cultura barocca
SISTEMA

INTERAZIONE DI SISTEMA VIARIO E PORTUALE TRA BUSSANA E L'IMPERIESE DA ROMA A BISANZIO

Oltre Costa Beleni si entra decisamente nell'amministrazione ingauna.
Per tale discorso il filo conduttore resta quello della via Iulia Augusta: dopo le ville dell'area di Taggia, cui Giacomo Molle sulla scia del Lamboglia associa gli imprecisati fondi Buriana o Periana e Luvisiana, i segni di romanità diventano più labili.
Per meglio intendere è opportuno procedere a ritroso, almeno da Diano Marina: secondo il magistero del Molle da questa area passava la mitica "via Eraclea" che avrebbe condotto la circolazione sino a Monaco, sede di qualche arcaico tempio, seguendo un tragitto che tuttavia Cicerone (De provinciis consularibus. XIII) giudicò un malegevole sentiero.
L'ERACLEA, forse originaria via per la CONQUISTA ROMANA, costituisce un argomento controverso: i dati sicuri si hanno solo con la realizzazione della via consolare, ancora di finalità militari, fatta costruire dal censore del 241 a.C. Aurelio Cotta e poi dalla strada imperiale Iulia Augusta del 12-13 d. Cristo.
Questa, nel programma di AUGUSTO, oltre alle funzioni viarie, avrebbe dovuto assolvere a vari processi socio-politici fra cui era prioritario il PROCESSO DI ROMANIZZAZIONE DEI LIGURI OCCIDENTALI: processo che avrebbe reso sicuro il CONFINE OCCIDENTALE D'ITALIA, peraltro protetto a settentrione dalle PROVINCE DELLE ALPI, e contemporaneamente avrebbe favorita l'estensione della civiltà di ROMA a tutto l'occidente europeo ormai conquistato ma non del tutto assimilato, sì che partendo dalla fidata GALLIA NARBONESE avrebbe potuto estendersi celermente a tutti gli altri popoli sì da realizzare con la PAX AUGUSTEA il grande disegno di un MERCATO APERTO ROMANO.

La grande via romana
**************IULIA AUGUSTA**************
per evitare il franoso CAPO BERTA, e agevolare il futuro, auspicabile TRAFFICO MERCANTILE STRADALE (bisognoso di buoni assetti viari) verisimilmente si distaccò dall'originario sentiero ligure, recuperato per la maggior sicurezza nel Medioevo.
Dopo aver attraversato la Mansio del LUCUS BORMANI supposto nell'area dianese e distante XVI miglia romane dalla gemella "Costa Beleni".

Forse la strada romana aggirava Capo Berta salendo a DIANO CALDERINA e per DIANO SERRETA [destinate ad evolversi come importanti frazioni di DIANO MARINA], superando la "Colla" presso l'odierno "cimitero dei Gorleri", giungeva nella regione "Lagui" e poi, per le Cascine, e rasentando il monte, perveniva a CASTELVECCHIO.
Secondo il Marsucco ("Memorie Storiche" p. 23) nella regione "Stra", in un fondo degli eredi di Giuseppe Marsucco, si sarebbero trovati, forse, dei Miliari romani andati distrutti e il toponimo del luogo, secondo il Molle, rimanderebbe all'ipotesi dell'evoluzione dialettale del termine latino strata.
L'importanza antica della località Case dei Bergi, citate nel XXXVII capitolo degli Statuti di Diano, e attraversabile dall'itinerario romano, indusse il Molle a privilegiare tale congettura contro l'autorità del Giordano.
Mentre rifiutava la prima soluzione, a causa della tortuosità del tracciato viario in palese contrasto con le abituali scelte degli ingegneri romani per percorsi rettilinei, il Molle prese in debita considerazione una terza variante, di un tragitto della "Iulia Augusta" da S. Anna di Diano Marina presso il passaggio a livello della ferrovia, sino alla sella fra l'Alpicella e i Pini del Rosso, in località Poggetto, per discendere nell'ONEGLIESE seguendo il percorso della mulattiera Spesci sino alla chiesa di S. Lucia.
Lo stesso Giordano scrisse che in proprietà Domenico Montanari si rinvenne un tratto stradale di tipologia romana e che nel versante onegliese si verificarono tracce di un tratto di strada di circa due metri, contornato di reperti murari non usuali per una strada vicinale e forse da porre in rapporto al presunto percorso della via imperiale attraverso le Case dei Bergi e la sella di S. Leonardo.
Bisogna però calcolare le alternative viarie interne su cui, prima per ragioni militari e poi commerciali, i Romani impiantarono percrsi sussidiari.
Così si potrebbe ipotizzare un tronco interno scendente da S. Leonardo in modo che il toponimo Stra della località, rimasto nella tradizione, valesse per indicare l'attraversamento della Iulia nel suo punto di confluenza con la diramazione.

L'argomento è controverso, come il punto di ricongiungimento tra l'antica Aurelia e la "Iulia Augusta": forse nell'attuale piazza Ulisse Calvi, senza escludere che la via imperiale giunta al sito di S. Lucia deviasse a destra verso il CASTELUM DI CASTELVECCHIO, come ipotizza il Molle (p. 37), perchè un visibile tracciato sembrò confermargli tale variante.


Il FLUMEN UNELIE si superava forse, durante la ROMANITA' con un PONTE presso il CASTRO di CASTELVECCHIO.
Il Molle (p. 38) non esclude un attraversamento a sud della borgata S. Mauro, dove ebbe conoscenza di massi di sostegno della via Aurelia, ma ribadisce, contro ipotesi più recenti non sempre facili da condividere, che la teoria dei GUADI FLUVIALI era applicata dai Romani in casi estremi (come nel caso documentato e spiegabile del TORRENTE VERBONE DI VALLECROSIA) abbisognando per i loro grossi traffici di ponti, senza dipendere, nei tempi di economia aperta loro propria, dai capricci di fiumi e torrenti spesso in piena, con la conseguenza di gravi pause per il passaggio militare e commerciale.

Il Giordano ne I ricordi di romanità del territorio di Imperia e adiacenze (Imperia, 1938 p. 4) scrisse che fu distrutto dai SARACENI il PONTE DEL CASTELUM, che poi venne ricostruito nel XII-XIII secolo e più volte rifatto.
Ciò sarebbe accaduto per l'ultima volta nel 1773 e la struttura, di cui sino a tempi recenti, sopravissero la spalla destra e un pilone, scomparve per una piena dell'Impero nel 1880.
Secondo quest'ultimo studioso, il Lamboglia e lo stesso Molle tale PONTE rientrava in un sistema di ponti tipico dell'ingaunia e probabile anche nell'agro intemelio, pur se qui le distruzioni dei Barbari sarebbero state assolutamente devastanti: nell'agro ingauno si nominano invece il Ponte lungo di Albenga, il Pontano sul rio dei Priliani, il Pontetto sul torrente dei Lanteri, il ponte presso S. Giovanni d'Andora per non contare ancora nel finalese in Val Ponci il PONTE ROMANO ed ancora i Ponti individuati alla foce del Prino a Portomaurizio e quindi quelli del rio della Torre a nord di S. Stefano al Mare e di S. Martino in LOCALITA' CLAVI alla TORRAZZA.
Lungo questo percorso abbastanza complesso di strade e ponti sopravvivono i pochi dati sulla romanità nell'onegliese, che parrebbe ulteriore via di passaggio tra i centri urbani di Albintimilium e Albingaunum.

