de, L' innocenza riconosciuta in S. Genevieffa descritta in lingua franzese dal p. Renato Ceriziers della Compagnia di Gesu, tradotta nell'italiano da Lodovico Cadamosto, In Torino: Giuliano, Gerardo Bernardino, 1742
Ceriziers, Rene : de, L' innocenza riconosciuta descritta in lingua francese dal P. Renato Ceriziers della Compagnia di Giesu tradotta nell'italiana da Lodouico Cadamosto ..., In Milano: Ghisolfi, FilippoCerri, Giovanni Battista, 1644
Ceriziers, Rene : de, Il Tacito francese, o vero Sommario dell'istoria di Francia. Con le riflessioni christiane, e politiche alla vita di que're. Di monsig. Ceriziers regio limosiniere. , In RomaIn Roma, 1680
Ceriziers, Rene : de, L' innocenza riconosciuta, historia descritta in lingua francese dal p. Renato Cericiers della Compag. di Giesu tradotta nell'italiana da Lodouico Cadamosto. ..., In Bologna: Zenero, Carlo, 1649
Ceriziers, Rene : de, Gionata o' Il vero amico del sig. di Ceriziers trasportato dalla lingua Francese nella Italiana dal signor Vincenzo Armanni da Gubbio ..., In Roma: Manelfi, Manelfo, 1648
Ceriziers, Rene : de, L' innocenza riconosciuta historia, descritta in lingua francese dal P. Renato Cericiers della compagnia di Giesu, tradotta nell'italiana da Lodouico Cadamosto, In Venetia: Turrini, 1647
Ceriziers, Rene : de, Le Tacite francois ou le Sommaire de l'histoire de France auec les reflexions chrestiennes et politiques, sur la vie des rois de France du sieur de Ceriziers aumonier d , Parigi: Angot, Charles, 1665
Ceriziers, Rene : de, L' innocenza riconosciuta, historia descritta in lingua francese dal signore di Ceriziers limosiniere del re, tradotta nell'italiana da Lodouico Cadamosto, In Bologna: Longhi, Giuseppe <1.>Ferroni, Giovanni Battista, 1665
Ceriziers, Rene : de, Les trois estats de l'innocence, par le sieur de Ceriziers ... Tome 1. (-3-). L'innocence afflige'e, A Lyon, 1670
Ceriziers, Rene : de, 2: Tome 2. L'innocence reconnue, A Lyon: Potin, Simon, 1670
Ceriziers, Rene : de, 3: Tome 3. L'innocence couronne'e, A Lyon: Beaujolin, Antoine, 1670
Augustinus, Aurelius
Ceriziers, Rene : de, L' Irlanda, ouero l'innocenza coronata del signore di Ceriziers, limosiniere del re. Tradotta dalla lingua francese nell'italiana dal signor capitano Lodouico Cadamosto , In Milano: Monza, Lodovico, 1656
Annat, Francois <1590-1670>, Euasions ou subterfuges des Iansenistes, contre la sentence rendue par le Saint Siege. Du latin du R.P. Francois Annat de la Compagnie de Iesus, A Paris: Cramoisy, Sebastien <1.> & Cramoisy, Gabriel, 1654
Ceriziers, Rene : de, Le Philosophe francois. Par le sieur de Ceriziers, aumosnier de monseigneur le duc d'Orleans. Tome 1., 3!. Iouxte la copie, A Paris, 1645
Ceriziers, Rene : de, L' innocenza riconosciuta; historia descritta in lingua francese dal p. Renato Cericiers ... Tradotta nell'italiana da Lodovico Cadamosto, ..., In Venetia: Mortali, Valentino, 1666
Ceriziers, Rene : de, 3: Tome 3. L'innocence couronnee, A Lyon: Molin, Jean, 1660
Ceriziers, Rene : de, Gionata o' il vero amico del sig. Di Ceriziers trasportato dalla lingua francese nella italiana. Del signor Vincenzo Armanni da Gubbio. All'illustriss. ... Paolo Girola , In Roma: Andreoli, Giovanni, 1698
Ceriziers, Rene : de, L' innocenza riconosciuta; historia descritta in lingua francese dal p. Renato Cericiers ... Tradotta nell'italiana da Lodovico Cadamosto, ..., In Venetia: Conzatti, Zaccaria, 1662
Ceriziers, Rene : de, L' innocenza riconosciuta historia descritta in lingua francese dal p. RenatoCericiers ... Tradotta nell'italiana da Lodovico Cadamosto, ..., In Torino: Marone, AntonioSinibaldo, Giovanni, 1667
Ceriziers, Rene : de, 1: Tome 1. L'innocence affligee, A Lyon: Molin, Jean, 1660
Ceriziers, Rene : de, Les Consolations de la philosophie, et de la theologie. Par le P. de Ceriziers, de la Compagnie de Iesus, A Rouen: Viret, Jean <3.>Malassis, Clement <1.>Besongne, Jacques <2.>, 1646
[Monografia], Boethius, Anicius Manlius Torquatus Severinus, La Consolation de la philosophie. Traduicte du latin de Boece, en francois. Par le P. de Ceriziers, de la Compagnie de Iesus, A Rouen: Viret, Jean <3.>Malassis, Clement <1.>Besongne, Jacques <2.>, 1646
Ceriziers, Rene : de, Reflexions chrestiennes et politiques, sur la vie des roys Henry le Grand. Louys le Iuste. Par le sieur de Ceriziers, aumosnier de monseigneur frere unique du Roy, A Paris: Camusat, Jean veuve, 1642
Ceriziers, Rene : de, Le philosophe francois. Par le sieur de Ceriziers, aumosnier de monseigneur le duc d'Orleans. Tome 1. [-3.], A Paris: Sommaville, Antoine de & Courbe, Augustin, 1644
Augustinus, Aurelius, Les confessions de saint Augustin, traduites par le R.P. de Ceriziers, de la Compagnie de Jesus, A Paris: Soubron, Andre, 1681
Dopo tre anni di vita monastica tornò a Roma, nel 382, dove divenne segretario di papa Damaso I e conseguì un notevole successo personale, ma alla morte del Papa il suo prestigio scemò e Girolamo tornò in oriente, dove fondò alcuni conventi femminili e maschili, in uno di questi trascorse gli ultimi anni. Morì nel 420.
Opere e attività culturale del Santo
La Vulgata, prima traduzione completa in lingua latina della Bibbia, rappresenta lo sforzo più impegnativo affrontato da Girolamo. Nel 382, su incarico di papa Damaso I affrontò il compito di rivedere la traduzione dei Vangeli, successivamente, nel 390, passò all'antico testamento in ebraico concludendo l'opera dopo ben 23 anni.
Il testo di Girolamo è stato la base per molte delle successive traduzioni della Bibbia, fino al XX secolo quando per l'antico testamento si è cominciato ad utilizzare direttamente il testo masoretico ebraico e la Septuaginta, mentre per il nuovo testamento si sono utilizzati direttamente i testi greci.
