cultura barocca

CREDITI 4

Il patrizio napoletano ANTONIO MUSCETTOLA <1628-1679>, amico di Aprosio fu attivo poligrafo, che editò molte opere di cui, immediatamente qui di seguito si propone l'elenco, tuttavia altri suoi lavori rimasero inediti e manoscritti o difficilmente individuabili in quanto pubblicati sotto pseudonimo: alcuni hanno seguito i percorsi spesso tortuosi dell'antiquariato come questo POEMA AL FEMMINILE = LA GRISELDA che per certi aspetti lubrichi e l'eccessiva parentela con alcuni argomenti sboccati, tipici della preziosissima CELESTINA DI "F. DE ROIAS" tanto cara all'Aprosio ma guardata con sospetto dall'Inquisizione, fu destinato a non esser mai stampato cioè non ottenere l'IMPRIMATUR
Opere pubblicate del Muscettola:
Muscettola, Antonio<1628-1679>, Prose di d. Antonio Muscettola, dedicate all'eminentiss. e reuerendiss. sig. cardinale Decio Azzolino, Piacenza: Bazachi, Giovanni <2.>, 1665
Muscettola, Antonio<1628-1679>, Epistole familiari. Poesie di d. Antonio Muscettola ..., In Napoli: Bulifon, Antonio, 1678
Muscettola, Antonio<1628-1679>, Delle poesie di D. Antonio Muscettola dedicata alla Cattolica Maesta di D. Marianna D'Austria Reina delle Spagne, & c., In Venetia: Conzatti, Zaccaria, 1669
Muscettola, Antonio <1628-1679>, Il gabinetto delle muse di d. Antonio Muscettola dedicato all'eminentiss.mo e reuerendiss.mo signore d. Carlo cardinal Carafa, In Venetia, 1669
Muscettola, Antonio <1628-1679>, La Belisa tragedia di d. Antonio Muscettola, dedicata all'altezza reale di Carlo Emmanuele 2. ... Con le annotationi di Oldauro Scioppio, In Louano, 1664
Muscettola, Antonio <1628-1679>, Le bellezze della Belisa tragedia dell'illustriss. sig. d. Antonio Muscettola. Abbozzate da Oldauro Scioppio..., In Louano, 1664
Muscettola, Antonio <1628-1679>, Rosminda. Fauola drammatica di d. Antonio Muscettola, In Napoli: Cavallo eredi, 1659
Muscettola, Antonio <1628-1679>, Poesie di d. Antonio Muscettola..., In Napoli: Cavallo eredi, 1659
La ristampa cui allude l'Aprosio (Delle poesie di Antonio Muscettola. Parte prima [-seconda] In questa nuova impressione accresciute, In Venetia : per il Baba, 1661-1669 2 v. : ill. ; 12°) al momento delle nostre investigazioni si è individuata solo alla
C.B.A
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Dentice, Francesco , Delle poesie del signor D. Francesco Dentice patrizio napolitano caualiere dell'Ordine di San Giacomo. Dirette a varij soggetti di nobilta, e di lettere. Parte prima, In Nap.: Paci, Giovanni Francesco, 1667
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Teodoro, Giovanni Battista , Poesie del caualier F. Gio. Battista Theodoro, dedicate all'illustrissimo ... Filippo Gaetano prencipe di Caserta, duca di Sermoneta..., In Napoli: Passaro, Giacinto, 1679
Teodoro, Giovanni Battista , Poesie del caualier F. Gio. Battista Theodoro. Dedicate all'altezza serenissima di Ranuccio 2. Farnese duca di Parma, e di Piacenza, In Napoli & in Bologna ad instanza di Gioseffo Longhi: Longhi, Giuseppe <1.>Ferroni, Giovanni Battista, 1668
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Boselli, Girolamo, La corte accademica diuisa in prencipi, cavalieri, e dame, ecclesiastici, e ministri, trattenimenti di genio trascorsi in giouinezza dal conte Girolamo Boselli, In Bologna: Monti, Giacomo, 1665
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Piccinardi, Giovanni Luigi , Discorsi accademici di Gio. Luigi Piccinardi..., Venetia, 1672
Piccinardi, Giovanni Luigi , A' monarchi dell'Europa cattolica nell'apparizione della cometa. Ode consecrata all'ill.mo ... Stanislao Witwicki vescovo di Kiovia / [Gio. Luigi Piccinardi], Regiomonti: Reusner, Friedrich
Piccinardi, Giovanni Luigi , Poesie di Gio. Luigi Piccinardi. Parte prima (terza), Venetia: Combi & La Nou, 1672-1673
Piccinardi, Giovanni Luigi , Il pennello lagrimato orazione funebre del signor Gio. Luigi Picinardi ... in morte della signora Elisabetta Sirani pittrice famosissima, In Bologna: Monti, Giacomo, 1665
Tributi del Reno al mar euangelico in occasione, che il padre maestro Fulgenzio Arminio ... predicaua in S. Petronio di Bologna l'anno 1666..., In Bologna per gli hh. di Euangel. Dozza: Dozza, Evangelista <1.> eredi
L' innocenza destinata a chiostri nel monacarsi del Monastero nobilissimo di S.ta Agnese l'illustrissima signora Innocenza Maria Grati col nome di suor Maria Innocenza Grati col nome di suor Maria Innocenza Destinata. .., In Bologna: Pisarri, Antonio, 1666
Piccinardi, Giovanni Luigi , Iridis poeticae Io. Aloysij Picinardi heroicus color. Ad eminentiss. atque reuerendiss. Boninae archiepiscopum principem Hieronymum Boncompafnum S.R.E, Boniniae: Ferroni, Giovanni Battista, 1665
Piccinardi, Giovanni Luigi , La rosa di S. Maria Limana religiosa di s. Domenico nel Peru. Oda di Gio. Luigi Piccinardi..., In Roma: Tinassi, Nicolo Angelo, 1668
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Tura, Nicolo Antonio, Degli aborti poetici di Nicolo Antonio Tura, In Venetia: Catani, Giovanni Battista, 1669
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Cappone, Francesco Antonio , Delle seconde liriche parafrasi di D. Francesco Antonio Cappone, Accademico Ozioso sopra l'Ode contenute ne' quattro libri, e ne gli Epodi di Q. Orazio Flacco. Parte prima. .., In Venetia: Conzatti, Zaccaria, 1675
Cappone, Francesco Antonio , Poesie liriche, Napoli, 1643
Cappone, Francesco Antonio , Poesie liriche ... dedicate all'Illustriss. Eccell. Signor. D. Francesco Carafa ..., In Napoli, 1663
Cappone, Francesco Antonio , Liriche parafrasi di d. Francesco Antonio Cappone accademico ozioso. Sopra tutte l'ode d'Anacreonte, e sopra alcune altre poesie di diuersi lirici poeti greci. Secondo la proposta version latina de' lor piu celebri traduttori, Venetia: Conzatti, Zaccaria, 1670
Cappone, Francesco Antonio , Poesie liriche di d. Francesco Antonio Cappone Accademico Ozioso. Ristampate con aggiunta d'altri suoi componimenti. Dedicate all'illustriss. et eccell. signor d. Francesco Antonio Cappone Accademico Ozioso. Ristampate con aggiunta d'altri suoi componimenti. Dedicate all'illustriss. et eccell. signor d. Francesco Carafa prencipe di Beluedere .., In Venetia: Conzatti, Zaccaria, 1675
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Bonomi, Giovanni Francesco <1626-1705>, Inuettiua contro gl'irriuerenti alle chiese hauuta dal molto R.P.D. Idelfonso Manara barnabita, gia teologo dell'eminentissimo sig. cardinal Delfino, nel duomo di Bologna l'anno 1688 / Giouan Francesco Bonomi], In Bologna: Recaldini, Bartolomeo & Borzaghi, Giulio, 1688
Bonomi, Giovanni Francesco <1626-1705>, Kypridos theoresis, seu Veneris speculatio, in centum emblematica amoris hieroglyphica, per sex allegorias non inconsone distributa.. / Io. Franciscus Bonomius], Bononiae: Dozza eredi
Bonomi, Giovanni Francesco <1626-1705>, Clementis anni diales lineae d. Io: Francisci Bonomij viri clarissimi. Latinitate donauit Federicus Nomius..., In Perugia
Bonomi, Giovanni Francesco <1626-1705>, La manna eucaristica ossequiata in pochi versi da Giouanfrancesco Bonomi a tempo, che la parrocchiale de' SS. Fabiano, e Sebastiano celebraua la general processione del corpo di Giesu Cristo- In Bologna: Barbieri, Domenico eredi
Bonomi, Giovanni Francesco <1626-1705>, Del parto dell'orsa idee in embrione di Giouanfrancesco Bonomi bolognese. Parte prima [- seconda]..., In Bologna: Dozza, Evangelista <1.> eredi, 1667
Bonomi, Giovanni Francesco <1626-1705>, Io. Francisci Bonomij Bononiensis Democritus, siue morales risus in quinque aphorismorum centurias editi. Ad illustrissimum, ... Bononiae Senatum, Bononi 1q: Barbieri, Domenico eredi, 1663
Bonomi, Giovanni Francesco <1626-1705>, Io. Francisci Bonomij Bononiensis Chiron Achillis, siue nauarchus humanae vitae, morali emblemate geminato ad felicitatis portum perducens..., Bononiae: Dozza, Evangelista <1.> eredi, 1661
Bonomi, Giovanni Francesco <1626-1705>, Epistolarum pluriumque venustarum miscellanea. Ad illustrissimum D.Co. Hyeronymum Gratianum..., Bononiae: Barbieri erede, 1663
Bonomi, Giovanni Francesco <1626-1705>, Nel felicissimo dottorato in leggi dell'illustriss. sig. conte Andrea Bentivogli, ... ode di Gio. Francesco Bonomi, In Bologna: Dozza eredi, 1655
Bonomi, Giovanni Francesco <1626-1705>, Io. Francisci Bonomij Bononiensis Heraclitus, siue morales fletus. Ad Iosephum Baptistam, Bononiae: Dozza eredi, 1662
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Pisani, Baldassarre, Poesie liriche di Baldassarre Pisani, Venetia, 1676
Pisani, Baldassarre, L' armonie feriali, poesie liriche del signor Baldassarre Pisani dedicate all'illustriss. & eccellentiss. signore d. Orazio Mottula..., In Napoli, 1695
Pisani, Baldassarre, Riuoli di Elicona, Diuertimenti Poetici di Baldassarre Pisani, Disinti in Sonetti, Canzoni, Madrigali, ed Epistole Eroiche..., In Napoli: Mosca, Felice, 1727
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Crasso, Lorenzo: Letterato (Napoli1623 - dopo il 1680).
Ammiratore del Marino, che imitò nelle Epistole eroiche (1655) ispirate alle Heroides ovidiane, scrisse gli Elogi d'uomini letterati (1656), opera di valore documentario. Nuove profonde indagini sul personaggio che fu barone di Pianura. si devono a Caterina Serra nel suo Contributo alla conoscenza di un letterato del Seicento napoletano: Lorenzo Crasso, in "La Nuova Ricerca", Anno 2000-2001 - N° 9-10, pp. 127-156.
Stando al SBN nelle biblioteche italiane sono reperibili le seguenti sue opere:
Crasso, Lorenzo,
Elogii d'huomini letterati scritti da Lorenzo Crasso ..., In Venezia: Combi, Sebastiano & La Nou, Giovanni, 1666
Crasso, Lorenzo, Poesie di Lorenzo Crasso in questa terza impressione corrette, & accresciute..., Venetia: Conzatti, Zaccaria, 1668
Crasso, Lorenzo, Istoria de' poeti greci e di que' che'n greca lingua han poetato. Scritta da Lorenzo Crasso barone di Pianura, In Napoli: Bulifon, Antonio, 1678
Crasso, Lorenzo, Declamazioni di Lorenzo Crasso con la vita di S. Rocco, In Venetia, 1666
Crasso, Lorenzo, Vita di S. Rocco scritta da Lorenzo Crasso, In Venetia, 1666
Crasso, Lorenzo, Elogii di capitani illustri scritti da Lorenzo Crasso napoletano barone di Pianura, Venezia: Combi, Sebastiano & La Nou, Giovanni, 1683
Crasso, Lorenzo, Istoria de' poeti greci e di que' che' in greca lingua han poetato. Scritta da Lorenzo Crasso ..., In Napoli: Bulifon, Antonio, 1678
Crasso, Lorenzo, Epistole heroiche poesie di Lorenzo Crasso napoletano. Nouamente ristampate, e ricorrette. Con le Annotazioni di Paolo Genari da Scio, Venetia: Combi & La Nou, 1678
Crasso, Lorenzo, Epistole heroiche. Poesie de Lorenzo Crasso napoletano. Nouellamente ristampate & corrette. Con le Annotazioni di Paolo Genari da Scio ad alcune di esse, Venetia: Combi & La Nou, 1667
Crasso, Lorenzo, Poesie di Lorenzo Crasso barone di Pianura, Venezia, 1683
Crasso, Lorenzo, Declamationi di Lorenzo Crasso con la vita di S. Rocco di nuouo ristampata, In Napoli: Di Fusco, Luca Antonio, 1661
Crasso, Lorenzo, Epistola heroiche poesie di Lorenzo Crasso nap.o, Baba
Crasso, Lorenzo, *Pistole eroiche. Poesie : nouamente ristampate e ricorrette / Lorenzo Crasso Napoletano, Venezia, 1720


Savio, Giovanni [fl. 1601>], Apologia di Gio. Sauio venetiano, D. in difesa del Pastor fido, tragicomedia pastorale del molto illust. sig. caualier Battista Guarino, dalle oppositioni fattegli da gl'eccell. sig. Faustino Summo, Gio. Pietro Malacreti, & Angelo Ingegnero..., In Venetia : presso Horatio Larducci : ad instanza de gl'Vniti di Padoua, 1601


Gioffredo, Pietro [1629-1692], Nicaea ciuitas sacris monumentis illustrata. Opus R.D. Petri Iofredi sacerdotis Niciensis, in quo, praeter antiquitatum notitiam, Niciensis vrbis, dioecesis, comitatus comitatus sanctorum, & pietate illustrium, qui inibi sunt nati, mortui, aut tumulati, gesta describuntur, notationibus illustrantur; episcoporum Cemelio-Niciensium; necnon abbatum Monasterii S. Pontii successiones, aliaque ecclesiastica decora recensentur, Augustae Taurinorum: Rustis, Giovanni Giacomo, 1658
Ma l'attuale celebrità fra gli studiosi per il Gioffredo deriva dalla seguente pubblicazione:
Gioffredo, Pietro <1629-1692>, Storia delle Alpi Marittime : libri 26 / di Pietro Gioffredo, Torino : dalla Stamperia reale, 1839 [Descrizione fisica: 7 v. ; 22 cm. Comprende: 1 / Pietro Gioffredo , 2 / Pietro Gioffredo, 3 / Pietro Gioffredo, 4 / Pietro Gioffredo , 5 / Pietro Gioffredo , 6 / Pietro Gioffredo, 7: Indice / Pietro Gioffredo] .


BENEDETTO MARIOTTI: fu corrispondente epistolare di Aprosio ed erudito latinista; di lui si son rinvenute le seguenti opere:
Mariotti, Benedetto, Benedicti Mariotti Vertumnus siue Elogiastica, encomiastica, & acclamatoria institutio. In qua etiam de epitaphio, & epigraphe. Ad illustriss. & excellentiss. D. Nicola Fantonium magn. Etruriae ducis sereniss. auditorem, Pisis: Tanagli, Francesco, 1637
Mariotti, Benedetto, Miscellanea exornationum philologicarum illustriss. & reuerendiss D. Scipioni Pannocchiesco ... sacrata a Benedicto Mariotto, Pisis: Tanagli, Francesco

VALFRE' ANDREA: presso la Biblioteca Aprosiana si son trovate le seguenti opere di Andrea Valfrè il vecchio, che fu corrispondente di Aprosio e che per lo stesso compose una lirica celebrativa della Grillaia.
Eccone l'elenco:
Valfrè, Andrea, L' esempio nel Dotorato del M. illustre Signor Gioanmichel Sarraceno di Bra' de Signori di Belvedere, del Signor Andrea Valfrè .., In Torino : appresso Gio. Giacomo Rustis, 1664 16 p. ; 4°.
Valfrè, Andrea, I ricordi del vecchio zio Signor Andre Valfrè di Bra Dottor di leggi ... nella laurea legale del giovine suo nepote il Signor Andrea Valfrè In Torino, appresso Gio. Giacomo Rustis, stampatore del Sacro Collegio, 1664 8, [1] p. ; 4°.
Valfrè, Andrea , I vanti e le promesse di virtù, e di fortuna, genetliaco. per il giorno vigesimo di giugno, natale della Real Altezza di Carlo Emanuel Duca di Savoia ... del Signor Andrea Valfrè ..., In Carmagnola : appresso Bernardino Colonna 30 p. , 4°., 1645
Valfrè, Andrea, Le Gratie filatrici, genetliaco nel giorno decimo di febraro, natale della Real Madama Christiana di Francia duchessa di Savoia ... del Signor Andrea Valfrè di Bra, 1645 In Carmagnola : appresso Bernardino Colonna 16 p. ; 4°.
Valfrè, Andrea, La città favorita, panegirico nel ritorno dell'Altezza Reale del Duca Carlo Emanuel di Savoia in Piemonte à Fossano. Del Signor Andrea Valfrè di Bra In Carmagnola, appresso Bernardino Colonna, 1643 10 p. ; 4°.
Valfrè, Andrea, Il Piemonte supplicante, idilio nel ritorno di Savoia in Piemonte dell'Altezza Reale di Carlo Emanuel del Signor Andrea Valfrè di Bra, In Cuneo : appresso Christoforo Strabella, 1643 4 c. ; 4°.
Valfrè, Andrea, Il Maglio nel Dottorato del molt'illustre Signor Giacomo Antonio Magliano ... del Dottor ... Andrea Valfrè di Bra .., In Torino : per gl'heredi di Carlo Gianelli [4] c. ; 4°.
Valfrè, Andrea, Le due lauree nel dottorato de MM. Illustri Signori Gioangeorgio et Antonio Maria fratelli Boarini ... del Dottor ... Andrea Valfrè di Bra .., In Mondovì, 1666 6 p. ; 4°.
Valfrè, Andrea, La gloria nelle due lauree legale, e medica delli MM. illustri Signori ... Gioan Georgio et Antonio Maria fratelli Boarini ... del Signor D. Andrea Valfré .., In Mondovì, 1666 P. 7-21 ; 4°.


















































Richiedei, Paolo , Fiati d'Euterpe: rime di Paolo Richiedei, bresciano. Accademico vmorista..., In Venetia : presso il Sarzina, 1635
Richiedei, Paolo , Esercizij academici di Paolo Richiedei distinti in problemi morali, politici, filosofici, amorosi, & altri: proposti, e discorsi in diuerse academie , In Brescia , 1665
Richiedei, Paolo , Regola data dal p. S. Agostino alle monache: e qui per maggior loro istruzzione, e profitto spirituale, dal p. maestro F. Paolo Richiedei de' Predicatori volgarizzata, & esposta. ..., In Brescia : per li Rizzardi, 1675
Richiedei, Paolo , Regola data dal p. S. Agostino alle monache: e qui per maggior loro istruzzione, e profitto spirituale, dal p. maestro F. Paolo Richiedei de' Predicatori volgarizzata, & esposta. ..., In Brescia : per li Rizzardi, 1675
Richiedei, Paolo , Regola data dal padre s. Agostino alle monache, e qui per magggior loro istruzzione, e profitto spirituale dal p. maestro f. Paolo Richiedei de'Predicatori , & esposta. Doue con pari facilita, e breuita insieme si discorre di tutte le materie concernenti lo stato loro cosi interiore come esteriore. ..., In Brescia: Gromi, Domenico, 1687
Richiedei, Paolo , Regola data dal padre s. Agostino alle monache e qui per maggior loro istruzzione, e profitto spirituale dal p. maestro F. Paolo Richiedei de' predicatori volgarizzata, & esposta. Doue con pari facilita, e breuita insieme si discorre di tutte le materie concernenti lo stato loro cosi interiore come esteriore. Opera non men necessaria alle stesse monache, per ben incaminarsi alla perfezzione, che vtile a prelati, e confessori di esse per ben condurleui, Brescia: Rizzardi, 1687
Richiedei, Paolo , Pratica di coscienza per tutte le religiose claustrali diuisa in ventidue trattati: cioe obedienza, pouerta ... Opera del padre maestro f. Paolo Richiedei ... , In Bologna , 1710
***Richiedei, Paolo , Pratica di coscienza per tutte le religiose claustrali divisa in ventidue trattati ... aggiontavi la pratica insieme circa l'esame di coscienza ... con un trattato pure dell'autorità che tiene ogni superiora sopra le sue monache ... opera del P. Maestro F. Paolo Richiedei In Brescia, per Domenico Gromi, 1689 [4], 590, [2] p. : 1 ill. ; 4° [questa edizione del 1687 è la sola opera dottrinale del Richiedei reperita alla Biblioteca di Ventimiglia: data l'epoca della stampa (1687) ed atteso che l'Aprosio era morto già da 6 anni è peraltro plausibile che sia pervenuta alla "Libraria" ai tempi della direzione del discepolo di Angelico vale a dire Domenico Antonio Gandolfo].










































































Felini, Francesco, Apologemma iocosum in clarissimum virum Sebastianum Badum venae sectionis apparentibus variolis defensorem. ... Auctore Francisco Felino equite, et nobili Placentino, philosopho, et medico collegiato. ..., Genuae - 1664
Felini, Francesco, Risposta dimostrativa che la cioccolata rompe il digiuno del cavaliere Francesco Felini ..., In Genova: Ciarlo, Giovanni & C., 1676


Gio Stefano Donghi, che nel 1638 aveva rilevato il chiericato di mons. Mattei e nel dicembre 1642, come residente, aveva affiancato il cardinale Antonio nelle legazioni. Gio Stefano era insomma uno dei principali collaboratori dei Barberini, come confermò poi la sua nomina a plenipotenziario. Suo fratello Antonio compare più volte nella corrispondenza dei Barberini e nelle carte camerali degli anni della guerra come fornitore di armi e munizioni all’esercito pontificio (diversi pagamenti a suo favore tra il 1642 il 1644 in ASR, CPr 162, Depositeria generale, 1912-1916. Sulle ascrizioni dei Dongo alla nobiltà di Genova vedi Nicora, pp. 288-289, 293).


[GRILLO] Opera nuova piacevole, e da ridere di un Villano Lavoratore nominato Grillo il qual volle diventar Medico. Istoria bellissima in Ottava Rima, nuovamente ristampata, e di figure adornata, Lucca, Benedini, s.d. (metà '600). In-24mo (cm. 16) di pp. 48, con 10 vignette in xil.: introvabile risulta il libro citato da Aprosio per cui si rimanda alle coniderazioni fatte da Giuseppe Pitre'.


G. FASOLI - P. SELLA (a cura di), Statuti di Bologna dell'anno 1288, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1937 (Studi e testi, 73-74), I, pp. 136-37, 149.
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V. Non tenere maiali o scrofe nella città di Bologna e nei borghi.
Ordiniamo [sanciscono queste duecentesche norme di igiene degli Statuti di Bologna] che nessuno tenga scrofe con cuccioli nella città di Bologna o senza cuccioli nei borghi e per un miglio attorno alla città di Bologna. Ugualmente ordiniamo che nessuno permetta di andare per la città di Bologna né per i borghi a qualche porco, o scrofa, se non e castrato, senza anello al muso o grugno, e neppure con l'anello limitatamente al periodo compreso dal 1° maggio alla festa di san Michele [29 settembre], sotto pena e bando di 40 soldi bolognini per scrofa con cuccioli e 20 soldi per ogni altro porco o scrofa. Non sarà resa giustizia per il maiale o la scrofa uccisi o feriti a chi avrà contravvenuto a tale norma. Ugualmente stabiliamo che nessun porco o scrofa debba entrare nell'ambito della piazza del comune di Bologna o a porta Ravegnana e che il notaio del podestà verifichi tre volte la settimana, e se avrà ritrovato [dei maiali in questi luoghi] faccia condurre al palazzo comunale colui al quale il porco appartiene e condannare al pagamento di 20 soldi bolognini, e chiunque possa accusarlo o denunciarlo abbia la metà della multa. Tale provvedimento non si estende al caso in cui si tratti di un branco di porci condotti in detti luoghi da mercanti o di altri porci di singole persone che fossero ivi legati per essere venduti. Nella piazza del comune di Bologna non è concesso che qualche porco o scrofa venga e rimanga con o senza anello se non per essere venduto, sotto pena e bando di 20 soldi e di perdita del porco o della scrofa ivi rinvenuti. E a chiunque sia lecito prendere porci o scrofe nella piazza del comune e chiunque potrà accusare e denunciare i contravventori e avrà la metà della multa. Ugualmente valga per il trivio di Porta Ravennate [storico quartiere della Bologna medievale] quanto vale per la piazza del comune di Bologna.
VI. Non tenere sgocciolatoi sulle vie pubbliche.
Stabiliamo che nessuno abbia sgocciolatoi, grondaie o altro, di qualunque materiale, che versi sulle vie pubbliche e sul suolo pubblico durante il giorno e che contenga qualche rifiuto, o possa contenerlo, pericoloso o dannoso: chi contravverrà pagherà una multa di 100 soldi bolognini per ciascuna volta in cui avrà contravvenuto e nondimeno risarcirà il danno provocato al danneggiato.
E nessuno di giorno getti o rovesci acqua dai tetti o dai balconi o da altri edifici e se qualcosa è stato gettato o rovesciato, colui o coloro che abitano nella casa da cui ciò è avvenuto pagheranno una multa di 20 soldi bolognini e se hanno provocato dei danni risarciranno il danno al danneggiato. Ugualmente nessuno getti immondizia di giorno o di notte sulle pubbliche strade e se contravviene sia punito [ogni volta] con 20 soldi bolognini. Ugualmente dove vi sono sgocciolatoi nei pressi di piazze o strade fornite di chiaviche, [i liquidi] vengano condotti sotto terra attraverso le stesse chiaviche affinché non fuoriescano.
XXVIII. Portare via dalle strade pubbliche fango e vinacce.
Ordiniamo che ciascuno davanti alla facciata della sua casa provveda a portar via fango, terriccio, calcinacci, vinacce e ogni altra immondizia dalle strade pubbliche che passano davanti a casa sua e che il notaio del podestà si tenuto a far portare via il predetto fango, terriccio, calcinacci e vinacce e ogni altra immondizia dal suolo pubblico con il contributo di tutti, dalle vie e strade pubbliche in cui non ci sono abitazioni o ci sono quelle dei banniti o dei ribelli di parte dei Lambertazzi, a spese del comune.


ROSSOTTO (-I) ANDREA: di questo monregalese Aprosio ebbe grande considerazione e non solo ne fu assiduo corrispondente ma prima di dedicargli ampio spazio nel suo repertorio bibliografico lo onorò come dedicatario del capitolo XXX della Grillaia.
Aprosio ne raccolse e registrò le molte opere anche se il nome del Rossotti è mediamente collegato alla sua silloge degli scrittori piemontesi:
Rossotti, Andrea, Syllabus scriptorum Pedemontii, seu de scriptoribus Pedemontanis in quo breuis librorum, patriae, generis, & nonnumquam vite notitia traditur. Additi sunt scriptores Sabaudi, Monferratenses, & comitatus Niciensis. Opere, & studio d. Andreae Rossotti a Monteregali ... , Monteregali : typis Francisci Mariae Gislandi, MDCLVXII [i.e. 1667 = Descrizione fisica: [28], 556, [112] p. ; 4o. Note Generali: Forme contratte nel titolo Fregi, cornici, vignette e iniziali incise Fregio xilografico sul frontespizio]


TESAURO EMANUELE: nacque a Torino nel 1592. Di famiglia nobile, gesuita (entrò a 20 anni nella Compagnia di Gesù), nel 1634 lasciò l'ordine in seguito a un'aspra polemica interna ma rimanendo sacerdote secolare. Fu al servizio dei Savoia, dimorò alcuni anni nelle Fiandre. Morì nel 1675 a Torino.
Tesauro scrisse di storia: una storia delle guerre del Piemonte contro gli Spagnoli (I Campeggiamenti, 1674), e una storia di Torino (1679) continuata poi da F.M. Ferrero. Scrisse tre volumi di Panegirici (1659-1660) sacri e profani. Sue anche alcune tragedie: Ermenegildo, Edippo, Ippolito (1661). Scrisse libri di morale (Filosofia morale, 1670) ed epigrammi latini.
La sua opera più famosa è Il cannocchiale aristotelico (1654, edizione accresciuta nel 1670): è considerato, insieme alle "Acutezze" di Gracián, il maggior trattato del concettismo.
In esso Tesauro esplora con acume e dovizia di esempi l'intera gamma del parlar figurato, cercando la spiegazione della metafora nella "Retorica" di Aristoteles, e indugiando in particolar modo sulle "argutezze" e sui "concetti predicabili" cioè sugli artifici dello stile che consentono di realizzare i princìpi e gli orientamenti della poetica barocchista: i fini del diletto e della "meraviglia", la prospettiva illusionista, l'accumulo e lo sdoppiamento degli oggetti rappresentati.