Un caso particolare nel territorio "delle Diano" è costituito dal LUCUS BORMANI dove forse era aggregato un nucleo ligure preromano e dove si venerava una divinità locale che in epoca repubblicana o del primo Impero venne assimilata alla dea Diana, custode dei boschi e della caccia, che verisimilmente conservava affinità col dio ligure: un pò alla maniera di come accadde per l'alta val Nervia nel ventimigliese (territorio pignasco - sito termale di Lagu Pigu) e di come sembra intuirsi dall'indagine toponomastica della val Bormida.
Secondo l'Alessio la divinità Bormanus o Bormana rimanderebbe a un idronimo, cioè a un nume delle fonti, che non esclude il significato sacro del Lucus o bosco entro i cui confini si sarebbe venerato il dio.
Forse in epoca romana il passaggio toponomastico dal femminile al maschile di Diana si ebbe per ragioni amministrative nella conformazione di un pagus Dianius analogo a quello ricordato dalla "Tavola alimentare di Velleia" (MOLLE, Storia di Oneglia, p. 30) anche se G. Rossi richiamò l'origine DIANO dal Dianum o tempio dedicato alla dea soprattutto.
Sulla base di un periodo del De Lingua latina di Varrone (IV, 19 "... Aventinum ... quod commune latinorum Dianae Templum sit constitutum"), sostenne che il borgo di DIANO ARENTINO, parte non secondaria del supposto pagus Dianius, abbia assunto tale nominazione per il dileguamento della V nella liquida R , fosse il colle che portava al tempio [sotto il profilo etimologico il nome del borgo o toponimo non è di facile lettura: la tradizione vuole che esso derivi da un latino Arentius da collegare ad un insediamento prediale romano di una gente di tale nome.
Secondo altra interpretazione la forma dialettale "a rente" rimanderebbe piuttosto alla forma verbale latina, al participio presente, "adherentem" nel senso di essere prossimo, risultare vicino, attaccato].
Dati certi sul borgo, sito nell'alta Valle del torrente S.Pietro quasi alle falde del Pizzo d'Evigno si recuperano tuttavia solo a partire dall'epoca medievale.

L'edificio pubblico più importante dell'antico borgo di DIANO ARENTINO -la cui economia per secoli si è basata sulla COLTURA DELL'OLIVO- è senza dubbio la CHIESA PARROCCHIALE DI S.MARGHERITA D'ANTIOCHIA che ha però subito diversi interventi e rifacimenti nel corso dei secoli: il più massiccio consistette nella riduzione dell'edificio in una struttura sacra ad una sola navata ed alla sua rivisitazione stilistica ed architettonica in epoca barocca.
La sua investitura data del 1469 ed il suo governo fu affidato ad un prevosto.
Fra la sua dote è da ricordare un quadro del 1602 che rappresenta la MADONNA DEL ROSARIO CIN LE 12 STAZIONI DELLA VIA CRUCIS: un altro polittico rappresenta invece S.MARGHERTA e S.ANTONIO e l'opera pittorica è forse giunta qui da una cappella del '500 che fu eretta pressapoco a due Km. dal centro abitato.
Dapprima fu feudo dei marchesi di Clavesana poi nel 1228 fu venduto a GENOVA.
Assieme alle altre DIANO, all'interno del DOMINIO DELLA REPUBBLICA il borgo diede origine alla COMUNITAS di cui era "capoluogo" DIANO CASTELLO.
Due frazioni completano il borgo: BORELLO ed EVIGNO.
Da EVIGNO si può osservare l'intera valle sino al mare: la parrocchiale di S.Bernardo fu costruita, secondo la tradizione ligure, sulla struttura di un preesistente edifici religioso. In essa è custodito un polittico che raffigura S.Bernardo e l'Annunciazione: oltre a ciò nella chiesa si possono ammirare due testi di musica gregoriana stampati nel 1526.
BORELLO, dalla piazza di grandi dimensioni ornata da un albero monumentale, è importante per la chiesa parrocchiale che conserva un polittico del pittore ligure-nizzardo Ludovico Brea databile al 1516.
Oltre a questo vi si trova anche un fonte battesimale datato del XII-XIII secolo

Sono ipotesi e teorie ma il DIANESE fu luogo di antica visitazione umana e religiosa: come fu registrato da un articolo di un quotidiano genovese (Secolo XIX, 3 agosto 1967) nel centro di DIANO MARINA si rinvennero manufatti dell'età del ferro: questa località, relativamente poco significativa nel passato medievale rispetto a Diano Castello, ha poi avuto una notevole evoluzione dopo la realizzazione della VIA COSTIERA DELLA CORNICE e successivamente, specie dal '900, sfruttando le notevoli qualità climatiche e ricettive, è diventata un importante CENTRO TURISTICO BALNEARE: recenti indagini sul complesso dei LUOGHI DI CULTO DI DIANO MARINA hanno comunque permesso di ipotizzare una sovrapposizione cultuale e culturale nell'area tra un insediamento romano e l'originario centro medievale


A DIANO S. PIETRO sarebbero emerse tracce concrete di un culto a Diana (su cui scrisse l'Airenti nel saggio "Sulla Stazione romana del LUCUS BORMANI ").

Il Gioffredo nella Storia delle Alpi Marittime, in "H.P.M., Scriptores", II, Torino 1887 p. 11 sostenne che la vicina località di CERVO prendeva nome dall'attributo di Diana quale protettrice dei cervi, come si apprende da Festo: "cervos intutela Dianae).