Con il termine Vulgata si indica la traduzione in latino della Bibbia.
Girolamo fu un celebre studioso del latino in un'epoca in cui questo implicava una perfetta conoscenza del greco. Fu battezzato all'eta di 25 anni e divenne sacerdote a 38 anni. Quando cominciò la sua opera di traduzione non aveva una perfetta conoscenza dell'ebraico, perciò si trasferì a Betlemme per perfezionarne la conoscenza.
Girolamo utilizzò un concetto moderno di traduzione che attirò le accuse da parte dei suoi contemporanei; in una lettera indirizzata a Pammachio, genero della nobildonna romana Paola, scrisse:
"Io, infatti, non solo ammetto, ma proclamo liberamente che nel tradurre i testi greci, a parte le Sacre Scritture, dove anche l’ordine delle parole è un mistero, non rendo la parola con la parola, ma il senso con il senso. Ho come maestro di questo procedimento Cicerone, che tradusse il Protagora di Platone, l’Economico di Senofonte e le due bellissime orazioni che Eschine e Demostene scrissero l’uno contro l’altro (…). Anche Orazio poi, uomo acuto e dotto, nell’Ars poetica dà questi stessi precetti al traduttore colto: Non ti curerai di rendere parola per parola, come un traduttore fedele"
(Epistulae 57, 5, trad. R. Palla)
Nel trattato Adversus Iovinianum, scritto nel 393 in due libri, l'autore esalta la verginità e l'ascetismo, spesso derivando le sue argomentazioni da autori classici come Teofrasto, Seneca, Porfirio.
Tra gli altri argomenti, in esso Girolamo difende strenuamente l'astinenza dalla carne dimostrandosi un vegetariano ante litteram:
"Fino al diluvio non si conosceva il piacere dei pasti a base di carne ma dopo questo evento ci è stata riempita la bocca di fibre e di secrezioni maleodoranti della carne degli animali [...]
Gesù Cristo, che venne quando fu compiuto il tempo, ha collegato la fine con l’inizio. Pertanto ora non ci è più consentito di mangiare la carne degli animali."
(Adversus Jovinanum, I, 30)
Il De Viris Illustribus, scritto nel 392, intendeva emulare le "Vite" svetoniane dimostrando come la nuova letteratura cristiana fosse in grado di porsi sullo stesso piano delle opere classiche. In esso sono presentate le biografie di 135 autori in prevalenza cristiani (ortodossi ed eterodossi), ma anche ebrei e pagani, che però hanno avuto a che fare con il cristianesimo, con uno scopo dichiaratamente apologetico:
"Sappiano Celso, Porfirio, Giuliano, questi cani arrabbiati contro Cristo, così come i loro seguaci che pensano che la Chiesa non ha mai avuto oratori, filosofi e colti dottori, sappiano quali uomini di valore l’hanno fondata, edificata, illustrata, e cessino le loro accuse sommarie di semplicità rozza rivolte alla nostra fede, e riconoscano piuttosto la loro ignoranza"
(Prologo, 14).
Le biografie hanno inizio da san Pietro e terminano allo stesso Girolamo ma, mentre nelle successive Girolamo elabora conoscenze personali, le prime 78 sono frutto di conoscenze di seconda mano non sempre completamente affidabili, tra cui Eusebio di Cesarea.
L’opera venne talora indicata da Girolamo stesso col titolo "De scriptoribus ecclesiasticis".
Assai interessante è il passo di una lettera all’amico Paolino da Nola, Girolamo si lamenta dei "dilettanti" che si arrogano il diritto di emettere sentenze sulla Bibbia:
"Agricolae, caementarii, fabri, metallorum lignorum que caesores, lanarii quoque et fullones et ceteri, qui variam supellectilem et vilia opuscula fabricantur, absque doctore non possunt esse, quod cupiunt. Sola scripturarum ars est, quam sibi omnes passim vindicent: scribimus indocti docti que poemata passim. Hanc garrula anus, hanc delirus senex, hanc soloecista verbosus, hanc universi praesumunt, lacerant, docent, antequam discant […] et, ne parum hoc sit, quadam facilitate verborum, immo audacia disserunt aliis, quod ipsi non intellegunt. Taceo de meis similibus, qui si forte ad scripturas sanctas post saeculares litteras venerint […] sed ad sensum suum incongrua aptant testimonia, quasi grande sit et non vitiosissimum dicendi genus depravare sententias et ad voluntatem suam scripturam trahere repugnantem […] Puerilia sunt haec et circulatorum ludo similia, docere, quod ignores, immo, et cum clitomacho loquar, nec hoc quidem scire, quod nescias"
(Epistula LIII ad Paulinum presbyterum, 7)
[TESTO DA "WIKIPEDIA L'ENCICLOPEDIA LIBERA ON LINE"]
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San Bonaventura da BagnoregioGiovanni Fidanza (Bagnorea, oggi Bagnoregio, 1217/1221 circa — Lione, 1274) è stato un religioso cristiano, un filosofo e teologo italiano, conosciuto con il nome di Bonaventura (assunto quando divenne frate francescano) o Bonaventura da Bagnoregio. Soprannominato Doctor Seraphicus, insegnò all'Università di Parigi e fu amico di san Tommaso d'Aquino.
Vescovo e cardinale, dopo la morte venne canonizzato e proclamato Dottore della Chiesa. È considerato uno tra i più importanti biografo di san Francesco d'Assisi. Infatti alla sua biografia — la Legenda maior — si ispirò Giotto da Bondone per il ciclo delle storie sul Santo nella basilica di Assisi.
Per diciassette anni — dal 1257 — fu ministro generale dell'Ordine francescano, del quale è ritenuto uno dei padri: quasi un secondo fondatore. Sotto la sua guida furono pubblicate le "Costituzioni narbonesi", su cui si basarono tutte le successive costituzioni dell'Ordine.
La visione filosofica di Bonaventura partiva dal presupposto che ogni conoscenza derivi dai sensi: l'anima conosce Dio e se stessa senza l'aiuto dei sensi esterni. Risolse il problema del rapporto tra ragione e fede in chiave platonico-agostiniana.
È venerato come santo dalla Chiesa cattolica, che celebra la sua memoria il 15 luglio.
La data in cui Giovanni Fidanza venne alla luce non è certa. Vienne collocata tra il 1218 e il 1221.
Nel 1235 si reca a Parigi a studiare forse nella facoltà delle Arti e successivamente, nel 1243, nella facoltà di teologia. Probabilmente in quello stesso anno entra tra i Frati Minori. I suoi studi di teologia terminano nel 1253, quando diventa "magister" (cioè "maestro") di teologia e ottiene la licentia docendi (la "licenza d'insegnare").
Nel 1250 il papa aveva autorizzato il cancelliere dell'Università a conferire tale licenza a religiosi degli ordini mendicanti, sebbene ciò contrastasse con il diritto di cooptare i nuovi maestri rivendicato dalla corporazione universitaria. E proprio nel 1253 scoppia uno sciopero al quale tuttavia i membri degli ordini mendicanti non si associarono. La corporazione universitaria richiese loro un giuramento di obbedienza agli statuti, ma essi rifiutarono e pertanto vennero esclusi dall'insegnamento.
