cultura barocca
Rip. di B. Durante

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Domenico Antonio Gandolfo grande successore di Aprosio alla guida della Biblioteca Aprosiana (di cui si può qui leggere una bibliografia essenziale) fu ascritto con questo diploma dell'illustre Crescimbeni alla prestigiosa romana Accademia di Arcadia = purtroppo Girolamo Rossi nella sua Storia di Ventimiglia, dimostrando scarso interesse per la cultura barocca e poi arcadica (come del resto altri autori del suo tempo) sul Gandolfo, ancor più che sull'Aprosio, fornisce notizie fuorvianti addirittura sul nome pastorale arcadico del celebre agostiniano oltre che su altre sue mai avvenute iniziative accademiche al contrario tralasciando brani dell'Arcadia redatta dal Crescimbeni specificatamente trattanti il Gandolfo sì da rendere rende arduo approfondire la figura del secondo bibliotecario dell'Aprosiana ed aprendo la strada ad incomprensioni e svarioni di autori a lui posteriori ma fiduciosi del suo sapere, pervenendo quindi al massimo della fantasia al punto di dare per realizzata l'intemelia Accademia degli Oscuri la cui mancata erezione costituì la massima delusione del Gandolfo e per giunta giungendo a sostenere l'istituzione in Ventimiglia ad opera del Gandolfo di una Colonia d'Arcadia: e per approfondire le sue ricerche il Rossi neppure ebbe cura di analizzare come gli sarebbe stato possibile le lettere dei corrispondenti del Gandolfo ove compaiono cenni all'Arcadia del Sannazzaro , alla tradizione che ne derivò con l'Accademia romana d'Arcadia e persino, pur senza citarne l'autore, ad una "Accademia Tusculana" che rimanda ad un autore, parimenti pastore arcade e pressoché coetaneo dello stesso Gandolfo, cioè Benedetto Menzini.
In merito alle diverse opere che fiorirono sulla scia della celebre Accademia romana è da precisare che il Gandolfo data la morte non fu in grado (atteso anche il fatto che al tempo della stampa di questa opera sarebbe stato invero se ancora vivo di età estremamente avanzata) di leggere, qui digitalizzate, Le Tre Arcadie ovvero Accademie Pastorali di Messer Jacopo Sannazzaro, del canonico Benedetto Menzini, del Signor Signor Abate Michel Giuseppe Morei, in Venetia, 1746, presso Andrea Poletti od almeno se certamente lesse in uno dei tanti volumi già stampati l'Arcadia(qui digitalizzata dall'esemplare delle Tre Arcadie) del Sannazzaro di sicuro non ebbe modo di studiare l' Autunno Tiburtino del Morei molto più giovane di lui = in compenso lesse e conobbe l'Accademia Tusculana (pubblicata postuma In Roma : per Antonio de' Rossi alla piazza di Ceri, 1705) di Benedetto Menzini morto prima di lui (ma che Gandolfo conobbe e stimò al tempo del suo soggiorno in Arcadia) e che fu opera pubblicata postuma. Opera in cui già nel "Proemio" si evidenzia una delle passioni storiche di Aprosio ove l'incipit dice = "Ebbero da principio gli Uomini per città le aperte campagne, e per albergo le selve. Il rottame d'una rupe era la loro superba loggia, ed una capanna intessuta di giunchi, e di canne palustri, il loro palagio. Nulladimeno l'animo quieto, e tranquillo, e di niuna altra cosa curante, che di quel, che dava loro la Sorte, faceva a' medesimi, parere un Regno, quel che ne' tempi nostri, ad altri ben agiato delle cose el mondo, parrebbe oltraggio, d'una dispettosa fortuna. Ma la Cetra edificatrice