Questa fu certo, oltre le teorie più o meno valide, area complessa: in epoca romana divenne una Mansio fervente di traffici, si trovava secondo la cartografia imperiale a 15 miglia da Albingaunum, 16 da Costa Beleni (o Balenae) e da Albintimilium ed il Lamboglia, risolvendo antiche dispute, ne individuò tracce nel territorio di DIANO MARINA fra i reperti delle chiese di S. Nazario e S. Siro ("La scoperta dei primi avanzi del Lucus Bormani" in "R.I.I.", XII, 1957 p. 5).
Sotto la chiesa di S. Nazario, almeno sotto il primitivo impianto, si rinvennero alcune vasche romane, tracce di un grosso perimetro di "opus segnatum" a 50 metri ad occidente di tale edificio religioso ed ancora più a ponente i resti di un'abitazione romana; questo individuò il Lamboglia che anche suppose che l'antica chiesa poggiasse su un grande edificio imperiale romano.
Qui si rinvennero monete di Nerva, Agrippa, Massenzio e Nerone, purtroppo andate perdute, (Molle cit. p. 31) e nel 1730 alle falde della collina di S. Angelo si sarebbe trovata una colonna votiva ad Antonino Pio, in seguito dispersa come scrisse Agostino Bianchi nelle "Osservazioni sul clima, sul territorio, sulle acque della Liguria", I, Genova, 1916, p. 119.
Presso il SANTUARIO DI NOSTRA SIGNORA DELLA ROVERE, fra DIANO MARINA e S. BARTOLOMEO, si rinvenne materiale attestante un insediamento romano databile al II-III secolo d. Cristo come riconobbe N. Lamboglia (Restauri e saggi di scavo alla Madonna della Rovere in "R.I.I.", 1958; p. 130): la stazione romana faceva capo ad un APPRODO MARITTIMO sulla cui logistica permangono dubbi, ma il ritrovamento di anfore, dolia, relitti marini, di una nave romana naufragata, nel tratto di mare tra DIANO MARINA ed IMPERIA fanno meditare sulla realtà di un centro romano con le stesse caratteristiche di Costa Beleni, ad alta importanza economica, nodo marittimo e viario prossimo alla "Iulia Augusta", circondato da un sistema longitudinale di ville e proprietà fondiarie con non casuali insediamenti verso l'interno.

Ed a questo proposito, è emblematica l'analisi di un centro di vita romana, presumibilmente rurale, nell'alta valle dello Sterio, nei pressi dell'attuale borgo di VILLA FARALDI: per varie modificazioni non sopravvissero invece molte tracce di vita rurale ligure-romana nell'entroterra onegliese anche se reperti di castellieri si rinvennero secondo Gerolamo Rossi (I.L.I., p. 24), in val di Dolcedo, di Chiusanico, a Calderara e a Pornassio, essendovi qui un monolito druidico detto Pietra delle Croci, ed anche, se due fondi della valle di Oneglia, Lucinasco e Candeasco, hanno formato il loro nome su relitti paleoliguri (L. Panizzi, "Nomi di fondi romano-liguri" in R.I.I. 1946, p. 59).
E' ancora praticamente da scoprire, nell'architettura non meno che nella storia, tutta la vallata (del Cervo), che ha per centro VILLA FARALDI (ove si rinvenne un'ISCRIZIONE SEPOLCRALE ROMANA, e come villaggi minori Riva Faraldi e Deglio ad ovest, Tovo, Tovetto e Chiappa (dove si è trovato un MILIARE DELL'IMPERATORE AUGUSTO) ad est.
L'organizzazione feudale non sembra quasi giunta in questo
angolo appartato delle valli di Diano, privo di castelli e tipicamente organizzato a ville di tradizione romana.
Non per nulla Villa Faraldi possiede la più antica iscrizione romana del territorio di Albenga, del I secolo a.C., e Chiappa l'unica PIETRA MILIARE di Augusto, a 553 miglia da Roma.
Forse proprio per questo spirito conservatosi nel tempo la valle di VILLA FARALDI non possiede monumenti notevoli del Medioevo (né fabbrica antica può considerarsi la pur elegante CHIESA PARROCCHIALE DI S. LORENZO MARTIRE di stile tardo rinascimentale, con la facciata decorata a stucco nel XVI secolo ed il campanile dalle linee chiaramente barocche), e, al pari di quella vicina e tanto simile di STELLANELLO, sito sopra ANDORA, nella vicina VALLE DEL MERULA), è lo specchio di un mondo che fu, ancora vivo e capace di sopravvivere".
Così puntigliosamente il Lamboglia annotò in un suo contributo (p.72)
In effetti le testimonianze ed i documenti di maggior rilievo relativi a VILLA FARALDI risalgono appunto alla romanità.

Al periodo repubblicano è da ascrivere l'iscrizione cui fa cenno il Lamboglia: si tratta per la precisione di una lapide delle misure di cm. 75 x 50, parzialmente mutila verso l'alto.
La dedicante è una Licina mater che fece deporre la LAPIDE in memoria di suo figlio D. Sufenas D. (f) Pob. Acrippa (sic! evidentemente sta al posto del corretto Agrippa): per una più ampia indagine sulla pietra tombale del piccolo abitante del municipium di Albingaunum si rimanda comunque il lettore interessato alla più specifica edizione de L'Annèè Epigraphique, Revue des publications Epigraphiques relatives a l'antiquite' classique, Paris, 1937, 218.