Scoto, Lorenzo [sec. 16.-17.], Il Gelone fauola pastorale di D. Lorenzo Scoto abbate commend. & signore di Chesery. Con le allegorie dell'abbate Castiglioni. ... Aggiuntoui in fine una lettera discorsiua del medesimo autore concernente il genere drammatico, In Torino: Zappata, Bartolomeo, 1656
Marino, Giovambattista, L' Adone poema del Caualier Marino. Con argomenti del conte Fortuniano Sanuitale. Et l'allegorie di don Lorenzo Scoto. Aggiuntoui la tauola delle cose notabili, In Torino, [1623?]
Marino, Giovambattista, L' Adone, poema del caualier Marino. Con gli argomenti del conte Fortuniano Sanuitale, et l'allegorie di don Lorenzo Scoto, In Venetia: Sarzina, Giacomo <1.>, 1623
Marino, Giovambattista, L' Adone, poema del caualier Marino, con gli argomenti del conte Fortuniano Sanuitale. Et l'allegorie di don Lorenzo Scoto, In Venetia: Sarzina, Giacomo <1.>, 1626
Marino, Giovambattista, L' Adone, poema del caualier Marino. Alla maesta' christianissima di Lodouico il decimoterzo, re di Francia, & di Nauarra. Con gli argomenti del conte Fortuniano Sanuitale, et l'allegorie di don Lorenzo Scoto, In Parigi: Varennes, Olivier : de, 1623
Scoto, Lorenzo , La visione idilio sacro nel martirio di S. Cristina vergine di D. Lorenzo Scoto abbate commend. & sig. di Chesery. A madama reale Christiana di Francia .., In Torino: Sinibaldo, Giovanni, 1658
Marino, Giovambattista, L' Adone, poema del cavalier Marino: con gli Argomenti del conte Fortuniano Sanvitale, e l'Allegorie di don Lorenzo Scoto. Aggiontovi la tavola delle cose notabili, con le Lettere del medesimo cavaliere. Volume primo [-secondo], In Amsterdamo, 1679
Marino, Giovambattista, L' Adone, poema del cavalier Marino: con gli Argomenti del conte Fortuniano Sanvitale, e l'Allegorie di don Lorenzo Scoto. Aggiontovi la tavola delle cose notabili, con le Lettere del medesimo cavaliere. Volume primo [-secondo], In Amsterdamo, 1680
Scoto, Lorenzo , La fenice di Don Lorenzo Scoto al molto ill.o & r.mo monsig. Giacomo vesc. di Vercelli, In Torino: Cavalleri, Giovanni Francesco, 1614
Marino, Giovambattista, L' Adone poema del c. Marino con gli argomenti del conte Sanuitale, & l'allegorie di don Lorenzo Scoto. Aggiuntoui la vita dell'autore con alcune sue lettere facete, & la tauola delle cose notabili, In Parigi: Sonnius, Michel <4.>, 1627
Marino, Giovambattista, L' Adone, poema heroico del c. Marino, con gli argomenti del conte Sanvitale e l'allegorie di don Lorenzo Scoto. Aggiuntovi la tavola delle cose notabili. Di nuovo ricorretto e di figure ornatto. Tomo 1.,4.], In Amsterdam et in Parigi: Jolly, ThomasElzevier, Daniel, 1678
Marino, Giovambattista, L' Adone poema del caualier Marino con gli argomenti del conte Fortuniano Sanuitale et l'allegorie di don Lorenzo Scoto, In Venetia: Sarzina
Marino, Giovambattista, L' Adone poema del C. Marino con gli argomenti del Conte Sanvitale, et l'allegorie di Don Lorenzo Scoto. Aggiuntovi la Vita dell'autore con alcune sue lettere facete, et la Tavola delle cose notabili, In Torino: Tarino, Giovanni Domenico eredi, 1627
Marino, Giovambattista, L' Adone poema del cavallier Marino, con gli argomenti del conte Fortuniano Sanvitale: e l'allegorie di don Lorenzo Scoto, Amsterdam [i.e. Leida]: Matthysz, Severyn <1643-1672>, 1651


LUCANO nasce a Cordova (39 d.C.), in Spagna; è nipote di Seneca .
Un anno dopo la famiglia si trasferisce a Roma, dove Lucano frequenterà la scuola di Anneo Cornuto, ex liberto di Seneca, filosofo stoico e maestro anche di Persio. Oltre a coltivare la filosofia, Lucano studia retorica e dimostra un precocissimo talento poetico, al punto di attirare l'attenzione dello stesso Nerone, di cui diventa amico. Lucano ( 60 d.C.) partecipa all'agone poetico dei Neronia, ove ottiene uno straordinario successo, mettendo in ombra le qualità poetiche di Nerone.
Quest’ultimo vieta a Lucano di pubblicare i suoi scritti. Egli continua tuttavia a lavorare al suo capolavoro, il Bellum Civile (che passerà alla storia col titolo di Pharsalia), del quale circolavano già i primi tre libri. Lucano (65 d.C) è accusato di avere preso parte alla congiura di Pisone; arrestato, pare abbia rivelato i nomi di molti congiurati, tra i quali anche la madre Acilia, del tutto estranea al complotto (è questa una notizia che ci riporta Tacito, e che getta un'ombra assai cupa sulla figura del giovane poeta). Ricevuto l'ordine di uccidersi, Lucano sceglie la morte del saggio stoico, e si svena recitando versi del suo poema. Delle opere di Lucano si è salvato dalla damnatio memoriae voluta da Nerone solo il Bellum Civile, ed anche questo fortunosamente: fu infatti la moglie di Lucano, Polla Argentaria, a salvare il manoscritto dalla distruzione, contravvenendo agli ordini di Nerone, e ad assicurarne la diffusione clandestina, attraverso le bancarelle, con l'aiuto di Stazio e di Marziale. In breve il Bellum Civile divenne il libro più letto in Roma. Abbiamo però notizia di altre opere, fra cui una tragedia, Medea , alcuni carmi di argomento vario noti come Silvae, un Catacthonion o Orpheus.
Il BELLUM CIVILE di Lucano meglio noto come Pharsalia (a causa del fraintendimento di un verso del libro IX in cui Lucano afferma Pharsalia nostra vivet), è un poema epico-storico in 10 libri, quasi certamente incompiuto, che tratta della seconda guerra civile (dal 49 al 47 a.C.):
Libro I Proemio e invocazione a Nerone (sulla cui sincerità la critica s’interroga da tempo). Le cause della guerra; ritratto dell'Italia rurale in crisi. Cesare varca il Rubicone e marcia su Roma (49). Presagi di sventura si abbattono sulla città. I vecchi rievocano gli orrori della prima guerra civile, quella fra Mario e Silla.
Libro II Bruto si reca nottetempo da Catone Uticense e gli chiede consiglio sul da farsi: il filosofo, che esprime fin troppo scopertamente il punto di vista dello stoicismo, afferma che è dovere del saggio opporsi ad ogni tentativo di conculcare la libertas, sottolineando così la necessità dell’impegno politico contro un regime ingiusto (è l’interpretazione dello stoicismo tipica dell’opposizione senatoria al principato). Pompeo fugge da Roma per evitare inutili spargimenti di sangue.
Libro III Il primo sogno di Pompeo (tòpos epico): la sua prima moglie Giulia, figlia di Cesare, ormai morta, giura di perseguitarlo fino alla tomba per vendicarsi del "tradimento" del marito, che ama ormai un’altra donna, Cornelia. È evidente il rovesciamento ironico del precedente virgiliano: anche ad Enea fuggiasco da Troia, alla fine del II libro dell’Eneide, era apparsa la moglie Creusa appena morta, la quale però gli aveva assicurato eterna benevolenza e protezione. Cesare a Roma. Catalogo degli alleati orientali di Pompeo (tòpos epico). Cesare a Marsiglia vince una battaglia navale.
Libro IV Cesare in Spagna affronta le truppe pompeiane. Aristìa del pompeiano Vulteio e del cesariano Curione (tòpos epico).
Libro V Cesare e Pompeo in Epiro: preparativi per la battaglia di Durazzo. Appio (pompeiano) consulta l'oracolo di Delfi (tòpos epico), ma il responso è del tutto indecifrabile, a significare ironicamente l’inutilità degli oracoli dal punto di vista stoico. Cesare, irritato per gli indugi di Antonio, decide di attraversare il mare Adriatico in tempesta da solo su una barca a remi: il pescatore Amìclate lo sconsiglia di mettersi in viaggio, ma Cesare parte con lui. È Cesare, questa volta, a riportarci alla figura di Enea, che pure si trova di fronte ad una tempesta nel V libro dell’Eneide: ma mentre Enea, pius, segue il consiglio di Palinuro e rinvia la partenza, Cesare, invece, temerario e superbo, afferma che, se deve morire, cadrà sotto i colpi del solo avversario degno di lui: la Fortuna. Appena egli pronuncia queste parole, la tempesta assume connotati apocalittici: Amìclate scompare, la barca è travolta dai flutti, e tuttavia Cesare si salva e viene riportato al punto di partenza. Questo episodio, del tutto inutile ai fini dello svolgimento della vicenda, ha una particolarissima rilevanza ideologica.
Libro VI Battaglia di Durazzo. Aristìa del pompeiano Sceva. Sesto Pompeo, figlio degenere di Pompeo, consulta a Farsalo la maga Erìttone, che dà luogo ad un episodio di necromanzia, evocando un soldato defunto per ottenerne una profezia. È chiaro il rovesciamento antifrastico del precedente virgiliano della catàbasi agli Inferi (VI libro): ad Enea il padre Anchise predice la futura grandezza di Roma, mentre qui il soldato morto predice la fine della libertas repubblicana.
Libro VII Nell’imminenza della battaglia di Farsàlo Pompeo ha un nuovo sogno: si vede in teatro di fronte ai Romani che lo applaudono. Il significato profondo di questo sogno è probabilmente che Pompeo, più che un eroe, è un commediante che interpreta un ruolo non suo, affidatogli suo malgrado dal Destino. Al suo risveglio convoca un'assemblea, durante la quale Cicerone incita i soldati alla battaglia (si tratta di un consapevole falso storico). Scoppia la battaglia: quasi subito Pompeo, frastornato e sfiduciato, fugge. Aristìa di Domizio Enobarbo (antenato di Nerone). Terminato lo scontro, Cesare, ebbro di sangue, infierisce sui cadaveri e ne impedisce la sepoltura.
Libro VIII Pompeo cerca rifugio in Egitto presso i suoi alleati, i tutori di Tolomeo XIII, che però lo uccidono a tradimento e gli tagliano la testa per consegnarla a Cesare.
Libro IX Catone subentra a Pompeo, assume il comando delle truppe repubblicane e si dirige in Africa; qui è costretto ad attraversare il deserto. Descrizione degli orribili patimenti dei soldati e dei serpenti velenosi che infestano la zona. Catone, giunto presso l'oracolo di Zeus Ammone, si rifiuta di consultarlo in nome della razionalità e dell’autàrkeia del saggio stoico. Cesare si reca a Troia, ove medita di trasferire la capitale. Qui si svela chiaramente il ruolo di Cesare: egli è un anti-Enea; Enea infatti voleva far rivivere Troia a Roma, Cesare vuol fare l’esatto contrario. In sostanza egli disfa ciò che ha fatto Enea.
Libro X Cesare, giunto ad Alessandria, piange alla vista della testa del genero morto: commento sarcastico del poeta su queste lacrime. Di fronte alla tomba di Alessandro, invece, si commuove sinceramente: del grande macedone egli si sente il legittimo erede. Durante un banchetto si lascia sedurre da Cleopatra, fuggita dalla torre in cui era rinchiusa. Scoppia una rivolta fra gli alessandrini... Reliqua desiderantur.
I critici hanno ritenuto per lo più che nei primi tre libri la posizione di Lucano non sia ancora apertamente ostile a Cesare, il quale invece a partire dal IV (e specialmente nel VII) è ritratto a tinte sempre più fosche. Le vicende cui è legata la composizione del Bellum Civile hanno indotto molti a motivare questo mutato atteggiamento di Lucano nei confronti del suo personaggio (interpretato da alcuni, non senza forzature, come la controfigura storica di Nerone), con il veto di Nerone alla pubblicazione dell'opera, di cui però erano già in circolazione i primi tre libri, i quali dunque non risentirebbero ancora della rottura dei rapporti fra il poeta ed il princeps. Lucano perciò apparirebbe dapprincipio tollerante nei confronti del regime neroniano, mentre dopo i Neronia del 60 il suo atteggiamento diventerebbe apertamente ostile. L’ipotesi lascia francamente perplessi: in realtà già nei primi tre libri si avverte l'ostilità di Lucano nei confronti del personaggio. Quanto ai rapporti con Nerone (a prescindere dall’identificazione con Cesare), fondamentale resta l'interpretazione dell'invocazione proemiale: considerata, alquanto soprendentemente, sincera da buona parte della critica contemporanea (ad es. dal Conte), essa è a tal punto goffa, sovraccarica ed adulatoria da risultare imbarazzante per chiunque abbia un minimo di senso dell'umorismo: in alcuni punti le gaffes sono addirittura clamorose (Lucano auspica l'avvento della pace solo dopo la morte di Nerone, senza contare che sembra fare allusione ad alcuni suoi difetti fisici), tanto che ci sembra assai più condivisibile l'opinione di coloro (ad es. il Lana) che la considerano scopertamente ironica. Quand’anche così non fosse, l’ambiguità è forte ed è legittimo per lo meno dubitare della sincerità del tono.
Secondo parecchi critici l’intento di Lucano è quello di scardinare il genere epico dal suo interno: inserendo un'ideologia ed un contenuto anti-epici nella forma epica, genere chiuso, rigidamente formalizzato per ideologia, contenuti e stile, Lucano sconquassa e distrugge il genere.
Non si tratta però di un epos generico; Lucano mira ad un bersaglio preciso, chiaramente identificabile: l’epos virgiliano (di qui anche l’ipotesi che il progetto originario prevedesse dodici libri, come l’Eneide).
Lo scopo è quello di smascherare le mistificazioni ideologiche di cui Virgilio si è fatto portavoce, soprattutto l’idea della "missione storica" di Roma voluta dal Fato per il bene dell’umanità (idea di ascendenza stoica , legata soprattutto alla figura di Panezio).
Non è vero che il Fato ha assegnato a Roma una missione storica da compiere: Cesare ha disfatto l'opera di Enea, la fondazione di Roma come risarcimento per la fine di Troia è vuota retorica (Cesare avrebbe voluto riportare la capitale a Troia!), il sangue versato in nome della grandezza dell'Urbe non ha avuto alcuno scopo: il significato di Roma è una tragica tautologia. Se ne conclude che, se tutto questo è voluto dal destino, il destino è malvagio.
Oppure non esiste alcun disegno provvidenziale: tutto è in balìa del caso. Dal pessimismo storico Lucano sembra dunque elevarsi al pessimismo cosmico, rinnegando completamente i presupposti ottimistici tipici dello stoicismo.
È questo un epos alla rovescia, un epos della storia negativa, dell'ideale che non si afferma nella storia: un epos antifrastico, che ribalta e sconfessa tutti i presupposti ideologici virgiliani.
Lucano si pone a tutti gli effetti come l’anti-Virgilio.
Come si accennava in precedenza, quando la moglie di Lucano, Polla Argentaria, garantì la diffusione del Bellum Civile per via clandestina, l'opera incontrò subito un grande favore fra il pubblico.
Anche nel Medioevo Lucano fu molto amato: Dante lo colloca nel Limbo fra i cinque grandi ingegni poetici dell’antichità.
La sua fortuna perdura nel '400, nel '500, nel '600, influenzando il teatro elisabettiano, fino al '700 (Alfieri, Goethe) ed ancora al Leopardi.
In seguito Lucano fu quasi dimenticato: il Romanticismo ed il post-Romanticismo hanno portato al rifiuto preconcetto di tutto ciò che "sa di retorica": e Lucano, ad un lettore disattento, può ben sembrare poco più di un retore
. Solo in questi ultimi anni è iniziata, almeno nel mondo della filologia classica (Conte, Narducci), una lenta e faticosa rivalutazione della figura di questo poeta difficile e sfuggente, ma certo interessante e - quanto meno - tutt'altro che banale.


CAUSIDICO: in epoca medievale persona delegata a rappresentare le parti in un processo senza occuparsi del punto giuridico della questione spettante all'avvocato. Etimologia dal latino causam + dicere e poi spregiativo nel senso di "avvocato da poco".


LINFEDEMA (ELEFANTIASI)
"Il sistema linfatico drena normalmente da due a tre litri di linfa al giorno. In una situazione anomala, la quantità può aumentare fino a trenta litri il giorno. Avendo una capacità limitata di drenaggio, il sistema linfatico in alcune situazioni patologiche non riesce ad eliminare i liquidi accumulati, provocando un linfedema. Questo fenomeno può essere conseguenza di una displasia linfatica congenita (linfedema primario), oppure può essere legato ad una obliterazione anatomica per un intervento chirurgico radicale, ovvero essere dipendente da ripetute forme infettive, come le linfangiti (linfedema secondario). Sia il linfedema primario che il secondario hanno in comune lo stesso problema, cioè la diminuzione del trasporto linfatico. Qualche volta, se il linfedema si è instaurato da molto tempo, può accadere che ci sia un peggioramento ulteriore del drenaggio linfatico e che si riduca ancor di più la quantità totale di trasporto.
Secondo Papendieck (1992), il linfedema primario è un edema congenito ed è presente dalla nascita; una delle cause è un’aplasia dei vasi e/o gangli linfatici. Nel linfedema secondario, la eziologia è legata ad un’ostruzione meccanica o ad un elevato carico linfatico, che può verificarsi dopo un evento traumatico, parassitario, tumorale, infiammatorio o post-radioterapia.
Esiste anche un altro tipo di linfedema, quello sporadico, che è il più frequente nel sesso femminile, manifestandosi nel 17° anno d’età.
Linfedema congenito, ereditario (primario)
Il linfedema ereditario appare fin dalla nascita ed è caratterizzato da un mal funzionamento dei vasi linfatici, che causa una dilatazione anomala e un’insufficienza valvolare. Con la persistenza del linfedema s’instaura una fibrosi nello spazio interstiziale, normalmente a livello sub-cutaneo. In questo tipo di linfedema appare la linfagiectasia, che è un fattore caratteristico del linfedema congenito, causante l’insufficienza valvolare e in seguito l’ulteriore peggioramento nella circolazione linfatica.
Il linfedema congenito-ereditario degli arti inferiori è il più comune e si può presentare con le stesse caratteristiche del linfedema precoce, vale a dire con l'aumento considerevole del volume dell'arto. La pelle, a livello dell’edema, è soggetta a lesioni traumatiche e infezioni. Nel linfedema primario la forma congenita è chiamata sindrome di Nenne - Milroy; la forma più tardiva la sindrome di Meige.
Linfedema secondario I linfedemi secondari possono essere causati da fattori esterni, come l’intervento chirurgico alla mammella, da una linfangite, dalla tubercolosi, da filaria o da eventi traumatici. In questo caso possiamo dire che il linfedema è un sintomo e non una patologia; esso si manifesta con un aumento di volume visibile e con un tessuto alquanto spesso.
Linfedema precoce
Il linfedema precoce è un’alterazione rara che appare nelle donne nella pubertà.. Uno degli elementi determinanti può essere legato al fatto che i vasi della pelvi non si sviluppino rapidamente come gli organi sessuali interni, provocando un’insufficienza linfatica degli arti inferiori. Questo linfedema è progressivo, e può causare problemi funzionali, giacché vi è un aumento di volume dell'arto. Se si produce una fibrosi, si verifica una dilatazione dei vasi linfatici.
Secondo la classificazione di M. Földi, ci sono tre tipi di insufficienza linfatica: I° tipo o dinamica, II° tipo o meccanica e III° tipo o dipendente dalla insufficienza della valvola di sicurezza.
Nell’insufficienza dinamica, si osserva che il rendimento della pompa linfatica è limitato; ciò non per una disfunzione del sistema bensì per l’aumento della produzione del liquido interstiziale. Essendo il carico fisiologico superiore alla capacità di trasporto del sistema linfatico, ne deriva l’insufficienza meccanica e la formazione dell’edema. Questo può essere di tipo ortostatico, ipoproteico, o essere legato a stadi precoci d’infiammazioni acute: iperemia, ultra filtrazione, ecc.
L’insufficienza meccanica, d’altra parte, si produce quando la capacità di trasporto è fortemente ridotta sia per una malattia dei vasi linfatici sia in seguito a traumatismi. Quindi, questo tipo d’insufficienza produce un eccesso di proteine nell’interstizio: l’edema qui, risulta linfedema, e il quadro può arrivare ad un fibredema.
L’insufficienza della valvola di sicurezza, si traduce nella ridotta capacità di trasporto, dovuta all’assenza o scarsa rappresentazione dei sistemi di blocco; ciò aumenta il carico linfatico fisiologico idrico e proteico, generando un edema massiccio e ricco in proteine. Nelle zone di edema si producono processi di necrosi e di progressione patologica. L’esempio tipico è lo stato tardivo di insufficienza venosa cronica degli arti inferiori.
Il decorso del linfedema è caratterizzato da quattro stadi, con una progressione diversa da paziente a paziente.
I° Stadio. Detto stadio di latenza o intervallo libero; in cui c'è una limitazione della capacità di trasporto del sistema linfatico, accertabile con esami strumentali, senza sintomi clinici.
II° Stadio. Tumefazione molle che regredisce durante la notte o con le gambe sopraelevate. In questa fase, sorgono problemi diagnostici. I segni tipici sono l’edema sul dorso del piede e l’accentuazione delle pieghe cutanee naturali in corrispondenza delle articolazioni metatarsofalangee.(segno di Stemmer).
III° Stadio. Il linfedema irreversibile non presenta alcuna tendenza alla regressione. La tumefazione è dura, esercitando una pressione con le dita non si forma alcuna depressione (fovea).
La superficie cutanea è secca e ipercheratosica, appare di colore grigio sporco. Con il tempo, se non è sottoposto alle misure terapeutiche, l'edema dà luogo ad una fibrosi.
IV° Stadio. S’indurisce tutto l'arto e si presentano disturbi trofici, in questa fase il paziente non accusa dolore né c’è ulcerazione.
Per la prognosi del linfedema è importante una distinzione tra il tipo distale e quello prossimale.
- Tipo distale: ad esempio l'edema del dorso del piede, tipico del linfedema sporadico, sale lentamente verso la gamba. Un paziente su otto ha un interessamento anche nella coscia.
- Tipo prossimale: prevale nelle forme congenite e in quelle da tumore maligno.
Per concludere possiamo dire che talvolta, la differenziazione fra linfedema primario e linfedema secondario può essere difficile, se non sono a disposizione i risultati dell’analisi istologica e linfografica. I referti di questi accertamenti, nonché di altri che possano necessitare in seguito, debbono essere accuratamente riferiti dal medico specialista in angiologia od oncologia, e consegnati eventualmente al terapista per eseguire i trattamenti.
Bibliografia.
Comitè Ejecutivo de la Sociedad Internacional de Linfología, Consenso en el diagnóstico y tratamiento del linfedema, (I.S.L), pag. N° 37, in Rivista “Linfologia”, novembre 1995.
Bruna, Josef , Tipos y clasificación de Linfedemas , in Rivista “Linfologia”, aprile 1998.
Volker Wienert, Insufficienza venosa degli arti inferiori, Cap. 7- Linfedema, McGraw-Hill Libri Italia SRL, 2º Ed., 1994.
Martorel F. , Angiologia (malattie vascolari), Ed. Pem, Roma, 1970.
La Classificazione di M. Földi: insufficienza linfatica di I, II, e III tipo, www.linfedema.org. E. Földi et M. Földi, Phisiothe’rapie Complexe De’Congestive. Ed. Frison-Roche, Paris, 1993
Volker Wienert, Insufficienza venosa degli arti inferiori, Cap. 7- Linfedema, McGraw-Hill Libri Italia SRL, 2º Ed., 1994"
[Saggio di Stella Maris Glowinski - Roma Carla Puletti - Perugia]


Paolo Maria Terzaghi, fisico collegiato milanese morto nel 1695 e catalogatore del Museo Settaliano, con cui Aprosio ebbe qualche corrispondenza epistolare:
Terzago, Paolo Maria , Museo, o galeria adunata dal sapere, e dallo studio del sig. canonico Manfredo Settala nobile milanese. Descritta in latino dal sig. dott. fis. colleg. Paolo Maria Terzago. Et poi in italiano dal sig. Pietro Francesco Scarabelli dottor fisico di Voghera, & dal medemo accresciuta, In Tortona: Viola, Nicolo & fratelli, e fratelli Viola
Terzago, Paolo Maria , Musaeum Septalianum Manfredi Septalae patritii Mediolanensis industrioso labore constructum; Pauli Mariae Terzagi Mediolanensis physici collegiati geniali laconismo descriptum; politioris literaturae professoribus erudita humanitate adapertum: cum Logocentronibus, siue centonibus eiusdem Terzagi .., Dertonae: Viola, Eliseo figli, 1664
Terzago, Paolo Maria , Museo o galeria adunata dal sapere, e dallo studio del sig. canonico Manfredo Settala nobile milanese. descritta in latino dal sig. dott. fis. coll. Paolo Maria Terzago et hora in italiano dal sig. Pietro Francesco Scarabelli. Dott. fis. di Voghera. E dal medemo accresciuta, In Tortona: Viola, Eliseo figli, 1666

La gotta è una malattia caratterizzata da manifestazioni cliniche diverse per sede e tipo, causate tutte da aumento di acido urico in circolo e precipitazione di cristalli di urato monosodico, principalmente a livello delle cartilagini articolari, del parenchima renale e delle vie urinarie. In altre parole l’acido urico, che normalmente è il prodotto finale di un ciclo metabolico fisiologico (il metabolismo delle purine), viene prodotto in eccesso dai pazienti affetti da gotta. A sua volta l’acido urico si trasforma nei suddetti cristalli e precipitando danneggia organi e tessuti.
I sintomi dell’attacco di gotta tipica sono caratterizzati da dolore acuto a livello delle articolazioni.
Possiamo distinguere:
a) l'artrite acuta gottosa, caratterizzata da attacchi recidivanti di artrite infiammatoria, di regola monoarticolare;
b) la presenza di depositi di urato (tofi) a livello delle cartilagini, delle parti molli periarticolari, dell'osso;
c) la gotta cronica;
d) la nefropatia gottosa;
e) la calcolosi uratica.
La diagnosi di gotta non presenta di regola particolari difficoltà quando la tipica artrite acuta recidivante si associa ad iperuricemia. Solo all'esordio della malattia, in occasione del primo o dei primi attacchi, la diagnosi differenziale con le altre monoartriti acute può presentare qualche problema. Nei casi dubbi, la presenza di cristalli di urato monosodico nel liquido sinoviale ha valore diagnostico assoluto.
Nel paziente iperuricemico è comunque sempre necessario prendere in esame alcuni punti:
1) L'eziologia dell'iperuricemia. In presenza di un'iperuricemia è necessario valutarne le cause e stabilire quanto esse siano correggibili; infatti una dieta eccessiva, l'abbondante ingestione di alcool, la presenza di diabete, di obesità, di ipertensione sono passibili di controllo medico. È poi necessario valutare l'uricemia, e parallelamente l'uricuria (cioè l’eliminazione di acido urico con le urine) di 24 ore (valori oltre 1000 mg), per distinguere l'aumentata produzione dalla diminuita escrezione di urati.
Le iperuricemie vengono abitualmente distinte in primitive e secondarie.
Nelle forme primitive, causate da un difetto congenito, l'iperuricemia rappresenta la manifestazione primaria e fondamentale della malattia. Le iperuricemie secondarie si sviluppano invece nel corso di molteplici processi morbosi o come conseguenza dell'assunzione di alcuni farmaci. La loro individuazione è indispensabile in quanto l'intervento terapeutico deve essere indirizzato verso la malattia di base mentre solo in alcuni casi è indicata una terapia ipouricemizzante specifica.
2) Le lesioni causate dall'iperuricemia cronica a livello articolare ed extra-articolare: artrite gottosa, tofi, erosioni ossee all'esame radiologico, calcolosi renale, necrosi asettica della testa del femore. Particolare importanza, ai fini terapeutici, riveste lo studio dell'apparato urinario, in quanto la nefropatia uratica non trattata tende a progredire cronicamente e può evolvere sino all'insufficienza renale.
3) Le cosiddette condizioni patologiche associate alla iperuricemia:
a) obesità,
b) ipertrigliceridemia;
c) diabete mellito;
d) ipertensione arteriosa;
e) poliglobulia.
Si tratta di una condizione morbosa nota come “sindrome plurimetabolica” rilevabile nei pazienti iperuricemici con frequenza assai maggiore rispetto al resto della popolazione. La correzione dei singoli errori metabolici e dell'ipertensione rappresenta un elemento essenziale nel condizionare favorevolmente i risultati a lungo termine della terapia del paziente gottoso.
L'iperuricemia primitiva, se asintomatica, non deve essere considerata una situazione patologica.
La terapia della gotta ha due obiettivi principali:
1) risolvere l'attacco di artrite acuta rapidamente e con i minori effetti collaterali mediante un trattamento sintomatico con colchicina o con antiinfiammatori non steroidei;
2) correggere il difetto metabolico di base, riducendo i livelli circolanti di acido urico mediante farmaci che ne inibiscano la sintesi o ne aumentino l'eliminazione urinaria.