Questa esclusione colpì anche Bonaventura, che fu maestro reggente fra il 1253 e il 1257.
Nel 1254 i maestri secolari denunciarono a papa Innocenzo IV il libro del francescano Gerardo di Borgo San Donnino Introduzione al Vangelo eterno. In questo testo fra' Gerardo, rifacendosi al pensiero di Gioacchino da Fiore, annunciava l'avvento di una «nuova età dello Spirito Santo» e di una «Chiesa cattolica puramente spirituale fondata sulla povertà», profezia che si doveva realizzare attoeno al 1260. In conseguenza di questo il Papa — poco prima di morire — annullò i privilegi concessi agli ordini mendicanti. Il nuovo pontefice papa Alessandro IV condannò il libro di Gerardo con una bolla nel 1255, prendendo tuttavia posizione a favore degli ordini mendicanti e senza più porre limiti al numero delle cattedre che essi potevano ricoprire. I secolari rifiutarono queste decisioni, venendo così scomunicati, anche per il boicottaggio da loro operato ai danni dei corsi tenuti dai frati mendicanti. Tutto questo nonstante che i primi avessero l'appoggio del clero e dei vescovi, mentre il re di Francia Luigi IX si trovava a sostenere le posizioni dei mendicanti.
Nel 1257 Bonaventura venne riconosciuto magister.
Nello stesso anno fu eletto Ministro generale dell'Ordine francescano, e rinunciando così alla cattedra. A partire da questa data, preso dagli impegni della nuovo servizio, accantonò gli studi e compì vari viaggi per l'Europa.
Il suo obiettivo principale fu quello di conservare l'unità dei Minori, prendendo posizione sia contro la corrente spirituale (influenzata dalle idee di Gioacchino da Fiore e incline ad accentuare la povertà del francescanesimo primitivo), sia contro le tendenze mondane insorte in seno all'Ordine. Favorevole a coinvolgere l'Ordine francescano nel ministero pastorale e nella struttura organizzativa della Chiesa, nel Capitolo generale di Narbona del 1260, contribuì a definire le regole che dovevano guidare la vita dei membri dell'Ordine: le Costituzioni dette appunto Narbonensi.
A lui, in questo Capitolo, venne affidato l'incarico di redigere una nuova biografia di san Francesco d'Assisi che, intitolata Legenda maior, diventerà la biografia ufficiale nell'Ordine. Infatti il Capitolo generale succesivo, del 1263, approvò l'operà composta dal Ministro generale; mentre il Capitolo del 1266, riunito a Parigi, giunse a decretare la distruzione di tutte le biografie precendenti alla Legenda Maior, probabilmente per proporre all'Ordine una immagine univoca del proprio fondatore, in un momento in cui le diverse interpretazioni fomentavano contrapposizioni e conducevano verso la divisione.[1]
Negli ultimi anni della sua vita, Bonaventura intervenne nelle lotte contro l'aristotelismo e nella rinata polemica fra maestri secolari e mendicanti.
A Parigi, tra il 1267 e il 1269, tenne una serie di conferenze sulla necessità di subordinare e finalizzare la filosofia alla teologia.
Nel 1270 lascia Parigi per farvi però ritorno nel 1273, quando tiene altre conferenze nelle quali attacca quelli che sono a suo parere gli errori dell'aristotelismo.
Nel maggio del 1273, già vescovo di Albano, viene nominato cardinale; l'anno successivo partecipa al Concilio di Lione (in cui favorisce un riavvicinamento fra le Chiesa latina e quella greca), nel corso del quale muore, forse a causa di un avvelenamento, stando almeno a quanto affermò in seguito il suo segretario, Pellegrino da Bologna.
Pierre de Tarentasie, futuro papa Innocenzo V, ne celebrò le esequie, e Bonaventura venne inumato nella chiesa francescana di Lione.
Nel 1434 la salma venne traslata in una nuova chiesa, dedicata a San Francesco d'Assisi; la tomba venne aperta e la sua testa venne trovata in perfetto stato di conservazione: questo fatto ne facilitò la canonizzazione, che avvenne ad opera del papa francescano Sisto IV il 14 aprile 1482, e la nomina a dottore della Chiesa, compiuta il 14 maggio 1588 da un altro francescano, papa Sisto V.
Bonaventura è considerato uno dei pensatori maggiori della tradizione francescana, che anche grazie a lui si avviò a diventare una vera e propria scuola di pensiero, sia dal putno di vista teologico che da quello filosofico.
Difese e ripropose la tradizione patristica, in particolare il pensiero e l'impostazione di sant'Agostino.
Egli combatté apertamente l'aristotelismo, anche se ne acquisì alcuni concetti, fondamentali per il suo pensiero.
Inoltre valorizzò alcune tesi della filosofia arabo-ebraica, in particolare quelle di Avicenna e di Avicebron, ispirate al neoplatonismo.
Nelle sue opere ricorre continuamente l'idea del primato della sapienza, come alternativa ad una razionalità filosofica isolata dalle altre facoltà dell'uomo.
Egli sostiene, infatti, che:
"(...) la scienza filosofica è una via verso altre scienze. Chi si ferma resta immerso nelle tenebre".
Secondo Bonaventura è il Cristo la via a tutte le scienze, sia per la filosofia che per la teologia.
Nella sua opera più famosa, l'Itinerarium mentis in Deum ("L'itinerario della mente verso Dio"), Bonaventura spiega che il criterio di valore e la misura della verità si acquisiscono dalla fede, e non dalla ragione (come sostenevano gli averroisti).
Da ciò fa conseguire che la filosofia serve a dare aiuto alla ricerca umana di Dio, e può farlo, come diceva sant'Agostino, solo riportando l'uomo alla propria dimensione interiore (cioè l'anima), e, attraverso questa, ricondurlo infine a Dio.
Secondo Bonaventura, dunque, il viaggio spirituale verso Dio è frutto di una illuminazione divina, che proviene dalla ragione suprema di Dio stesso.
Per giungere a Dio, quindi, l'uomo deve passare attraverso tre gradi, che, tuttavia, devono essere preceduti dall'intensa ed umile preghiera, poiché:
"(...) nessuno può giungere alla beatitudine se non trascende sé stesso, non con il corpo, ma con lo spirito. Ma non possiamo elevarci da noi se non attraverso una virtù superiore. Qualunque siano le disposizioni interiori, queste non hanno alcun potere senza l'aiuto della Grazia divina. Ma questa è concessa solo a coloro che la chiedono (...) con fervida preghiera. É la preghiera il principio e la sorgente della nostra elevazione. (...) Cosí pregando, siamo illuminati nel conoscere i gradi dell'ascesa a Dio".