Mentre questa vetusta iscrizione fu rinvenuta a Villa Faraldi (dove è conservata nella parrocchiale di S.Lorenzo), la PIETRA MILIARE, cui prima si è fatto riferimento, venne rinvenuta a Chiappa ed attualmente si conserva (dal 1962 quando vi venne trasportata) presso la vecchia cappella di S. Giacomo.
Già registrata nel Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL, V-2, 8085) si presenta con lettere molto rovinate quasi illeggibili: cfr. L.A. Gervasini, I resti della viabilità romana nella Liguria occidentale, in Rivista Ingauna e Intemelia, N.S., A. XXXIII (1976-8), N. 1-4.
La cosa interessante consiste nel fatto che, proveniendo da oriente, è la prima pietra miliare di Augusto che si incontri (altre ne fecero sistemare in tempi più tardi Antonino Pio, Caracalla od Eliogabalo) in Liguria occidentale: Ottaviano Augusto fece disporre questi miliari che scandivano la distanza stradale rispetto al miliarium aureum di Roma all'epoca della ristrutturazione dell'ormai superata via consolare afferente verso le Gallie e della sua trasformazione in un itinerario, ancora prevalentemente militare ma fruibile ed efficacissimo, a lui dedicato col nome di Iulia Augusta (13-16 a.C.).
Il miliario, quadrilineare registra la seguente iscrizione: imp. Caesar / Augustus-imp. X / tribuniciae-potes XI / DLIII.
Che si legge così: "Cesare Augusto Imperatore nel 10° anno dell'Impero, nell'11° del Tribunato, 553 (miglia da Roma)".
La nominazione imperiale pare necessaria per quantificare cronologicamente la collocazione della pietra, ma l'elemento basilare rimane comunque il valore numerico veicolato dalla pietra in questione (e opportuno registrare che l'amministrazione comunale in rapporto ai lavori di sistemazione del 1962 ne fece riprodurre un'esauriente e chiara copia in una lapide posta sul muro retrostante il cippo, con traduzione).
Il fatto che nell'area di VILLA FARALDI si trovasse una pietra miliare può indurre a riflessioni anche perigliose sulla tematica mai semplice dei percorsi stradali ma la testimonianza di una lapide funeraria fatta deporre da una madre, che tra l'altro appare una donna libera, per un figlio morto precocemente fa pensare che la genesi remota del centro si possa datare al buon periodo dell'IMPERO DI ROMA quando le città costiere fiorivano e nell'interno si andavano sviluppando aziende agricole in qualche caso non servili ma residenziali del ceppo padronale e del tipo a VILLA PSEUDOURBANA.
Stranamente il toponimo originare, ad onta di una località che è stata poco marcata del Medio Evo, si scopre in atti del '200 come FARALDI in occasione della citazione di un capofamiglia (Ricobonus de Faraudi) ed è un termine di chiara provenienza germanica, longobarda per la precisione (deriva infatti da un Faroald documentato a Farfa nel 700). Peraltro il territorio di questo borgo rurale è citato nel XIV secolo come IN FERALDIS mentre si parla di una ECCLESIA DE FARAUDIS grossomodo nello stesso periodo: anticamente era denominata VILLA od ancora SAN LORENZO A VILLA la frazione che poi è diventata centro e sede del comune sì che dalla fusione dei due nomi è derivata l'odierna località di VILLA FARALDI.
Le ragioni posson esser state molteplici ma non bisogna dimenticare che queste zone, forse perchè interessanti dal punto di vista agronomico, rientrarono fra gli obiettivi dei BARBARI INVASORI e che nonostante la DIFESA DEI BIZANTINI dopo che l'ITALIA fu in pratica divisa tra loro e i LONGOBARDI le penetrazioni di LONGOBARDI, alla spicciolata come nuclei di disertori dal loro popolo nel VI secolo o come invasori nel VII secolo, fu notevole nonostante il complesso difensivo bizantino che presumibilmente aveva punti di base notevoli in PIEVE DI TECO, ARMO E CLAVI DI TORRAZZA (anzi spesso i MONACI ORIENTALI che erano al seguito dei BIZANTINI per seguirne la "DIPLOMAZIA SPIRITUALE" facevano proselitismo tra ceppi di LONGOBARDI che ottenevano di sistemarsi in terre abbandonate dagli antichi padroni a condizione di abiurare dall'ERESIA ARIANA e convertirsi al cattolicesimo.
Non è quindi impossibile che, estintosi e fuggito per timore delle razzie, l'antico ceppo padronale dei LONGOBARDI liberi siano stati sistemati dagli stessi Bizantini su queste proprietà o che, dopo l'invasione della Liguria del VII secolo, ne abbiano preso possesso secondo le norme sancite dalle LEGGI DEI BARBARI.
Il fatto però che il toponimo, evidentemente assunto tra VI e VIII secolo, sia germanico-longobardo non toglie nulla all'area di FARALDI in merito alla sua più antica origine romana, quando per tutta la LIGURIA era un fiorire di iniziative anche in merito al POTENZIAMENTO DELL'ASSE VIARIA e soprattutto del notevole traffico commerciale su scala locale e internazionale.

Il problema fondamentale del centro romano di "Luco Bormani" risiede comunque nell'ubicazione di un attracco, reso quasi certo dalle carte nautiche imperiali ad uso particolare dei marinai: nell'Impero, scomparso il pericolo dei pirati, un intenso traffico commerciale solcava infatti le acque del Mediterraneo portando merci di considerevole varietà e pregio.

Si è accennato che l'archeologia sottomarina ha recuperato vario materiale, perso per naufragi nella maggior parte dei casi.
Attualmente tale benemerito settore di ricerca ha individuato le tracce dei relitti di due navi naufragate addette al servizio di trasporto e quindi dette onerariae: una nel mare antistante Albenga e recentemente, nel 1975, si è individuato nel golfo di DIANO MARINA parte dello scafo ligneo di una nave mercantile lunga verosimilmente 30 metri, larga 6 e con un carico di anfore, armata di 14 dolia di terracotta fissati nella zona centrale dell'imbarcazione.
I dolia o ziri, di tale nave, erano grandi recipienti di terracotta, paragonabili nella funzione ai moderni containers, potevano contenere vino, grano ed olio fino ad alte capacità e portavano bolli a rilievo attestanti i nomi dei commercianti.
Le anfore, pure di terracotta, erano recipienti minori, con una capacità media di 30 Kg.: portavano prevalentemente derrate alimentari.
La nave mercantile proveniva forse dalla Spagna, naufragò nel I secolo d. Cristo e forse non portava solo vino o grano ma anche il garum, una salsa pregiatissima a base di pesci macerati che aveva in Calabria, dove tuttora si produce, ed in Campania, dove l'imbarcazione era con probabilità diretta, il mercato naturale: non si dimentichi la straor dinaria commercializzazione del prodotto nei centri di quelle regioni, specie nelle città campane marittime e nelle locali isole dove la migliore e raffinata società romana trascorreva i suoi giorni di villeggiatura specie estiva.
Il 16 aprile 1986 un dolium, non appartenente alla stessa nave, fu recuperato nelle acque antistanti il porto di Imperia e fece ritenere la presenza di una seconda nave naufragata sempre nel I secolo d. Cristo ma tuttora non individuata: ripulito e restaurato presenta una capacità di 20 ql., un peso di 15 ql., un'altezza di 186 cm. un diametro di 174 cm., con uno spessore di 7 cm.; tale dolium già nella romanità era stato restaurato, secondo una tecnica altrove riscontrata, con graffe di piombo, indizio di intrinseco valore e di uno specifico artigianato addetto alla manutenzione.
Probabile risultato di una fabbrica campana e stato sistemato, dall'Amministrazione Provinciale di Imperia, nelI'atrio del Palazzo della Provincia e della Prefettura il 14 maggio 1987: per la sua salvaguardia ma soprattutto quale testimonianza storica di antichi traffici romani tra la Campania, il Lazio, gli scali del Mediterraneo occidentale, il Sud della Francia e la Spagna.
Aveva certo ragione il dott. Vincenzo Campanella a sostenere che nell'ottica turistica, tale oggetto non è paragonabile coi Bronzi di Riace, indubbia attrattiva estetica se non spettacolare: ma lo stesso funzionario provinciale, acutamente, ne citò l'importanza di grande reperto storico che particolarmente in questo nostro lavoro acquisisce un valore documentario di eccezionale rilievo.
Il problema o meglio i problemi di fondo permangono.

Vi era un porto presso la Mansio di Diano Marina e, se vi era quale ne poteva essere la logistica?