delle muraglie di Tebe,togliendogli poi all'orrore taciturno delle boscaglie, ed in forte, e ben guardato recinto chiudendogli, , ed in magnifici abituri locandogli: non so se si facesse loro più beneficio, che danno. Perché con le delizie congiunse la fatica del mantenerle, e co' vilj officj diè luogo amplissimo alla sollecitudine, alla molestia, al travaglio. Onde è che, che molto della vita si ususurpano le cure domestiche; e molto anche le pubbliche amministrazioni di maniera che gli uomini, i quali in prima erano di se stessi, poscia appoco appoco la libertà prendendo, cominciarono ad essere in gran parte d'altrui. Ma la mente umana a quello volentieri ritorna, che da principio le piacque: appunto come il corpo, nell'avanzar dell'età, più volentieri gode, e meglio si rinfranca con quei medesimi cibi, che ne' teneri anni gli furono di gran nudrimento, e salubre. Torna, dico, l'animo alle selve e tralasciando di quando in quando le brighe cittadinesche, cerca di riscattarsi dalla servitù delle Inquietudini, nè tovare spera miglior riposo, che lì dove lo ebbe, fin quando da prima il gran Padre, e propagatore dell'umana famiglia, virò signorile lo sguardo d'intorno a questo sì mirabil teatro dell'universo. Va dalle radunanze alla solitudine; da' popolari tumulti alle romite foreste, per vivere a se stesso e quivi fabbricarsi un novello Regno di pace. Regno invero bramato da tutti, ma più da coloro, che negli studj di scienze, e di lettere, trassero per lungo tempo le loro ostinate vigilie. Nell'ameno diporto delle Ville quivi ristoransi, quivi di vigor nuovo riempionsi, per poi ritornare con lena più robusta alla faticosa incude de' loro leterarj esercizj. E qual luogo più a proposito del Tusculano ritiro? La vicinanza a Roma, l'aria salubre, le apriche colline, e quando altri il voglia, le ombrose selve, e su le spalle de' monti le annose boscaglie, non fanno elleno alla libertà ed al genio un gentilissimo invito?... " = lunga dissertazione accademica quella del Menzini che si propone come una elegante descrizione del luogo solitario ed ameno ideale per l'otium negotiosum fatto di studi e colloqui in piena serenità ed armonia che Aprosio credette di conquistarsi come autentica isola di quiete votata agli intrattenimenti culturali erigendo in Ventimiglia la sua Biblioteca ma che trovò, e non senza affanni, solo dopo che cessarono le contestazioni alimentate da alcuni suoi detrattori cosa che invece non accadde a Benedetto Menzini che celebrò il sito "Tusculano" da lui scelto come perfetto surrogato delle campagne toscane della sua fanciullezza nel quale dal Menzini denominato "Villeggiatura Tusculana" in una prima dotta conversazione funse da "Duce, e Padre di tutti noi" certo Aristeo nome pastorale del fiorentino dottore Antonmaria Salvini che invitò i presenti all'adunanza ad iniziare la propria attività letteraria non con poesie eroiche ma con liriche consone all'uso pastorale sì che con il nome pastorale di Euganio il Menzini come primo declamò la Canzone iniziante con i versi Per queste amene Ville / ond'è famoso il Tusculano suolo / Credei temprar mio duolo, / E d'Amor l'aspre addormentar faville / Ma il pampinoso onore/ Delle dilette a Bacco apriche piagge / E le care al mio genio ombre selvagge / Mal dan conforto al core, / Che non ha pace in sè













