All'origine delle Università
Nel XII secolo [si legge in questo profondo
saggio critico] si verifica un evento destinato a caratterizzare fortemente l’Europa tutta: la nascita dell’Università. Con essa sorse e si affermò sia una organizzazione tesa a fornire l’insegnamento superiore, sia un metodo che caratterizzò tale insegnamento, sia - e ciò riguarda in particolare lo studio del diritto - un nuovo contenuto. Ai due poli intorno ai quali si articolava sin qui il pensiero medievale, il regnum e il sacerdotium, si affianca ora lo studium.
Il Makdisi[1] ha rilevato ben diciotto affinità sostanziali fra il modello occidentale di organizzazione della trasmissione del sapere e quello islamico[2]. Anche per questo studioso, tuttavia, mentre i collegia deriverebbero dal modello islamico[3], l'Università come tale sarebbe un grande prodotto dell'Occidente cristiano del XII secolo, non solo per quanto riguarda la sua organizzazione, ma anche per i privilegi e la protezione che ricevette dal potere politico e da quello religioso. Se questa tesi è generalmente condivisa[4], la stessa cosa non si può dire circa le cause che avrebbero determinato un fenomeno tanto peculiare. Questo è campo ove l'ottica personale dello storico guida le sue conclusioni storiografiche. Secondo la storia comparata del Meiner[5], l'origine dell'Università si collegava illuministicamente all'incessante spinta dello spirito umano verso la conoscenza. L'autore enfatizzava l'importanza di una educazione teorica e scientifica rispetto ad una educazione tesa alla pratica, e cercava di contrastare la politica - nihil sub sole novi - tesa a trasformare le Università in scuole professionali, anche se di alta specializzazione. Così egli spiegava la nascita delle Università con la crescita numerica di professori indipendenti e la vittoriosa lotta degli studenti, sempre più consapevoli della propria importanza, e intenzionati a ottenere il riconoscimento di diritti e privilegi loro propri. Insomma il Meiner era convinto che ben lungi dall'essere un prodotto della società, l'Università, al contrario, avesse avuto un ruolo importante nel formarla.
Diametralmente opposta la visione marxiana: secondo il Marxismo gli istituti di educazione superiore sarebbero quelli cui è deputata la funzione di mantenere il ruolo della classe dominante[6], e si collegherebbe a questa necessità anche l’origine della Università medievale.
A questa concezione si sono opposti vari studiosi. Grundman, ad esempio, sostiene che il sorgere delle Università fu sì favorito dallo sviluppo economico e sociale, va sì visto in relazione con il fiorire dei commerci e con l'indotto delle Crociate, ma che non questi o simili elementi furono determinanti, bensì l'interesse scientifico, lo stimolo a imparare e conoscere, in una parola l'amor sciendi[7].
Tale tesi è stata successivamente condivisa da molti studiosi, o quanto meno ha fornito argomento di discussione. Il Classen, ad esempio, ne ha corretto l' originaria portata sostenendo che all'amore per lo studio andrebbero affiancate, con eguale efficacia causale, anche la ricerca di uffici e di fama[8]. Mentre poi Cobban e Esch[9] danno maggior peso alle esigenze della emergente classe di governo ecclesiastica e laica, Le Goff[10] punta l'accento sul processo di emancipazione delle Università dalle pressioni sociali. Per il Bellomo, invece, avrebbe giocato un ruolo fondamentale la decadenza delle scuole monastiche e la richiesta di nuovi modelli teorici, più congrui e suscettibili di dare una qualificazione giuridica a quanto accadeva in città[11]. Il Rüegg, recentemente, ha individuato in sette punti le fondamenta dell'Università medievale: 1)la fede in un ordine cosmico, creato da Dio, dotato di razionalità, quindi accessibile all'umana ragione; 2) una concezione dell'uomo come essere imperfetto, derivante dalla idea giudaico-cristiana della caduta (donde un forte criticismo intellettuale); 3) il rispetto per l'uomo quale creatura di Dio (per questa via, al criticismo sopraccennato si accompagnerebbe anche il graduale affrancamento della verità scientifica dalla verità di fede); 4) il precisarsi della specificità della verità scientifica e del connesso divieto di tornare sulle verità già dimostrate (principio di autorità); 5) il divenire tratto caratteristico dell' Università un relativamente scarso interesse nei confronti del significato economico del sapere scientifico, cui si accompagna il riconoscimento di tale sapere come pubblico bene; 6) l'ammettere che tale sapere possa crescere e migliorare, pur nel rispetto del principio di autorità; 7) l'uguaglianza e la solidarietà fra gli studenti, in contrasto con il carattere gerarchico e cetuale della società medievale[12].
La rinascita del secolo XII
Per il Cassandro, la nascita dell’Università si inserisce nel movimento europeo di rinnovamento culturale che, secondo una fortunata espressione dell’Haskins[13], si suole definire come "Rinascenza del secolo XII" Egli sostiene che questo movimento in tanto si potè realizzare in quanto mutò il rapporto tra la cultura medievale e la cultura classica: sempre l’Europa sembra rinnovarsi recuperando il proprio passato, e trovare, riflettendo su di esso, l'impulso per un successivo balzo in avanti. Sta di fatto che si stabilisce un nuovo legame tra la cultura antico - pagana e quella cristiano - medievale, al punto che si può parlare di un “umanesimo” o “preumanesimo” di Chartres[14].
Sino a questo momento il bagaglio sapienziale del mondo antico era sopravvissuto nei monasteri (Umberto Eco lo ha rievocato molto suggestivamente ne “Il nome della Rosa”), per trasferirsi poi - e si tratta già della porta attraverso la quale entra il futuro - in città, all’ombra delle grandi cattedrali[15]
. Ve n’è una che può, per la sua fama e importanza nella storia della cultura, essere assunta a modello delle altre, ed è Chartres, dalla quale il Gilson prende le mosse per ricostruire la filosofia del tempo[16]. A Chartres fioriva una scuola già nei primissimi anni del secolo XI e vi insegnava Fulberto, morto nel 1026, discepolo di quel Gerberto d’Aurillac che fu elevato al soglio di S. Pietro con il nome di Silvestro II.
E’ qui che alza la sua vela sant’Ivo, meglio noto come Ivo di Chartres, autore di opere che preparano la consolidazione del diritto canonico, e poi Guglielmo di Conches, Gilberto de la Porrée e infine quel Giovanni di Salisbury che muore vescovo di Chartres nel declinare del secolo, e cioè nell’anno 1180.
A sua volta, il Salisbury è un personaggio emblematico, un vero clericus vagans. Nato in Inghilterra tra il 1110 e il 1115, studia anche in Francia, ma torna in patria al seguito dell’arcivescovo di Canterbury, Thomas Beckett. Lo accompagna nell’esilio e, dopo la sua tragica fine, viene nominato da Luigi il Giovane vescovo di Chartres. Il Salisbury raccomanda di leggere, leggere molto, e unisce all' ampia cultura classica anche nozioni di diritto. E’ in una sua opera, il Metalogicon, che si legge un passo giustamente ritenuto particolarmente significativo per comprendere la Weltanschauung che guidava il rapporto con il mondo antico, e il concetto di progresso che era proprio del dotto medievale:
"Fruitur tamen etas nostra beneficio precedentis, et sepe plura novit non suo quidem precedens ingenio, sed innitens viribus alienis et opulenta patrum. Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes, ut possim plura eis et remotiora videre, non utique proprii visus acumine aut eminentia corporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur magnitudine gigantea"[17].
Noi - dice il passo - siamo come nani seduti sulle spalle di giganti. Vediamo perciò più cose degli antichi e più lontano, non a cagione della acutezza della nostra vista o della nostra statura, ma perchè siamo sollevati in alto e ci gioviamo della loro gigantesca grandezza. Il Cassandro vi legge soprattutto l'articolata idea di progresso del secolo XII[18]: un'idea fortemente improntata in senso cristiano e dunque comprendente una raffigurazione parabolica della la storia, con un acme coincidente con l' Incarnazione di Cristo, e una fine, prefigurata dalla visione profetica dell'Apocalisse. Un tale atteggiamento mentale avrebbe favorito una cultura fatta di recupero e riflessione delle opere del passato, seppur destinata, grazie ai suoi stessi progressi, a ribaltarsi nello slancio orgoglioso del Rinascimento. Se questa interpretazione pare condivisibile, è pur vero che nel passo si può leggere anche l'affacciarsi dello spirito scientifico, inteso come rapporto consapevole e dichiarato dell'avanzamento della conoscenza con le basi fornite dagli studi precedenti.
La formazione culturale partiva dallo studio delle “arti”[19]. Quelle liberali - come quelle cosiddette mechanicae - erano sette, numero denso di contenuti simbolici. Numero perfetto, anzi, perché comprensivo del quattro, indicativo della concretezza, in ultima analisi del mondo terreno, e del tre, numero dello spirito[20]. E tre per l’appunto erano le arti del trivio cosiddette sermocinales, cioè grammatica retorica e dialettica, laddove quelle del quadrivio erano aritmetica, geometria, musica e astronomia. E’ cosa certa che lo studio del diritto era stato perseguito nei secoli precedenti nell’ambito di queste arti, segnatamente nell’ambito della retorica, i legami con la quale erano già assai stretti nella cultura greca e in quella romana. Quello studio dunque non era mai venuto meno del tutto: l'expositor ad librum papiensem riconduce le teorie allegate un paio di volte a causidici e tutte le altre volte a iudices. Anche in Pier Damiani ricompaiono queste due categorie come portatrici di conoscenze specifiche, e lo stesso può dirsi della Glossa Coloniense[21].
Le artes mechanicae
Non bisogna dimenticare, però, che nonostante la damnatio di cui fu fatto segno dall'Illuminismo, il Medioevo compì grandi progressi anche nelle cosiddette artes mechanicae. Non è un caso se Ugo di S, Vittore, nel Didascalicon (1096-1141), concepì una classificazione del sapere che attribuì a tali arti altrettanto valore di quello riconosciuto alle arti liberali. Anche le artes mechanicae non potevano che essere sette. Tre arti erano volte a studiare ciò che era al di fuori del corpo umano: 1) la prima era la tessitura; 2) la seconda comprendeva ogni sorta di artigianato, e dunque la meccanica, la metallurgia, l'architettura; 3) la terza era la nautica, la quale includeva anche il commercio. Quattro arti, invece, avevano a che fare con il corpo umano: ed erano l'agricoltura, la caccia, la medicina, il teatro.
Ma mentre le arti liberali venivano considerate attinenti alla parte libera dell'uomo, le altre venivano riguardate come attività relative alla sua parte non libera, dunque come attività servili, artes serviles[22]. Solo la medicina venne a godere della stessa dignità delle arti liberali, anzi ne insidiò il primato: nel preambolo degli statuti della facoltà di medicina di Montpellier (1239) essa venne paragonata a una stella che di quelle arti illuminava il firmamento[23]. Una visione inutilmente contrastata da Petrarca[24]: Coluccio Salutati dovette fare ricorso ad Averroè per affermare la superiorità della Giurisprudenza sulla Medicina.
Va peraltro detto che le arti meccaniche rimasero appannaggio di corporazioni chiuse, laddove le Università si distinsero per il notevole grado di apertura e di eguaglianza, tanto più sorprendente se rapportato al carattere gerarchico e cetuale della società medievale. Ciò fu probabilmente dovuto - nota il Rüegg - all'obiettivo manifestamente occupazionale delle arti meccaniche, opposto alla nobiltà di quelle liberali[25].
In questo senso anche la giurisprudenza, però, si poneva su un crinale: Cortese rileva come per la prima volta il centro della cultura si trovava in una scienza anche pratica e non solo teorica. Una scienza, per di più, di cui, come rileva Santarelli, si pongono le basi per affermare la mutevolezza: auctor iuris homo, justitiae deus[26]
. In effetti vi è una forte tendenza a ritenere (così ad esempio da parte di Astuti, Caravale, in un certo senso anche Cortese) che la rinascita del diritto romano sia un fatto spontaneo accentuatosi negli ultimi decenni del sec. XI, e che l'esigenza di conoscerne i testi originali fosse venuta crescendo di pari passo con l'attenzione[27]. A Bologna come in altre città, s'infittiscono le testimonianze su iudices, causidici, sapientes, legum docti, si avverte la necessità di rinnovare i vecchi formulari notarili. E’ probabile che il nuovo successo del diritto romano sia favorito - come hanno rilevato l'Astuti e più di recente il Caravale - dalla sua capacità di offrire una disciplina concretamente utile alla regolamentazione dei rapporti economici della società, in particolare del dominio[28]. Tuttavia aveva probabilmente ragione Cassandro nel ricordare che non rinasce il diritto romano come tale, giacchè esso non aveva mai cessato di essere applicato, non solo come diritto personale dei Romani vinti, ma anche come diritto conservato dal clero[29], e ciò che “rinasce” in realtà è la scienza giuridica. Sta di fatto che si manifesta una propensione alla speculazione teorica specificamente giuridica, e ciò che appare insegnato a Bologna è lo studio di una tale teoria, sebbene questa venga presto ad essere utilizzata anche nella pratica .
Abelardo e il metodo del sic et non
Come si studiava? Ebbene, noi possediamo una straordinaria testimonianza del tempo, che è anche un affascinante quanto inquietante spaccato della grandezza e della miseria dell’animo di un gigante della filosofia. Vogliamo qui accennare alla Historia calamitatum di Abelardo di Bath (1079-1142), notissimo per il suo metodo del sic et non[30] e per la drammatica storia d’amore che lo lega all'allieva Eloisa, storia che ora gode di un relativo successo su Internet. Ad essa si riferisce un epistolario, al quale è stata restituita credibilità dal Gilson[31]: Abelardo vi descrive ad un amico le sue disgrazie, e comincia con il raccontare come si era procurata quella fama di grande dialettico che avrebbe costituito, tra l'altro, la causa del suo incontro con Eloisa. Come egli avesse aperto una propria scuola a Melun nonostante l’opposizione del suo maestro, poi, tornato presso di lui, lo avesse costretto a rinunciare alla sua teoria degli universali, guadagnando così straordinaria autorità lui stesso e la sua teoria, al punto da essere chiamato ad insegnare a Parigi. Ma il passo per noi più significativo è forse quello ove si legge dell’interesse per gli studi della teologia, e della affermazione di Abelardo essere il proprio metodo il più adatto all’indagine scientifica; onde la sfida lanciatagli dai colleghi, che gli affidano un oscuro passo delle Scritture perchè egli mostri cosa ne sa dire di lì a ventiquattro ore. Il filosofo ci offre qui uno spaccato della vita di queste “scuole” medievali che ci mostra, oltre alla metastorica tendenza alla rivalità fra dotti, anche il ruolo che assume un indirizzo autenticamente scientifico: perchè Abelardo è molto chiaro sul fatto di essersi rivolto al testo affidatogli per ingenium, vale a dire utilizzando il proprio metodo di indagine, che consiste nel severo, attento esercizio del contrappunto della dialettica. Un metodo spregiudicato, che al momento appare - ed è - scandalosamente innovativo, eppure parte da un presupposto in qualche modo estraneo alla mentalità scientifica del nostro tempo: la mente umana non si librava nel vuoto, ma poggiava sulle solide basi di una verità data, la verità di un libro. L’uomo del ventunesimo secolo non può forse comprendere nella sua giusta valenza il portato di questa presenza, che non costituiva affatto un limite alla creatività dell’intelletto, giacchè questo, come ha dimostrato Goedel[32], non può costruire nessun sistema logico se non partendo da presupposti estranei al sistema stesso. Orbene, questi presupposti, nello studio del problema dell’essere, come nello studio del diritto, erano costituiti da un libro, il libro della Rivelazione, nel caso della teologia, la compilazione giustinianea nel caso dello studio del diritto.
Il sorgere e i caratteri della scuola di Bologna
E’ in questo solco che germoglia la pianta più singolare e caratteristica fra quelle di questa specie: vale a dire lo studio scientifico del diritto, col conseguente precisarsi di una scienza giuridica autonoma e di un ceto di giuristi. Per questo si distinse Bologna.
Accade che dalla logica, ch’era dominio del trivio, si dirama una specifica logica giuridica, che secondo Cortese[33] tende ad influenzare la filosofia e ne viene in un secondo tempo influenzata.
Ce ne parlano alcune fonti che, nel fornirci qualche notizia sul sorgere della scuola anzidetta, non mancano di porci ulteriori complessi interrogativi. La prima di tali fonti è una cronaca lasciataci da Burcardo di Biberach, che era prevosto della abbazia di Ursperg:
"Huius temporibus magister Gratianus canones et decreta, quae variis libris erant dispersa, in unum opus compilavit adiungensque eis interdum auctoritates sanctorum patrum secundum convenientes sententias opus suum satis rationabiliter distinxit. Eisdem quoque temporibus dominus Wernerius libros legum, qui dudum neglecti fuerant nec quisquam in eis studuerat, ad petitionem Mathildae comitissae renovavit et secundum quod olim a divae recordationis imperatore Iustiniano compilati fuerant, paucis forte verbis alicubi interpositis, eos distinxit. In quibus continetur instituta prefati imperatoris, quasi principium et introductio iuris civilis; edicta quoque pretorum et aedilium curulium, quae rationem et firmitatem prestant iuri civili, haec in libro Pandectarum, videlicet in Digestis continentur; additur quoque his liber Codicis, in quo imperatorum statuta describuntur; quartus quoque liber est Autenticorum, quem prefatus Iustinianus ad suppletionem et correctionem legum imperialium superaddidit" [34].
La collocazione temporale cui rinvia il passo è un poco approssimativa. I tempi potrebbero essere quelli di Corrado II, addicendosi sia ad Irnerio (sebbene Irnerio non sia vissuto oltre il 1130), sia a Graziano (benché questi scriva il suo Decretum ben oltre tale data). La contessa Matilde muore dieci anni prima della morte di Lotario II. Da un biografo di Matilde risulterebbe - unica fonte - che nel 1111 ella sarebbe stata nominata vicario imperiale, e questa sua condizione ella avrebbe mantenuto sino alla sua morte, dunque sino al 1115. Il Cencetti - seguendo il Gaudenzi - volle trarre da tali elementi conseguenze decisive: la petitio matildica sarebbe stata un vero e proprio incarico di natura pubblica. Un tale incarico veniva di conseguenza posto all'origine stessa dell'Università di Bologna.
Questo modo di vedere è venuto meno per le critiche del De Vergottini[35], e ormai dai più si ritiene che il formarsi dell'Università derivò da un moto spontaneo di docenti e discenti. In particolare, il Cortese propende a credere che il renovavit della cronaca di Burcardo alluderebbe a un invito a preparare una sorta di edizione critica: opinione non tanto difficilmente condivisibile come sembrava ritenere Savigny, tenuto conto dello stato precario in cui materialmente dovevano trovarsi testi di così lontana compilazione e di così incerta tradizione[36]. Primo intento di Irnerio e dei suoi allievi dovette infatti essere la cosiddetta “consolidazione del testo”. La compilazione giustinianea venne ricostruita nella sua integrità e ad essa si rivolse la meticolosa attenzione con la quale venivano interpretate le auctoritates dei Santi Padri.
Una memoria dell' improvviso interesse per i testi giustinianei è presente in Odofredo il quale, a proposito della definizione di ius civile fornita dal Digesto, ricorda l'insegnamento di Irnerio e il modo in cui tale insegnamento si sarebbe affermato, partendo da una scuola di arti liberali, che egli dice essere stata già presente a Bologna, e dalla traslazione dei libri legales che, secondo la sua testimonianza, sarebbero stati portati da Roma[37] a Ravenna, e di qui a Bologna:
"Signori, dominus Yr. qui fuit apud nos lucerna iuris: id est primus qui docuit in civitate ista in artibus: nam primo cepit studium esse in civitate ista in artibus et cum studium esset destructum Rome libri legales fuerunt deportati ad civitatem Ravenne et de ravenna ad civitatem istam: quidam dominus Pepo cepit autoritate sua legere in legibus tamen quicquid fuerit de scientia sua nullius nominis fuit. sed dominus Yr. dum doceret in artibus in civitate ista cum fuerunt deportati libri legales cepit per se studere in libris nostris, et studendo cepit docere in legibus: et ipse fuit maximi nominis et fuit primus illuminator scientie nostre: et quia primus fuit qui fecit glosas in libris nostris vocamus eum lucernam iuris"[38].
Il passo ha una forma colloquiale, legata con ogni probabilità all'uso di far trascrivere le lezioni, non di rado secondo le indicazioni dello stesso magister. Potrebbe essere quindi una lectura reportata. Ovvero potrebbe essere stato lo stesso Odofredo a scriverla riproducendo lo schema della lectura[39].
Che Irnerio abbia insegnato arti liberali, come vuole Odofredo, sembrerebbe del tutto logico. Ma non v'è alcuna evidenza storica dell'esistenza di una scuola di arti liberali a Bologna. Assolutamente isolata è la fonte in cui Irnerio compare come magister, titolo che competeva ai magistri in artibus[40]. Certamente intorno all'episcopio vi doveva essere una scuola di ars dictaminis e una cerchia di canonici che vi studiava. Che Irnerio possa essere uscito da una tale scuola è ipotesi che piace a Cortese[41]. Ma più ancora gli piace un' altra ipotesi, cioè che Irnerio possa invece essersi formato in una scuola di arti notarili[42]. In tali scuole si insegnava a redigere gli atti, e quindi i diversi tipi di documento, con tutte le cautele possibili. In un altro passo di Odofredo si allude a un formulario notarile che sarebbe stato scritto da Irnerio: al quale il Fitting ha ritenuto in effetti di poter attribuire un formulario notarile di cui sono state trovate le tracce. Benché l'attribuzione sia stata successivamente messa in dubbio, la formula dell'enfiteusi che Odofredo e Accursio riconoscono essere di Irnerio, coincide con l'incipit di tale formulario. Vi sono tracce documentate di Irnerio iudex o causidicus[43].
L'idea - cui Odofredo allude anche altrove - che i libri legales sarebbero giunti da Ravenna - è tanto più interessante in quanto la littera pisana è ormai comunemente attribuita[44] a una officina scrittoria ravennate, in grande espansione all'inizio del VII secolo[45]. Pepo, o Pepone, è personaggio interessante, anche se ne è rimasto poco più del nome. A lui, nel 1190, ci si riferisce come a un clarum Bononiensium lumen: sappiamo che si presentò alla corte dell'Imperatore Enrico IV come una autorità in diritto romano[46]. Doveva essere molto conosciuto, se ancora a distanza di circa un secolo Radulfus Niger, un inglese che scrive fra il 1179 e il 1189, ne apprezzava il pensiero addirittura ponendolo in risalto rispetto allo stesso Irnerio. Odofredo lo liquida come nullius nominis. Tuttavia non può egli stesso - parlando della attività di Pepone- non qualificarla come scientia. Si potrebbe pensare che egli fosse un esempio di quel legame stretto fra attività didattica e attività forense che - pur nell’oscurità che tuttora circonda le scuole alto-medievali sembra al Cortese aver caratterizzato il periodo precedente il sorgere dell'insegnamento bolognese[47].
A stare a quanto dice Odofredo la differenza qualitativa fra Pepone e Irnerio, si radica peraltro in questo, che il primo avrebbe studiato per se, laddove Irnerio studendo cepit docere: merita di essere notata questa circostanza, perchè ci dice che alle origini della scuola di Bologna, alle origini cioè del rinnovamento degli studi superiori, v’è una unione (rimasta nonostante tutto sino ad oggi indissolubile), di ricerca e insegnamento[48]. E' appunto in questa luce che risulta essere più interessante la differenza che, proprio riguardo a Pepone sussiste fra ciò che ne dice Odofredo e ciò che ne dice Rodolfo il Nero.
Questi pone la figura di Pepone in grande risalto:
"Cum igitur a magistro Peppone velut aurora surgente iuris civilis renasceretur initium, et postmodum propagante magistro Warnerio iuris disciplinam religioso [s]cemate traheretur ad curiam Romanam, et in aliquibus partibus terrarum expanderetur in multa veneratione et munditia, ceperunt leges esse in honore simul et desiderio, adeo ut occideretur Amon, abrogato pravo ritu iudiciorum in plerisque partibus terrarum. Sed et quamquam ab initio displicerent iura principibus, quia vetustas consuetudines erasissent, tandem tamen ecclesia procurante et propagante eorum scientiam, usque ad principes produxerunt eorum notitiam, et apud eos invenit eis gratiam. Procedente vero tempore, aucto numero legis peritorum inpinguatus est dilectus, et recalcitravit in tantum ut legis doctores appellarentur domini, indigne ferentes appellari doctores vel magistri. Sed et in multis partibus orbis legis periti, vel potius picati legibus, parum docti, habundante cesarie, que eos gravaret, legum questu subito ditati et insolentes facti, fecerunt sibi currus et equites et 50 viros qui precederent eos, ad diversa genera questuum et ad consolationem rerum transitoriarum. Et mane consurgens Absalon: hoc est in brevi, postquam admissum est ius civile, surrexit ordo legis peritorum vel potius legis picatorum, et stabat iuxta introitum porte ad impediendum viam morum. Stabat laborans gratia questus temporalium, vel ignorans subtilitatem legum, et ideo nocens. Stabat iuxta introitum porte, et non in porta veritatis et via iustitiae. In causis enim emergentibus non intuentur veritatem amore divino, sed suam tantum venerantur utilitatem in omni iudicio"[49].
Va notato il titolo di dominus, che era proprio dei nobili, e che qui viene attribuito ai doctores: esso è verosimilmente connesso con la giurisdizione che essi esercitavano sugli allievi, ma forse anche con la loro ascesa sociale. Rodolfo il Nero ci attesta anche la resistenza opposta dai governanti alla diffusione della nuova scienza, la quale era suscettibile di inficiare l’autorità delle antiche consuetudini. Nello stesso tempo ci attesta anche l’importanza che ebbe in tale diffusione la Chiesa, la qual cosa scombina non poco la concezione tradizionale di un diritto romano proprio dell’Impero, in opposizione dialettica (e non solo) al diritto canonico, proprio della Chiesa.
E’ inoltre interessante la condanna della strumentalizzazione economica e sociale della scienza. Assume rilievo a questo riguardo il fatto che Rodolfo il Nero era un teologo. Egli si fa ancora portatore del punto di vista secondo il quale la sapienza appartiene a Dio e dovrebbe essere elargita gratuitamente come gratuitamente Dio la elargisce agli uomini. Non è ancora ben visto che il giurista, come il filosofo, tragga un utile dalla propria conoscenza scientifica. Di qui lo scandalo di Rodolfo il Nero, che del nuovo ceto descrive invece la grande arroganza. Il passo di Assalonne viene tratto dalla Bibbia, dove Assalonne, che è figlio di Davide, imita la regalità del padre facendosi un cocchio e un seguito di cinquanta uomini. L’immagine serve qui a descrivere la vanità dei giuristi, l’esorbitanza dei loro guadagni, l'ostentazione del numero degli studenti da cui essi si fanno seguire, come i nobili dal loro seguito. Non manca una certa condanna del formalismo della scienza giuridica, che impedisce la strada alle buone consuetudini: Tuttavia, se questi aspetti della nuova scienza vengono decisamente condannati, sono invece palesemente condivise le motivazioni che secondo questo teologo avrebbero presieduto tanto alla promozione del diritto romano da parte della Chiesa, quanto al suo progressivo successo: la necessità di abrogare il pravus ritus iudiciorum, e cioè la soluzione delle controversie intersoggettive tramite il ricorso alle ordalie, al duello, alla faida, a favore di procedimenti giurisdizionali che il diritto romano aiutava a individuare[50].
La funzione dell'Università
Sin dal principio la scuola di Bologna fu caratterizzata da una fama che oscurò quelle delle scuole (od
università) che l'avevano preceduta[51]. Essa si faceva forte della costituzione Habita, concessa dall’imperatore Federico Barbarossa nel 1155 a favore degli studenti bolognesi (vi torneremo fra poco), e della partecipazione dei dottori bolognesi alla dieta di Roncaglia del 1158, cioè la Dieta in cui lo stesso Imperatore, proprio grazie al loro consiglio, rivendicò alla corona le regalie e condannò le conventiculae e le coniurationes contrarie alla pace pubblica. Ma soprattutto si avvalse della più brillante campagna pubblicitaria che si possa portare ad esempio: il diritto giustinianeo venne presentato come un corpo di norme capace di porsi al di là del piano della mutevolezza in virtù dell’auctoritas che i giuristi gli riconoscevano, e in pari tempo questa stessa auctoritas venne a qualificare coloro i quali nello studio di quel diritto venivano riconosciuti maestri, e le loro opiniones. Presto - come rilevarono Bussi ed Engelman già negli anni '30 - queste opiniones vennero considerate a loro volta così autorevoli che su di esse si andò indirizzando l’analisi dei nuovi interpreti. I quali, di conseguenza, finivano con il trascurare il testo della raccolta imperiale per studiare la Glossa di Accursio o i commenti di Bartolo[52].
Questo elemento risponde in parte al quesito che si pone a molti studiosi: cosa si aspettavano gli studenti dall'Università?
La risposta che la storiografia tradizionale ha proposto per questa domanda è: l'apprendimento del diritto dell'Impero. Ma il corso di studi, gli esami, i gradi accademici non erano direttamente orientati a introdurre ad alcuna occupazione se non all'insegnamento stesso. La licentia ubique docendi non conferiva se non il diritto formale ad insegnare, sciogliendosi dalla guida di un maestro. Certo, i docenti universitari costituirono presto una forte corporazione, con un proprio status; una élite, secondo la testimonianza di Rodolfo il Nero[53]. Essi venivano chiamati a fornire pareri autorevoli circa questioni importanti, venivano nominati come ambasciatori, come mediatori o arbitri nelle controversie fra città e città, fra signore e signore, collaboravano alla stesura degli statuti, e presto non vi fu giudice che si sottraesse ai loro consilia[54].
Il problema si lega, senza identificarvisi, con quello, speculare, di cosa si aspettavano le autorità dalle Università. Colpisce, infatti, che i re di Inghilterra, Francia, Spagna, Portogallo, Boemia, Polonia, Ungheria, seguiti da duchi e conti, nei territori da loro dominati, fecero a gara per fondare e proteggere i centri di studio universitari[55]. Anche se essi giustificavano i propri provvedimenti con la sollecitudine nei confronti dei giovani e delle loro necessità (come chiarisce Federico II in occasione della fondazione della Università di Napoli), è verosimile che essi si aspettassero un adeguato sostegno intellettuale al consolidamento del loro potere avverso la forza centrifuga della nobiltà[56]. E’ un fatto che - come affiora abbastanza chiaramente dalla stessa evoluzione del concetto di sovranità - sono i giuristi a trarre dallo studio del diritto romano il mantello splendente che del superanus medievale, titolare di tanti diritti quanti gliene derivano dai suoi dominia e dai rapporti feudali istituiti con i suoi vassalli, farà il sovrano in senso moderno, titolare di un unico potere di impero sui sudditi[57].
Metodi di studio e forme letterarie
Forma letteraria principale e strumento di indagine fu la glossa: già usata in passato per spiegare singoli verba o interi passi e collocata fra le righe o ai margini dei testi giuridici. La scuola tende così a un tempo alla ricostruzione integrale del testo giustinianeo e alla sua interpretazione, e lega in maniera inscindibile lezione ed esegesi giuridica, ricerca e insegnamento, sciogliendo lo studio del diritto da quello delle arti liberali, efacendone un’ arte autonoma. Con Irnerio cominciò anche, consentito dalla grande padronanza del testo che anche i suoi allievi dimostrano di possedere, il richiamo ai testi paralleli della compilazione giustinianea, nella manifesta intenzione di pervenire non solo alla interpretazione di singoli verba, ma alla ricostruzione della disciplina degli istituti. Una intenzione, questa, che la storiografioa meno recente riteneva si fosse affacciato non prima dei Commentatori.
L’opera esegetica e didattica proseguì con intensità e impegno per tutto il secolo XII cucendo ai margini del testo giustinianeo il dibattito su temi di forte attualità. Il risultato fu che si stabilì una corrispondenza convenzionale fra certi passi della compilazione giustinianea e certi temi cari al dibattito giuridico[58]. Nelle centinaia di manoscritti superstiti (in merito specificatamente all'università di Bologna) troviamo glosse di innumerevoli maestri (Martino, Bulgaro, Rogerio, Alberico di Porta Ravennate, Enrico da Baila, Piacentino, Pillio, Giovanni Bassiano, Guglielmo da Cambriano, Azzone, Ugolino dei Presbiteri, Iacopo Baldovini, Carlo di Tocco, Benedetto da Isernia, Roffredo Beneventano e altri. Le glosse sono scritte nella scuola e per la scuola. A volte l’aggregazione di aggiunte successive ha dato luogo a “strati” che sono riconducibili a un reticolo composto da molte glosse: il Bellomo chiama “reticolo didattico” l’insieme dei frammenti orali documentati, e perciò superstiti, di un corso di lezioni. L’apparatus sarebbe invece il risultato di un ordine che un giurista ha assegnato a determinate glosse, scritte ex novo per l’occasione, o selezionate fra quelle preesistenti[59].
Tra il terzo e il quarto decennio del secolo XIII Accursio[60] si assunse il compito di un bilancio dell’attività esegetica, passando al vaglio il materiale che col tempo si era venuto accumulando, e producendo un apparato che risultò composto di 96000 glosse. L’opera riscosse un immediato successo e in molti manoscritti accompagnò da allora il testo giustinianeo, racchiudendolo in una sorta di abbraccio esegetico, che venne indicato come Magna Glossa o Glossa ordinaria. Dalla metà del sec. XV questa venne costantemente pubblicata, insieme al testo giustinianeo, nelle edizioni a stampa del Corpus Juris.
Intanto, però, la giurisprudenza aveva cominciato a rivolgere la sua attenzione anche ad altri ambiti di indagine, aprendosi allo studio del diritto canonico, del diritto feudale, del diritto statutario. Del diritto feudale, proprio a uno studente bolognese viene attribuita l’iniziativa grazie alla quale viene raccolto il materiale normativo. A Oberto dall’Orto si deve così (negli ultimi decenni del sec. XII) una raccolta di consuetudini feudali, poi ripresa da Jacopo Ardizzone, e infine da Accursio (con glossa di Jacopo Colombi): si tratta dei cd. Libri feudorum (due libri, divisi in titoli) i quali vengono aggiunti alla decima collatio del volumen[61] insieme con alcune costituzioni imperiali. Poco studiato a Bologna, quanto meno nei primi tempi, al diritto feudale si prestava viceversa grande attenzione nella vicina Modena, ove secondo Santini già prima di Pillio esisteva una scuola di diritto aperta a influenze canonistiche e feudali[62].
Insieme alla Glossa altri generi letterari si vennero evolvendo. Essi sono stati di recente distinti dal Cortese in due raggruppamenti. Il primo sarebbe quello dei generi di tipo esegetico: come lecturae, repetitiones, commenta, casus; il secondo, di tipo espositivo-sistematico comprenderebbe le summae titulorum e le summulae su temi particolari. Si fecero summae del Codice (oltre alla famosa summa trecensis si conoscono quella di Rogerio, Piacentino, e, massima fra tutte, di Azzone); delle Istituzioni (Piacentino e ancora Azzone); dei Libri feudorum (Pillio, Jacopo Colombi, Jacopo Ardizzone); dell’Authenticum (Giovanni Bassiano).
Lo studio del diritto romano non fu esclusivo del centro bolognese, né in quest’ultimo si insegnò solo diritto. Vi fu una diffusione impressionante dell’interesse per la nuova scienza in tutta Europa, e molti altri centri di studio superiore si aprirono a imitazione di quello Bolognese, alcuni grandi, alcuni minori[63]. E vi fu un accorrere a Bologna di studenti da ogni parte d’Europa così come un muoversi di docenti con un intensissimo interscambio culturale.
Frutto di questo scambio sarà infatti la virata della scuola di Bologna verso tecniche interpretative che faranno proprio il suggerimento orleanese di un uso più insistito della dialettica, e di un maggiore distacco dal testo giustinianeo.
L'organizzazione dell’Università
Dunque accadeva che la fama guadagnata da taluno per il suo insegnamento invitasse molti ad udirlo e a imitarne l’esempio, per cui i discepoli si staccavano dal maestro per formare una scuola a sè stante.
La mobilità del sec. XII è un fenomeno ben noto che riguarda cavalieri, mercanti, pellegrini. E' un'epoca di grandi viaggi, favoriti dalla adesione di molti studiosi alla vita clericale e dalla non invasività delle istituzioni così ben delineata dal Bussi nella sua "Evoluzione storica dei tipi di Stato" e più di recente nell'Ordine giuridico medievale del Grossi[64]: lo Stato (il termine stesso, se applicato al periodo in esame va inteso in una accezione diversa da quella comune alla moderna pubblicistica) non è ora altro che il personale dominio del Principe, e come tale viene amministrato. Restano al di fuori di questa amministrazione molte funzioni oggi ritenute squisitamente sovrane, come per l'appunto la normazione in tema di rapporti fra privati e di istruzione. Tali funzioni possono essere quindi assolte dai privati con i propri mezzi, e in questo quadro lo spazio della dottrina è alto e ampio[65].
Si va dunque dove il maestro ha fama. Con esso, lo studente contratta un onorario - collecta[66] - per la lezione. Altre collectae saranno dovute anche per l'eventuale alloggio (pro pensione, pro bancis) e per il bidello. Alcuni si fermano solo il tempo che serve a mettere le piume[67].
Movendosi si perde la protezione della propria città o del proprio signore, e se non si è chierici non si può usufruire di quella fornita dallo status clericale. La Storti Storchi ricorda che, oltrechè limitato dal territorio, il diritto proprio della civitas di arrivo esercitava la sua forza coercitiva solo sulle persone soggette all'ordinamento territoriale che l'aveva promulgato[68].
L'anonimo autore del Carmen Frederici I ci informa di come, in viaggio per Roma ove doveva essere incoronato, l'Imperatore avesse ricevuto gli studenti che chiedevano di essere garantiti ut nemo studium exercere volentes impediat stantes nec euntes nec redeuntes[69]. Con la costituzione promulgata in quella occasione la famosa costituzione Habita (1115)[70], l'imperatore: a) concesse a professori e studenti di diritto il privilegio della sicurezza di movimento e di residenza in ogni sede "universitaria"; b) professando compassione per chi spendeva la sua vita e le sue sostanze e affrontava mille rischi per seguire la via della scienza, pose studenti e docenti sotto la sua diretta protezione; nessuno studente poteva essere molestato o privato dei suoi beni per rappresaglia nei confronti della sua città di appartenenza, a pena di dover rimborsare i quadruplo e, per i magistrati, di essere radiato dall'ufficio; c) la giurisdizione sugli scolari poteva essere esercitata, a scelta degli stessi, dai loro propri maestri o dalla corte vescovile[71]. Così, da un lato, fu esteso agli studenti laici il privilegio di foro che era proprio dei chierici; dall’altro, le persone degli studenti e dei professori, prevalentemente estranee al diritto territoriale di Bologna, venivano a trovarsi sotto la tuitio imperiale. Probabilmente la costituzione servì anche a escludere la responsabilità solidale dei docenti per i debiti dei loro scolari[72].
Ecco che fra il professore e i suoi allievi si forma una comitiva (in questo Bellomo si stacca dalla precedente visione del Cencetti e da quella del Calasso che vi vedevano una societas)[73]: una comunità di amici e compagni sulla quale il magister ha la giurisdizione come il dominus sulla sua famiglia[74]. Il maestro chiama gli allievi socii mei e quelli lo chiamano dominus: un rapporto che richiama alla mente una gerarchia e, insieme, l'assunzione di un onere di protezione. Non sappiamo se le comitivae già attorno al 1160-1170 si siano chiamate universitates né se il termine universitas sia stato adoperato al singolare per indicare l'insieme di tutte le comitivae. L’articolazione del mondo degli studi non è uniforme: generalmente, però, esso parte dalla schola, che è sistemata nella stessa casa del maestro. Il dominus della casa è generalmente anche il doctor che regge la scuola (ma Piacentino è alloggiato presso i Da Castello, Alberico di Porta Ravennate presso un edificio del Comune).
Certo, la crescita del fenomeno porta alla sua modificazione. Nei decenni centrali del sec. XII, attorno e dentro ogni scuola si formano delle associazioni. Per quanto concerne gli scholares, gli allievi di una scuola cominciano a legarsi e distinguersi in consortia, fraternitates, communitates tese al raggiungimento di fini specifici. Uno di questi fini poteva essere, ad esempio, il poter disporre di un libro: bisogna tener presente che per un codice, come ricorda Bellomo[75], erano necessarie le pelli di almeno cento pecore, dunque si trattava di un oggetto costoso, fuori della portata delle tasche dei più[76]. Ma soprattutto ci si univa per gestire i rapporti con il maestro. La tendenza a non terminare la spiegazione del libro pattuito, o a sorvolare sulle parti difficili, poichè i maestri erano pagati in ragione delle lezioni impartite, portò alla punctatio librorum: il maestro dovette obbligarsi, cioè, a non tralasciare le parti specificamente concordate.
Talvolta il fattore aggregante è la provenienza geografica degli studenti, che allora si distinguono per nationes. Così si ebbe a Padova, a Bologna e altrove una fitta rete di corporazioni nazionali nelle quali si raccolsero gli Italiani, i Provenzali, i Francesi, i Tedeschi. Tali unioni di studenti, nella convergenza di interessi scientifici ed economici, a fronte dei professori e del comune di Bologna, viene designata con il nome di universitas, un termine destinato ad avere successo. L'universitas finisce presto con il prevalere sulla comitiva, che ai tempi di Azzone designa ormai il gruppo degli studenti più vicini al maestro. La struttura, variamente atteggiata, che queste universitates si dettero, tipizzò l’ordinamento universitario fino alla Rivoluzione Francese.
L'universitas, è dunque, in un certo modo, un frutto della tendenza associativa del tempo, la stessa che presiede all’affermazione del Comune[77]: l'unione per il perseguimento di uno scopo, nella garanzia della pace interna e della difesa dai pericoli esterni. Col nome di Università, infatti, non si voleva intendere nè che i suoi componenti erano in possesso di tutto il patrimonio dello scibile, nè quell’aspetto che venne successivamente indicato nell'altro modo con cui vennero chiamate le Università, cioè studium generale. Con quest’ultima espressione si voleva intendere sia che convenivano a studiare nell’Università studenti da ogni paese, sia che i titoli che tali studia conferivano erano riconosciuti ovunque. Il termine universitas riflette invece proprio il fenomeno corporativo che sottende alla organizzazione degli studi. Si poteva trattare di una corporazione di professori, come a Parigi, ovvero di una corporazione di studenti, come a Bologna: sta di fatto che le Università, come ebbe a notare già il Pertile, si diedero degli statuti, i quali erano compilati a nome dell’Università da giunte elettive senza che fosse necessaria la conferma da parte dell’Università tutta[78]. I Comuni nei quali vennero addensandosi le Università non reagirono in modo uniforme: generalmente intravvedendo i vantaggi derivanti dalla presenza della nuova istituzione, o cercarono di trattenere gli scolari col minacciare pene a chi si allontanava; oppure li allettarono con privilegi di varia natura. In quest’ultimo caso gli studenti ottennero vari privilegi: esenzioni fiscali, il diritto di portare le armi, libertà di gioco, esenzione dal servizio militare, esenzione dalle rappresaglie, diritto d'asilo nelle Università e nei Collegi, esclusione dalla pena della prigione per debiti. Non solo: molti Comuni tennero aperte le proprie casse per quei mutui di cui gli scolari spesso avevano bisogno, specialmente per acquistare i manoscritti. Una certa spinta evolutiva la dovette dare il Comune di Bologna, allorché (1182) volle obbligare i professori a prestare giuramento di non insegnare altrove. Di certo, sulla organizzazione interna si sa che entro la fine del secolo si svolgevano libere elezioni dei rettori delle Università da parte degli studenti. Come ricorda il Rossi[79], vi si opponevano i maestri i quali, a cominciare da Giovanni Bassiano e dallo stesso Azzone, rivendicavano a sè tale diritto, a somiglianza di quanto facevano i maestri delle corporazioni di mestiere che si andavano allargando in città. Nella vicina Modena, il breve di Onorio III assoggetta gli studenti alla giurisdizione vescovile.
Il Rettore
A Bologna si distinguono una universitas citramontanorum, e una universitas ultramontanorum, rispettivamente formate dagli studenti provenienti di qua o di là delle Alpi. Sono rette ciascuna da un rector. Il rettore è uno studente con qualche anno di vita studentesca, eletto dagli studenti forestieri[80], secondo un uso che durò a Padova sino al 1644, e a Pavia sino al 1808, quando Napoleone volle a capo della Università un professore. Il Rettore doveva avere non meno di ventidue anni, essere di natali legittimi, avere buona fama, e possibilmente essere dotato di beni propri, perché non mancavano le spese per le festività. Egli aveva un abito particolare, presiedeva il Consiglio delle nazioni e il Tribunale universitario. Attivo fin da prima del 1190, conduceva anche le trattative con le autorità del comune civitatis.
Con l’affermarsi della carica del rettore il privilegio del foro è ormai sancito, pur se è dubbio in quale misura vi fosse compresa o no la giurisdizione criminale. Va ricordato che ad essa avevano rinunciato i maestri: è tradizione che la rinuncia alla giurisdizione criminale sia stata fatta da questi ultimi all'epoca di Azzone, in occasione della grossa lite che oppose fra loro Lombardi e Toschi[81]. Il declino della giurisdizione dottorale a favore di quella rettorale si verifica subito, e da Bologna si estende presto anche alle altre Università[82].
Inoltre, la giurisdizione del Rettore riguarda, come è comprensibile, solo gli studenti stranieri. Alla fine del secolo s'incominciano a incontrare i primi atti giudiziari, e le prime sentenze rettorali che ci siano pervenute. Si tratta di una giurisdizione di cui evidentemente si possono tracciare i profili solo a partire dagli statuti che ci sono pervenuti. Essa comprende generalmente le cause civili e quelle penali di minor conto[83]. A Bologna, la competenza del Rettore è indeclinabile, anche da parte degli ecclesiastici, è inappellabile, e può giungere a comminare la privazione del commodum universitatis come pena unica e massima applicata anche ai non scolari. Come il podestà del Comune, il rettore era sottoposto al sindacato da parte dei capi delle nazioni, oppure dei capi dei due corpi dei citramontani e degli ultramontani, che rappresentarono per più secoli l'organismo unitario delle nostre Università.
Non solo Bologna
Il successo di Bologna non deve far dimenticare gli altri centri di studio che fiorirono numerosi in Italia e altrove. Alcune Università non fecero altro, nella redazione dei loro primi Statuti, che trascrivere quelli bolognesi, altre, come Firenze e Perugia, li rielaborarono: Firenze nel 1387 ammette che il Rettore sia competente anche per i levia delicta e cioè ubicumque arma non intervenerint. A Parma, il rettore è associato al podestà nella cognizione criminale degli Studenti, mentre a Pisa, nel 1487, al foro rettorale sono espressamente attribuite le cause penali non punibili con la morte o con la rescissione di un membro.
Altre Università, infine, seguirono strade completamente diverse. In Sicilia, Federico II offrì la sua protezione agli studenti che avrebbero frequentato lo Studium di Napoli, vietando al contempo a chiunque di lasciare il Regno per insegnare o studiare altrove, con la minaccia di punire i parenti di chi non fosse tornato per il giorno di S. Michele, il 29 Settembre. Anche qui, gli studenti erano soggetti alla giurisdizione dei loro magistri, seppur solo per le cause civili, come a Montpellier. Veniva anche stabilito che il prezzo degli alloggi (hospitia) potesse essere fissato da una commissione mista di studenti e proprietari. Una differenza assai marcata, infine, fra l'Università di Napoli e le altre, consisteva nel fatto che le autorità ecclesiastiche non avevano alcun potere né per il reclutamento dei docenti, né per il conferimento della licentia docendi, né infine per l'esercizio del potere giurisdizionale[84]. In diverse occasioni (1226, 1234, 1239) Federico II ripetutamente invitò docenti e scolari della scuola di Bologna, italiani o ultramontani, a lasciare Bologna e recarsi a Napoli, evidentemente desideroso di formare una élite capace di fare da supporto al suo trono. Non a caso, egli affermò che il suo trono si giovava tanto della forza della legge quanto della forza delle armi[85].
Modello assai diverso da quello bolognese segue per altro verso anche la scuola di Parigi, ove, sin dal principio, i maestri ebbero l'assoluta supremazia della corporazione. L'Università di Parigi, che venne alla luce pressocchè nello stesso tempo di quella di Bologna, si sviluppa come differenziazione dalle tradizionali scuole ecclesiastiche che erano attive a Parigi intorno alla fine del XI secolo, e la principale delle quali era quella del capitolo di Notre Dame. L'Università è qui il frutto di una iniziativa di maestri privati indipendenti, i quali derivano la loro licencia docendi dal cancelliere di Notre Dame[86]. La nascita dell'Università di Parigi vede i maestri costituirsi in corporazione, dotarsi di statuti, cooptare i colleghi, ed eludere il controllo del cancelliere di Notre Dame. La cosa non avvenne senza dissidi con la cattedrale. Tali dissidi furono composti dall'intervento del re di Francia e dal Papa come arbitri: il re concesse agli studenti i privilegi di cui godevano i chierici (1200); il Papa garantì all'Università i suoi primi statuti (1215 e 1231). Anche nei rispettivi indirizzi Bologna e Parigi furono molto diverse. L'Università parigina divenne, con Innocenzo III e Gregorio IX, quasi una istituzione ecclesiastica. Onorio II ne bandì l'insegnamento del diritto romano, sicchè essa rimase il crogiuolo ove si chiarificava la voce ufficiale della Chiesa nelle questioni riguardanti la fede e la dottrina.
Ma vi sono anche Università che nascono dalla volontà del comune di dotarsi di un'Università. Cosi, ad esempio, l'Università di Vercelli. In questo caso, il comune invia fideles ambaxiatores juratos affinché prendano contatto con Omobono per indurlo a recarsi a insegnare costì. Il comune si impegna al pagamento delle lezioni, mentre l'ammontare viene determinato da due studenti e due cittadini[87]. Percorso simile compie anche Pisa, ove torna alla luce l’antichissima littera pisana delle pandette. A Oxford uno studio compare già a partire dal XII secolo. In Francia il fenomeno non si limita al fiorire di Parigi e di Montpellier, ma vede anche Toulouse, e Orléans, per la quale cinque bolle di Clemente V, suo antico allievo, organizzano lo studium generale[88]. In Spagna sorgono Palencia e Lérida. In Italia, Modena, Reggio, Padova, contendono il primato di Bologna. La maggior parte di queste scuole nasce spontaneamente e spontaneamente lo studente vi entra. Questo dato non viene contraddetto dal fatto che anche le più antiche a un certo punto (Montpellier 1289, Bologna 1291, Parigi 1292) ricevettero dal Papa la conferma della loro qualità di studium generale. Oxford non ricevette mai un tale riconoscimento ma non ne soffrì. Talvolta la scuola nasce per gemmazione di una scuola precedente: Oxford deve la sua nascita ad una migrazione di studenti parigini; Cambridge a studenti venuti da Oxford. Padova è figlia di Bologna, Parigi è madre di Colonia e Colonia di Lovanio[89]. Nei primi decenni del XII secolo solo le scuole di Bologna fra loro concorrenti, sono famose, tra la fine del secolo e l’inizio del successivo, sono molte quelle che aspirano ad accogliere gli studenti e vi riescono. Le origini dell'Università di Erfurt sono particolari: alla fine del XII secolo le scuole conventuali di quel tempo avevano un ruolo decisivo nella educazione dei giovani pur non essendovi ammessi i laici. Più di 1000 studenti assistevano ai corsi. Ognuna delle scuole aveva un magister scholarum. L'insegnamento equivaleva a quello delle arti delle altre Università. Verso la metà del XIII secolo, queste scuole si raggruppano sotto la direzione di un rector superior, il raggruppamento viene chiamato studium generale e in una supplica a Urbano V (1362-1363) tesa a ottenerne il riconoscimento, il suo direttore si qualifica come Rector superior studii generalis et solemnioris Alamanniae artium Erfordensis. I collegia
Come abbiamo visto, verso la fine del XII secolo la comitiva comincia a perdere spessore perchè gli studenti di varie comitivae e di diverse scholae si aggregano in nuove organizzazioni che prendono il nome di nationes o universitates. Le linee di sviluppo si divaricano lungo due direttrici: da un lato il modello bolognese, dall’altro quello parigino. Il modello parigino comporta l'associazione dei magistri che si riuniscono anch’essi in collegia: vi sono quelli dei civilisti, dei canonisti, dei medici, degli artisti.
A Bologna prevale la componente studentesca che dapprima si attesta nelle nationes e rapidamente prende corpo e forma in associazioni più ampie che vengono chiamate universitates. A Bologna si distinguono quelle degli ultramontani e dei citramontani, comprendente, quest’ultima, le quattro nationes degli Italiani: Lombardi, Toscani, Romani, Campani.
Ma collegia sono chiamati anche gli ostelli sorti per ovviare alla penuria di alloggi. Tutte le città universitarie (Oxford, Avignone, Parigi, Bologna, Tolosa) hanno visto svilupparsi numerosi collegi, (halls, aulae in Inghilterra, bursale in Germania). Quello fondato a Parigi dal cappellano di Saint-Louis è uno dei più celebri (1257). Talvolta sono le nazioni stesse che fondano un collegio. Si ebbero così a Parigi il collegio degli Inglesi, quello degli Scozzesi e quello dei Lombardi. A Bologna il collegio Reggiano e il collegio di Spagna. A Padova i collegi dei Tedeschi, dei Dalmati, dei Francesi, degli Armeni. Normalmente i collegi avevano una regola interna che si imponeva ai suoi utenti.
Funzioni importanti per la vita universitaria restano attribuite anche a personaggi che all’Università non appartengono, come il Vescovo o l’Arcidiacono: una bolla di Onorio III, del 1219, affida all’arcidiacono di Bologna il compito di attribuire ai candidati meritevoli le insegne dottorali. L’esame del merito così sdoppia: dapprima vi è un esame privato (la privata) che si svolge in sacrestia, di cui sono responsabili i professori (il collegium) poi l’esame pubblico (pubblica, conventus) nella cattedrale, che era una cerimonia solenne e assai costosa[90]. L'esame collegiale dei docenti, teso ad ottenere il dottorato, diventa il nucleo intorno al quale si cristallizza la comunità dei dottori[91]. Esso serve anche da presupposto per la cooptazione del circolo dei professori[92]. La corporazione dei legisti era così potente a Bologna che solo nel 1288 gli studenti di medicina ottennero di godere degli stessi privilegi. A Parigi, nel 1213 il Cancelliere formula la Magna Charta dell'Università, la quale viene poi incorporata nella Bolla Parens scientiarum di papa Gregorio IX. Con la quale si confermò l'obbligo del Cancelliere di ottenere il voto dei professori in tutte quelle decisioni che riguardavano l'insegnamento della teologia e del diritto canonico.
A Reggio è il commune civitatis che vuole ordinare studium e stabilisce le modalità secondo le quali gli studenti si dovevano distribuire fra le scuole già esistenti[93]. Ma l’intervento proveniente dall’esterno dell’Universtà è raro. E’ più frequente che siano gli stessi capi delle universitates, i Rectores, studenti di più matura esperienza, a mettere alla prova la forza della Universitas sia nei confronti dei professori, soprattutto per quanto concerneva l’electio della scuola da frequentare o da evitare, sia nei confronti degli stationarii peciarum o stationarii exempla tenentes, che sono quelli specializzati nella copiatura dei testi.
A Parigi, è caratteristico il fatto che sono compresi in un unico ordinamento i tre elementi che a Bologna compaiono invece separati: studenti, professori e cancelliere con poteri di governo. Questo tipo di struttura tende a prevalere anche in Italia a mano a mano che dalle Università scholarium si passa all’Università scholarum; nel ‘400 è questa la struttura prevalente, e la troviamo a Perugia, Firenze, Pavia, Catania e fuori d’Italia a Praga (1348), Pecs, Heidelberg (1386), Tolosa, Salamanca.
Anche a Bologna, l'intervento del Comune si sviluppa per gradi, assorbendo pian piano i compiti che erano stati della Universitas scholarium. I maestri che erano scelti dagli studenti vengono dapprima stipendiati dal Comune, poi nominati dallo stesso. Alla metà del XVI secolo, il processo è pressocchè compiuto. Ma un mutamento veramente significativo fu il sorgere di una magistratura specifica: quella dei "Riformatori dello Studio", organo creato fra il 1349 e il 1384. Si trattò di un organo amministrativo e tecnico, emanazione degli anziani, con funzione di controllo e di governo in vista dell' applicazione e osservanza delle leggi che regolano lo studio, così come della compilazione e redazione annuale dei rotuli dei lettori e del controllo effettivo delle loro eventuali inadempienze.
Pur mostrando una evidente tendenza ad essere fagocitata dal potere pubblico, l’Università non perde tuttavia la sua caratteristica autonomia fin quasi all’età contemporanea. Attaccata dall’affermarsi dello Stato accentrato, la soppressione di tale autonomia diviene un fatto compiuto con la Rivoluzione Francese, quando l’Assemblea Costituente sopprime le corporazioni degli insegnanti. Fondando nel 1806 l’Università imperiale, Napoleone I afferma il monopolio statale del sistema educativo[94].
Mentre in Europa, in seguito a tale riforma, le Università mutavano la loro intima costituzione, le nostre antiche istituzioni universitarie dall'Inghilterra venivano trasportate in America, dove i collegi universitari si costituivano sul modello che era stato proprio delle nostre Università medievali[95].
NOTE [1]G. MAKDISI, The Rise of Colleges, Institutions of Learning in Islam and the West, Edinburgh 1981, p.287 e ss.; cfr W. Rüegg, Themes, in A history of the University in Europe, (a cura di H. De Ridder-Symoens), Cambridge 1992, p. XIX e ss.
[2] La differenza è marcata dal fatto che il termine djmi'a, che designa ufficialmente le Università moderne, non entra in uso prima del XIX secolo, come traduzione letterale di Università (la radice è la stessa di djama'a, unire). Tradizionalmente il centro di insegnamento superiore (madrasa) si sviluppa a fianco della Moschea, soprattutto per inculcare negli allievi la conoscenza dei testi sacri. Dunque il punto di partenza è costituito dall'apprendere a memoria il Corano, seguito dallo studio degli ahadîth, cioè le tradizioni dei detti o fatti di Maometto, con il quale, essendo egli il suggello dei profeti, cessa la produzione legislativa. Lo studio della parte di Legge Sacra che attiene alle attività esterne equivale allo studio del diritto (fiqh). La maggior dottrina che veniva riconosciuta a taluni maestri, fece sì che intorno ad essi si adunassero persone intente a raccoglierne gli insegnamenti. In questa guisa si formarono dei gruppi, che in favore del loro madhhab (letteralmente via, passaggio, ma poi anche sistema, scuola) invocarono l'autorità dei loro maestri. Anche nel mondo arabo si assiste al fenomeno delle migrazioni degli studenti alla ricerca di dotti insegnanti. I primi circoli si formarono nelle moschee, poi nelle case del maestro. In tema vedi E. BUSSI, Principi di diritto musulmano, Milano 1943, p. 34; J. PEDERSEN [G. MAKDISI], voce Madrasa, in Enciclopédie de l'Islam, vol. V (1985), p. 1119; C. Baffoni, L’apporto della civiltà classica e araba alla cultura europea del Medioevo, in Le Università dell’Europa. La nascita delle Università (a cura di G.P. Brizzi e J. Verger), Milano 1990, p. 53 e ss.
[3] Molto presto, il mondo islamico comprese l'importanza della trasmissione del sapere e ne fece una scienza: il tahammul al-'ilm . I circoli si formavano spontaneamente. Nel Khorâssân certi istituti offrivano alloggio agli studenti partiti da diversi punti dell'impero musulmano Da qui nacque la medersa, che di tali circoli fu una sistematizzazione. Infatti nel XI secolo il visir selgiuchide Nizâmalmuk creò un waqf , cioè una fondazione destinata a sovvenzionare una medersa; e così a Bagdad fu fondata la Nizamiyya. Ciò che l'insegnamento guadagnò in stabilità, perse però in libertà di azione e di pensiero, perchè i professori furono nominati dall'autorità fondatrice, e i programmi vennero definiti dalla stessa. M. AZIZA, Oriente e Occidente: tra il minareto e la cattedrale all'inizio c'è Bologna, in Saecularia nona, 4, 24
[4] J. VERGER, Patterns, in A History, cit. , p. 35.
[5] C. MEINER, über die Verfassung und Verwaltung der deutschen Universitäten, Göttingen 1802 (= Aalen 1973).
[6] Sul punto W. PRAHL, Sozialgeschichte der Universität, Münich 1978, p. 13.
[7] H. GRUNDMANN, Vom Ursprung der Universität im Mittelalter, Darmstadt, 1957, p. 36-39.
[8] P. CLASSEN, Studium und Gesellschaft im Mittelalter, Stuttgart, 1983, p. 25.
[9] A. B. COBBAN, The Medieval Universities, 1975, p. 8; A. ESCH, Die Anfänge der Universität im Mittelalter, Rektoratrede Universität Bern, Bern, 1985, p. 8 ss.
[10] J. LE GOFF, Les universités et les pouvoirs publics au Moyen Age et à la Renaissance, in Rapports du XIIe congrès international des sciences historiques, III, Vienna 1965, p. 189.
[11]M. BELLOMO, Saggio sull’Università nell’età del diritto comune, p. 14. Il Bellomo pensa soprattutto a Bologna, che viene assunta a modello delle altre Università medievali.
[12] Rüegg, Themes, cit., p. 30 e ss.
[13] C.H. Haskins, The Renaissance of the 12th Century, tr. it. La rinascenza del dodicesimo secolo, Bologna 1972
. [14] G. CASSANDRO, Lezioni di diritto comune, Napoli 1971, p. 16.
[15] Vedi HASKINS, op. cit., p. 47.
[16] GILSON, La filosofia del Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, tr. it., Firenze 1983=1973, p. 313.
[17] Ioannis Saresberiensis, Metalogicon, lib. III, cap. 4, ed. Oxonii 1929, p, 136.
[18] CASSANDRO, op. cit., p. 31.
[19] Vedine la descrizione in IOANNIS SARESBERIENSIS, Metalogicon, l. I, cap. 12, ed. cit. p. 30.
[20] Sull'interrelazione fra simbolismo (le radici del quale risalivano al pensiero del mondo antico, attraverso Boezio, Sant'Agostino, Isidoro di Siviglia) e interpretazione giuridica, vedi V. PIANO MORTARI, Dogmatica e interpretazione. I giuristi medievali, Napoli 1976, p.125 e ss.; sulla mentalità simbolica, cfr. M-D. CHENU, La theologie au douzième siècle, Paris 19763, trad. it. La teologia nel Medio Evo. La teologia nel sec. XII, Milano 1972, p. 192 e ss.; nonchè, dello stesso, La teologia come scienza nel XIII secolo, cit., p. 48 e ss.
[21] E. CORTESE, Il Rinascimento giuridico medievale, Roma 1996, p. 17.
[22] TOMMASO D'AQUINO, In librum Boetii De trinitate, 2, II, 1, hrg. P. Wyser, Fribourg 1948.
[23]Sui caratteri dello studio della medicina vedi HASKINS, op. cit., p. 282 e ss.
[24] Invectiva contra medicum, ed Ricci, Roma, 1950, l.1, cap. V; l. 2, cap XVIII; su tutto ciò cfr. Rüegg, op. cit., p. 27
[25] Rüegg, op. cit., p.30.
[26] U. SANTARELLI, L'esperienza giuridica medievale, Torino 1977, p. 4. Sul punto cfr, ORESTANO, Introduzione allo studio storico del diritto romano,Torino 19612, pp. 131.
[27]Si pensi al famoso Placito di Marturi o Martuli (1075) (vedilo in MANARESI, I placiti del Regnum Italiae, vol.III, p.1, pag. 333-335: qui la controversia fra il monastero di S. Michele in Castello, rappresentato dall’avvocato Giovanni, e Sigizone di Firenze, concernente dei beni e una chiesa siti in loco papaiano, viene deciso applicando una norma del digestum vetus(D.4,6,26) per la quale il pretore concedeva la restitutio in integrum a coloro che non avevano potuto adire il giudice; vale a dire in caso di denegata giustizia. In questo caso i beni, donati dal marchese Guinizone di Toscana al monastero, erano poi stati usurpati e posseduti dallo stesso Sigizone per oltre quarant’anni (prescrizione lunga). Il monastero, a dire il vero, aveva nel frattempo, con gli atti opportuni, interrotto la prescrizione, del che rendono testimonianza giurata sia l’advocatus Giovanni sia altri due testimoni. Tuttavia, nel placito si preferisce richiamare una norma del Digesto molto più raffinata e complessa. Il placito, tenuto alla presenza di Nordillo, missus della marchesa Beatrice di Toscana, viene normalmente citato come prova del rinnovato serpeggiare della conoscenza del Digesto. Anzi, dal momento che nel placito compare un Pepo legis doctor, la conoscenza e il suggerimento della norma applicata viene connessa a tale personaggio, spesso avvicinato al Pepo esperto in diritto romano, di cui parlano anche Odofredo (in D. 1, 1, 6) Rodolfo il Nero (vedi ed. H. Kantorowicz, Rechtshistorische Schriften, rist. 1970, p. 250-251) e la Cronaca di Ursperg (vedi Burchardi et Cuonradi Urpergensium Chronicon, in M.G.H., Scriptores, XXIII, p. 342. Su ciò vedi infra.
[28]M. CARAVALE, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale , Bologna 1994, p.307 e ss.
[29] In tal senso anche F. C. SAVIGNY, Storia del diritto romano nel Medio Evo, tr. it., Firenze 1846, I, II, p. 171.
[30] PETRUS ABAELARDUS, Sic et non, Chicago, London 1977. Alcuni esempi delle coppie di opposti proposti da Abelardo - il quale pone più l’accento sulle contraddizioni che sulla concordanza - in HASKINS, op. cit., p. 296.
[31] Le cui opinioni sono sostanzialmente condivise dal Vasoli, autore dell’Introduzione ad una recente edizione dello stesso epistolario. Vedi PETRUS ABAELARDUS, Lettere, Torino 1982.
[32] Su cui vedi E. DIAZ ESTVEZ, El teorema de Goedel, Pamplona 1975.
[33]E. CORTESE, Il rinascimento, p.39
[34] Burchardi et Cuonradi Urspergensium, Chronicon, in MGH, SS, XXIII, p.242; CORTESE, Il Rinascimento, cit., p.22.
[35] G. VERGOTTINI, Lo studio di Bologna, l’Impero, il Papato, Bologna,1954.
[36] SAVIGNY, Storia, cit., II,II, p.13. In sostanza, nelle scuole di arti liberali dell’Alto Medio Evo, dove l'insegnamento della retorica comprendeva quello del diritto, solo le Istituzioni furono studiate senza essere fatte oggetto di riduzioni o elaborazioni; il codice si era tramandato in forma epitomata e ridotto ai primi nove libri; del Digesto si erano praticamente perse le tracce per mezzo millennio. Solo nel secolo XI ricompare qualche testimonianza di un rinnovato interesse per un testo che tramandava non solo le norme intese in senso contenutistico, ma la speculazione scientifica che intorno ad esse aveva svolto la giurisprudenza romana. G. ASTUTI, Tradizione dei testi del Corpus Juris nell’alto medioevo, in Tradizione romanistica e civiltà giuridica europea, Napoli 1984, p.189 e ss.
[36]Su Irnerio vedi soprattutto E. Spagnesi, Wernerius bononiensis iudex, Firenze 1970; cfr. M. Bellomo, Saggio sull' Università, nell'età del diritto comune, Catania 1979, pp. 9 e ss. Ulteriore bibliografia in M. Bertram, Neu Scheinungen zur mittelalterlichen Geschichte von Stadt und Universitaet, Bologna, in Quellen und Forschungen, 67 (1987) pp. 477-488.
[37] La scuola di Roma, non trascurata da Teodorico, era stata ristabilita da apposita disposizione di Giustiniano contenuta nella stessa prammatica sanctio (554), che provvedeva anche a definire i quadri e gli stipendi di grammatici, oratores, giurisperiti, che in quella scuola dovevano insegnare. La disposizione supera così le direttive indicate nelle costituzioni Omnem e Tanta con cui Giustiniano dava disciplina agli studi giuridici, e che sono appena dell'anno prima (553). Vedi U. GUALAZZINI, Sulla fine della scuola di Berito, in Studi in memoria di Mario E. Viora, Roma 1990, p.385.
[38] ODOFREDO, In D 1,1,6.
[39] Odofredo, allievo di Jacopo Baldovini forse sentì anche Azzone. E' studente nel 1226, mentre Azzone muore nel 1231. Forse fu professore intorno al 1228. Sappiamo che si recò in Francia, a Venezia, in Puglia. Le sue molte esperienze traspaiono dai suoi scritti: si spiega forse così l'attenzione alla pratica che egli dimostra e che gli fa guadagnare quel credito presso la generazione successiva che pare eccessivo a SAVIGNY, Storia, cit ., II,II, p. 163.
[40] Che il titolo di dominus caratterizzasse i professori della nuova scuola di diritto, è tesi affermata dal Sarti e rilanciata dal Savigny, Storia, cit., II, I, 110.
[41] CORTESE, Il rinascimento, cit., p. 20.
[42]E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, II, Il basso Medioevo, Roma, 1995, p. 65.
[43] Ciò è desumibile da documenti del 1136 e 1137, da Pietro Diacono e da uno strumento notarile di compravendita fatto redigere dalla figlia Agnese. Vedi Cortese, Il Rinascimento, p. 21. SAVIGNY, Storia, cit., II, II, p. 13.
[44] Cfr. SANTINI, Il sapere giuridico occidentale, in "Rivista di storia del diritto italiano", 1994, p. 148
[45] SAVIGNY, Storia, cit., I, I, p. 304. La lettera pisana sarebbe di pochi anni successiva all'età giustinianea. L'ambiente ravennate, inoltre, è legato a quello Matildico, come rilevava il Gaudenzi, e contatti con Ravenna ne ebbe anche Bologna.
[46]Cfr. L. SChmugge, Codicis Iustiniani et Institutionum baiulus. Eine neue Quelle zu Magister Pepo von Bologna, in Ius Commune, 6 (1977) pp.1-9. In generale, su Pepone, P. Fiorelli, Clarum bononiensium lumen, in Per Francesco Calasso, Studi degli allievi, Roma 1978, pp.426-454.
[47] CORTESE, Il rinascimento, cit., p. 16 e ss.
[48]Da ultimo è stata avanzata l’ipotesi che la censura di Odofredo non avesse un fondamento scientifico, bensì politico- religioso, dato che una aggiunta in margine al passo del De utroque lumine in cui è nominato Pepo quale clarum Bononiensium lumen precisa che egli non è altri che Pepo, vescovo di Bologna. Ma allora questi non può essere altri che Pietro, vescovo ritenuto scismatico in quanto aderente all’antipapa Clemente III, negli anni che vanno dal 1085 al 1096. Vedi G. ARNALDI, L’Università di Bologna, in Le Università, cit., p. 101.
[49] Ed. H. Kantorowicz, Rechtshistorische Schriften, rist. 1970, pp.250-251.
[50] Il che non comporta una modificazione immediata delle Comunità giuridiche dell'età di mezzo, le quali restano caratterizzate dalla compresenza di più diritti e da sistemi giuridici fortemente decentrati. Non è un caso che nel diritto canonico il concetto di bellum justum si connette a quello della executio iuris, nella societas christiana (con una conseguente articolata eccezione al divieto non occides), e nella nascente civilistica si teorizza l’ammissibilità dell’uso della forza a difesa del dominium, e la comune radice iuris gentium di dominium e bellum. Vedi su ciò L. BUSSI, Il problema della guerra nella prima civilistica, in A Ennio Cortese, Roma, 2001, I, p. 125 e ss.
[51] Una tradizione molto antica pretendeva che fosse stata fondata da Teodosio II nel 433. Su ciò vedi savigny, Storia, II, I, p. 106.
[52] E. BUSSI, Intorno al concetto di diritto comune, Milano, 1935, p.55; W. ENGELMANN, Die Wiedergeburt der Rechtskultur in Italien, Leipzig 1938, p. 189 e ss.
[53] Contra Bellomo, Saggio, cit., p. 17.
[54]CORTESE, Il rinascimento, cit., p. 44. Per il Bussi il pensiero scientifico avrebbe costituito il vero elemento comune e unitario nella vita del diritto in tutto il travagliato e faticoso corso dei secoli dell’età di mezzo. Questa unità avrebbe consentito il formarsi di una generalis opinio fra i giuristi, alla quale il Bussi connette concetto di ciò che egli ritiene essere stato il diritto comune: questo si identificherebbe con: “l’insieme dei principi, delle costruzioni giuridiche e delle risoluzioni pratiche rispettivamente formulate create od escogitate dalla dottrina” E. BUSSI, Intorno al concetto di diritto comune, Milano, 1935, p.55.
[55] J. GAUDEMET, Les universités et la vie politique, in I poteri politici e il mondo universitario (XIII-XX secolo), (a cura di A. Romano e di J. Verger), Catanzaro 1994, p. 7.
[56] W. Rüegg, Themes, cit., p. 18.
[57] E’ stato da tempo mostrato convincentemente (E. Bussi, Evoluzione storica dei tipi di Stato, Cagliari, 1970; E. Cortese, Il problema della sovranità nel pensiero giuridico medievale, Roma 1966, p. 108 e ss; F. Calasso, I glossatori e la teoria della sovranità, Milano 19573; V. Piano Mortari, Gli inizi del diritto moderno in Europa, Napoli, 1989) come se il concetto di Stato, quale ente astratto, titolare di un potere assoluto e originario, non e` conosciuto dal pensiero medievale - che parla di seigneurie, non di souverainité, di dominium, non di imperium (E. Bussi, op. cit., p. 145) e` proprio la dottrina che sul terreno feudale ha cominciato a formulare il concetto di potere sovrano, partendo dalla equiparazione del rex rispetto al regno suo e dell'imperator, rispetto a tutto l'Impero (F. Calasso, op. cit., pag. 23).
[58]Così, ad esempio, i primi titoli del Digesto furono il locus cui si legò prevalentemente la discussione relativa alle grandi partizioni del diritto - jus civile, ius naturale, jus gentium - nonchè al problema dell’uso legittimo della forza e alla guerra giusta. In tema, da ultimo, vedi L. BUSSI, Il problema della guerra, cit., p. 125 e ss.
[59]M. BELLOMO, L'Europa del diritto comune, 1989, p.72.
[60] Fra Irnerio e Accursio si contano quattro generazioni di giuristi: 1) quella dei cosiddetti quattro dottori (Bulgaro Martino, Jacopo e Ugo); ad essi vanno aggiunti i nomi di altri studiosi come Vacario, importante per la sua influenza sulla cultura giuridica inglese; 2) quella di Rogerio, Piacentino, Burgundione da Pisa, Enrico da Baila, Alberico da Porta Ravennate, Bencivenga da Siena, Giovanni Bassiano, Azzone, Pillio da Medicina; 3) quella di Ugolino dei Presbiteri, Jacopo di Ardizzone, Jacopo Colombi, Jacopo Baldovini, Rofredo Beneventano, Carlo di Tocco, Accursio. Vedi CARAVALE, Ordinamenti, cit., p. 291.
[61] La compilazione giustinianea riceve, alla scuola di Bologna, un ordine che la ripartisce in cinque volumi. Il primo volume contiene quella parte del digesto che ora viene indicata come digestum vetus (cioè i libri che vanno dal primo al secondo titolo del ventiduesimo); il secondo volume contiene il cosiddetto infortiatum, (cioè i libri che vanno dal terzo titolo del ventiduesimo al libro trentanovesimo); il terzo il digestum novum (e cioè il libri che vanno dal trentanovesimo al cinquantesimo libro). Il quarto volume contiene il codex (che però del codex giustinianeo comprende solo i primi nove libri, cioè mantiene il distacco alto-medievale degli ultimi tre); il quinto infine, il cosiddetto volumen parvum, contiene i tres libri (cioè gli ultimi libri del codex),le istituzioni e le novelle giustinianee. Queste ultime, sono tratte dalla raccolta dell’Authenticum e divise in nove collationes. Ad esse viene aggiunta una decima collatio che comprende alcuni importanti atti normativi degli Imperatori del Sacro Romano Impero, e i libri feudorum.
[62] SANTINI, Università e società nel XII secolo, Pillio da Medicina e lo studio di Modena, Modena, 1979.
[63]Vedi G. P. BRIZZI- J. VERGER (a cura di), Le Università minori in Europa, sec. XV-XIX, Convegno internazionale di studi, Alghero 30 ottobre - 2 novembre 1996, Rubettino 1998.
[64] P. GROSSI, L'ordine giuridico medievale, Bari, 1995.
[65] GROSSI, op. cit., p. 142 e ss.
[66] Non sempre il pagamento era puntuale: ce lo attesta Odofredo, gl. de divortiis in D. 24,2,11: In anno sequenti intendo docere ordinarie bene et legaliter: extraordinarie non, quia studentes non sunt boni pagatores, scire omnes volunt; solvere nemo. Vedi BELLOMO, Saggio, p.144. La lamentela usa un luogo comune, citato anche da Giovanni di Salisbury, Metalogicon, cit., p. 71.
[67] Giovanni di Salisbury, Metalogicon, I, 3 (in P.L., 199, col. 829 C)
[68] C. STORTI STORCHI, Ricerche sulla condizione giuridica dello straniero in Italia dal tardo diritto comune all'età preunitaria, Milano 1990, p. 14.
[69] I. SCHMALE- OTT (ed.), Carmen de gestis Frederici I, imperatoris in Lombardia, MGH Scriptores Rerum Germanicarum in usum scholarum, Hanover 1965 (496-97), pp. 17-18. Su ciò BELLOMO, Saggio, cit., p. 35.
[70]Vedila im W. Stelzer, Zum Scholarenprivileg Friedrich Barbarossas (Authentica "Habita" ) in Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelaltes, 34 (1978), pp.123-175; cfr. BELLOMO, Saggio, cit., p. 34.
[71] SAVIGNY, Storia, cit., II, I, p. 110.Anche il diritto giustinianeo, (vedi cost. Omnem, §§ 9-10) prevedeva un potere disciplinare dei professori di Berito e dei vescovi sugli studenti, ma tale potere disciplinare non rivestiva il carattere di un privilegio di foro.
[72] G. Cencetti, Il foro degli scolari negli studi medievali italiani, in "R. Deputazione di storia patria per l'Emilia e la Romagna", 5 (1939-40), p. 167.
[73] CENCETTI, Il foro, cit., p. 164. Ma Ugolino Gosia dichiara di non poter accettare di diventare potestà degli anconitani senza il consenso dei suoi scolari con cui si è impegnato per un certo numero di anni (1202). Così erano socii di Pillio quegli studenti cui lui aveva prestato malleveria e per i quali si era indebitato nel 1182. Ciò che è interessante, nel passo di Pillio, è che egli chiama socii solo gli studenti forestieri.
[74] L’accostamento è di BERNARDO DA PARMA, gl. vel consuetudine, ad X, 2, 2, 13.
[75] BELLOMO, L’Europa, cit., p. 120
[76]Ma di questo parere non era SAVIGNY, Storia, cit., II, I, p. 357.
[77] M. ROBERTI, Storia del diritto italiano, Milano, 1946, p. 242, vi vide anzi uno dei più perfetti tipi corporativi tratti dal tipo della societas che aveva prodotto il Comune e le altre corporazioni.
[78] Anche le Nazioni ebbero i propri Statuti: i volumi delle deliberazioni di queste ultime vennero detti Atti delle Nazioni. Vedi ROBERTI, Storia, cit., pag. 243
[79] G. ROSSI, “Universitas scholarium” e Comune (sec. XII-XIV), in Studi e memorie per la storia della Università di Bologna, n.s., 1, Bologna 1956, p.167
[80] Gaudenzi, Lo studio, 161, 162.
[81] Vedi ODOFREDO, in Aut. Habita l. 8 C.1,4; la circostanza è notata anche da SAVIGNY, op. cit., II , I, 111, nota 34.
[82] Anche a Napoli il privilegio di foro è sancito dallo stesso atto di costituzione dell'Università (1224), ma la natura particolare di questa Università fa sì che accanto alla giurisdizione dei maestri si affianchi pure quella del giustiziere degli scolari, che era ufficiale regio.
[83] Cencetti, Il foro, cit., p. 176.
[84] P. NARDI, Relations with authority, in A history, cit, p. 87.
[85] P. NARDI, Comune, Impero e Papato alle origini dell'insegnamento universitario di Siena, in Bollettino senese di storia patria, 90 (1983), p. 55 e ss.
[86] La scuola di Notre Dame nella seconda metà del XII secolo era una scuola famosa, che contava tra i suoi maestri come Pietro Lombardo autore del manuale più famoso e diffuso per lo studio della teologia. Il contenuto dello studio delle scuole private era molto vario: grammatica, retorica, dialettica, legge e medicina.
[87] I. SOFFIETTI, Contributo per la storia dello “Studium” di Vercelli nel sec. XIII, in Miscellanea Domenico Maffei dicata, Frankfurt/Main 1995, p.85.
[88] J. GAUDEMET, Les universités, cit., p. 7.
[89] Leo Moulin, La vita degli studenti nel Medio Evo, Milano 1992, p. 182. Lovanio viene eretta dalla bolla Sapientia immarcescibilis di papa Martino V il 9 dic. 1425, su richiesta del duca Giovanni IV di Brabante.
[90] Grande era la propensione degli studenti per le feste e i divertimenti. A tale scopo, per consuetudine, essi pretendevano una tassa dagli ebrei, ma non di rado trattenevano una parte dello stipendio dei professori, sequestrandone i preziosi manoscritti. A Padova, quando cadeva la prima neve, gli studenti si presentavano al convento di Santa Giustina reclamando dei doni, e il giorno della Befana non mancavano scherzi a carico dei Maestri, dai quali non andò esente neanche il grande Galileo. Molti studenti, specialmente tedeschi, ostentavano grandi ricchezze, avevano un seguito di servi, talvolta anche armati; invitavano a pranzo i maestri che venivano accompagnati dai bidelli.
[91]Già Alessandro III in una decretale indirizzata ai vescovi francesi si era espresso contro la prava consuetudo dei magistri delle scuole diocesane di esigere un pagamento per la concessione della licentia docendi. Vedi P. NARDI, Relations with authority, in A history, cit, p. 79.
[92] Cfr. G.Cencetti, Studium fuit Bononie, in Studi Medievali, ser. Il(1966) pp. 781-833, ora in Le origini dell'Università, con introduzione e a cura di G. Arnaldi, Bologna 1974.
[93]Vedi le consuetudines di Reggio Emilia del 1242 in A. CERLINI, Consuetudini e Statuti Reggiani del sec. XIII, I, Milano, 1933, p. 36. Il particolare è ricordato da Bellomo in L’Europa del diritto comune, cit., p. 133.
[94] P. GERBOD, Les pouvoirs politiques français et les facultés de l’Etat de la fondation de l’Université impériale (1806) au deuxième colloque de Caen (1966), in I poteri politici, cit., p. 198.
[95] ROBERTI, op. cit., 244.
[Intorno alla storia delle Università medievali di Luisa Bussi Lezione destinata agli studenti di Storia del Diritto Italiano del corso di laurea in Scienze Giuridiche (2001-2002) della Università di Sassari ]