La cartografia romana e bizantina tendeva a indicare, come detto, gli approdi marittimi al pari dei nodi viari ed in questo senso, per una naturale convergenza col sistema di Costa Beleni si potrebbe ipotizzare che l'organismo romano, individuato dal Lamboglia nell'area tra la chiesa di S. Nazario, poco a monte delI'attuale abitato di Diano Marina, e la chiesa di S. Siro a circa 2 Km più all'interno verso Diano S. Pietro, comportasse un approdo marittimo: del resto le alterazioni alla morfologia delle spiagge è notevolmente cambiata rispetto all'antichità e oggi può essere scomparso quanto era funzionante per i Romani e viceversa.

L'"Itinerario Marittimo", unico di fronte agli altri repertori cartografici imperiali, non indicò il Lucus Bormani ma il PORTUS MAURICII; questo documento cartografico segnava espressamente per i marinai gli scali portuali, con relative distanze "... Albingaunum portus . . . portus Maurici . . . Tabia fluvius (XII) ... Vintimilio plagia (XVI) ... "("It. Marit." p. 502): proprio questo discusso documento rappresnta un punto fisso da cui far partire varie discussioni sull'ORIGINE DI "PORTO MAURIZIO".

Mentre restava ferma la distanza tra Costa Beleni o Tavia fluvius e Ventimiglia, città e porto, come negli altri Itinerari qui non è citato il Lucus Bormani ma l'approdo risulta più a ponente, appunto nell'attuale area dell'imperiese.

Prima di questa località si incontra però ONEGLIA che secondo il Molle (p. 23-25) fu un pagus od un vicus Unelia, preromano e quindi risalente alla CIVILTA' DEI LIGURI, in relazione a qualche CASTELUM su un'altura fortificata.
In questa località [assegnata al municipio ingauno dopo la CONQUISTA ROMANA, la riorganizzazione augustea dell'ITALIA e quindi nel pieno fulgore dell'Impero] non vi fu un PORTO ANTICO tantomeno di origine greca (Molle p. 28-9) ma qualche segno di romanità si trovò: qualche moneta di Massimiano nella distruzione di BORGO PERI dopo le devastazioni del terremoto del febbraio 1887, un'altra moneta romana nell'apertura della strada Vialardi, forse iscrizioni romane, nel 1760, nella regione "STRA" e poi ancora miliari nelle terre dei Molini di Giusi e nel 1739 un'urna di pietra antica sotto la nuova chiesa parrocchiale sino ai vasi di vetro antichi recuperati nel 1801 da scavi in regione Cavo.
Mentre si può avere qualche dubbio su tali reperti descritti da semplici appassionati non sussistono incertezze su quanto ritrovato dalla moderna archeologia: monete romane nell'alveo del fiume Impero e pure, lungo la strada di Berta, nel terreno di villa Luce, sino al recupero (dicembre 1931) di due lucernette del II secolo d.C. durante i lavori di costruzione di una villa in via Cascine.
Si tratta di materiale sparso che, in assenza di grosse e impreviste scoperte può sì far pensare ad un insediamento romano.

L' insediamento di DIANO CASTELLO, a prescindere dalla tradizione antica e romana che tratta della STAZIONE DEL LUCUS BORMANI che peraltro dovette essere anche un BOSCO SACRO, diviene un borgo noto ed anche di rilievo militare e politico soltanto dopo le SCORRERIE DEI SARACENI quando la VITTORIA CRISTIANA segnò oltre che il trionfo della CHIESA DI ROMA anche quella della NOBILTA' FEUDALE e non solo dei GRANDI FEUDATARI ma anche dei nobili locali che, PESANTEMENTE ARMATI, finirono per avvolgere la loro figura di un'aura di invincibilità.
Era abbastanza facile, a capo di pochi armati (a volte soltanto di propri servi) avere la megio su nemici armati alla leggera: sia che fossero le frange meno nobili e quindi meno attrezzate degli eserciti saraceni sia che fossero villani e sudditi, magari in rivolta per qualche ingiustizia patita, e quasi impossibilitati, seppur in tanti a sopraffare un cavaliere catafratto cioè corazzato in ogni parte, compreso il preziosissimo cavallo: la carica della cavalleria catafratta fu per secoli l'antemurale che frenò l'evoluzione delle milizie popolari e borghesi.
I Marchesi di Clavesana o comunque i loro ascendenti avevano partecipato vittoriosamente alla spedizione contro i Saraceni e gli stessi Clavesana orgogliosi di quel passato amavano scorrazzare per i loro possedimenti feudali armati in maniera quasi invulnerabili per le povere armi dei soldati provenienti dalla vita dei campi e che spesso brandivano solo delle falci.
I CLAVESANA inoltre, come tutta la nobiltà locale, potevano fruire di munitissime residenze in CASTELLI difficilmente espugnabili per la limitata potenza degli strumenti d'offesa nel corso degli assedi: ne tenevano naturalmente UNO in DIANO CASTELLO, in pratica la CAPITALE del loro DOMINIO [andato però distrutto per il TERREMOTO DEL 1887 (ne rimangono solo poche strutture ed archi ormai assimilati entro il corpo architettonico di abitazioni successive: peraltro anche la CINTA MURARIA CON LE SUE QUATTRO PORTE che rendeva DIANO CASTELLO un centro pressoché imprendibile è stata annientata dallo stesso terribile sisma] ma certo avevano altre basi militari, ben difese e custodite, come il CASTELLO DI CERVO].
Nonostante le loro armi e le loro previdenze i CLAVESANA non poterono comunque impedire che la popolazione di DIANO CASTELLO sensibile alla nuova filosofia di LIBERO COMUNE si rivoltasse in varie circostanze e poi si rivolgesse ad una lleato tanto potente che contro di esso i Clavesana nulla avrebbero mai potuto.
La nuova presenza politico-militare è quella di GENOVA che nel 1199 assorbe il paese entro il suo DOMINIO.
Gli abitanti di DIANO CASTELLO corrisposero meravigliosamente all'aiuto dei Genovesi e contribuirono con uomini e mezzi all'importante vittoria navale di GENOVA su PISA, la vittoria che diede a GENOVA il ruolo di unica DOMINANTE NEL MAR TIRRENO.
Nel palazzo comunale della cittadina, anche per commemorare quegli antichi cittadini di Diano Castello che come BALESTRIERI contribuirono al trionfo genovese, si conserva tuttora un affresco che celebra appunto la VITTORIA DELLA MELORIA del 1284.
La storia successiva della località si fuse con quella della REPUBBLICA DI GENOVA: nell'ambito del DOMINIO DI TERRAFERMA il borgo si sviluppò come capoluogo della PODESTERIA DI DIANO cioè di un'amministrazione genovese -retta da un PODESTA'- con ampi privilegi locali (la "COMMUNITAS DIANI").
La sostanza di questa "storia genovese" di DIANO CASTELLO -di cui a metà XVIII secolo M.Vinzoni per l'"Atlante de il Dominio della Repubblica" redasse una CARTA TOPOGRAFICA- venne meno nel '700 con l'avverarsi di vicende politico-militari susseguenti ai fatti ed alle conseguenze della RIVOLUZIONE FRANCESE.