La "scala" dei 3 gradi dell'ascesa a Dio è simili alla "scala" dei 4 gradi dell'amore di Bernardo di Chiaravalle, anche se non uguale; tali gradi sono:
1) Il grado esteriore:
"(...) è necessario che prima consideriamo gli oggetti corporei, temporali e fuori di noi, nei quali è l'orma di Dio, e questo significa incamminarsi per la via di Dio.
2) Il grado interiore:
"È necessario poi rientrare in noi stessi, perché la nostra mente è immagine di Dio, immortale, spirituale e dentro di noi, il che ci conduce nella verità di Dio.
3) Il grado eterno:
"Infine, occorre elevarci a ciò che è eterno, spiritualissimo e sopra di noi, aprendoci al primo principio, e questo dona gioia nella conoscenza di Dio e omaggio alla Sua maestà".
Inoltre, afferma Bonaventura, in corrispondenza a tali gradi, l'anima ha anche tre diverse direzioni:
"(...) L'una si riferisce alle cose esteriori, e si chiama animalità o sensibilità; l'altra ha per oggetto lo spirito, rivolto in sé e a sé; la terza ha per oggetto la mente, che si eleva spiritualmente sopra di sé. Tre indirizzi che devono disporre l'uomo a elevarsi a Dio, perché l'ami con tutta la mente, con tutto il cuore, con tutta l'anima (...).
Dunque, per Bonaventura l'unica conoscenza possibile è quella contemplativa, cioè la via dell'illuminazione, che porta a cogliere le essenze eterne, e ad alcuni permette persino di accostarsi a Dio misticamente. L'illuminazione guida anche l'azione umana, in quanto solo essa determina la «sinderesi», cioè la disposizione pratica al bene.
Il mondo, per Bonaventura, è come un libro da cui traspare la Trinità che l'ha creato. Noi possiamo ritrovare la Trinità "extra nos" (cioè "fuori di noi"), "intra nos" ("in noi") e "super nos" ("sopra di noi"). Infatti, la Trinità si rivela in 3 modi:
come "vestigia" (o impronta) di Dio, che si manifesta in ogni essere, animato o inanimato che sia;
come "immagine" di Dio, che si trova solo nelle creature dotate d'intelletto, in cui risplendono memoria, intelligenza e volontà;
come "similitudine" di Dio, che è qualità propria delle creature giuste e sante, toccate dalla Grazia e animate da fede, speranza e carità; quindi, quest'ultima è ciò che ci rende "figli di Dio".
La Creazione dunque è ordinata secondo una scala gerarchica trinitaria, e la natura non ha sua consistenza, ma si rivela come segno visibile del principio divino che l'ha creata; solo in questo, quindi, trova il suo significato. Bonaventura trae questo principio anche da un passo evangelico, in cui i discepoli di Gesù dissero:
"Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli! Alcuni farisei tra la folla gli dissero: Maestro, rimprovera i tuoi discepoli. Ma egli rispose: Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre.
(Lc, 19,38-40)
Le creature, dunque, sono impronte, immagini, similitudini di Dio, e persino le pietre "gridano" tale loro legame col divino.
Opere
Breviloquium
Collationes de decem praeceptis
Collationes de septem donis Spiritus Sanctis
Collationes in Hexaemeron
Commentaria in quattuor libros sententiarum Magistri Petri Lombardi
De mysterio Trinitatis
De perfectione vitae ad sorores
De reductione artium ad theologiam
De Regno Dei descripto in parabolis evangelicis
De scientia Christi et mysterio Trinitatis
De sex alis Seraphin
De triplici via
Itineriarium mentis in Deum
Legenda Sancti Francisci
Lignum vitae
Officium de passione Domini
Quaestiones de perfectione evangelica
Soliloquium
Summa theologiae
Vitis mystica
Vedi = Giovanni Merlo, Storia di frate Francesco e dell'Ordine dei Minori, in Maria Pia Alberzoni et al. Francesco d'Assisi e il primo secolo di storia francescana. Torino, Einaudi, 1997. pp. 28-30
Domenico Cavalca nacque a Vicopisano nel c.1270 (morì a Pisa nel 1342).
Predicatore domenicano, a partire dal 1320 svolse una notevole attività religiosa e letteraria tesa alla diffusione della ideologia cattolica.
Fu autore di fortunatissimi volgarizzamenti di trattati ascetici (Specchio della crose, Mondizia del cuore, Pungilingua) in cui inserì circa 50 componimenti poetici, sonetti, laude e sirventesi.
Celebre soprattutto le sue Vite dei Santi Padri che traducono le pie leggende tradizionali in una prosa agile e intensa, ricca di aneddoti e senza ricercatezze retoriche.
Opere che ebbero un notevole successo, testimoniato dagli oltre 600 codici rimasti.
Vincenzo Ferrer [Santo], nato a Valencia, in Spagna nel 1350, è uno dei più grandi apostoli di ogni tempo. In lui s’incarna tutto l’ideale del Frate Predicatore, come lo concepì e lo volle il Santo Patriarca Domenico. A diciassette anni entrò nell’Ordine ricco di tutti i doni di natura e di grazia. Gli anni di preparazione al grandioso apostolato a cui la Provvidenza lo aveva eletto, si svolsero nel segreto della cella, dove i suoi giorni e le sue notti erano un continuo alternarsi di studio, di preghiera e di penitenza. Iniziata nel 1399 la sacra predicazione si vide subito che era stato investito da Dio stesso di una divina missione che lo vide protagonista in Italia, Svizzera e Francia. Ammalatosi di dolore per i mali che affliggevano la Chiesa, a causa principalmente del doloroso scisma d’occidente, gli apparve il Salvatore e risanatolo all’istante gli ingiunse di andare a predicare ai popoli i divini giudizi. Vincenzo percorse, quasi sempre a piedi, la Francia, la Spagna e l’Italia, passando come il più pacifico e il vittorioso dei conquistatori. In massa le anime cadevano vinte ai suoi piedi, per rialzarsi rinnovate e ravvicinate a Dio. La sua potente parola era sostenuta dai più meravigliosi carismi. Ebbe il dono delle lingue, leggeva nel futuro e nel segreto dei cuori, e forse mai, dal tempo degli apostoli, la predicazione fu confermata da tanti miracoli. Fu arbitro di pace tra i popoli e i regni. A lui si deve la fine del doloroso scisma che invano, quarant’anni anni prima Caterina da Siena aveva cercato di scongiurare. Morì il 5 aprile 1419 nella Bretagna Minore, a Vannes, dove ancora si conserva il suo corpo. Nel suo processo di canonizzazione furono autenticati 873 miracoli. Papa Callisto III il 29 giugno 1455 lo ha proclamato Santo.
[da "I Santi - on line" - Testo di Franco Mariani - Addetto Stampa Congregazione Suore Domenicane dello Spirito Santo ]
Aristotele (Stagira, 384 a.C. – Calcide, 7 marzo 322 a.C.) è stato un filosofo greco, tra i maggiori di tutta la storia del pensiero filosofico.