L'origine dei Commissariati di Terra Santa è antichissima ed è motivata dalla enorme difficoltà da parte della Custodia di assolvere ai suoi compiti in una situazione politica e religiosa assai complessa. Costatato infatti che né la vita dei frati né la conservazione dei Luoghi Santi erano possibili senza le elemosine dei Principi cristiani, i primi Statuta della Custodia (1377) stabiliscono che il Custode deputi uno o due laici per curare l'amministrazione delle elemosine. Vedendo però che l'intervento di amministratori laici è solo una parziale risposta ai problemi, sorge la necessità di un garante che curi anche politicamente gli interessi della Custodia presso gli Stati d'Occidente. E' così che nel 1392 il Custode fra Gerardo Calvet affida, con atto notarile, il mandato di procura "molto ampia" al nobile veneziano Ruggero Contarini, al quale succederà, per testamento, il nipote Carlo Contarini nel 1415. Poco più tardi la figura del "Commissario di Terra Santa" viene istituita ufficialmente con la bolla His quae di papa Martino V (24 febbraio 1421), il cui compito consiste nella raccolta tra i fedeli delle offerte per la Terra Santa. Nel 1512 la figura e le attribuzioni del Commissario ricevono una determinazione normativa ufficiale. Il Capitolo generale di Salamanca (1618) redige gli Statuta pro Terra Sancta nei quali si tratta del Commissario generale e dei Commissari particolari. Quanto verrà ripreso e approvato di tale Statuti nella Congregazione generale di Segovia nel 1621 (Statuta Segoviensia) costituirà la base di tutta la successiva legislazione sull'argomento.
La legislazione attuale dell'Ordine (1986 e 1991) non è molto prodiga nel trattare della Custodia di Terra Santa, tantomeno dei Commissari. Secondo gli Statuti generali "è dovere dei Commissari di Terra Santa promuovere nel loro territorio la conoscenza, l'interesse, la devozione ai Luoghi Santi e organizzare pellegrinaggi nei luoghi stessi. E' pure loro compito sollecitare nel loro territorio, a norma del diritto particolare, aiuti per incrementare l'attività apostolica delle opere di Terra Santa" (art. 63,2).
Attualmente i Commissariati nel mondo sono più di 80, sparsi in circa 45 Paesi.
La Santa Sede, interessandosi nel tempo della Custodia di Terra Santa, non ha mancato di seguire da vicino la figura e le competenze del Commissario. In tempi recenti, Paolo VI ha dichiarato che l'attività dei Commissari "tanto benemerita nel passato, ci sembra tuttora valida e funzionale" (Paolo VI, Nobis in animo).
In relazione ai compiti del Commissario, la stessa Esortazione apostolica di papa Paolo VI parla esplicitamente della "colletta per i Luoghi Santi" come di un ulteriore sostegno reso necessario nel tempo dal dilatarsi delle necessità. La finalità di tale colletta è descritta in questi termini: "Affinché quella comunità cristiana bimillenaria nella sua origine e nella sua permanenza in Palestina possa sopravvivere ed anzi consolidare la propria presenza in maniera attiva ed operante anche al servizio delle altre comunità con cui deve convivere, è necessario che i cristiani di tutto il mondo si mostrino generosi, facendo affluire alla chiesa di Gerusalemme la carità delle loro preghiere, il calore della loro comprensione ed il segno tangibile della loro solidarietà". Nel corso della storia, molti papi sono intervenuti sul tema, indicando con precisione tempi e modi della colletta: Sisto V (Nostri officii, 1589), Paolo V (Coelestis Regis, 1618), Urbano VIII (Alias fel. rec., 1644), Innocenzo X (Salvatoris ac Domini nostri, 1645), Benedetto XIV (Emanarunt nuper, 1743 e In supremo militantis Ecclesiae 1746), Pio VI (Inter cetera divinorum, 1778), Leone XIII (Salvatoris ac Domini nostri, 1887), Benedetto XV (Inclitum Fratrum Minorum, 1918) e Giovanni XXIII (Sacra Palestinae loca, 1960).
Vale la pena di riportare integralmente quanto Paolo VI dispone a proposito della colletta (Nobis in animo, in EV V,183-185). 1. In tutte le chiese e in tutti gli oratori appartenenti sia al clero diocesano che religioso, una volta all'anno - il venerdì santo o in un altro giorno designato dall'Ordinario del luogo -, insieme alle particolari preghiere per i nostri fratelli della Chiesa di Terra Santa, si raccolga una colletta, a loro parimenti destinata. I fedeli siano avvertiti, con congruo anticipo, che detta colletta sarà devoluta per il mantenimento non solo dei luoghi santi, ma prima di tutto delle opere pastorali, assistenziali, educative e sociali che la Chiesa sostiene in Terra Santa a beneficio dei loro fratelli cristiani e delle popolazioni locali. 2. Le offerte siano tempestivamente rimesse dai parroci e dai rettori delle chiese e degli oratori al proprio Ordinario, il quale le consegnerà al Commissario di Terra Santa più vicino, la cui attività, tanto benemerita nel passato, ci sembra tuttora valida e funzionale, o per altro opportuno tramite. 3. La Congregazione per le Chiese Orientali provvederà, a norma delle istruzioni da noi impartite, ad assicurare che la Custodia di Terra Santa e la gerarchia locale, nel rispetto delle loro competenze, possano continuare le loro opere, consolidarle e svilupparle maggiormente, in piena armonia tra di loro e in stretta cooperazione con gli altri organismi che hanno speciali vincoli con la Terra Santa ed hanno a cuore le sorti di quella Chiesa locale. Concludo facendo presente che, a seguito della Esortazione di Paolo VI, ogni anno il cardinale Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali invia una lettera a tutti i vescovi per ricordare loro il dovere della realizzazione della colletta pro Terra Sancta. Copia di tale lettera è inviata sia al Padre Custode sia a tutti i Commissari del mondo.
Sono scarsi (al momento) gli elementi per una storia del Commissariato di Terra Santa in Piemonte.
I primi dati dicono che è fondato nel 1639 da fra Paolo Brizio, Ministro provinciale (poi vescovo di Alba), presso il convento di San Tommaso in Torino.
La sede viene trasferita al Convento dei Minori Riformati di Madonna degli Angeli poco tempo dopo, ed ivi rimane fino alla soppressione del 1802. Venuta a mancare la figura del Commissario di Terra Santa, le sue prerogative sono allora affidate dal Ministro generale fra Ilario da Montemagno al Teologo Francesco Reggio, Canonico della Cattedrale di Acqui.
Nel 1821 fra Nicola Merlo da Guarene, ex Ministro provinciale, ottiene grazie all'arcivescovo di Torino Colombano Chiaverotti che sia retto dai Minori Osservanti con sede in San Tommaso. Primo Commissario è fra Severino da Magliano, Ministro provinciale, nominato dal Vicario generale dell'Ordine fra Andrea da Leprignano.
A seguito della decisione del Definitorio generale, secondo il quale i Commissariati devono avere sede nel convento principale della Provincia, nel 1931 il Commissariato piemontese viene trasferito al convento di Sant'Antonio, in v. San Quintino 49 (ora v. Sant'Antonio da Padova 7), dove attualmente si trova.
3. I Commissari di Terra Santa del Piemonte dalla restaurazione (1821) ad oggi
La lista dei nomi è stata ricostruita utilizzando le Cronache manoscritte del Commissariato piemontese e lo Status descriptivus (1924).
Fra Severino Riva da Magliano (CN), dal 23/05/1821 alla morte, 2/12/1830.
Fra Luigi Dunant da Novello (CN), dal 6/01/1831 alla morte, 18/01/1847.
Fra Paolo Antonio Peretti da Moretta (CN), dal 26/01/1847 alla morte, 17/02/1862.
Fra Felicissimo Manassero da Torino, dal 1/03/1862 alla morte, 29/10/1883.
Fra Luca Antonio Turbiglio da Chiusa Pesio (CN), dal 1883 alla morte, 27/11/1898.
Fra Bonaventura Enrietti da Prascorsano (TO), dal 1898 alla morte, 6/01/1903.
Fra Ludovico Bertana da Moncalvo (AT), dal 1903 alla morte, 12/12/1917.
Fra Luigi Borgialli da Favria (TO), dal 22/03/1918 alla morte, 24/02/1951.
Fra Alberto Pagani da San Giorgio Lomellina (PV), dal 3/08/1951 alla morte, 16/11/1955.
Fra Giorgio Racca da Torino, dal 22/12/1955 al 1964.
Fra Angelico Zanetti da Vergano (NO), dal 28/09/1964 alla morte, 20/10/1983.
Fra Marco Malagola da Luino (VA), dal 10/01/1984 al 1989.
Fra Lino Bidese da Lugo Vicentino (VI), dal 1989 al 1997.
Fra Giorgio Vigna da Aosta, dal 1997.
PAOLO BRIZIO, frate, originario di Bra, vissuto nel XVII secolo, fu vescovo di Alba ed attivo promotore di iniziative di rinnovo della diocesi: erudito scrittore (di cui di seguito si prpone l'elenco delle opere sue individuate) fu, prima di conseguire la carica episcopale, l'attivo fondatore del Commissariato di Terra Santa in Piemonte.
Elenco delle pubblicazioni:
Brizio, Paolo, Domenica undecima doppo la Pentecoste, predica fatta nella venerabile chiesa di S. Maria degl'Angioli, di Cuneo, sopra il Vangelo corrente ... Dal Rev. Padre F. Paolo Britio da Bra ..., In Cuneo: Strabella, Cristoforo, 1626
Brizio, Paolo, L' altro stesso con quello di Torino. Orazione panegirica, et academica della Sacratissima Sindone di Mondovi composta dal padre F. Pietro Paolo Britio da Bra ... Recitata nel duomo di detta citta di Mondovi .., In Mondovi: Rossi, Vincenzo & Rossi, Giovanni Francesco, 1713 Brizio, Paolo, Albae Pompeiae succinta descriptio, Augustae Taurinorum, 1661
Brizio, Paolo, Progressi della Chiesa occidentale in sedeci secoli distinti, e due libri proemiali consacrati all'alt.za di madama reale Christiana di Francia ... da monsignor F. Paolo Britio vescovo d\'Alba, e conte, In Torino: Cavaleri, Alessandro Federico, 1652
Alba , - Synodus quarta historialis sanctae Albensis Ecclesiae, in qua iura omnium ecclesiarum, ... habita in cathedrali, tempore solemnis ... die 19 februarij anni 1658 .., Carmagnoliae: Colonna, Bernardino, 1658
Brizio, Paolo, Seraphica subalpinae D. Thomae prouinciae monumenta regio subalpinorum principi sacra. In quibus vrbium, oppidorum ac conventuum initia describuntur ... auctore F. Paulo Britio ..., Taurini: Tarino, Giovanni Domenico eredi, 1647
Brizio, Paolo, Progressi della Chiesa occidentale in sedeci secoli distinti, e due libri proemiali consacrati all'alt.za di Madama reale Christiana di Francia ... da monsignor f. Paolo Britio vescouo d'Alba, e conte. Tomo primo (secondo), In Carmagnola: Colonna, Bernardino, 1648-1650
Alba , Synodales constitutiones sanctae Albensis ecclesiae. Anni 1645, Taurini: Ferrofino, Francesco, 1646
Brizio, Paolo, Progressi della chiesa occidentale in sedici secoli distinti, e due libri proemiali. Consacrati all'Alt.za di Madama Reale Christiana di Francia ... da Monsignor Fr. Paolo Britio ... Tomo primo (-secondo), In Carmagnola: Colonna, Bernardino, 1649
Alba , Synodus Diocesana Albensis Tertia. Ab illustrissimo, & reuerendissimo D.D.F. Paulo Britio S. Albensis Ecclesiae Episcopo In nobili Curtismilij Oppidohabita Die Iunij Anni 1652. Sedente S.D:N. Innocentio 10 P. O. M, Carmagnoliae : apud Bernardinum Columnam, 1652., 60 p. ; 2o [Front. e testo in cornice xilogr., Le p. 12 e 13 sono state rilegate al contrario]
[Cadana, Salvatore<1597-1654>, Modus recipiendi legata perpetua in toto ordine seraphico A S.D.N. Urbano 8. pont. max. de consilio Sacrae Congregationis, ... praescriptus. Cum bullis, decretis, ... A R.A.P. fr. Saluatore Cadana ... in lucem editus, et ad ... P. Fr. Paulum Britium a Braida directus, Augustae Taurinorum: Sinibaldo, Giovanni, 1641]