Bella è la PARROCCHIALE DI DIANO CASTELLO intitolata a S.NICOLA DI BARI e realizzata, dal 1698, su disegno di G.B.Marvaldi: essa presenta, secondo il suo pieno stile barocco, pianta rettangolare breve smussata agli angoli.

Tuttavia la CHIESA più significativa di DIANO CASTELLO è quasi certamente quella di NOSTRA SIGNORA ASSUNTA già datata da Nino Lamboglia al XIII secolo e la cui ABSIDE risulta ad archeggiatura continua con peducci figurati.

Fuori del borgo medievale di DIANO CASTELLO si trova una CHIESA anche più antica di quella dell'ASSUNTA.
Si tratta della CHIESA DI S. GIOVANNI, dal suggestivo INTERNO, al cui proposito nel libro "Monumenti medievali della Liguria di Ponente" (Torino, 1970, p.69) Nino Lamboglia scrisse: "...è ora ad unica ampia navata, con l'abside integralmente conservata, al pari delle pareti laterali, fino al tetto, che fino ai restauri di fine Ottocento era un rarissimo esempio di capriata lignea a travi e mensole finemente decorati con colori e motivi medievali; presenta tuttavia due fasi costruttive: una protoromanica, forse del secolo XI, che era a tre navate, ormai rase al suolo e visibili solo nelle absidi esterne, ed una del secolo XII avanzato, a navata unica con la sacrestia ricostruita al posto dell'abside destra".

L' ricercatrice Daniela Gandolfi, dell'Istituto Internazionale di Studi Liguri di Bordighera, ha poi studiato nella pianura che sta sotto il borgo medievale di DIANO CASTELLO i resti di una piccola CHIESA DI S. SIRO, ad aula absidata. Dagli scavi archeologici, oltre a reperti dell'edificio cristiano costituiti da un paramento muarario in piccoli blocchi squadrati di pietra, sono emersi resti di più antiche strutture edili e tra queste è stata segnalata una vasca impermeabilizzata con la tecnica del cocciopesto e quindi messa in collegamento con piccoli canali datati al III secolo d. C., cioè alla buona età imperiale romana. Questa scoperta ha indotto a formulare l'ipotesi che qui fosse sorta una villa rustica romana, cioè un'azienda agricola a manutenzione servile sui cui avanzi sarebbe stato poi eretto l'edificio cristiano.


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A CERVO (borgo molto antico che data la posizione geografica e la condizione climatica estremamente favorevoli si è evoluto in un MODERNO CENTRO che coniuga la componente medievale cogli aspetti tipici della civiltà contemporanea) si conserva in eccellente stato proprio un CASTELLO DEI CLAVESANA che, secondo l'architettura medievale dell'epoca fu costruito in posizione dominante sul borgo e sulle vie di accesso.
Esso risulta menzionato già nel 1196 ma fu restaurato sicuramente nel '200 specie con l'integrazione dei due bracci della cinta muraria.
Tale potenziamento fu dovuto al fatto che i Clavesana erano in guerra con la potente ALBENGA,
Dal conflitto, che sfinì i contendenti, trasse giovamento GENOVA in piena espansione militare che infatti estese il suo controllo, con l'estromissione dei Clavesana, al territorio DELLE DIANO.
Il CASTELLO, dopo che GENOVA assorbì CERVO nel suo DOMINIO fu ingrandito ancora nel 1239 (all'uso ligure era stato eretto su una precedente struttura militare, forse una TORRE ROMANA e quindi su una FORTEZZA DEL XII SECOLO costruita su quelle rovine).
Sotto questi restauri genovesi il fortilizio fu dotato di DUE TORRI CIRCOLARI ma perdette l'antica funzione nobiliare di tipo feudale, per assumere i connotati del PARLAMENTO LOCALE quello costituito dagli uomini della comunità e che deliberava sulle questioni amministrative del luogo (l'amministrazione politica era prerogativa di Genova e dei suoi magistrati).
Persa l'antica importanza strategica ai primi del XVII secolo fu trasformato in chiesa e rimase tale fin a quando, nel 1776, venne inserito fra le STRUTTURE IGIENICHE ED ASSISTENZIALI cui la REPUBBLICA dava sempre maggior peso per difendersi dalle reiterate aggrressioni della PESTE prima e del COLERA in seguito: e sempre in proiezione della maggiore sensibilità settecentesca dello STATO per i bisognosi ed i ripari contro le calamità divenne alla fine RICOVERO PER FAMIGLIE INDIGENTI (ed in fetti tra '600 e '700 -anche per una generale crisi dello Stato il fenomeno dei POVERI E DEL PAUPERISMO divenne drammatico col pericolo dell'aumento di CRIMINALITA' e di VIOLENZA CONTADINA e LOCALE).
In tempi recenti l'importante edificio è diventato sede del prestigioso MUSEO ETNOGRAFICO DEL PONENTE LIGURE: la struttura militare è certo stata alterata attraverso tanti secoli ma dell'edificio originario si possono ancora leggere "in situ"> archi in stile gotico, ampi tratti di mura, significativi portali che permettono di valutare l'insieme come un patrimonio per lo studio dell'evoluzione dell'architettura militare genovese.