"Benedetto Menzini (Firenze, 29 marzo 1646 – Roma, 7 settembre 1704) è stato un poeta italiano. Disagiato economicamente, fu aiutato per gli studi dal marchese Gianvincenzo Salviati. Fu professore di eloquenza a Firenze, ma non ebbe, come sperava, la cattedra nell'Università di Pisa, così nel 1685 si recò a Roma presso la regina Cristina di Svezia, che gli offrì protezione e sostegno. Attorno a questa regina si formò un circolo di poeti che dettero vita all'Accademia dell'Arcadia. Benedetto Menzini usò in Arcadia lo pseudonimo di Euganio Libade. Dopo la morte della regina, il Menzini si ritrovò nell'indigenza, fino a che non ebbe l'aiuto del cardinale Gianfrancesco Albani, che lo collocò tra i familiari di Innocenzo XI, gli dette un canonicato e l'incarico di coadiutore alla cattedra di eloquenza alla Sapienza di Roma. Molte sue opere furono scritte quando era sotto la protezione della regina di Svezia: le Poesie liriche; tre libri di un poema epico dal titolo Paradiso terrestre; un'imitazione dell'Arcadia di Jacopo Sannazzaro intitolata Accademia Tusculana; Poetica e Satire in terza rima.["testo tratto da Wikipedia"]













































MOREI, Michele Giuseppe saggio di i Marco Catucci in "Dizionario Biografico degli Italiani" - Volume 76 (2012)
"MOREI, Michele Giuseppe. – Nacque a Firenze, probabilmente nel 1695, da Antonio, funzionario al servizio del cardinale Francesco Maria de’ Medici (e amico di Giovan Battista Fagioli), e da Anna Hebb. Da fanciullo, quando abitava «dell’Arno alla sinistra parte» (Poesie, Roma 1745, p. 257), la madre lo intratteneva narrandogli le storie degli eroi della Bibbia, che diventeranno poi oggetto delle sue composizioni poetiche di carattere religioso per la festività dell’Arcadia. Presto si trasferì a Roma e frequentò il convitto del Seminario romano, dove, giovanissimo, si segnalò recitando nella classe di retorica le sue prime poesie in latino. Cinque elegie di argomento religioso o encomiastico (sulla brevità della vita, sul sogno della Croce, sul Cristo crocefisso, sul cardinale Pietro Ottoboni e sul principe Ferdinando de’ Medici) e un lungo carme su Gedeone vittorioso dei Madianiti sono trascritti in un quadernetto alla Biblioteca Angelica di Roma (Arcadia, 36, cc. 202r-214r). Una nota apposta da una mano settecentesca, datando i componimenti tra il 1708 e il 1709 all’età di quindici e sedici anni, anticiperebbe la nascita di Morei al 1693. Nel 1711, già beneficiario del canonicato della basilica di S. Maria Maggiore, entrò in Arcadia col nome di Mireo Rofeatico (Roma, Biblioteca dell’Arcadia, Catalogo de’ Pastori Arcadi, Crescimbeni, reg. II, n. 1212), recitando nel Bosco Parrasio il Sognum (Carmina, Roma 1762, pp. 5-10) e altri versi in latino e italiano. Pochi anni più tardi Giovanfrancesco Crescimbeni inserì alcune sue composizioni fra le Rime degli Arcadi (tomi II, VII, VIII, Roma 1716-20). Eletto fra i XII Colleghi d’Arcadia, fu tra i compilatori delle Notizie istoriche degli Arcadi morti. Sue sono le vite di Filippo Corsini, Benedetto Menzini, Vincenzo Filicaia, Filippo Acciaiuoli e del cardinale Francesco Maria Corsini (I, Roma 1720); seguirono quelle del cardinale Filippo Nuzzi (II, ibid. 1720), di Giuseppe Domenico De Totis, di Giovanni Enriquez, del principe Filippo Maurizio di Baviera e di Pietro Paolo Paluzzi (III, ibid. 1721).