Le mammelle della statua della dea greca Artemide nota agli onori ed alla fede del mondo pagano quale ARTEMIDE AD EFESO in più file sono un antico simbolo di fertilità e caratteristiche appunto dell'Artemide di Efeso (anche poi Diana efesina) equiparata per molti versi alla ionica Grande Madre, in pratica alternativa classica della Natura generatrice di tutte le cose (vedi di Artemide efesina la perfetta riproduzione di epoca romana della collezione Farnese, oggi nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli).
Efeso risultava situata in Asia Minore, alla foce del fiume Caistro: era una antichissima città della Lidia, facente parte alla confederazione delle dodici colonie joniche. Secondo la tradizione venne fondata dalle Amazzoni: passò successivamente sotto il dominio dei Cari, dei Lelegi e, per finire, sotto quello di Atene. Come tutte le altre colonie joniche giunse sotto il dominio di Creso, dei Macedoni, dei Persiani ,dei Tolomei, dei Seleucidi e quindi di Roma che, nel 121 a.C. ne fece la capitale della sua provincia d'Asia.
Gli scavi archeologici hanno portato alla luce importanti resti di monumenti antichi e cristiani. Fin dall'antichità fu celebre l' ARTEMISION, santuario in onore di ARTEMIDE AD EFESO (anche DIANA EFESINA).
Il tempio, considerato una delle sette meraviglie del mondo (Giardini di Babilonia , Colosso di Rodi , Mausoleo di Alicarnasso , Faro di Alessandria , Statua di Zeus , Piramide di Cheope ed appunto Tempio di Artemide ), era stato progettato da Chesifrone di Cnosso, e la costruzione durò parecchi anni. Fu incendiato da Erostrato (con la semplice giustificazione di voler "passare alla storia" così facendo) la notte stessa in cui nacque Alessandro Magno (21 luglio 356 a. C.): venne quindi riedificato da Dinocrate.
Era grande quattro volte il Partenone, ricco di sculture di Prassitele e di pitture di Parrasio e di Apelle.
La statua della dea era di legno d'ebano (secondo Plinio) o di cedro (secondo Vitruvio).
Fu distrutto una seconda volta dai Goti (metà del III sec. d.C.) e infine del tutto demolito per ordine di Costantino.
Ad Efeso si sono rinvenuti inoltre molti altri edifici di notevole interesse archeologico, tra cui i templi di Serapide (sec. II) e di Adriano, lo stadio (sec. I), il teatro (sec. I-II), la biblioteca di Celso (110-35).