Aristotele nacque a Stagira, città del regno di Macedonia, nella quale tuttavia si parlava, in quanto antica colonia, la lingua greca. Riferisce Diogene Laerzio (Vite, V, 1) che il padre «Nicomaco, a sua volta, discendeva da Nicomaco figlio di Macaone, figlio di Asclepio [...] visse presso Aminta, il re dei Macedoni, prestandogli i servigi di medico e di amico [...] Aristotele era balbuziente nel parlare [...] aveva anche gambe sottili, come dicono, e occhi piccoli; indossava un abito appariscente e portava anelli e capelli corti»; la madre Festide era originaria di Calcide, nell'isola Eubea.
Aristotele, come figlio del medico reale, doveva pertanto risiedere nella capitale Pella; rimasto orfano in tenera età, dovette trasferirsi ad Atarneo, cittadina dell'Asia Minore, dal tutore Prosseno, forse suo cognato, il quale, verso il 367 a.C., lo mandò ad Atene, per studiare nell'Accademia fondata da Platone circa vent'anni prima. Quando il diciassettenne Aristotele entra nell'Accademia, Platone è in Sicilia da un anno, su invito di Dione, parente di Dionigi I, e tornerà ad Atene solo nel 364 a.C.; in questi anni, secondo l'impostazione didattica dell'Accademia, Aristotele dovette iniziare con lo studio della matematica per passare tre anni dopo alla dialettica.
A reggere la scuola è Eudosso di Cnido, uno scienziato che dovette influenzare il giovane studente che, molti anni dopo, nell'Etica Nicomachea scriverà che i ragionamenti di Eudosso «avean acquistato fede più per la virtù dei suoi costumi che per se stessi: appariva di un’insolita temperanza, sembrando ragionare, nell'identificare il bene col piacere, non perché amante del piacere, ma perché pensava che la cosa stesse veramente così». Eudosso non condivideva la dottrina platonica delle idee, le teorie del piacere e delle sfere astrali.
Le opere giovanili
Il Grillo o Sulla retorica
Intorno al 360 a.C. il giovane Aristotele avrebbe scritto la sua prima opera, intitolata Grillo o Sulla retorica; in reazione a una serie di scritti di elogio - composti da alcuni retori ateniesi, fra i quali Isocrate, per celebrare Grillo, figlio di Senofonte, morto nel 362 a.C. nella battaglia di Mantinea - lo Stagirita polemizzava contro la retorica come mezzo per agire sugli affetti, sulla parte irrazionale dell’anima. Già Platone, nel Gorgia, aveva sostenuto che la retorica non era un’arte, né una scienza, ma semplicemente una eµpe???a, una pratica persuasiva che può avere successo solo sugli ignoranti. Il successo del Grillo nell'Accademia procurò ad Aristotele l'incarico di tenere un corso di retorica, nel quale, seguendo il Fedro platonico, sostenne che la retorica doveva fondarsi sulla dialettica.
Sulle "Idee"
Scritto poco dopo il Grillo, il trattato Sulle Idee è andato perduto e pochi frammenti sono stati trasmessi da Alessandro d'Afrodisia. Vi si affrontava la difficoltà di intendere il rapporto tra idee e cose, concepito da Platone come partecipazione delle cose alle idee che da esse sono tuttavia separate.
Eudosso sosteneva che tra le idee e le cose non ci fosse né separazione, né partecipazione ma mixis, mescolanza: le idee e le cose sono mescolate tra loro. Aristotele non accetta la teoria eudossiana, che non risolve il problema, ma critica anche la teoria platonica della separazione, delle cui aporie lo stesso Platone era del resto ben consapevole, come mostra il suo dialogo Parmenide. Per Aristotele le idee non sono trascendenti ma sono immanenti cause formali delle cose.
Sul "Bene"
Nel tentativo di superare un’altra difficoltà contenuta nella teoria delle idee le quali, essendo molteplici, hanno bisogno, secondo Platone, di essere giustificate da un principio unitario, Platone introdusse i principi dell’Uno (identificato con il Bene) e della Diade (il grande e il piccolo); il primo ha la funzione di principio formale e il secondo ha la funzione di principio materiale. L’Uno e la Diade, insieme, sono la causa delle idee-numeri e delle idee, mentre queste ultime sono la causa delle cose.
È probabile che le conclusioni del trattato aristotelico Sul Bene, scritto intorno al 358 a.C. e del quale rimangono pochi frammenti, fossero quelle esposte nella matura Metafisica (A 6, 987 b 6 e segg.): «Platone chiamò idee gli esseri diversi da quelli sensibili e disse che di tutte le cose sensibili si parla in dipendenza dalle idee e secondo le idee: infatti le cose molteplici che hanno lo stesso nome delle idee esistono per partecipazione [...] ma che cosa fosse la partecipazione o l'imitazione delle idee è un problema che [Platone e i pitagorici] lasciarono aperto.
Inoltre Platone dice che, oltre alle cose sensibili e alle idee, esistono le cose matematiche, che sono intermedie, e differiscono dalle cose sensibili perché sono eterne e immobili, e differiscono dalle idee per il fatto che ce ne sono molte simili tra loro, mentre ciascuna idea è unica in sé [...] Come principi, Platone poneva la Diade, cioè il grande e il piccolo, come materia, e poneva l'Uno come sostanza; dal grande e dal piccolo, per partecipazione all'Uno, si costituiscono le idee, che sono i numeri che nascono da quei principi [...] Platone sosteneva una tesi vicina a quella dei Pitagorici, e si poneva sulle loro posizioni, quando diceva che i numeri sono la causa della sostanza delle altre cose [...] egli ricorre soltanto a due cause, l'essenza e la causa materiale, perché le idee sono la causa dell'essenza delle altre cose, mentre l'Uno è causa dell'essenza delle idee».
Aristotele respinse dunque, già nel primo periodo della sua formazione, la teoria delle idee nella lunga elaborazione fatta da Platone ma, dalla meditazione su di essa, ne trasse la personale dottrina della causa formale e della causa materiale.
L' Eudemo o Sull'anima
Nel 354 a.C., alla morte in guerra, presso Siracusa, dell'amico e compagno di studi Eudemo di Cipro, Aristotele scrisse, in forma consolatoria e non speculativa, un altro dialogo, pervenuto in frammenti, l' Eudemo o Sull'anima, nel quale, prendendo a modello il Fedone platonico, sosterrebbe la tesi dell'immortalità dell'anima razionale, come indicato nella forma pur problematica della posteriore Metafisica (? 3, 1070 a 24-26): «Se rimanga qualche cosa dopo l'individuo, è una questione ancora da esaminare. In alcuni casi, nulla impedisce che qualcosa rimanga: per esempio, l'anima può essere una cosa di questo genere, non tutta, ma solo la parte intellettuale; perché è forse impossibile che tutta l'anima sussista anche dopo».