Ebbe un ruolo determinante nella complessa architettura della Festa poetica celebrata nel palazzo della Cancelleria del cardinale Pietro Ottoboni il 4 gennaio 1722. Una sua Elegia, nella quale egli stesso interpretò uno degli interlocutori, fece da cornice a una sinfonia di Giovanni Battista Costanzi e a una Cantata dello stesso Morei, a sua volta divisa in tre parti per introdurre prose accademiche e componimenti di altri arcadi (Rime degli Arcadi, IX, Roma 1722, pp. 261-293). A questo primo incontro con la musica seguì Il Sacrificio di Jefte, oratorio a due voci musicato da Domenico Sarro, rappresentato al Seminario romano il 1° marzo 1726. L’anno successivo, per l’istruzione del giovane Pier Luigi Strozzi, Morei compose il Ragionamento intorno all’Eneida di Virgilio, dettato in cinque giorni al compastore Niccolò Antonelli e pubblicato solo due anni dopo (Roma 1729) per ricordare l’allievo prematuramente scomparso. A Strozzi aveva precedentemente dedicato un’epistola latina in versi sull’educazione, incentrata sulla virtù della carità e sull’esercizio prudente della ragione per favorire una lettura critica degli autori antichi. Per gli allievi del Seminario romano, in occasione del carnevale del 1728, si cimentò nella scrittura di una tragedia in endecasillabi sciolti, Il Temistocle (Roma 1729), con sole parti maschili. Stampato a Roma da Antonio De Rossi e dedicato al cardinale Filippo Ludovico Sintzendorf, che in gioventù era stato compagno di collegio di Morei, Il Temistocle è ispirato a un aneddoto tratto dai Detti e fatti memorabili di Valerio Massimo (V, 6, ext. 3), e riprende il tema sacrificale già presente nell’Oratorio musicato da Domenico Sarro. Il condottiero ateniese, che per l’invidia dei concittadini era stato costretto a rifugiarsi tra i Persiani, per non combattere contro la patria si avvelena bevendo una coppa di sangue del toro da lui offerto in sacrificio. Nel 1740 uscì la prima edizione dei Carmina, dedicato a Federico Cristiano re di Polonia e principe elettore di Sassonia, che raccoglieva la già cospicua produzione poetica in latino di Morei, e due anni dopo la traduzione in ottava rima del Rapimento di Proserpina di Claudiano (Roma 1743). Su invito di monsignor Giuseppe Ercolani, Morei ne aveva completato la versione lasciata interrotta al secondo libro da Florido Tartarini, traducendo interamente il terzo libro e aggiungendo una conclusione originale (III, ott. LXVIII-LXXVIII) al poema latino incompiuto. Dello stesso anno è anche l’opera più nota di Morei, l’Autunno tiburtino di Mireo pastore arcade (Roma 1743). Alternando i versi alla prosa, ispirandosi nella struttura all’Arcadia di Iacopo Sannazaro e all’Accademia Tuscolana di Benedetto Menzini, Morei, divenuto frattanto procustode d’Arcadia, rievoca con serena e pacata malinconia le riunioni arcadiche nella villeggiatura di Tivoli nell’autunno successivo alla morte di Giovanfrancesco Crescimbeni. Celebrando fin dalle prime pagine il mito della Repubblica letteraria realizzato in Arcadia dal primo custode, Morei finì col presentarsi come il candidato più adatto alla guida dell’Accademia alla morte di Francesco Lorenzini. Fu infatti eletto custode generale alla fine del 1743, alla seconda votazione, usufruendo di un’ampia maggioranza. A un anno dall’elezione espose l’indirizzo del suo custodiato in un discorso al Bosco Parrasio, valendosi di un’immaginosa allegoria (che può ricordare la visione di Pier Jacopo Martello nel Commentario anteposto al suo Canzoniere). In sogno, nei Campi Elisi, appaiono a Morei i due primi custodi d’Arcadia, Crescimbeni e Lorenzini, e quindi i loro rispettivi sostenitori, Benedetto Menzini e Alessandro Guidi. A proporre una sintesi dialettica fra le opposte poetiche dei due custodi, «semplicità» (Crescimbeni) e «magnificenza» (Lorenzini), si adopera Martello, trasparente portavoce di Morei, sostenendo «che insieme possono stare la Semplicità del pensare colla Magnificenza dell’esprimersi; l’attenzione del ben comporre colla volgar