Artemide è una figura della mitologia greca , figlia di Zeus e di Leto e sorella di Apollo .
È l'equivalente di Diana , riconosciuta dalla mitologia romana . Talvolta è chiamata anche Cinzia , secondo la leggenda mitologica che la vorrebbe nata sulle pendici del monte Cinzio (o Cinto), nell'isola di Delo .
Esiodo racconta che Artemide era figlia di Zeus e Leto , a sua volta figlia di Ceo e Febe (ma alcune fonti la vogliono figlia di Demetra . Stando ad Esiodo, comunque, Leto fu vittima della gelosia di Era e nessun luogo poteva dirsi sicuro per far nascere i propri figli. Finalmente le fu offerto rifugio nell'isola di Ortigia , quì nacque Artemide.Fin dalla nascita, Artemide poté aiutare la madre nel mettere al mondo Apollo che nacque nove giorni dopo nell'isola galleggiante di Delo (la brillante).
Omero definisce Artemide come "Signora delle bestie selvagge", "Sovrana degli animali" e "Leone fra le donne". Viene ricordata anche come Eileithya, "colei che soprintende ai parti felici".
Questa sua varietà di attribuzione, rende la sua origine più antichi, a tempi pre-ellenici, un'epoca in cui sulle sponde del Mediterraneo orientale una unica divinità incarnava tutte le funzioni delle maternità e della fertilità, suddivise in seguito tra diverse dee.
Nella Ionia il culto di Artemide combaciava in alcuni punti con quello della Grande Madre , di cui prende l'eredità.
Il suo santuario più famoso si trovava nel porto di Efeso e il suo tempio era così magnifico da essere annoverato tra le sette meraviglie del mondo . Qui Artemide era venerata come dea della fertilità e la sua immagine efesina con molte mammelle, risulta molto diversa dalla sua raffigurazione di vergine cacciatrice.
I greci della Focide, portarono il culto di Artemide di Efeso a Massilia (oggi Marsiglia ), da lì arrivò a Roma , dove assorbi rapidamente quello della Diana italica.
Delle sue antiche origini, venne conservato un antico culto, nel corso del quale i suoi adoratori si travestivano da orso (la trasformazione in orsi si ritrova nel mito di Callisto ). Il centro principale di questo culto era a Braurone , nell'Attica e sull'Acropoli si ergeva un recinto sacro dedicato ad Artemide Brauronia [testo rielaborato da "Wikipedia - on line"]



ATTI DEGLI APOSTOLI, 19
1 Mentre Apollo era a Corinto, Paolo, attraversate le regioni dell'altopiano, giunse a Efeso. Qui trovò alcuni discepoli 2 e disse loro: "Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede?". Gli risposero: "Non abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito Santo". 3 Ed egli disse: "Quale battesimo avete ricevuto?". "Il battesimo di Giovanni", risposero. 4 Disse allora Paolo: "Giovanni ha amministrato un battesimo di penitenza, dicendo al popolo di credere in colui che sarebbe venuto dopo di lui, cioè in Gesù". 5 Dopo aver udito questo, si fecero battezzare nel nome del Signore Gesù 6 e, non appena Paolo ebbe imposto loro le mani, scese su di loro lo Spirito Santo e parlavano in lingue e profetavano. 7 Erano in tutto circa dodici uomini.
8 Entrato poi nella sinagoga, vi potè parlare liberamente per tre mesi, discutendo e cercando di persuadere gli ascoltatori circa il regno di Dio. 9 Ma poiché alcuni si ostinavano e si rifiutavano di credere dicendo male in pubblico di questa nuova dottrina, si staccò da loro separando i discepoli e continuò a discutere ogni giorno nella scuola di un certo Tiranno. 10 Questo durò due anni, col risultato che tutti gli abitanti della provincia d'Asia, Giudei e Greci, poterono ascoltare la parola del Signore.
11 Dio intanto operava prodigi non comuni per opera di Paolo, 12 al punto che si mettevano sopra i malati fazzoletti o grembiuli che erano stati a contatto con lui e le malattie cessavano e gli spiriti cattivi fuggivano.
13 Alcuni esorcisti ambulanti giudei si provarono a invocare anch'essi il nome del Signore Gesù sopra quanti avevano spiriti cattivi, dicendo: "Vi scongiuro per quel Gesù che Paolo predica". 14 Facevano questo sette figli di un certo Sceva, un sommo sacerdote giudeo. 15 Ma lo spirito cattivo rispose loro: "Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete?". 16 E l'uomo che aveva lo spirito cattivo, slanciatosi su di loro, li afferrò e li trattò con tale violenza che essi fuggirono da quella casa nudi e coperti di ferite. 17 Il fatto fu risaputo da tutti i Giudei e dai Greci che abitavano a Efeso e tutti furono presi da timore e si magnificava il nome del Signore Gesù. 18 Molti di quelli che avevano abbracciato la fede venivano a confessare in pubblico le loro pratiche magiche 19 e un numero considerevole di persone che avevano esercitato le arti magiche portavano i propri libri e li bruciavano alla vista di tutti. Ne fu calcolato il valore complessivo e trovarono che era di cinquantamila dramme d'argento. 20 Così la parola del Signore cresceva e si rafforzava.
21 Dopo questi fatti, Paolo si mise in animo di attraversare la Macedonia e l'Acaia e di recarsi a Gerusalemme dicendo: "Dopo essere stato là devo vedere anche Roma". 22 Inviati allora in Macedonia due dei suoi aiutanti, Timòteo ed Erasto, si trattenne ancora un po' di tempo nella provincia di Asia.
23 Verso quel tempo scoppiò un gran tumulto riguardo alla nuova dottrina. 24 Un tale, chiamato Demetrio, argentiere, che fabbricava tempietti di Artèmide in argento e procurava in tal modo non poco guadagno agli artigiani, 25 li radunò insieme agli altri che si occupavano di cose del genere e disse: "Cittadini, voi sapete che da questa industria proviene il nostro benessere; 26 ora potete osservare e sentire come questo Paolo ha convinto e sviato una massa di gente, non solo di Efeso, ma si può dire di tutta l'Asia, affermando che non sono dèi quelli fabbricati da mani d'uomo. 27 Non soltanto c'è il pericolo che la nostra categoria cada in discredito, ma anche che il santuario della grande dea Artèmide non venga stimato più nulla e venga distrutta la grandezza di colei che l'Asia e il mondo intero adorano".
28 All'udire ciò s'infiammarono d'ira e si misero a gridare: "Grande è l'Artèmide degli Efesini!". 29 Tutta la città fu in subbuglio e tutti si precipitarono in massa nel teatro, trascinando con sé Gaio e Aristarco macèdoni, compagni di viaggio di Paolo. 30 Paolo voleva presentarsi alla folla, ma i discepoli non glielo permisero. 31 Anche alcuni dei capi della provincia, che gli erano amici, mandarono a pregarlo di non avventurarsi nel teatro. 32 Intanto, chi gridava una cosa, chi un'altra; l'assemblea era confusa e i più non sapevano il motivo per cui erano accorsi.
33 Alcuni della folla fecero intervenire un certo Alessandro, che i Giudei avevano spinto avanti, ed egli, fatto cenno con la mano, voleva tenere un discorso di difesa davanti al popolo. 34 Appena s'accorsero che era Giudeo, si misero tutti a gridare in coro per quasi due ore: "Grande è l'Artèmide degli Efesini!". 35 Alla fine il cancelliere riuscì a calmare la folla e disse: "Cittadini di Efeso, chi fra gli uomini non sa che la città di Efeso è custode del tempio della grande Artèmide e della sua statua caduta dal cielo? 36 Poiché questi fatti sono incontestabili, è necessario che stiate calmi e non compiate gesti inconsulti. 37 Voi avete condotto qui questi uomini che non hanno profanato il tempio, né hanno bestemmiato la nostra dea. 38 Perciò se Demetrio e gli artigiani che sono con lui hanno delle ragioni da far valere contro qualcuno, ci sono per questo i tribunali e vi sono i proconsoli: si citino in giudizio l'un l'altro. 39 Se poi desiderate qualche altra cosa, si deciderà nell'assemblea ordinaria. 40 C'è il rischio di essere accusati di sedizione per l'accaduto di oggi, non essendoci alcun motivo per cui possiamo giustificare questo assembramento". 41 E con queste parole sciolse l'assemblea
.



Melchisedek: Personaggio del Primo Testamento, che compare nel ciclo di Abramo coi titoli di «re di Salem» e di «sacerdote del Dio altissimo» (Genesi 14, 18-20).
Nel Nuovo Testamento diventa il «tipo» del sacerdozio di Cristo (Lettera agli Ebrei 7). Intorno a Melchisedek fiorì una ricca tradizione esegetica in ambito sia giudaico sia cristiano. A Melchisedek è intitolato un documento rinvenuto a Qumran (11QMelchisedek), scritto in ebraico e risalente alla seconda metà del sec. II o del I a. C. In esso traspare il ruolo di Melchisedek quale essere celeste che assolve alla funzione di liberatore e di giudice escatologico. Con tutta probabilità faceva ancora riferimento a Melchisedek un altro documento, anch’esso frammentario, ritrovato a Qumran e composto in lingua aramaica: il Testamento di Amram (4Qc Amram) databile al sec. II a. C., dove si conserva il nome dell’antagonista di Melchisedek : Melchiresha. [LILIANA ROSSO in "NOVA 2006 - UTET"]