Per quanto concerne l'edilizia pubblica e religiosa non si può far a meno di ricordare come a CERVO si conservi tuttora una delle più rilevanti manifestazioni del barocco ligure quella rappresentata dalla PARROCCHIALE DI S.GIOVANNI BATTISTA realizzata da G.B.Marvaldi nel 1699 con pianta rettangolare ma allungata e con agoli smussati ed ornata da ben 10 cappelle laterali [il progetto del Marvaldi data in effetti del 1686, anche se i Cervesi deliberarono l'erezione della fabbrica dal 1672; il corpo principale fu eretto entro il 1699 ma molti interventi erano ancora necessari e in parte non furono realizzati -oltre che per le imponenti spese da sostenere- per la morte del Marvaldi nel 1706. Siffatti interventi furono quindi ripresi nel 1718 dal figlio del Marvaldi, Giacomo Filippo che di fatto realizzò l'opera definitiva, che venne consacrata nel 1736 anche se giova rammentare tutta una serie di interventi decorativi posteriri e soprattutto l'innalzamento del nuovo campanile (1771 - 1774)].
Questa PARROCCHIALE NUOVA DI CERVO divenne presto un SANTUARIO VERO E PROPRIO per i CORALLIERI che IN QUESTO LUOGO SANTO vennero tradizionalmente a depositare i loro ex-voto dopo esser tornati dalla pesca nelle pericolose acque di Sardegna e Corsica.
La chiesa è scenograficamente inserita nel complesso architettonico del borgo marinaresco.
Stupisce la slanciata facciata del '700 che si raggiunge tramite una scalinata; e ad essa bene sta accanto l'agile campanile realizzato dal CARREGA.
La attuale CHIESA DI SAN NICOLA a pianta ottagonale fu la primigenia parrocchiale di CERVO, dedicata in origine a S. GIORGIO DI CAPPADOCIA, il cui culto i marinai locali avevano appreso in Oriente durante le Crociate.
La costruzione originaria (di gusto romanico stando ad un documento del 1580 che la menziona: peraltro recenti lavori di restauro hanno messo in luce muri romanici nella attuale sacrestia e sotto l'abside) secondo alcune interpretazioni non confutate avvenne sui resti di un tempio pagano a pianta circolare.
Ricostruita più volte durante la sua lunga storia la chiesa venne abbandonata tra '400 e '500 in quanto esposta alle incursioni barbaresche.
Divenne quindi chiesa cimiteriale finché il 6 aprile 1600 fu ceduta ai Frati Agostiniani della Consolazione di Genova, a condizione che la restaurassero, la ufficiassero e vi erigessero accanto un convento.
I lavori furono sollecitamente iniziati, e qualche mese dopo i monaci si stabilirono a Cervo coltivando un grande terreno attiguo al Convento, loro concesso in dotazione dai coniugi Savona. Il Convento fu quindi intitolato a Santa Maria delle Grazie.
Le due teste negli angoli inferiori del quadro dell'Immacolata sul primo altare a destra della chiesa, sono i ritratti dei due coniugi Savona fatti eseguire dagli Agostiniani in segno di gratitudine.
Il campanile fu eretto nel 1668: La chiesa venne ricostruita nella forma attuale dai Padri Agostiniani che dimorarono a Cervo, nell'attiguo convento di S. Maria delle Grazie, dal 1600 al 1798, quando vennero cacciati dalle confische napoleoniche.
I lavori di restauro, iniziati nel 1985 e conclusi nel 1991, hanno messo alla luce, tra l'altro, un graffito sull'ultimo strato di tinta, indicante la data di ultimazione dei lavori della nuova chiesa: 7.8.1720. A lungo la chiesa fu detta contemporaneamente con l'intitolazione di S. Maria delle Grazie e con quella originaria di S. Giorgio: finalmente nel 1865 nel libro della Fabbriceria la chiesa risulta intitolata con la nominazione che ha tuttoggi cioè quale CHIESA DI S. NICOLA DA TOLENTINO.

-S. BARTOLOMEO AL MARE (anche S. BARTOLOMEO AL CERVO): una chiave di volta per intendere la storia molto antica dell'area di S. BARTOLOMEO AL CERVO è quasi certamente costituita dall'esistenza del SANTUARIO DI N.S. DELLA ROVERE.
Gli alberi di rovere che circondano la chiesa rimandano infatti ad un modo remoto di nominare i siti di culto, un modo che prendeva spunto -alla maniera in uso già presso i Romani- nel CRISTIANESIMO DELLE ORIGINI dalla consuetudine, per indicare un sito cultuale (come anche un edificio di pubblica rilevanza) di segnalarlo indicando una caratteristica tipologica, colturale o geologica della zona: così nell'ALTA VAL NERVIA nell'area di TRANSIZIONE TRA PIGNA E CASTELVITTORIO una CHIESA STORICA come quella dell' ASSUNTA era anche detta di NOSTRA SIGNORA DEL NOGARETO dalle piantagioni, spontanee e non di noci: e non a caso l'edificio non solo pare -con provate motivazioni- una riedificazione ad opera dei BENEDETTINI di un EDIFICIO ROMANO PUBBLICO E/O IEMPLARE ma risulta eretta al centro di un più esteso complesso al cui CENTRO stava comunque la FONTE TERMALE DI "LAGO PIGO" che a sua volta, nel contesto di un più esteso programma religioso di ascendenza preromana, sembrerebbe rimanda a qualche espressione religiosa tipica del BOSCO SACRO).
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Questa idea di antichità per il SANTUARIO DI N.S. DELLA ROVERE ha peraltro trovata una corrispondenza in un'INVESTIGAZIONE ARCHEOLOGICA che ha messo in evidenza dei resti murari romani che hanno fatto pensare che in questo sito, mentre ROMA, tra I sec. a.C. e I d.C, andava organizzando il suo IMPERO, si sia evoluta la STAZIONE STRADALE (MANSIO) DEL lucus bormani.
La poliedricità dei ritrovamenti e delle osservazioni archeologiche (e non si dimentichi quanto era stato trovato tra due altre chiese a DIANO MARINA) più che di localizzare con esattezza la sede della stazione romana (preposta dapprima qual punto di riferimento per le TRUPPE ma diventata in seguito piuttosto un vero e proprio centro di ricovero e smistamento per i TRAFFICI del MERCATO APERTO "MONDIALE" DELL'IMPERO) induce a credere che, come -pur tra alcuni interrogativi- avvenne per la STAZIONE STRADALE DI COSTA BELENI/BALENAE nel territorio tra TAGGIA e S.LORENZO- anche in quest'area [di importanti relazioni viarie (e non si dimentichino le molteplici possiblità dalle VALLI DI DIANO di accedere ai tanti tragitti per il PIEMONTE, anche a quelli disposti per la VALLE DI ONEGLIA o quelli ancora che, mettendo in comunicazione il dianese coll'AGRO ORIENTALE DELL'ARROSCIA e quindi coll'importante area viaria dell'ARROSCIA ORIENTALE, difatto, tramite il COL DI NAVA aprivano ai commercianti dal mare infinite operazioni sui mercati "piemontesi").
L'arricchimento fu una costante per zone con queste tipologie: una buona borghesia imprenditoriale vi prese piede e residenza, spesso trasferendosi qui da zone molto lontane.
Alla luce di queste riflessioni e per linea comparativa con quanto verificatosi per altri siti non si può escludere l'ipotesi che il SANTUARIO DI NOSTRA SIGNORA DELLA ROVERE sia il risultato di un'evoluzione insediativa cristiana su un complesso sistema romano (si considerino poi i ritrovamenti presso le CHIESE DI S.NAZARIO E DI S.SIRO) inserito in un'area di tradizione religiosa ma -come accadeva nella classicità- non per questo avulso dalla vita sociale e pubblica: un parallelismo ulteriore si può fare osservando quanto nell'AREA DEI PIANI DI VALLECROSIA (e quindi di tutta la VALLE RETROSTANTE) sia accaduto in merito soprattutto alle stratificazioni edilizie e alle sovrapposizioni culturali che caratterizzarono la CHIESA DI S.ROCCO E S.VINCENZO.
A queste riflessioni si coniuga la possibilità di individuare un APPRODO nell'area del Dianese sostenibile sia in linea comparativa con la stazione marittima di Costa Balena sia in rapporto ai ritrovamenti nel MARE ANTISTANTE.