favella, collo studio indefesso degli Antichi Latini Autori, e la Concordia nel mantenere l’unione in genere di questo gran Corpo coll’Emulazione in specie degli Ingegni più atti, e più fervidi» (Prose, Roma 1752, pp. 141 s.). Questa linea di condotta guidò costantemente Morei nel suo lungo custodiato, che in buona parte coincise con il pontificato di Benedetto XIV, al quale dedicò le Rime degli Arcadi sulla natività del Signore (Roma 1744), importante raccolta di componimenti recitati per la festa d’Arcadia nello spazio di mezzo secolo. A cinque anni dalla pubblicazione dei propri Carmina, Morei propose la prima edizione delle Poesie (Roma 1745), un canzoniere sacro, morale ed eroico che raccoglie i versi italiani composti a partire dal suo ingresso in Arcadia. Nel 1751 pubblicò la biografia del Crescimbeni nel volume V delle Vite degli Arcadi (suo sarebbe anche l’Elogio pubblicato nella Nuova raccolta d’opuscoli scientifici e filologici di Angelo Calogerà, XVII, Venezia 1768). La successiva raccolta delle Prose (Roma 1752) testimonia la vivace partecipazione alla vita culturale romana e la presenza anche in altre istituzioni accademiche, tra le altre gli Infecondi e i Quiriti, e anticipa la ripresa della pubblicazione delle Prose degli Arcadi (IV, Roma 1754). Nel recensire con gran favore le Prose, le Novelle della Repubblica letteraria ricordano in particolare quelle composte nel 1751, recitate nell’Accademia dei Quiriti e pochi giorni dopo nell’Arcadia, nelle quali Morei sosteneva vigorosamente pareri opposti sullo stesso argomento: «dove facendosi un lepido parallelo tra le virtù e l’eroismo de’ Greci e de’ Romani, in un Congresso ov’erano presenti 13 Eminentissimi Cardinali il Sig. Ab. Morei provò, che a Roma si dovea in tutto la preferenza sopra la Grecia, e nell’altro posteriormente tenuto nel Bosco Parrasio […] diè a vedere, che sì nelle Lettere, come nella gloria dell’Arme, gl’Eroi Greci vanno del pari co’ Romani» (Novelle della Repubblica letteraria, 6 gennaio 1753, p. 6).
Sotto l’attenta direzione di Morei l’attività editoriale arcadica riprese il livello del custodiato di Crescimbeni, a fronte della relativa scarsità di produzione libraria che caratterizzò il quindicennio di Lorenzini. Tra le edizioni, tutte romane, promosse da Morei, sono da ricordare: Componimenti nella morte del custode Filacida (1744); Adunanza per la recuperata salute del re di Portogallo Giovanni V (1744); Rime degli arcadi sulla Natività del Signore: festa tutelare d’Arcadia (1744); Rime degli arcadi, X (1747); Rime per l’acclamazione a p.a. di Carlo III (1748); Rime degli arcadi, XI (1749); Vite degli arcadi, V (1751), Adunanza tenuta dagli arcadi per la morte del Fedelissimo Re del Portogallo Giovanni V (1751); Componimenti poetici su la nascita del primogenito del principe reale di Polonia, ed elettorale di Sassonia (1751), Adunanza tenuta dagli Arcadi per la nascita dell’a.r. del principe di Piemonte (1752); Adunanza tenuta dagli arcadi in onore dei fondatori d’Arcadia aggiuntavi una lettera intorno a i luoghi, ove le arcadiche adunanze si sono fin’ora tenute (1753); Giochi olimpici per gli arcadi illustri defunti (1753); Adunanza per l’innalzamento in Arcadia del ritratto del re Stanislao di Polonia (1753); Prose, IV (1754); Adunanza per l’acclamazione del principe Clemente Francesco di Baviera (1755); Arcadum carmina pars altera (1756), ristampa della Pars prior (1757); Pro restituta valetudine Benedicto XIV p.m. Arcadum carmina (1757); Adunanza degli arcadi pubblicata nelle nozze di D. Giacinta Orsini, fra gli Arcadi Euridice (1757); Adunanza per l’esaltazione di n.s. Clemente XIII felicemente regnante (1758); Rime degli arcadi, XII (1759), Rime degli Arcadi in onore della Gran Madre di Dio (1760); Memorie istoriche dell’adunanza degli arcadi (1761); Adunanza per l’elezione della s.r.m. di Giuseppe II re dei Romani (1764). A queste edizioni vanno aggiunti i volumi per le accademie del disegno tenute in Campidoglio negli anni 1750, 1754, 1758, 1762 e 