Per l’Aristotele maturo, l'anima non è un'idea ma una sostanza informante il corpo: nell’ Eudemo è invece netta è l’opposizione fra anima e corpo sicché lo Jaeger la considerava dimostrazione dell’adesione completa del giovane Aristotele al platonismo; i sostenitori della precoce presa di distanza dello Stagirita da Platone intendono invece questa dichiarata opposizione come dipendente dall’intento consolatorio del dialogo, nel quale Aristotele avrebbe volutamente accentuato il destino ultraterreno dell’anima.
In ogni caso, i frammenti dell' Eudemo non permettono di dedurre un'adesione alle dottrine platoniche delle idee separate dagli oggetti sensibili e della conoscenza fondata sulla reminiscenza.
Il Protreptico
Del Protreptico o Esortazione alla filosofia, conosciuto dalle numerose citazioni contenute nell'opera di eguale titolo di Giamblico, dedicato a Temisone, re di una città di Cipro, dovette essere scritto intorno al 350 a.C..
Il Protreptico è un’esortazione alla filosofia, essendo questa il più grande dei beni, dal momento che ha per scopo se stessa, mentre le altre scienze hanno per fine qualcosa di diverso da sé. Aristotele individua nell’essere umano la divisione fra anima e corpo: «una parte di noi è l’anima e una parte è il corpo, l’una comanda e l’altra è comandata, l’una si serve dell’altra e l’altra sottostà come uno strumento [...] Nell’anima ciò che comanda e giudica per noi è la ragione, mentre il resto ubbidisce e per natura è comandato [...] dunque l’anima è migliore del corpo, essendo più adatta al comando, e nell’anima è migliore quella parte che possiede la ragione e il pensiero», una divisione non vista come opposizione, come nell’ Eudemo, ma come collaborazione: il corpo è lo strumento dell’agire dell’anima, anzi della parte razionale dell’anima.
«Delle cose che sono generate, alcune sono generate dall’intelligenza e dall’arte, per esempio, la casa e la nave; altre sono generate non per arte ma per natura: degli esseri viventi e delle piante, infatti, la causa è la natura e per natura sono generate tutte le cose di tal specie; altre però sono generate anche per caso, e sono tutte quelle non generate né per arte, né per natura, né da necessità, e tutte queste cose, molto numerose, noi diciamo che sono generate per caso». Non vi è finalità nel caso ma vi è nell’arte e nella natura: la natura è l’ordine tendente a un fine, e il fine dell’uomo è la conoscenza.
La filosofia è sia buona che utile, ma la bontà va privilegiata rispetto all’utilità: «alcune cose, senza le quali è impossibile vivere, le amiamo in vista di qualcosa di diverso da esse: e queste bisogna chiamarle necessarie e cause concomitanti; altre invece le amiamo per se stesse, anche se non ne consegua nulla di diverso, e queste dobbiamo chiamarle propriamente beni [...] Sarebbe quindi del tutto ridicolo cercare di ogni cosa un’utilità diversa dalla cosa stessa, e domandare: "Che cosa ci è giovevole? Che cosa ci è utile?". Colui che ponesse queste domande non assomiglierebbe in nulla a uno che conosce ciò che è bello e buono né a uno che sappia riconoscere che cosa è causa e che cosa è concomitante». E’ una polemica, questa, contro le posizioni di Isocrate che, nel suo Antidosis, scritto contro l'Aristotele del Grillo, attaccava una conoscenza che fosse priva di utilità pratica.
Del resto, che fare filosofia sia per Aristotele comunque necessario lo dimostra il fatto che «chi pensa sia necessario filosofare, deve filosofare e chi pensa che non si debba filosofare, deve filosofare per dimostrare che non si deve filosofare; dunque si deve filosofare in ogni caso o andarsene di qui, dando l’addio alla vita, poiché tutte le altre cose sembrano essere solo chiacchiere e vaniloquio».
Il De philosophia
Il De Philosophia, pervenuto in frammenti, fu scritto intorno al 355 a.C. e si divide in tre libri: nel primo Aristotele definisce filosofia la conoscenza dei principi della realtà; nel secondo critica la dottrina platonica delle idee e delle idee-numeri; nel terzo espone la sua teologia.
Ribadisce la non trascendenza delle idee e nega le idee-numero o numeri ideali, introdotti dal tardo Platone: «se le idee sono un’altra specie di numero, non matematico, non potremmo averne alcuna comprensione; chi, fra noi, comprende un tipo di numero diverso?». È Cicerone (De natura deorum, 1, 13) a citare, criticamente, il terzo libro del De philosophia:: «Aristotele nel terzo libro della sua opera Della filosofia confonde molte cose dissentendo dal suo maestro Platone. Ora infatti attribuisce tutta la divinità a una mente, ora dice che il mondo stesso è dio, ora prepone al mondo un altro essere e gli affida il compito di reggere e governare il moto del mondo per mezzo di certe rivoluzioni e moti retrogradi, talora dice che dio è l'etere, non comprendendo che il cielo è una parte di quel mondo che altrove ha designato come potere divino».
La dimostrazione della necessità e dell’immutabilità di Dio è fornita dalla testimonianza di Simplicio (De coelo, 228): «dove c’è un meglio, c’è anche un ottimo: poiché, fra ciò che esiste, c’è una realtà superiore a un’altra, esisterà di conseguenza una realtà perfetta, che dovrà essere la potenza divina [...] e ne deduce la sua immutabilità». Puro pensiero e immutabile, Dio non può creare il mondo, che è anch’esso eterno, come riporta Cicerone (Tuscolane, 15, 42): «il mondo non ha mai avuto origine, poiché non vi è stato alcun inizio, per il sopravvenire di una nuova decisione, di un’opera così eccellente» e attesta anche la concezione della divinità degli astri: «Le stelle poi occupano la zona eterea. E poiché questa è la più sottile di tutte ed è sempre in movimento e sempre mantiene la sua forza vitale, è necessario che quell’essere vivente che vi nasca sia di prontissima sensibilità e di prontissimo movimento. Per la qual cosa, dal momento che sono gli astri a nascere nell’etere, è logico che in essi siano insite sensibilità e intelligenza. Dal che risulta che gli astri devono essere ritenuti nel numero delle divinità».
L'abbandono dell'Accademia e la fondazione del Peripato
Nel 347 a.C. muore Platone e alla direzione dell'Accademia viene chiamato Speusippo, nipote del grande filosofo ateniese. Aristotele, che evidentemente doveva ritenersi il più degno, lascia la scuola insieme con Senocrate, altro pretendente alla guida dell'Accademia, per trasferirsi ad Atarneo, invitato dal tiranno della città, Ermia, dove già operavano altri due allievi di Platone, Erasto e Coristo. Nello stesso anno tutti e quattro si trasferiscono ad Asso, dove fondano una scuola alla quale aderiscono anche il figlio di Corisco, Neleo, e il futuro successore di Aristotele nella scuola di Atene, Teofrasto.