Euripide: Tragediografo greco del sec. V a. C. Non conosciamo con esattezza la sua data di nascita; secondo un sincronismo attestato in molte fonti sarebbe nato nel 480 a. C., proprio il giorno di settembre della battaglia di Salamina, a cui Eschilo partecipò e in occasione della quale Sofocle intonò come efebo il peana della vittoria. Probabilmente è invece più attendibile la notizia del Marmor Parium (60), che fissa come data di nascita il 485-484. Il padre, Mnesarco (o Mnesarchide), e la madre, Clito, appartenevano al demo di Phlya, ma Euripide nacque in un possedimento della famiglia a Salamina. Sembra che da ragazzo si dedicasse al pancrazio e al pugilato, nonché alla pittura. Prestò inoltre servizio cultuale e Gellio riferisce che fu danzatore e torciere presso l'ara di Apollo Zosterios. Le biografie antiche gli attribuiscono come maestri Anassagora, Prodico e Protagora, e Socrate come amico: è plausibile una frequentazione di Euripide con questi personaggi, ma resta preclusa una più definita precisazione dei loro rapporti. Possediamo resti di un epinicio per Alcibiade, che Euripide avrebbe composto in occasione di una vittoria a Olimpia nel 416; avrebbe inoltre scritto l'epigramma per gli ateniesi caduti a Siracusa. Dubbia è la notizia di un processo per empietà intentatogli da Cleone. Probabili sembrano invece i rapporti con Timoteo, per il quale Euripide avrebbe composto il proemio dei Persiani. La tradizione (Satiro, Suda, Gellio, Vita) è concorde nell'attribuirgli un temperamento individualistico e melanconico; si mostrava una grotta a Salamina, dove Euripide si sarebbe ritirato per meditare e comporre. Lettore appassionato, poté formarsi una delle prime biblioteche private. Difficili restarono sempre i rapporti fra Euripide e il pubblico ateniese. Partecipò per la prima volta ai concorsi drammatici nel 455, ma solo nel 441 ottenne la prima vittoria, a cui seguirono altre quattro, di cui una postuma; forse anche per dissensi profondi col pubblico trascorse gli ultimi anni - dopo la rappresentazione dell'Oreste (408) - lontano da Atene. Dopo un soggiorno a Magnesia, si recò a Pella in Macedonia presso la corte del tiranno Archelao, al cui invito risposero anche, fra gli altri, il ditirambografo Timoteo e il pittore Zeuxis. In onore del tiranno Euripide compose l'Archelao, in cui l'omonimo antenato rintuzzava un'invasione e veniva preannunciato da Apollo come fondatore della dinastia macedone. A Pella Euripide scrisse la sua ultima trilogia, comprendente anche le superstiti Baccanti e Ifigenia in Aulide. Ivi morì (sbranato dai cani, secondo la tradizione) e fu sepolto nel 406; quando la notizia della sua morte giunse in Atene, Sofocle presentò i coreuti senza corona in segno di lutto. Più tardi fu eretto un cenotafio sulla via del Pireo, il cui epigramma (attribuito a Timoteo o a Tucidide) è conservato dalla Vita.
La Vita e Suda attribuiscono a Euripide 92 drammi; considerando che tre opere (Piritoo, Radamanthis e Temnes) erano considerate spurie già nell'antichità e che il Reso è stato giustamente sospettato dalla critica antica e moderna, tale cifra sembra accordarsi con le 22 tetralogie attribuite a Euripide dalle didascalie. Se quindi Varrone abbassa la cifra a 75 drammi, è possibile che quest'ultimo sia all'incirca il numero delle opere pervenute nella biblioteca di Alessandria. Il corpus superstite comprende 19 drammi, di cui uno satiresco (Ciclope) e un altro spurio (Reso). Conosciamo con esattezza la data di rappresentazione per l'Alcesti (438), la Medea (431), il secondo Ippolito (428), l'Elena (412) e l'Oreste (408); sappiamo anche, come si è accennato, che le Baccanti e l'Ifigenia in Aulide furono rappresentate postume, per iniziativa del figlio, Euripide il Giovane. Per la cronologia degli altri drammi la filologia moderna ha fatto ricorso a criteri svariati, dalle allusioni dei comici contemporanei ai riferimenti all'attualità politica, dall'analisi dello stile allo studio della metrica, da cui provengono i risultati meno aleatori, soprattutto per l'indiscutibile tendenza di Euripide ad aumentare gradualmente il numero delle soluzioni all'interno del trimetro giambico.
ALCESTI: Molto scarsa è la nostra conoscenza della produzione euripidea anteriore al 438, data di rappresentazione dell'Alcesti, che nell'ordine tetralogico occupava il posto del dramma satiresco. Di qui tentativi, per altro inconsistenti, della critica moderna di interpretare l'opera in chiave satirica; ma già lo scarso numero (rispetto alle 22 tetralogie) di drammi satireschi attestati per Euripide suggerisce che fosse per lui pratica normale sostituire saltuariamente una tragedia a un dramma satiresco al quarto posto della tetralogia. Il soggetto del dramma - Alcesti che sacrifica la vita per il marito Admeto - è desunto da uno spunto favolistico, associato con l'introduzione della figura di Thanatos, che già Frinico aveva portato sulla scena. Euripide ne ha ricavato un'opera ricca di chiaroscuri: da una parte Alcesti, in cui il passaggio dal delirio patetico a una razionale consapevolezza prefigura un modello di personaggio che troverà con Fedra la più compiuta espressione; dall'altro lato Admeto, su cui la critica a lungo ha discusso: interpretato ora come ipocrita egoista, ora come esemplare rappresentante di valori nobiliari, è in realtà figura complessa, in cui elementi aneroici, esplicitamente denunciati dal padre Ferete, si intersecano a spunti di segno positivo, messi in luce sia dal coro che da Apollo e da Eracle; personaggio, soprattutto, che Euripide delinea rappresentandone le successive reazioni di fronte al precipitare della situazione, finché, concluse le esequie di Alcesti, l'immagine della casa vuota e dolente genera in lui una lucida presa di coscienza («ed io, che non avrei dovuto vivere, ho evitato il destino ma vivrò una vita di dolore: ora ho compreso»); internamente legittimata appare così anche la sconcertante salvazione di Alcesti ad opera di Eracle. La tetralogia conclusa dall'Alcesti comprendeva anche le Cretesi, l'Alcmeone in Psofide e il Telefo, un dramma famoso nell'antichità - e parodiato da Aristofane negli Acarnesi e nelle Tesmoforiazuse - per la presentazione di un re in veste di straccione. Infatti Telefo, re di Misia, giungeva fra i greci raccolti ad Argo camuffato da mendicante arcade, per essere curato - secondo la prescrizione di un oracolo - dallo stesso guerriero che lo aveva ferito.
MEDEA. È singolare come una delle tragedie di più concentrata energia come la Medea - rappresentata nel 431 insieme con Filottete, Dictys e Mietitori - ottenesse soltanto il terzo premio. Euripide ha rielaborato una vecchia tradizione cultuale, secondo la quale Medea, nel tentativo di rendere immortali i propri figli, li avrebbe involontariamente uccisi nel tempio di Era Akraia a Corinto. Forse Euripide è stato il primo a introdurre l'infanticidio per vendetta contro Giasone, anche se da sempre si discute la questione del rapporto cronologico fra la Medea euripidea e la Medea di Neofrone, alla quale - secondo l'opinione di Dicearco riportata dall'argumentum - spetterebbe la priorità; né il confronto con i frammenti superstiti del dramma di Neofrone offre elementi sicuri per risolvere il problema. In ogni caso il dramma di Euripide risulta dotato di un'indiscutibile intensità. Tutto costruito attorno al complesso carattere della protagonista, esso si articola in due sequenze fondamentali: la prima, durante la quale Medea manifesta un impulso di vendetta ancora privo di un obiettivo definito; e la seconda, in cui il piano omicida viene architettato ed eseguito con lucida, seppur internamente contrastata, linearità. Fa da cerniera fra le due sequenze la scena con Egeo, che promette a Medea rifugio in Atene. La complessità del personaggio della protagonista, in cui desiderio di vendetta e affetto viscerale per i figli si alternano e si oppongono con assoluta veemenza, ha sconcertato interpreti antichi e moderni, tanto più in quanto Medea appartiene a quelle figure euripidee dove più marcato risulta l'intreccio fra momenti passionali e chiarezza introspettiva. Né d'altra parte convince pienamente la caratterizzazione di Medea quale emblema del dissidio fra passione e ragione: infatti anche i famosi versi che concludono l'ultimo monologo di Medea («e riconosco quali mali sto per compiere, ma la passione è più forte della mia ragione») non implicano un dissidio fra passione (thymòs) e ragione (bulèumata), ossia non significano che la passione è più forte della ragione, ma che il thymòs domina tutte le capacità di volere e di agire di Medea. In sostanza Euripide propone un personaggio che appare investito nella sua totalità da una forza sentita come esterna (il thymòs appunto) e che, pur non prospettandosi come «divina», risulta tuttavia ugualmente inesorabile. La situazione di un personaggio dominato dal thymòs non doveva apparire certamente inedita al pubblico ateniese: elemento squisitamente euripideo è però il fatto che il personaggio riflette sul thymòs proprio mentre ne è dominato; questa scoperta dell'irrazionale si accompagna su un piano più vasto alla polemica contro la musica in quanto strumento tradizionalmente ludico e come tale incapace di lenire le sofferenze umane.
ERACLIDI. Indizi metrici e riferimenti all'attualità politica permettono di fissare la datazione, non documentata, degli Eraclidi fra Medea e Ippolito secondo. Per il motivo dei figli di Eracle che, guidati da Iolao e da Alcmena, ottengono protezione in Atene, Euripide ebbe come modello - non più ricostruibile nei dettagli - gli Eraclidi di Eschilo, nei quali compariva sicuramente anche l'episodio del ringiovanimento di Iolao durante la battaglia. Ma più in generale appare eschilea negli Eraclidi di Euripide la stessa concezione della pòlis come organismo unitario in cui domina la concordia fra i cittadini: motivo che si aggancia al cliché propagandistico, sorto in ambiente pericleo, secondo il quale Atene è la città che per eccellenza porta aiuto ai perseguitati. La linea compositiva del dramma consta di una serie di elementi non del tutto felicemente amalgamati: la ricerca di aiuto dei supplicanti, l'annuncio di un oracolo che provoca il sacrificio di Macaria, la vittoria ateniese che consegna Euristeo nelle mani di Alcmena (che si tramuta in punitrice ancor più spietata del suo persecutore). Pesa peraltro sul dramma l'ipotesi di una lacuna dopo il v. 626 (che avrebbe inghiottito il racconto della morte di Macaria e gli onori funebri per la ragazza): lacuna postulata da Kirchhoff e Wilamowitz e confortata da un passo dell'argumentum dove è riferito che Macaria veniva onorata per la sua nobile morte. Anche il fatto che Stobeo citi come tratti dagli Eraclidi euripidei passi che non compaiono nel nostro testo, conferma un forse non lieve rimaneggiamento dell'opera. IPPOLITO. Del 428 è l'Ippolito coronato, con cui Euripide ottenne il primo premio, rifacimento di un precedente Ippolito velato, che aveva scandalizzato il pubblico. Ben poco, se si escludono le semplici congetture, sappiamo del primo Ippolito, e resta indimostrabile la vecchia tesi di Valckenaer secondo cui esso costituisce il modello della Phaedra di Seneca. È certo, comunque sia, che la scena era collocata in Atene, non a Trezene, e che Fedra rivelava direttamente (non attraverso la nutrice) la propria passione al figliastro, che per la vergogna si velava il capo (di qui il titolo). È stata giustamente riconosciuta una struttura quasi geometrica nell'Ippolito coronato : primo e terzo episodio si corrispondono, in quanto preparano l'uno la rovina di Fedra e l'altro quella di Ippolito; analoga corrispondenza esiste fra secondo e quarto episodio, segnati rispettivamente dalla morte di Fedra e di Ippolito; infine il prologo e l'epilogo formano una cornice caratterizzata dalla presenza di una divinità (Afrodite e Artemide). Questo tipo di composizione risponde abilmente alla costruzione per antitesi dei due personaggi principali: Fedra, la cui passione è sentita come malattia, e Ippolito, casto cacciatore dedito al culto di Artemide. Ai due personaggi si correlano due distinti contesti esistenziali: da un lato la vita oziosa entro le pareti di casa, fra le chiacchiere delle confidenti, dall'altro la caccia fra i boschi e la semplicità dei costumi. Problematica resta la possibilità che nell'Ippolito Euripide conduca una polemica antisocratica, specificamente contro l'equazione fra virtù e conoscenza, in base alla quale se uno conosce il bene non può non attuarlo, e quindi il male deriva sempre da un difetto conoscitivo. Effettivamente il nesso polemico con l'insegnamento socratico sembra molto stretto e in ogni caso il punto di vista di Fedra si pone su una linea ben diversa rispetto al tradizionale contrasto fra impulso e ragione.
ANDROMACA. Composta fra la morte di Pericle (settembre 429) e l'episodio di Sfacteria (425) è un dramma fitto di riferimenti all'attualità politica, sia per la serie di violenti attacchi contro Sparta, sia per l'augurio (che rispecchia la situazione interna post-periclea) che il governo dello stato sia posto nelle mani di una sola «mente», per quanto modesta, e cessi così la «duplice tirannide», ossia il contrasto tra forze radicali e moderate. Si tratta di una presa di posizione che mostra come Euripide tenda ora - diversamente che nei drammi composti durante il periodo pericleo - a distanziarsi oggettivamente dalla lotta politica contemporanea. Discussa e spesso negata è l'unità del dramma, già deprezzato dalla critica antica come «di seconda categoria» (si veda l'argomentum) : unità ricercata ora nella figura di Andromaca, ora in Ermione, ora nel contrasto fra le due donne. Ma Euripide ha prodotto un tipo di dramma che preannuncia le tragedie a intrigo, di sicura saldezza compositiva, in quanto costruito sulla ripetizione - per Andromaca, per Ermione e infine per Peleo - della stessa situazione di base (amechanìa seguita da salvazione); ripetizione accompagnata dall'iterazione delle immagini e dalla simmetrica inserzione di brani commatici. Sul piano registico, è controversa la presenza di Andromaca e del figlio nell'esodo, ma indizi vari sembrano smentire questa ipotesi.
ECUBA. Due allusioni di Aristofane, nelle Nuvole (423), all'Ecuba permettono, insieme con altri indizi, di collocare questo dramma nel 425 o 424. L'opera consta di due azioni, concentrate attorno alla figura della protagonista: da un lato il sacrificio di Polissena sulla tomba di Achille, desunto dal ciclo epico (Iliupersis e Nostoi) e forse anche dalla Polissena di Sofocle; dall'altro il tradimento di Polimestore, che uccide Polidoro provocando la vendetta di Ecuba (motivo inattestato prima di Euripide). L'impegno di saldare le due sequenze in unità compositiva è riconoscibile in vari tratti, come l'apparizione dell'Ombra di Polidoro nel prologo e soprattutto l'incastro delle due vicende in modo che l'accumulo di sofferenze motivi la graduale trasformazione di Ecuba da vittima prostrata in spietata esecutrice del piano di vendetta. Un tipo di sviluppo che approfondisce uno spunto già toccato nell'epilogo degli Eraclidi (Alcmena punitrice di Euristeo), confrontabile anche perché in entrambi i casi i colpiti assumono improvvisa capacità profetica (nell'Ecuba il vaticinio della metamorfosi di Ecuba in cagna). Dramma fosco e senza aperture, anche l'Ecuba è densa - come l'Andromaca - di riferimenti alla situazione politica contemporanea. Euripide si schiera apertamente contro i demagoghi e in particolare Odisseo è definito come democharist?s (colui che compiace il popolo); alla critica verso i demagoghi si associa una sfiducia nella massa che mostra un'evidente involuzione rispetto all'elogio del d?mos presente nell'Andromaca, in cui ancora si sottolineava la superiorità degli amministrati su coloro che detengono le cariche.
SUPPLICI. Del 423 o 422 sono le Supplici, che presuppongono la sconfitta subita dagli ateniesi a Delio nel novembre del 424 e non possono essere posteriori alla battaglia di Anfipoli, nella quale morì Cleone (a cui si allude per contrasto nel sorprendente «appello elettorale» dei vv. 726-730). Euripide ha ripreso un tema che era già stato trattato da Eschilo negli Eleusinii (il recupero delle salme degli Argivi caduti nella spedizione contro Tebe): sennonché, mentre in Eschilo Teseo otteneva pacificamente la restituzione dei corpi, Euripide ha scelto la versione bellicistica che troviamo attestata anche in Erodoto e che gli ha permesso di presentare il re ateniese come risoluto difensore di una norma panellenica. Di qui il verdetto della critica antica sulle Supplici come «encomio degli ateniesi», in quanto soccorritori dei deboli (come già negli Eraclidi). Sul piano compositivo, le Supplici sono un'opera singolarmente statica, ricca di elementi rituali (le lamentazioni delle madri nella parodo) e patetici, con un'analisi del dolore che smentisce di fatto l'ottimismo di superficie, espresso anche nell'excursus di Teseo sulla vita umana, in cui il bene supererebbe sempre il male.
ELETTRA. Tradizionalmente si era soliti fissarne la data di rappresentazione al 413, in ragione di un supposto riferimento dei Dioscuri all'impresa ateniese in Sicilia, e più in particolare alla spedizione di soccorso guidata da Demostene. Ma è stato mostrato il carattere aleatorio di tale allusione e sulla base delle caratteristiche metriche (soluzioni nel trimetro e assenza di tetrametri trocaici, presenti in tutte le tragedie a partire dall'Eracle e dalle Troiane) l'opera è stata ricondotta a un periodo anteriore alla trilogia troiana del 415. La nuova datazione ha condotto fra l'altro a meglio sottolineare le differenze strutturali rispetto all'Ifigenia in Tauride e all'Elena, con cui l'Elettra veniva associata in quanto dramma ad intrigo, impostato sulla sovrapposizione di anagn?risis (riconoscimento) e mechànema (stratagemma). Uno dei problemi più dibattuti è poi il rapporto cronologico con l'Elettra di Sofocle; in ogni caso Euripide si rifà per via diretta alle Coefore eschilee e anzi un'intera scena è dedicata a una critica di tipo razionalistico dei segni di riconoscimento (capelli e orme) valorizzati dall'Elettra eschilea: un vero squarcio di teatro nel teatro, del resto non unico in Euripide. La funzione della scena, a torto considerata interpolata da molti studiosi, sta probabilmente nella nuova poetica euripidea, tesa a sottrarre la vicenda al contesto etico-religioso eschileo, per modellarla a più quotidiane e realistiche dimensioni. Non solo vengono meno in Euripide sia l'ordine di Apollo (quale spinta primaria al matricidio) sia il nesso fra colpa e punizione attraverso le generazioni; ma soprattutto l'intonazione euripidea si coglie nel fatto che, una volta eseguito il matricidio, i due fratelli manifestano nel commo finale un crollo emotivo che evidenzia l'assurdità del loro gesto. E l'intervento ex machina dei Dioscuri pone fine a una sequela di eventi che in realtà è senza sbocco e in cui il mito appare ormai internamente sgretolato. Al contrario lo scavo nel quotidiano permette a Euripide di accentuare gli aspetti realistici della condizione di Elettra, introducendo fra l'altro quel singolare personaggio dell'auturgo, del contadino marito di Elettra, attraverso il quale il poeta insinua le proprie simpatie per la classe media dei lavoratori in proprio, contrapposta ai ceti abbienti.
ERACLE. Del periodo intorno al 415, è uno dei drammi più sconcertanti, a causa dell'improvvisa metamorfosi in negativo cui è soggetto il mitico personaggio. Cospira con questo risultato anche il rovesciamento della tradizionale biografia dell'eroe, che secondo la versione vulgata eseguiva le famose fatiche dopo aver ucciso in un accesso di follia la moglie Megara e i figli; mentre in Euripide egli si sottopone volontariamente alle varie imprese per consentire al padre Anfiarao e a se stesso il ritorno in patria (Argo). Quando perciò Eracle, compiuta l'ultima fatica (la cattura di Cerbero), torna dall'Ade a Tebe e salva i propri familiari dalla persecuzione dell'usurpatore Lico, egli è l'eroe generoso e integerrimo e nessun indizio lascia prevedere il suo imminente crollo nella follia (contrariamente all'opinione di Wilamowitz, per il quale la crisi dell'eroe avrebbe la stessa matrice della sua grandezza, così da mostrare l'insufficienza dell'ideale dorico di eroismo), che è rappresentata da Euripide come effetto dell'intervento esterno di Iris e Lyssa, inviate da Era, le quali instillano nell'eroe il delirio senza altra motivazione che l'ostilità della sposa di Zeus, e anzi (da parte di Lyssa) con la coscienza della nobiltà di Eracle. In tal modo l'intervento divino è spogliato di qualsiasi razionalità e si propone quale assurda interferenza nella realtà umana. Perciò questo dramma riprende quella linea di desolato pessimismo che già dominava l'Ecuba ; ma d'altra parte proprio nell'Eracle affiora una concezione della divinità che smentisce clamorosamente la stessa vicenda. «Io non credo - afferma Eracle - che gli dèi amino illecite unioni, o che si mettano in catene, o che l'uno sia padrone dell'altro. La divinità, se veramente è tale, non ha bisogno di niente: tutto il resto non è che assurda invenzione dei poeti». Inoltre l'intervento pietoso di Teseo, che conforta Eracle contestando la prospettiva del suicidio, propone una visuale di accettazione del destino, ma insieme di coraggio di vivere, che apre uno spazio sia pur esiguo all'esistenza umana. Coerente con l'impostazione tematica è l'architettura dell'opera, che consta di un dittico intenzionalmente simmetrico.
TROIANE. Del 415 sono le Troiane, ultimo dramma di una trilogia comprendente anche l'Alessandro e il Palamede. Nell'Alessandro (i cui frammenti sono stati accresciuti dai papiri di Strasburgo), l'omonimo personaggio (Paride), dopo essere stato allevato dai pastori dell'Ida, subiva un agguato tesogli da Ecuba e Deifobo. Rifugiatosi su un altare, era riconosciuto dalla madre e accolto a Troia. Notevole doveva essere il ruolo di Cassandra, che profetizzava (come nell'Agamennone eschileo) le future disgrazie. Nel Palamede Odisseo provocava la rovina di Palamede, accusandolo a torto di tradimento, ma il fratello di questi, Oiax, riusciva a informare il padre Nauplio, che si vendicherà dei greci facendoli naufragare durante il ritorno contro gli scogli del capo Cafereo. Nelle Troiane le ultime ore della città sono rappresentate attraverso le sofferenze di Ecuba, costantemente presente nell'opera, e i successivi incontri della vecchia regina con Cassandra, con Andromaca e con Elena. Questi tre «atti» sono giustapposti l'uno all'altro, secondo un'inedita struttura «paratattica», che tuttavia non infirma l'omogeneità dell'opera, caratterizzata da una ricerca esasperata di effetti patetici. La novità saliente delle Troiane sta infatti nella realizzazione di una poetica del dolore fondata sul compiacimento per il pianto e su una raffinata ricerca espressiva grazie alla quale l'elemento patetico tende a cristallizzarsi in belle immagini. Di qui anche un'accresciuta importanza dell'elemento musicale, che possiamo intravvedere dalla virtuosa polimetria di brani come il folle imeneo che accompagna l'ingresso in scena di Cassandra.
IFIGENIA IN TAURIDE. Questa tragedia e l'Elena sono due drammi a intrigo accomunati non solo da fittissime analogie compositive ma anche dalla prossimità cronologica. La questione, lungamente dibattuta, dell'anteriorità sembra risolta (specialmente in base ai criteri metrici) a favore del primo dramma. E poiché l'Elena è sicuramente datata (in base agli scolii alle Tesmoforiazuse e alle Rane di Aristofane) al 412, restano il 414 e il 413 quali date più probabili per l'Ifigenia. La scena è collocata in terra barbara, nella regione dei monti Tauri, in prossimità del tempio di Artemide, decorato da teschi e ossa umane, del quale Ifigenia è sacerdotessa. Già i Canti ciprii conoscevano la leggenda della figlia di Agamennone sottratta da Artemide al sacrificio in Aulide e trasferita nella terra dei tauri, mentre Erodoto riferisce che i tauri onoravano una dèa a cui offrivano sacrifici umani. Sulla base di questi dati leggendari e cultuali, Euripide ha costruito un tipo di azione romanzesca che nella prima e più ampia parte tende al riconoscimento fra la protagonista e il fratello Oreste e nella seconda si snoda attraverso la beffa ai danni di Toante, re del Ponto. Ma il congegno drammatico è soprattutto una forma entro la quale Euripide elabora una serie di temi lirici (dal commo iniziale tra Ifigenia e il coro, al duetto melodrammatico del riconoscimento e al canto dell'alcione) segnati da una cura stilistica ricercata e preziosa.
ELENA. Del 412 è l'Elena, in cui Euripide ha ripreso dalla Palinodia di Stesicoro il motivo dell'aereo fantasma (èidOlon) foggiato dagli dèi e inviato a Troia, mentre la vera Elena è stata trasportata da Ermes in Egitto presso il re Proteo. L'azione si articola in un dittico sapientemente strutturato; nella prima parte le vicende diverse ma complementari di Elena e di Menelao conducono al reciproco incontro e riconoscimento: dopodiché, con uno sviluppo più largo che nell'Ifigenia in Tauride, l'azione assume i ritmi e le movenze del mechànema, escogitato per sfuggire a Teoclimeno. Le due sequenze sono mediate dalla presenza del singolare personaggio di Teonoe, che assicura la riuscita dell'intrigo. In accordo con la scomposizione dell'azione, anche toni e registri espressivi tendono a differenziarsi dislocandosi nelle due distinte fasi drammatiche. Inizialmente domina l'elemento patetico, incentrato su Elena, sposa fedele e vittima degli dèi, essa stessa un «prodigio», tanto strane sono state le sue vicende. Ma questo elemento patetico non è realizzato come tale, quanto piuttosto impreziosito da un'elaborazione formale per cui il dolore si stempera in immagini eleganti. Col patetismo contrasta la serie di opposizioni intellettualistiche (corpo-nome, verità-illusione) che si annodano attorno allo spunto favolistico dell'èidOlon, dando vita a una serie di equivoci paradossali, al dramma surreale di un'identità perduta. Invece la fase del mechànema è segnata dal compiacimento per l'astuzia ben congegnata; il gusto per il dettaglio realistico e per il doppio senso rasentano intonazioni comiche.
IONE. Ragioni metriche e strutturali collocano lo Ione accanto all'Elena, quindi intorno al 412. Euripide rielabora una tradizione, di cui troviamo traccia in Erodoto, secondo la quale gli ateniesi erano chiamati ioni da Ione, figlio di Xuto. E già in Esiodo compariva Xuto come figlio di Elleno insieme con Doro ed Eolo. L'azione, intricata e avventurosa, si basa su una serie di riconoscimenti, veri o presunti: dapprima l'incontro fra Ione e Creusa, ove l'agnizione non giunge a compimento, ma è presentita attraverso l'inquietudine dei personaggi; poi il falso riconoscimento fra Ione e Xuto; infine la clamorosa anagn?risis fra madre e figlio, proprio dopo il fallito attentato di Creusa. All'interno e ai margini di queste peripezie Euripide realizza momenti di singolare suggestione: nel prologo la monodia di Ione, che spazza il tempio di Apollo, mescola realismo (le minacce agli uccelli che nidificano sui cornicioni) e disteso lirismo (l'incipit, con la descrizione dell'alba); più innanzi (all'interno del mechànema contro Ione) la monodia di Creusa, con la rievocazione dell'unione col dio e uno scavo attento nella sensibilità del personaggio; infine il definitivo riconoscimento, dove si dispiega quell'esaltazione degli affetti familiari, vissuti in chiave intensamente edonistica, che forma un elemento caratterizzante dell'ultimo Euripide.
FENICIE. Sulla base di uno scolio ad Aristofane sappiamo che le Fenicie sono posteriori al 412; fra le date proposte, il 409 sembra la più probabile. Rinnovando la materia dei Sette a Tebe di Eschilo, Euripide realizza un'opera ampia e complessa, la cui struttura era già stata definita «sovrabbondante» dalla critica antica. In particolare nell'hypòthesis (argomento) viene censurata come estranea al corpo dell'opera la teichoscopìa (spettacolo dalle mura), con Antigone e il pedagogo che (sul modello di Elena e Priamo nell'Iliade) osservano dalle mura l'esercito argivo, nonché l'incontro di Polinice con Giocasta ed Eteocle e infine la presenza di Edipo nella parte finale. Sennonché proprio queste scene, in astratto «superflue», sottolineano l'interesse, che già abbiamo segnalato come caratteristico dell'ultimo Euripide, per la rappresentazione degli affetti familiari. Tutta l'opera, esteriormente centrata sulla sorte di Tebe (risolta felicemente dal sacrificio di Meneceo), verte in effetti sulla rovina di una famiglia, quella dei Labdacidi, ai cui poli estremi si pongono Antigone e Edipo, non a caso accomunati nell'ultima scena sulla via dell'esilio (una situazione che anticipa l'Edipo a Colono sofocleo), mentre al centro del quadro sta la grande figura di Giocasta, che tenta invano di conciliare i figli. La sua monodia, nel momento in cui riabbraccia Polinice, è tra le cose più mirabili composte da Euripide : scavo nel personaggio, ricerca dell'immagine, sapiente polimetria, impiego del chiaroscuro (i riccioli azzurri di Polinice di contro al capo rasato a lutto della madre) generano un effetto complesso e vibrante, fondato sulla fusione fra elemento patetico e inesauribile inventività espressiva. Giustamente famoso è il racconto del messaggero sugli ultimi momenti dei fratelli: anche qui il patetico dà il tono alla scena, senza mai scadere nel convenzionale, in quanto è sempre sorretto dal realismo dei gesti e delle immagini. D'altra parte le Fenicie sono anche un documento importante sull'atteggiamento politico di Euripide negli ultimi anni della sua produzione: l'elogio dell'uguaglianza, inserito in un quadro cosmologico, che fa Giocasta e la condanna dell'ambizione e della tirannide, dimostra l'avversione di Euripide per le soluzioni autoritarie tentate dai gruppi oligarchici ateniesi nel 411.
ORESTE. È noto che fu rappresentato nel 408. Ha pesato sul dramma il giudizio sostanzialmente negativo dell'hypòthesis, che lo definiva «pessimo nei caratteri», pur se spettacolare: osservazione sconcertante, se si considera il modo magistrale con il quale Euripide ha rappresentato la follia di Oreste, con una capacità di scavo introspettivo per cui il personaggio stesso giunge a individuare - dietro le Erinni della tradizione - la «coscienza» (sòynesis) quale autentica matrice delle proprie allucinazioni; o la finezza con cui è delineato l'affetto tra i fratelli. Certamente non si può disconoscere una certa sfasatura fra la prima parte, tesa alla caratterizzazione attenta e sfumata, e la seconda parte, in cui i medesimi personaggi (Oreste, Elettra, Pilade) appaiono trasformati in disinvolti esecutori di un intricato mechànema, che solo l'intervento ex machina di Apollo riesce a dipanare. E non a caso è inserita in questa seconda sequenza quell'aria dello schiavo frigio, che rappresenta il pezzo lirico più bizzarro e barocco composto da Euripide, giocato su un accumulo di immagini e su una serie inesauribile di variazioni ritmiche che richiamano i contemporanei ditirambografi. Ma l'Oreste è anche un dramma politico, che si associa alla Fenicie nel tradurre l'atteggiamento politico di Euripide dopo i tentativi oligarchici e il ristabilimento della democrazia radicale: mentre però nelle Fenicie l'accento batteva sul pericolo della tirannide, nell'Oreste la critica dell'oratoria sfrenata, la diffidenza nei confronti del d?mos, sentito come un corpo di cui occorre saper controllare le violente reazioni, mostra come Euripide tendesse a distanziarsi tanto dai gruppi oligarchici quanto dai nuovi demagoghi (Cleofonte in particolare) e quindi dalla democrazia radicale. Nell'assenza oggettiva di una soluzione mediana (quale era stata prospettata nelle Supplici) è la ragione della perdita di contatto di Euripide con la realtà politica del suo tempo, non a caso seguita dalla definitiva partenza da Atene.
BACCANTI. Dei drammi composti in Macedonia restano l'Ifigenia in Aulide e le Baccanti, in cui - come informa l'argumentum di Aristofane di Bisanzio - Euripide ha tenuto quale modello fondamentale il Penteo di Eschilo (ma è probabile anche la ripresa di spunti desunti da un'altra trilogia di Eschilo, la Licurgia, anch'essa incentrata sull'opposizione al culto dionisiaco). Tradizionale nella critica è la controversia sull'eventuale atteggiamento di Euripide nei confronti del misticismo bacchico: alla tesi della palinodia dell'antico razionalista si è opposta l'attenzione sulla conclusione del dramma, fitto di denunce contro la crudeltà di Dioniso. In effetti la questione è mal posta, né d'altra parte può essere elusa richiamandosi a un presunto agnosticismo estetico del poeta. Ma ciò che conta è l'individuazione del complesso intreccio di motivi che caratterizza l'opera. C'è innanzitutto, indubbiamente, un forte interesse per i fenomeni mistici e irrazionali, che del resto si era andato diffondendo nell'Atene degli ultimi anni del sec. V, in concomitanza con lo sbocco negativo della guerra. I soggetti dionisiaci risultano particolarmente frequenti in questo periodo anche nell'ambito della pittura vascolare e nello stesso Euripide spunti bacchici compaiono spesso nei drammi più tardi; un interesse, e anzi una partecipazione, che all'interno delle Baccanti trova specifica espressione nella parodo (tutta contesta di moduli cultuali) e nelle rh?seis (racconti) dei messaggeri. D'altra parte lo stesso dionisismo non è visto in chiave esclusivamente irrazionalistica. Tiresia, in particolare, introduce quell'equazione fra Dioniso e il vino che sembra riecheggiare le teorie di Prodico e in ogni caso si pone su una linea argomentativa di tipo razionalistico. Per altro verso la concezione del dionisismo si allarga nelle Baccanti in quanto Dioniso è interpretato non solo come il dio dell'estasi, ma anche della tranquillità edonistica consistente nel vivere serenamente giorno per giorno, accettando i valori tradizionali senza valicare i limiti della condizione umana, conforme a un quadro di pensiero tipico della cultura arcaica. Di fronte a questa saldatura fra misticismo estatico ed etica tradizionale l'intransigenza di Penteo viene a porsi come h?bris (superbia, tracotanza) attirando la punizione del dio. E paradossalmente è proprio a Penteo che il coro attribuisce un atteggiamento irrazionale e violento, congiunto con una sottile quanto improduttiva «sapienza» (sòfon).
IFIGENIA IN AULIDE. In essa è ripreso il soggetto già trattato negli omonimi drammi perduti di Eschilo e Sofocle. L'opera è pervenuta in forma precaria: oltre a sporadiche interpolazioni, non appartengono a Euripide né l'epilogo, né la parte in trimetri giambici del prologo. Momento centrale dell'opera è la trasformazione per cui Ifigenia, poco dopo aver lamentato il proprio destino, improvvisamente decide - attraverso una lucida argomentazione - di sacrificarsi per la Grecia. Già Aristotele nella Poetica aveva sottolineato come un caso limite l'an?malon (incoerenza) del personaggio, tanto più sconcertante in quanto fra i due momenti del lamento e della decisione intercorre soltanto la breve scena fra Clitennestra e Achille, che l'esercito ha minacciato di lapidazione per aver preso le difese della ragazza. Ma più che attraverso analisi sottili, l'incoerenza di Ifigenia si spiega nel quadro dell'intero dramma, che appare segnato appunto dall'estrema labilità psichica dei personaggi: così per Agamennone, il cui contrordine mette in moto la vicenda; così per Menelao, che dopo aver accusato il fratello di viltà, si impietosisce per Ifigenia proprio quando Agamennone è tornato al primitivo proposito di sacrificare la figlia. Per questa via il mondo eroico risulta dissolto internamente e l'interesse viene a trasferirsi sul particolare quotidiano e realistico o al contrario - nelle parti liriche - sulla ricerca dell'immagine e del quadro preziosi (tipica per questo verso la parodo, dove il mondo eroico si tramuta in spettacolo edonistico).
RESO. Trasmesso entro il corpus euripideo, ma sospetto già nell'antichità, è forse composto nel sec. IV, e riprende la materia del X canto dell'Iliade (l'uccisione del re tracio ad opera di Odisseo e Diomede).
CICLOPE. È l'unico dramma satiresco di tutto il teatro greco pervenuto intero (anche se il recupero attraverso i papiri di gran parte degli Ichneutài di Sofocle e di ampi frammenti dei Diktyulkòi e degli Isthmiastài di Eschilo permette di avere un quadro di questo genere letterario). Incerta è la datazione, ma la frequenza delle soluzioni lo porrebbe fra i drammi tardi. Euripide ha adattato alla scena il noto episodio del IX canto dell'Odissea, introducendo il coro dei satiri (elemento obbligatorio del genere), guidati da Sileno e finiti schiavi del mostro mentre inseguivano i pirati tirreni. Il dramma non manca di spunti comici felici e di invenzioni buffonesche (p. es. lo sconclusionato affaccendarsi dei satiri per accecare il gigante); ma più che sul comico Euripide punta sull'arguzia e sul paradosso: caratteristico in questa direzione il dialogo fra Odisseo, che elogia enfaticamente i valori della civiltà, e il Ciclope, che replica proponendo una visione edonistica che in chiave seria percorre tutta l'ultima produzione euripidea (e alle Baccanti in particolare ci riporta l'equazione fra Dioniso e vino).
Euripide drammaturgo. È illegittimo irrigidire l'opera di Euripide in uno schema o in una formula e ogni tentativo della critica di darne una caratterizzazione unitaria e omogenea ha condotto a immagini riduttive e false. Né d'altra parte Euripide è, semplicisticamente, il poeta delle dissonanze e delle contraddizioni: occorre piuttosto cogliere, nell'arco della sua produzione, costanti e variazioni in rapporto alle profonde trasformazioni subite dalla società e dalla cultura ateniesi nella seconda metà del sec. V. Più specificamente, l'opera di Euripide tende a rispecchiare in un primo tempo la cultura periclea, in quanto concezione della pòlis basata sulla conciliazione interclassista e su quel lucido razionalismo che caratterizza personaggi come Alcesti, Medea e Fedra. La dissoluzione di questo modello in concomitanza con lo sviluppo della guerra peloponnesiaca pone successivamente Euripide di fronte a una radicalizzazione dei contrasti tra forze democratiche e forze oligarchiche, che lo conduce a quella teorizzazione della classe media, formulata da Teseo nelle Supplici, a cui resterà sostanzialmente fedele fino ai drammi più tardi. Di qui svalorizzazione del d?mos e dei demagoghi, da un lato, e dall'altro deplorazione della tirannide. Ma in quanto proposta incapace di far presa su una realtà politica e sociale refrattaria a ogni tentativo di mediazione e di compromesso (sintomatico in questo senso l'insuccesso della linea di Teramene nella crisi oligarchica del 411), essa favorisce il graduale disimpegno politico di Euripide (si pensi all'elogio della vita contemplativa svolto da Anfione nella perduta Antiope) : disimpegno compensato dalla ricerca di valori privati (la rivalutazione edonistica degli affetti familiari) e dall'evasione nel più raffinato lirismo (e in questo quadro ben si comprende anche l'interesse per le zone irrazionali dell'esperienza e per i culti misterici). Dal punto di vista della tecnica drammatica, occorre richiamare alcuni aspetti salienti della trattazione euripidea delle parti tradizionali della tragedia. Il prologo è costituito da una rh?seis orientativa, generalmente recitata dal protagonista o da una divinità, che informa sugli antefatti del dramma e sulle innovazioni introdotte dal poeta nei confronti della tradizione mitica. Il tono distaccato di molte fra queste rh?seis, già parodiate da Aristofane nelle Rane, rispondeva all'esigenza di concentrare l'attenzione dello spettatore sulle reazioni dei personaggi alle situazioni, piuttosto che sugli eventi in se stessi. È incerto se si debba vedere in questa forma un recupero dell'antico prologo espositivo di Tespi, e quindi un consapevole arcaismo. Nelle parti dialogate particolare rilievo assume l'«agone», con la nitida contrapposizione dei discorsi fra gli antagonisti, che danno fondo a ogni risorsa dialettica per sostenere le proprie ragioni. Sempre più marcata appare col tempo la ripartizione dei discorsi in sezioni ben definite e in sé concluse, non senza punti di contatto con la retorica del tempo. Per i dialoghi più serrati soccorre la sticomitia, spesso vivace e violenta, ma funzionale anche ad altri obiettivi (espositivi, parenetici, ecc.). A partire dall'Eracle è frequente l'impiego del tetrametro trocaico (in luogo del trimetro giambico) e dell'antilabè (ripartizione dello stesso verso fra più interlocutori). Rari sono in Euripide i dialoghi fra tre interlocutori. Monologhi in senso stretto (a scena vuota) compaiono solo nel prologo, ma situazioni sostanzialmente monologiche - con un personaggio che, pur al cospetto di altri, si rivolge in realtà a se stesso - sono largamente diffuse, soprattutto per l'espressione del pathos (tipiche in queste parti le preghiere e le apostrofi a personaggi o entità assenti). Chiara ascendenza epica - sia per la tecnica narrativa sia per alcune peculiarità linguistiche (p. es., l'uso molto ridotto dell'articolo) - rivelano le narrazioni dei messaggeri, spesso ampie e ricercate e caratterizzate da una realistica precisione di dettagli. Simmetrico rispetto al prologo espositivo, e stilisticamente affine, è l'impiego del deus ex machina nell'epilogo, con la prevalente funzione di informare (e talora decidere) sulla futura condizione dei personaggi, nonché di correlare eziologicamente la vicenda rappresentata a tradizioni e culti noti agli spettatori. Nell'ambito delle parti liriche spicca innanzitutto l'inserzione di intermezzi corali di tipo narrativo, definiti stasimi ditirambici (in relazione al nuovo ditirambo attico) - a partire dal 420 circa: brani accomunati dalla successione di quadri in sé conclusi, da un gusto calligrafico per i particolari, dalla ricerca del chiaroscuro. Accanto agli stasimi ditirambici si pongono, quali manifestazioni della nuova lirica euripidea, le monodie (dall'elegia di Andromaca nel dramma omonimo alle arie anapestiche dello Ione e delle Troiane ; dalle melodie patetiche di Creusa dello Ione e di Giocasta nelle Fenicie alla virtuosa esibizione dello schiavo frigio nell'Oreste) e i duetti lirici (amoibàia), fra cui assumono particolare rilevanza quelli che accompagnano le scene di riconoscimento. La lingua euripidea si presenta come meno originale di quella eschilea e meno imprevedibile di quella sofoclea. Tra le neoformazioni, diffuse specialmente nelle parti liriche, spiccano gli aggettivi con funzione decorativa, mentre nelle parti recitate si avverte una forte tendenza sia per l'uso di termini astratti sia per l'introduzione nel lessico tragico di parole e nessi tipici della lingua parlata (seppur talora impreziositi attraverso variazioni o accostamenti inediti). Fra gli stilemi, particolare rilevanza assumono la personificazione di concetti astratti, spesso oggetto di apostrofe, e il gusto per l'antitesi, anche per influsso della prosa filosofica. La sintassi appare generalmente sorvegliata, ma nelle parti liriche delle tragedie tarde si nota la tendenza all'agglutinazione paratattica o comunque a una grande semplificazione di nessi. La metrica delle parti recitate è marcata da un costante aumento delle soluzioni all'interno del trimetro giambico. I tetrametri trocaici compaiono solo a partire dall'Eracle e dalle Troiane. Quanto alle parti liriche, si osservano una crescente polimetria e un'associazione spesso virtuosistica di metri disomogenei. Non infrequenti sono le responsioni libere e altre licenze quali la soluzione trisillabica della base eolica; spiccata la predilizione per cola brevi. Fra le peculiarità anche il riuso, sul modello eschileo, dell'efimnio (ritornello) e l'adozione di forme della lirica monodica (l'elegia di Andromaca e la canzonetta del Ciclope, di tipo anacreontico, nel Ciclope). Già nell'antichità Euripide era stato definito «filosofo della scena»; «poeta dell'illuminismo greco» suona il titolo di un famoso saggio euripideo del 1901 di W. Nestle che, muovendo soprattutto dall'esame dei frammenti, cercava di ricostruire una unitaria concezione filosofica che sarebbe sottesa a tutta la produzione di Euripide, che in effetti è ricca di dibattiti e di prese di posizione sui problemi del tempo e spesso riecheggia formulazioni di singoli pensatori. La critica ha sottolineato soprattutto il gusto per i «discorsi duplici», tipici della pratica sofistica e che sono alla base in particolare delle Antilogie di Protagora; e chiaro è p. es., il contatto con Gorgia quando Ecuba definisce la persuasione come unica sovrana degli uomini. Sennonché proprio la concezione del lògos che compare ripetutamente in Euripide si muove piuttosto nel senso di un'antitesi nei confronti delle dottrine protagoree: mentre infatti Protagora insegnava a render più «forte» il discorso più «debole», conforme a un'impostazione in base alla quale non esiste un criterio per discriminare il vero dal falso, in quanto tutte le dòxai (opinioni) sono egualmente vere, in Euripide si sottolinea la contrapposizione fra le cose e le parole, fra i reali rapporti di forza e il loro mascheramento dialettico; all'interno di tale contrapposizione il lògos risulta svalutato in quanto insufficiente a modificare le situazioni oggettive. Analogo distacco si avverte fra Euripide e sofisti come Antifonte, le cui concezioni egualitarie, incentrate sulla contrapposizione tra natura (f?sis) e convenzione (nòmos), è riecheggiata in relazione al problema degli schiavi e dei barbari: ma benché emerga in Euripide - come già osservava Aristofane - una recisa rivalutazione degli schiavi e in genere delle classi subalterne e almeno in certe tragedie, come l'Ecuba e le Troiane, venga prospettato un senso di universale solidarietà fra gli uomini, nondimeno le strutture sociali vigenti non appaiono messe in discussione e non è mai negata la legittimità della differenza fra liberi e schiavi; e quanto all'antitesi fra greci e barbari, si assiste anzi negli ultimi anni a un'involuzione che culmina nell'affermazione secondo cui «è logico che i greci dominino sui barbari: i barbari infatti sono servi, mentre i greci sono liberi». Oscillazioni non dissimili si manifestano anche nell'atteggiamento euripideo di fronte alla scienza ionica della natura e in particolare alla filosofia di Anassagora. Quasi certamente anassagoreo è l'elogio del saggio, indagatore dell'ordine della natura e della sua composizione in un frammento forse dell'Antiope ; e spunti della dottrina materialistica di Anassagora sono evidenti in un frammento del Crisippo. D'altra parte anche l'amore per la ricerca è sentito come inadeguato; e se già nell'ultimo stasimo dell'Alcesti le «moltissime dottrine» incontrano un limite invalicabile nella forza della Necessità, è soprattutto nella fase tarda della sua produzione che Euripide mostra una rivalutazione del senso comune e delle tradizioni, fino al motto delle Baccanti : «il sòfon (la conoscenza sottile) non è sofìa (vera saggezza), la quale consiste nel pensare cose mortali». Sbocco naturale della formazione razionalistica di Euripide era anche la critica degli dèi e la ricerca di una diversa immagine del divino. Sulle orme di Senofane Eracle nega che gli dèi possano compiere azioni immorali: «il dio, se veramente è dio, non ha bisogno di niente». «Credo che nessun dio è malvagio», afferma Ifigenia e ancor più radicalmente si afferma, in un frammento del Bellerofonte, che se gli dèi compiono alcunché di biasimevole, allora non sono dèi. D'altronde anche questa ricerca di una nuova prospettiva religiosa tende a sfociare in una forma di agnosticismo, in cui l'arcaica formula religiosa hòstis pot'èi sy (chiunque tu sia), che Eschilo aveva impiegato nel suo senso originario, viene desacralizzata come espressione di autentico dubbio; e tuttavia anche nella grande preghiera di Ecuba, che riecheggia motivi anassagorei, lo spunto scettico viene infine fideisticamente «corretto». Uno scetticismo apertamente dichiarato - attraverso un tipo di confessione quasi personale - è nel primo stasimo dell'Elena, dove sembra effettivamente riecheggiare l'atteggiamento di Protagora nello scritto Sugli dèi («intorno agli dèi non posso sapere né se esistono né se non esistono, né quale forma abbiano»). Ma anche qui lo scetticismo trapassa, attraverso la constatazione del gioco imprevedibile della t?che (fortuna) e l'implicito riconoscimento della debolezza umana, in un recupero della fede tradizionale: la strofe si chiude infatti sulla contrapposizione fra l'incertezza delle vicende umane e la veridica parola degli dèi («non so più che cosa sia saf?s [chiaro, sicuro] fra i mortali: ma ho riconosciuto veridica la parola degli dèi»). Pure sul piano religioso si prospetta così una parabola lungo la quale le posizioni razionalistiche subiscono uno spostamento che permette il recupero delle tradizioni e della fede comune, centrata sul senso della limitatezza umana.
La tradizione manoscritta euripidea. La tradizione manoscritta euripidea si divide in due gruppi ben distinti. Il primo è costituito da dieci tragedie (Alcesti, Andromaca, Ecuba, Ippolito, Medea, Oreste, Reso, Troiane, Fenicie, Baccanti), fornite di scolii (tranne le Baccanti), frutto di una selezione ad uso scolastico operata nella tarda antichità; questo gruppo, all'interno del quale i grammatici bizantini effettuarono un'ulteriore selezione (la triade costituita da Ecuba, Oreste e Fenicie), è stato trasmesso da un ampio numero di testimoni, fra i più antichi dei quali sono da annoverare il palinsesto di Gerusalemme (H), del sec. XI, il Marcianus 471 (M), il Parisinus 2712 (A), il Parisinus 2713 (B), del sec. XII, e il Vaticanus 909 (V), del sec. XIII. L'altro gruppo comprende tutti i drammi, tranne le Troiane, e rappresenta una parte di un'edizione integrale ordinata alfabeticamente. Tale gruppo è conservato in due soli testimoni, L (Laurentianus XXXII, 2) e P (Palatinus 287 e Laurentianus Conventi Soppressi 172), redatti il primo verso il 1310 e il secondo verso il 1340. Quanto alle tragedie fornite di scolii, appare oggi insostenibile la teoria tradizionale secondo cui esse risalirebbero a un comune archetipo con varianti: infatti l'entità di tali varianti, la cui antichità è spesso dimostrata dal riscontro con testimoni papiracei, è troppo alta per quadrare con tale teoria; inoltre le divergenze fra due o più rami della tradizione riconducibili a errori da maiuscola induce a ipotizzare che fossero effettuate più traslitterazioni in diversi centri scrittori dell'impero bizantino. Insieme con la teoria dell'archetipo con varianti si è vanificata anche la possibilità di ricostruire per la tradizione euripidea uno stemma codicum (sul tipo di quello, rigorosamente bipartito, elaborato da Turyn): in effetti i processi di contaminazione e di trasmissione orizzontale hanno prodotto per il testo euripideo un tipo di tradizione «aperta», all'interno della quale è legittimo sottolineare nulla più che maggiori o minori affinità fra codici o gruppi di codici. Per quanto riguarda poi la trasmissione del testo durante l'antichità, il fenomeno si presenta per Euripide in termini analoghi che per Eschilo e Sofocle: il momento cruciale è rappresentato dall'attività della filologia alessandrina, e in particolare di Aristofane di Bisanzio, al quale si deve anche la divisione in cola delle parti liriche. In misura assai maggiore che per gli altri tragediografi, il gran numero di reprises ha introdotto nel testo euripideo una massa non indifferente - seppur difficilmente quantificabile - di interpolazioni di attori. [FRANCO FERRARI in "NOVA 2006 - UTET" ]