1764, che ospitano i componimenti poetici degli arcadi. La rapida ripresa della circolazione della poetica arcadica grazie alla diffusione editoriale al di fuori di Roma, con un’attenzione privilegiata da parte della bolognese Colonia Renia (una Scelta di Prose degli arcadi apparve a Bologna nel 1753) e dei recensori delle veneziane Novelle della Repubblica letteraria, destò anche qualche resistenza e rifiuto. Già nelle Lettere virgiliane (Venezia 1758) Saverio Bettinelli si era scagliato contro l’Arcadia e anche sull’uso ancora vivo di comporre versi in latino, ma la reazione antiarcadica più violenta e intransigente si ebbe con l’impietosa e tardiva stroncatura, nella Frusta letteraria di Giuseppe Baretti, di una delle ultime opere di Morei, le Memorie istoriche dell’adunanza degli arcadi (Roma 1761). Dopo una lunga malattia, conseguenza di una caduta fatta su ponte Sisto, urtato dalla cesta di un cavallo, Morei cessò di vivere il 1° gennaio 1766. Fu sepolto nella chiesa romana di S. Eustachio, sua parrocchia. Filippo Maria Renazzi, che lo conobbe in gioventù, ne ricordò la conversazione piacevolissima, «perché oltre la varia, e amena erudizione, di cui l’Abbate Morei abbondava, esso riguardarsi poteva come una Cronica vivente, conoscendo tutte le persone di qualche entità, e sapendo i loro aneddoti, e narrando le storielle curiose del Paese», e l’abilità diplomatica nel dirigere per tanti anni l’Accademia, riuscendo «a conciliarsi e mantenersi l’affezione di tanti poeti, per lo più schiribizzosi, e quasi sempre inquieti» (p. 352). Un’elegia composta in memoria di Morei dall’abate Raimondo Cunich fu pubblicata nei Carmina recentiorum poetarum, Cremona 1772. Opere: Roma, Biblioteca Angelica, Arch. Accad. Arcadia, Mss., 12, cc. 310r, 349r, 367v, 472r (sonetti); 13, cc. 56r, 73r, 85r, 86r, 89r, 253r-254v, 449r, 452r (poesie diverse); 18, cc. 130r-131v (biglietto di Morei a Crescimbeni); 36, cc. 202r-214r (sei poesie giovanili in latino); 37, c. 57r (un sonetto); 40, c. 269r (un sonetto a stampa); Epistola di Michele Giuseppe Morei… volgarizzata da Domenico Vaccolini. Sugli studi e costumi convenevoli a nobil giovine, in Giornale arcadico di scienze lettere ed arti, LXIV (1834-35), pp. 118-126; Le tre arcadie ovvero accademia pastorale di messer Jacopo Sanazzaro, del canonico Benedetto Menzini, del signor abate Michele Giuseppe Morei, Venezia 1756, pp. 271-430 (II ed., ibid. 1756)."













































Jacopo Sannazaro, talvolta Iacobo Sannazzaro (Napoli, 28 luglio 1457[1] – Napoli, 6 agosto 1530), è stato un poeta e umanista italiano. Fu autore prolifico di opere in lingua latina e in volgare. È noto soprattutto come autore dell'Arcadia, un prosimetro di ambientazione pastorale che fu destinato a secolare fortuna in Europa e dal quale prese nome anche l'omonima accademia costituitasi a Roma nel 1690.
L'Arcadia è un prosimetro (componimento misto di prosa e di poesia) di ambientazione pastorale, composto da 12 prose intervallate 12 ecloghe, preceduto da un congedo intitolato Alla sampogna. L'opera ha un posto di rilievo nella storia della prosa e della poesia europee e può essere considerata un vero e proprio boom editoriale dell'epoca e un classico letterario nei secoli successivi. L'opera venne componendosi nel lungo arco di tempo di circa 20 anni, storia ancora molto incerta e controversa nella sua ricostruzione. Sembra che intorno al 1480, il poeta compose alcune ecloghe di ambientazione pastorale (le attuali I, II, VI), e solo dopo decise di fonderle assieme, continuarle, e costruire una storia. Forse al 1475-85 risale la prima redazione del testo (di cui sono rimasti alcuni manoscritti), costituita solo da quelle che oggi sono le prime 10 parti dell'opera. Il poeta tuttavia la accantonò e vi ritornò sopra successivamente più di dieci anni dopo, forse intorno al 1490 o al 1496; vi aggiunse le ultime due parti, il congedo Alla sampogna, e ne rivide profondamente la veste linguistica orientandola in senso più toscano