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E' un elemento di discussione la relazione storica e culturale tra SANTUARI CRISTIANI e BASI CULTUALI PAGANE ed a seconda della postazione intellettuale oltre che esistenziale e fideistica di chi interviene in questo dibattito è facile che si laggano pagine che oscillano fra gli antipodi, a volte persino tra eccessi di razionalismo (se non di cinismo sapienziale ed erudito) e manifestazioni ingistificate di agigrafia estremista e intollerante.
Non ogni spirito libero, che sarebbe troppo, ma qualsiasi mente pensante -prescindendo dall'ideologia in cui si identifica- avverte le incongruenze e i pericoli di queste antitesi.
Per riflettere sull'argomento si può emblematicamente prendere come punto di riferimento il SANTUARIO DI N.S. DELL'ACQUASANTA DI LECCHIERO, frazione di Dolcedo nella VALLE DEL PRINO e studiarlo in linea sincronica e diacronica tenendo presenti tutti gli altri santuari liguri di grotta, bosco ed acqua e specificatamente -per quanto riguarda gli importantissimi santuari delle acque- quello di NOSTRA SIGNORA DELL'ACQUA in VALBREVENNA.

A DIANO ARENTINO sorge la PARROCCHIALE DI S. MARGHERITA affiancata dall'oratorio di San Antonino.

A DIANO BORELLO la PARROCCHIALE è dedicata a S. MICHELE ARCANGELO mentre l'annesso ORATORIO, del cinquecento, è intitolato alla SANTA CROCE. La CHIESA PARROCCHIALE è a tre navate ed è di origine medievale: essa presenta un portale ad arco ogivale (con lunetta affrescata) che è datato del 1485. Nella chiesa si possono vedere il tabernacolo tardo quattrocentesco in marmo, la vasca battesimale datata secondo la tradizione fra il XII ed il XIII secolo ed ancora un polittico di S, Michele attribuito ad Antonio Brea e datato al 1516.

Ad EVIGNO è la PARROCCHIALE DI S. BERNARDO ABATE (a settentrione di questa si trova un ORATORIO intitolato alla SANTA CROCE).
La PARROCCHIALE presenta resti di colonne medievali presso la facciata: al suo interno si custodisce invece il polittico, datato del 1552, che raffigura "S. Berbnardo in trono e altri Santi" (già attribuito a Raffaele e Giulio de Rossi).
Non mancano però delle rocche o castelli, il più esemplare è il rudere della torre dei Clavesana situato sul Pizzo d'Evigno.
Testimonianza dell'architettura civile medievale è il ponte medioevale sul torrente Evigno.

In epoca Preromana la zona di DIANO ARENTINO era abitata da tribù di Liguri Ingauni dedite alla pastorizia e all'agricoltura. La presenza, a monte dell'abitato di Arentino, di un luogo denominato Castellà ha fatto riflettere sull'eventualità dell'esistenza nel luogo di un Castelliere ligure.
Dopo la lunga dominazione romana e i secoli difficile che portarono oltre l'anno 1000, verso il 1172, ARENTINO, con agli altri borghi della valle, si fuse nella COMMUNITAS DIANI , la quale permise alla zona di vivere secondo gli usi e le leggi di Diano, Arentino e Borello per quanto sia destiata a durare una certa superiorità del CASTELLO DI DIANO.
Dal '500 si verificò un certo incremento demografico: nel 1624 Arentino aveva 500 abitanti, Borello 800 ed Evigno 200. Nei secoli XI - XII ad Evigno era stata edificata la CHIESA DI S. MARTINO, a BORELLO quella intitolata a MICHELE ARCANGELO .
Ad ARENTINO, nel 1469, fu poi eretta la CHIESA DI S. MARGHERITA mentre a BORELLO quella dedicata a S. ROCCO nel 1658, edificata in adempimento al voto fatto dagli abitanti durante l'epidemia di peste del 1656 - 1657.
Il 1700, epoca di scontri fra la Repubblica di Genova e lo Stato Sabaudo, fu per la vallata caratterizzata da vari episodi guerreschi ed in particolare gli Arentinesi osarono schernire il Regio Commissario Sabaudo, che ordinava loro di consegnare alla sussistenza 600 rulli di legna spaccata, sostenendo che l'esercito piemontese non avrebbe cotto il pane con la loro legna. Con lo scoppio della Rivoluzione francese e con le prime imprese militari degli eserciti repubblicani contro le potenze dell'Antico Regime cadde la vecchia Repubblica oligarchica di Genova e nel 1797 fu istituita la Repubblica Ligure che comportò una nuova ristrutturazione del territorio ligure.
I paese delle valli di Diano furono organizzati nel "mandamento di Diano" che risultò diviso in nove comuni.
BORELLO ed ARENTINO furono poi incorporati nel 1923 nel comune di DIANO MARINA.
Solo nel 1924, con Regio Decreto, fu istituito il comune di DIANO ARENTINO che comprendeva gli abitanti di Arentino, Borello, Evigno, le parrocchie di Santa Margherita, San Michele Arcangelo, San Bernardo.
In seguito alle rappresaglie fasciste l'abitato di Diano Arentino fu dato alle fiamme e distrutto completamente.
La sua rinascita cominciò subito dopo la guerra, e il borgo si evolse nell'odierno centro caratterizzato da una crescenta fortuna turistica favorita dalle bellezze ambientali tra cui primeggia la salubrità del clima.








STELLANELLO è un comune dell'entroterra di Alassio, propriamente appartenente all'alta VALLE DEL MERULA alla cui parte bassa appartiene lo storico centro di ANDORA. Si tratta di un complesso demico polinucleare composto da vari borghi: Rossi (la sede comunale), San Damiano, San Lorenzo, Santa Maria, San Vincenzo e Villarelli.
In epoca medievale fu feudo dei marchesi Del Carretto poi, nel XIII secolo, passò ai Doria cui rimase fin a quando nel 1305 ottenne propri statuti.
Nel 1735 pervenne quindi al Regno di sardegna.
Fra i monumenti significativi si può menzionare la parrocchiale di S. Gregorio che risale al '400 mentre la chiesa di S.Vincenzo è di epoca barocca ed è caratterizzata dalla bellezza di alcuni marmi policromi.