Nel 344 a.C. va a Mitilene, sull'isola di Lesbo, e v'insegna fino al 342, anno in cui è chiamato in Macedonia dal re Filippo perché faccia da precettore al figlio Alessandro. Quando nel 340 a.C. Alessandro diviene reggente del regno di Macedonia Aristotele, che è intanto rimasto vedovo e convive con la giovane Erpilli, da cui ha avuto il figlio Nicomaco, torna forse a Stagira e, intorno al 335 a.C., si trasferisce ad Atene, dove in un pubblico ginnasio, detto Liceo perché sacro ad Apollo Liceo, fonda una sua scuola, chiamata Peripato - passeggiata, dall'uso istituito dallo Stagirita di insegnare passeggiando nel giardino che la circonda.
Nel 323 a.C. muore Alessandro Magno e ad Atene si manifestano apertamente i mai sopiti odi antimacedoni; Aristotele, guardato con ostilità per il suo legame con la corte macedone, è accusato di empietà: lascia allora Atene e con la famiglia si rifugia a Calcide, la città materna, dove muore l'anno dopo.
Il testamento
Diogene Laerzio (Vite, V, 11-16) riporta il testamento di Aristotele:
«Andrà senz'altro bene, ma qualora capitasse qualcosa, Aristotele ha steso le seguenti disposizioni: tutore di tutti, sotto ogni aspetto, dev'essere Antipatro; però, Aristomene, Timarco, Ipparco, Diotele e Teofrasto, se è possibile, si prendano cura dei figli, di Erpillide [la sua convivente] e delle cose da me lasciate, fino all'arrivo di Nicanore. E al momento giusto, mia figlia [Piziade] sia data in sposa a Nicanore [...] Se invece Tofrasto vorrà prendersi cura di mia figlia, allora sia padrone lui [...]
I tutori e Nicanore, ricordandosi di me, si prendano cura anche di Erpillide, sotto ogni aspetto e anche se vorrà risposarsi, in modo che non sia data in sposa indegnamente, visto che è stata premurosa con me. In particolare, le vengano dati, oltre a quello che ha già ottenuto, anche un tallero d'argento e tre schiave, quelle che vuole, la schiava che già ha e lo schiavo Pirro. E se vorrà abitare a Calcide, le sia data la casa per gli ospiti vicino al giardino; se invece vorrà stare a Stagira, le sia data la mia casa paterna [...]
Sia libera Ambracide e le si diano, alle nozze di mia figlia, cinquecento dracme e la giovane serva che già possiede [...] Sia liberato Ticone quando mi figlia si dovesse sposare, e così anche Filone, Olimpione e il suo ragazzino. Non vendano nessuno dei giovani schiavi che attualmente mi servono, ma siano impiegati; una volta dell'età giusta, siano liberati, se lo meritano [...]
Ovunque sia costruita la mia tomba, là siano portate e deposte le ossa di Piziade, come lei stessa ordinò; dedichino poi anche da parte di Nicanore, se sarà ancora vivo - come ho pregato a suo favore - statue di pietra alte quattro cubiti a Zeus Salvatore e ad Atena Salvatrice a Stagira».
Le opere
Della produzione filosofica aristotelica ci sono giunti solo gli scritti composti per il suo insegnamento nel Peripato, detti acroamatici o esoterici; ma Aristotele scrisse e pubblicò, durante la sua precedente permanenza nell’Accademia di Platone, anche dei dialoghi destinati al pubblico, per questo motivo detti essoterici, che sono però pervenuti in frammenti. Questi dialoghi giovanili furono letti e discussi dai commentatori fino al VI secolo d.C.
Soprattutto a causa della soppressione dell’Accademia ateniese ordinata nel 529 da Giustiniano e alla diaspora di quegli accademici, tutti non cristiani, queste opere si dispersero e furono dimenticate, mentre di Aristotele rimasero solo i trattati esoterici; questi, a loro volta, erano stati dimenticati a lungo dopo la morte del Maestro e furono trovati, alla fine del II secolo a.C. da un bibliofilo ateniese, Apellicone di Teo, in una cantina appartenente agli eredi di Neleo, figlio di Corico, entrambi seguaci di Aristotele nella scuola di Asso. Apellicone li acquistò, portandoli ad Atene e qui Silla li sequestrò nel saccheggio di Atene dell’84 a.C., portandoli a Roma, dove furono ordinati e pubblicati da Andronico da Rodi.
L'insieme di queste opere può essere ordinato per argomenti omogenei:
Logica, scritti raccolti nel titolo complessivo di Organon - in greco, "strumento" - comprendenti:
1 - Le categorie
2 - De interpretatione
3 - Analitici primi
4 - Analitici secondi
5 - Topici
6 - Elenchi sofistici
Metafisica
Fisica:
1 - Sul cielo
2 - Sulla generazione e corruzione
3 - Sulle meteore
4 - Storia degli animali
5 - Sulle parti degli animali
6 - Sulla generazione degli animali
7 - Sulle migrazioni degli animali
8 - Sul movimento degli animali
Sull'anima :
1 - Sensazione e sensibile
2 - Memoria e reminiscenza
3 - Il sonno
4 - I sogni
5 - La divinazione mediante i sogni
6 - Lunghezza e brevità della vita
7 - Giovinezza e vecchiaia
8 - La respirazione
Etica:
1 - Etica Nicomachea
2 - Etica Eudemia
3 - Grande etica
Politica:
1 - Costituzione degli Ateniesi
Retorica:
Poetica
Studi
W. Jaeger, Aristotele, Firenze, 1935
A. Jori, Aristotele, Milano, 2003
E. Berti, La filosofia del primo Aristotele, Padova, 1962
W. Leszl, Il «De Ideis» di Aristotele e la teoria platonica delle idee, Firenze, 1975
M. Isnardi Parente, Studi sull'accademia platonica antica, Firenze, 1979
Cicerone, Tuscolane, Milano, 1996
Cicerone, La natura divina, Milano, 1998
Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, Milano, 2006
[TESTO DA "WIKIPEDIA - L'ENCICLOPEDIA LIBERA "ON LINE"]
Giovanni Duns Scoto (Duns, Edimburgo, 1266 o 1274 ca - Colonia, 1308), conosciuto anche come Doctor Subtilis, fu un filosofo e teologo britannico.
Nato in Scozia nel periodo fra il 1266 e il 1274, Duns Scoto, entrato a far parte dei francescani, studiò a Oxford e Parigi, dove poi si recò per insegnare. A seguito del conflitto politico-religioso fra Bonifacio VIII e Filippo il Bello, si schierò dalla parte del Papa e quindi dovette allontanarsi da Parigi, dove tornò solo nel 1305. Si spostò infine a Colonia, per proseguire la attività di insegnamento, ma vi trovò la morte nel 1308.
Duns Scoto è conosciuto come il filosofo dell' haecceitas (dal lat. "haec", sottinteso "res", ovvero letteralmente "questa cosa"), ossia della "questità", l'essere individuata, una determinata cosa, come "questa e non altra" hic et nunc, qui ed ora, in un dato spazio-tempo. L'haecceitas è il limite che la ragione non può esplorare: la filosofia arriva a determinare l'individuazione come principio, ma non può indagare razionalmente il singolo individuo.