ed omogeneo e sfumando i dialettismi e i latinismi crudi (la cosiddetta seconda stesura, di cui non sono rimasti manoscritti). L'opera circolò lungamente manoscritta e finalmente vide la luce a Napoli nel 1504 per le stampe di Sigismondo Mayr a cura di Pietro Summonte (per questo detta edizione summontina), ma ad insaputa dell'autore, allora esule in Francia. Come specificato dal Summonte nella dedica al cardinale d'Aragona, il manoscritto gli era stato dato dal fratello stesso del poeta, rimasto a Napoli, e la sua edizione ha lo scopo di emendare le precedenti edizioni, tutte scorrettissime, cioè una del 1501 ed una veneziana del 1502 (di cui però a noi oggi non rimane traccia). L'intera tradizione editoriale dell'Arcadia discende, quindi, dall'edizione summontina. Al suo ritorno dalla Francia, tuttavia, il poeta, intento alla composizione del De partu Virginis, non si curò affatto di approntare un'edizione diversa o magari corretta da lui e abbandonò l'opera al suo destino. Il quale fu fortunatissimo e fece rapidamente dell'Arcadia uno dei testi più letti e stampati di sempre. Nel 1514 anche il celebre editore veneziano Aldo Manuzio ne diede ai torchi una edizione, che è, oltre agli Asolani di Pietro Bembo, l'unico altro testo contemporaneo stampato dal Manuzio.
L'opera ha un impianto molto semplice ed eminentemente statico e lirico più che narrativo in senso stretto. La storia dura 6 giorni, dal 20 al 25 aprile (le feste di Pale). Il protagonista è lo stesso Sannazaro che, sotto il nome del pastore Sincero, narra in prima persona la propria vita in Arcadia, una regione impervia della Grecia dove, come volevano le fonti classiche, i pastori vivevano felici e non facevano altro che pascolare animali e cantare inni con zufoli e zampogne. Leggendo, tuttavia, si scopre che Sincero non è arcade ma un napoletano rifugiato in Arcadia tra i pastori, il quale, al termine della storia, dopo un brutto sogno, viene guidato da una ninfa in una caverna sotterranea e rispunta a Napoli dove apprende la morte della donna amata. Qui si conclude la storia. Questa esile vicenda è contornata da moltissimi episodi e personaggi secondari (molti dei quali reali, anche se trasfigurati col nome pastorale), da lunghissime descrizioni di bellezze naturalistiche, di opere d'arte (il vaso del Mantegna, ad esempio, nella prosa XI; o le porte del tempio di Pale in quella VIII), da canti d'amore e diatribe amorose tra i vari pastori, giochi funebri (nella prosa XI) etc.... L'opera può dividersi sostanzialmente in 5 blocchi: il primo è il Prologo; il secondo comprende le prose I-VI (e le rispettive ecloghe, tre delle quali sono le più antiche) e fornisce l'inquadramento generale; il terzo comprende la sola prosa VII, che narra la vicenda di Sincero e funge da cerniera tra la prima e la seconda parte; il quarto comprende le restanti prose VIII-XII, dove la storia si conclude, col sogno e il ritorno a Napoli; l'ultimo è il congedo Alla sampogna. Il testo è preceduto ovviamente dalla dedica del Summonte, citata in precedenza. L'opera è continuamente pervasa da un ricorrente malinconia (tipica del poeta anche nelle Rime) e da presagi di morte, nel segno dei quali si conclude il testo, con la visione nel sogno dell'arancio abbattuto (la discesa di Carlo VIII di Francia a Napoli) e la morte della donna amata e il doloroso ritorno alla realtà. In quest'opera il Sannazaro fa della terra di Arcadia (come gli autori classici prima di lui) una rigogliosa terra felice, fatta di schermaglie amorose e di squarci campestri, innocente, pura, venendo a creare un vero e proprio luogo comune dell'immaginario occidentale: ancora oggi il senso della parola arcadico include la sfumatura della sua ''trasfigurazione letteraria ... idilliaco e bucolico'' (dizionario Treccani). Da qui anche il nome dato nel 1690 all'Accademia dell'Arcadia fondata a Roma, che viveva trasfigurata, appunto, in un mondo campestre fatto di ingenuità e di semplicità naif, amante del mito della cultura Greca delle origini.