Parlando delle idee platoniche, il filosofo nota come fra due copie di uno stesso oggetto (es. due libri uguali) la filosofia non può dire nulla se non che siano in due spazi e/o tempi diversi.
Ciò vale anche per le idee-attributi fra soggetti: la filosofia parla di noi solo per ciò che abbiamo in comune. Del resto partiva con Talete dall'arché che è ciò che è comune a tutti gli enti e culminava in Parmenide con la massima generalità dell'essere e in Platone con i 5 generi sommi.
Dell'albero delle idee restano inesplorabili i due estremi: l'Uno plotiniano sopra e l'individuo-persona in fondo, esseri simili ed opposti. Per Scoto il limite non è della filosofia, ma di ogni sapere (anche della scienza); alcuni filosofi ancora oggi concordano nell'inesplorabilità dell'Uno e dell'Io, o almeno che ci sia un'intimità di ognuno che non può essere indagata, il sensus sui , il sapere e sentire che esistono di cui parlerà Tommaso Campanella.
L'individuo è per la filosofia un limite di pensiero e di essere: fin dall'inizio la filosofia non tentò di penetrare l'individuo; ma esso è un limite strutturale e ontologico del sapere filosofico.
Poiché la filosofia non parla dell'individuo, non dipende dall'individuo e perciò vale in misura eguale per tutti gli individui, come è proprio di un sapere universale e necessario. Scoto notò che non è possibile trattare il soggetto in maniera oggettiva, perché un pensiero con tale pretesa farebbe del soggetto un oggetto, facendo coincidere i due contrari.
Qualunque sapere che penetrasse il soggetto, perderebbe la propria universalità e necessità, divenendo vero per alcuni ma non per tutti. La filosofia entrando a parlare dell'individuo cadrebbe nel mondo dell'opinione (la categoria più bassa del sapere secondo Platone).
Per soggetto e individuo si intende ciò che rende un individuo unico e diverso dagli altri in corpo e comportamento; ammesso che vi sia qualche aspetto del corpo e del comportamento che lo rendono unico,quanto meno per ogni ente anche non cosciente l'individuo che la filosofia non può penetrare è la cosiddetta "haecceitas", la "questità", ciò che lo rende "un questo" (e non un altro) che per Aristotele è hic et nunc, qui ed ora.
Nel caso di ogni individuo la filosofia non può rispondere alle domande riguardo perché viviamo proprio in quest'epoca, in questo luogo (nazione, città, etc.) e non in un altro, perché siamo così e non altrimenti. Le proprietà minime che sono di ogni ente secondo la definizione aristotelica sono l'essere hic, nunc, sé stesso ossia non-essere gli altri enti. Queste proprietà rendono ogni ente diverso da tutti gli altri (individuandolo) e nello stesso tempo sono ciò che è in comune a tutti gli enti. Possono esservi altre proprietà che differenziano gli enti fra loro (es.due pietre o due esseri umani), ma queste sono le uniche tre che differenziano ogni ente da tutti gli altri. Un essere umano ha tratti che lo distinguono da tutto ciò che vive, ma è sempre un essere .
Platone escluse la possibilità di pensare e di essere del perché dell'essere: non si può dare un perché all'essere poiché non esiste, ma Scoto abbassa il limite della conoscenza di causa dall'essere all'ente: non solo non possiamo dire perché c'è l'essere parmenideo, ma nemmeno perché l'essere individuale sia così e non altrimenti, cioè perché gli enti siano qui, perché siano ora, perché siano così.
Con Platone il non-essere in senso relativo la filosofia ha introdotto nel pensiero la possibilità di pensare e parlare di enti; con Scoto ha capito di non poterne dare una necessità.
Simile era stato il passaggio dialettico da Parmenide a Platone che affermava la necessità di essere dell'essere, ma l'impossibilità di necessitarne il contenuto. Anche gli enti sono forme necessarie, ma il loro contenuto (essere così e non altrimenti) non si riesce a necessitare.
L'essere e l'individuo sono temi di cui la ragione può affermare l'esistenza, ma ha poco da dire perché la ragione che pretende di parlare dell'incondizionato cade in contradddizione. Il limite di non dipendere dall'individuo è anche il punto di forza di un sapere universale e necessario.
Opere
Prima del 1295 :
Parva logicalia
Quaestiones super Porphyrii Isagogem
Quaestiones in librum Praedicamentorum
Quaestiones in I et II librum Perihermeneias
Octo quaestiones in duos libros Perihermeneias
Quaestiones in libros Elenchorum
Lectura
Quaestiones super libros De anima
Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristotelis
Questioni sulla Metafisica
, prima e intorno al 1300
Expositio super libros Metaphysicorum Aristotelis
Ordinatio
o Opus Oxiense
(verso 1300 - 1304)
Collationes oxonienses et parisienses
(verso 1303 - 1305)
Reportatio parisiensis
o Opus Pariense
(1304 - 1305 ?)
Quaestiones Quodlibetales
(1306 - 1307)
Tractatus de Primo Principio
Theoremata
(di incerta attribuzione)
Quaestiones Quodlibetales
De Rerum Principio
Va sottolineato che di alcuni di questi scritti è stata messa in dubbio l'autenticità."
[TESTO DA "WIKIPEDIA, L'ENCICLOPEDIA LIBERA ON LINE"]
Carlo Amoretti natoad Oneglia il 16 marzo 1741, nel 1756 si fece agostiniano e si recò a Pavia e a Parma. per completare i suoi studi, rivolti soprattutto verso la teologia, le lettere moderne e la fisica.
A Parma si impegnò nel settore del’insegnamento, diventando sostenitore dei progetti riformistici di Guglielmo Du Tillot (1711-1774), raffinato uomo di cultura, attivo in città in qualità di ministro delle finanze dal 1749 al 1771.
Divenuto molto potente nel suo ruolo, il Tillot fu autore di ardite riforme giuridiche che tuttavia non ebbero esito, a causa dell’arretratezza in cui versava il Ducato.
L'amicizia con il potente ministro attirò all'Amoretti l’avversione dell’autorità ecclesiastica, cosicché, dopo la caduta in disgrazia del Du Tillot, egli fu costretto a trasferirsi a Milano, dove esercitò la professione di precettore.
Qui ebbe l’opportunità di affinare i propri studi. Diventò così un erudito enciclopedico e un poligrafo fecondissimo, affiancando agli studi umanistici l’approfondimento della nascente cultura scientifica.
La sua attività maggiore fu rivolta verso le scienze agrarie, la geografia e l’economia. Per questo, prese parte all’attività riformatrice dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria (1717-1780).
Politicamente moderato, fu estromesso dalle cariche occupate a Milano dall’arrivo dei Francesi nel 1796. Tuttavia l’anno successivo divenne bibliotecario alla Biblioteca Ambrosiana, a dimostrazione di una forse tiepida opposizione al nuovo regime. Nel 1799 al termine del Triennio giacobino, ritornò appieno nel centro della vita politica e culturale milanese.
Morì a Milano il 24 marzo 1816.