Catullo, Gaio Valerio: Poeta latino (Verona ca. 84 - Roma ca. 54 a. C.). Conosciamo molto poco della vita di Catullo, se si eccettuano le notizie che si ricavano direttamente dalla sua opera. Il praenomen (Gaio) è restituito solo da Apuleio (Apol 10) e da Gerolamo, che, riprendendo le notizie di una vita catulliana di Svetonio, oggi perduta, nel suo Chronicon (154 Helm) riporta anche luogo e data di nascita e di morte. Il poeta sarebbe nato a Verona nell'87 a. C. e sarebbe morto a Roma nel trentesimo anno d'età (XXX aetatis anno Romae moritur), cioè nel 58 (o nel 57). Tuttavia in alcuni carmi Catullo allude esplicitamente ad avvenimenti posteriori al 58 (o 57) a. C. (il secondo consolato di Pompeo del 55 a. C.; l'avvenuta costruzione del Portico di Pompeo durante quello stesso consolato; le spedizioni di Cesare in Britannia del 55-54 a. C.). Ciò vuol dire che egli era sicuramente vivo almeno fino al 54 a. C.; mancano invece nella sua opera riferimenti a fatti successivi a tale data, che può essere considerata quella della sua scomparsa. Ma se, come afferma Gerolamo, Catullo era trentenne al momento della morte, allora deve essere nato nell'84 e non nell'87 a. C. Del resto un lieve errore nella cronologia geronimiana è possibile (anticipazione dell'anno di nascita all'87), mentre sembra più difficile credere, come alcuni fanno, che l'espressione «XXX aetatis anno» sia solo approssimativa e che si possano conciliare le due date dell'87 e del 54 (Catullo sarebbe vissuto circa trent'anni, in effetti trentatré): se Gerolamo non fosse stato sicuro dei suoi dati, si sarebbe limitato ad indicare il momento di maggiore fioritura del poeta, senza ulteriori particolari. In conclusione, ammettendo la lieve confusione di date del Chronicon, possiamo affermare con una certa probabilità che Catullo visse tra l'84 e il 54 a. C. Nativo di Verona, egli appartenne a una famiglia molto agiata: suo padre era in stretti rapporti con lo stesso Cesare che più volte fu suo ospite. Non sappiamo niente delle scuole che frequentò, né dei maestri che ebbe (alcuni pensano che uno di questi possa essere stato Valerio Catone, che sembra aver insegnato anche ad altri letterati quali Cinna, Ticida, Furio Bibaculo), prima di giungere molto giovane a Roma, dove poi si stabilì (Roma è la sua «dimora»), allontanandosi per brevi soggiorni nella casa paterna o nella villa di Sirmione o in quella non lontano da Tivoli, ai confini con la Sabina. L'unica lunga assenza di Catullo da Roma coincide con il solo avvenimento della sua vita databile con precisione: il viaggio in Bitinia, forse insieme con alcuni amici, al seguito di Catullo Memmio, lì destinato quale governatore (nel 57-56 a. C.). Durante il viaggio di ritorno poté onorare nella Troade la tomba del fratello prematuramente scomparso, recatosi in Asia Minore con un incarico ufficiale o in condizioni analoghe a quelle di Catullo nella cohors di Memmio. A Roma non intraprese la carriera politica, ma si dedicò invece ad un'intensa attività letteraria, entrando ben presto a far parte della cerchia dei cosiddetti Neoteroi o poetae novi (nuovi poeti) e diventandone uno dei rappresentanti più attivi. Facilitato probabilmente dalle relazioni paterne nel suo inserimento nella vita sociale romana, ebbe salda amicizia tra gli altri con Cornelio Nepote, Elvio Cinna, Ortensio Ortalo, Licinio Calvo. I rapporti con Cicerone, soprattutto sul piano della teoria poetica, non furono dei migliori; né Cesare o Pompeo o quelli del loro seguito furono risparmiati, anche se Svetonio (Iul 73) asserisce che Catullo alla fine si riconciliò con Cesare. Ed è a Roma che ha luogo l'avvenimento che segnerà indelebilmente la vita di Catullo : l'incontro con Lesbia, come egli ama definire la donna amata, in una sorta di delicato omaggio a Saffo, poetessa di Lesbo, così vicina alla sua sensibilità di uomo e di letterato. Sull'identità di questa donna si è a lungo discusso: Apuleio ci rivela che sotto Lesbia è celato il nome di Clodia e con tutta probabilità dobbiamo riconoscere in lei una delle tre sorelle di P. Clodio Pulcro, forse la sposa di Q. Metello Celere (console nel 60 a. C.). Il tempestoso legame con Lesbia-Clodia, tra alterni abbandoni, tradimenti e riconciliazioni, ebbe termine non molto tempo dopo il ritorno di Catullo dalla Bitinia (verso il 55 perciò). E di lì a poco finì anche la vita di Catullo.
· Le opere. Sicuramente non conosciamo tutta l'opera del poeta veronese. Ci sono stati tramandati sotto il suo nome 116 componimenti suddivisi in sezioni distinte. Nella prima (1-60) sono comprese le nugae, poesie, cioè, di argomento e metro vari; per lo più sono adoperati endecasillabi faleci, trimetri giambici e coliambi, ma ci sono anche strofe saffiche (11 e 51) e strofe di tre gliconei e un ferecrateo (34). Nella seconda (61-68) si trovano i carmina docta, componimenti di carattere più propriamente letterario, di maggiore estensione (il 61 è costituito da strofe di quattro gliconei e un ferecrateo; il 63 da galliambi; 62 e 64 sono in esametri e i restanti in distici elegiaci); nell'ultima sezione si leggono poesie in distici elegiaci di tono epigrammatico, vicine nei contenuti alle nugae iniziali. Questa distribuzione dei carmi non è di certo opera di Catullo ; forse la raccolta è stata costituita e ordinata, subito dopo la morte del poeta, dai suoi amici, probabilmente dallo stesso Cornelio Nepote. Nemmeno è possibile che il liber dedicato a Nepote (1) potesse contenere tutto ciò che noi conosciamo: né il termine libellus (1, 1) si addice ad un insieme di composizioni così vasto (oltre 2000 versi), né quello di nugae (1, 4) conviene a poesie di grave impegno come i carmina docta Viste le incongruenze della raccolta, molti studiosi hanno cercato di giustificare l'ordinamento attuale dei carmi o di trovarne uno più attendibile, basandosi sull'affinità o la difformità del contenuto, isolando dei temi dominanti, ricollegando i momenti poetici ai dati biografici. Quello che si può affermare con una certa sicurezza è che il libellus che Catullo dedica a Nepote doveva comprendere soltanto i carmi in metro vario, forse composti prima del viaggio in Bitinia (intorno al 58 a. Catullo cioè), mentre il liber Catulli nel suo complesso, quello che la tradizione ci ha restituito, è stato costituito dopo la morte di Catullo e ordinato secondo un criterio tipicamente alessandrino, sulla base del metro impiegato; c'è infatti una gradualità ritmica che dai metri vari prevalenti nella prima parte della raccolta giunge ai distici elegiaci dell'ultima sezione. Non privo di significato può considerarsi il fatto che i carmi sono disposti quasi in simmetria, cosicché al centro del liber sono le poesie dotte, all'inizio e alla fine quelle di minore impegno. in "NOVA 2006 - UTET" · La poetica. Come si è detto, Catullo è uno dei più rappresentativi esponenti dei ne?teroi o poetae novi, come polemicamente li definisce il tradizionalista Cicerone (Att VII 2, 1; De orat 161), ed è l'unico di cui conosciamo l'opera con una certa ampiezza. Questi giovani letterati si opposero alla tradizione epico-tragica di stampo enniano ed arrivarono ad una nuova concezione del far poesia, ed un nuovo stile, rivendicando al poeta il diritto all'individualismo, al soggettivismo, al racconto autobiografico; abbandonarono i lunghi componimenti di argomento eroico, sull'esempio omerico, per scrivere brevi carmi su temi mitologici e d'amore, con continui riferimenti alle proprie vicende personali; non si proposero come modelli solo poeti arcaici, dunque, ma anche ellenistici, ispiratori tra l'altro di una tecnica metrico-formale e linguistica innovatrice; non ricercarono il tono elevato e grave, né la collocazione rigida entro un genere letterario preciso, ma piuttosto la varietà dei temi, dei metri, dei toni, del linguaggio; mostrarono allo stesso tempo il gusto per il sermo vulgaris e per il vocabolo raro, per la parola ormai desueta. Lo stesso accostamento ai modelli greci imitati è una continua emulazione: tutto richiama l'originale, ma nessuna parola, nessun verso è pura e semplice traduzione e il risultato è una poesia del tutto nuova, consapevole di imitare-emulare il suo modello. La raffinatezza, la sapienza stilistica, la padronanza della tecnica, della lingua costituiscono quindi la doctrina di tipo ellenistico che Catullo, come tutti i ne?teroi, possiede insieme col desiderio di innovare e con la capacità di affidare ai versi esperienze e sentimenti realmente vissuti, accostandoli a temi letterario-mitologici. Le nugae e gli epigrammi hanno argomenti simili: l'amicizia, la satira, le invettive personali, la polemica letteraria, il ricordo di momenti lieti, l'abbandono a uno sconsolato dolore e soprattutto l'amore. Dallo scherzoso invito a pranzo a un amico (13, a Fabullo) o dal saluto affettuoso ad un altro amico di ritorno da un viaggio (9, a Veranio), si passa agli ironici ritratti di un pessimo scrittore di versi (22) o di un cattivo oratore (44); l'attacco senza mezzi termini a Cicerone (49) o a Cesare (93) si alterna all'entusiastico apprezzamento delle opere di ispirazione neoterica (95). Accanto all'ingenuo amore di due innamorati (45) è ricordata la partenza dalla Bitinia (46), la morte prematura del fratello (101). La passione, l'amore è oggetto di molti carmi, tra i quali fanno spicco quelli per Lesbia. È infatti con Lesbia-Clodia che Catullo ha avuto il più profondo e struggente rapporto sentimentale, l'unico che abbia avuto un reale significato per lui. È un amore che gli ha fatto conoscere momenti di gioia inebriante, ma anche di angoscia disperata; che lo ha reso il più felice degli uomini o il più sventurato e che comunque non gli ha mai regalato giorni sereni. L'amore, l'affetto, la tenerezza, la gelosia, il risentimento, l'astio sono di volta in volta i segnali del mutevole snodarsi di questa vicenda, espressi in versi ora delicati, commossi, ora aspri, rabbiosi. Per ricordare il momento iniziale (51) della sua passione e quello finale (11) trova ispirazione in Saffo (frr. 31 e 105 c L.-P.); descrive così il primo turbamento di fronte alla bellezza della donna, i primi ardenti morsi della gelosia nei confronti di chi (forse il marito) può ammirare a buon diritto Lesbia, e la dolorosa fine di un sentimento paragonato a un fiore ormai appassito, reciso dall'aratro. All'interno di questi estremi si pongono le testimonianze dei momenti più felici e di quelli più amari di questo amore: i componimenti 5 e 7 ricordano i baci di Lesbia, ma il 58 è un attacco veemente alla stessa donna caduta tanto in basso; il bene velle non disgiunto dall'amare, l'odio nato dall'amore sono ricordati nei componimenti 72; 75 e 85; nel 107 c'è la gioia dopo una riconciliazione. In quella, infine, che è considerata la prima elegia soggettiva latina (76), Catullo ammette la sua incapacità a dimenticare d'un colpo un amore durato tanto tempo (longum subito deponere amorem) e rivolge una fervente preghiera agli dei, che, in nome della sua pietas, lo aiutino a liberarsi di un legame ormai impossibile, che gli donino l'oblio, una rassegnata serenità. I carmi di ispirazione letteraria occupano, come abbiamo detto, la parte centrale del liber catulliano, anche se questa non è una rigida norma: nella prima sezione infatti compariva una poesia di argomento simile, l'inno a Diana (34), come del resto tra i carmina docta sono inclusi il 65, breve dedica a Ortalo della traduzione della Chioma di Berenice di Callimaco (= fr. 110 Pf.) e il 67, dialogo con la porta, quasi un paraklausithyron sarcastico. I componimenti 61 e 62 sono due epitalami. Nel primo, in occasione del matrimonio di Manlio Torquato con Giunia (Aurunculeia), sono ricordate le varie fasi del rito nuziale romano: dopo l'invocazione a Imeneo, dio delle nozze, il corteo accompagna la sposa alla casa dello sposo, al talamo nuziale. Accanto al ricordo della Fescennina iocatio c'è la considerazione del nuovo stato giuridico-sociale dei coniugi e l'augurio di felicità, insieme con l'auspicio di un prossimo erede, conclude il componimento. Il 62 non è legato ad alcuna circostanza reale, ma si può classificare come un carme letterario di tipo ellenistico, in cui però si fondono insieme elementi greci e romani; è un contrasto tra due cori di ragazze e ragazzi sul tema delle nozze, dell'amore coniugale. La diversa disposizione psicologica maschile e femminile verso il matrimonio è finemente sottolineata dalla timorosa esitazione delle ragazze e dall'irruente sicurezza dei ragazzi. Il componimento 63 racconta la tragica vicenda di Attis, che, recatosi in Frigia, in odio a Venere tributa onori alla Magna Mater Cibele e in preda al furore orgiastico si evira, ma, una volta riacquistata la coscienza di sé, piange sconsolatamente la patria lontana, la virilità perduta, la giovinezza ormai inutile. Si è visto in questo carme un chiaro riferimento a tutti i riti orientali che ormai dilagavano in Roma: grande è la drammaticità espressa dai veloci galliambi, che culminano nel terrore sacro che il poeta avverte ed esprime, concludendo con una preghiera, affinché non su di lui, ma su altri cada l'ira tremenda della dea. Il componimento 64 è un epillio in cui, con perfetta tecnica alessandrina, all'interno della narrazione della vicenda di Peleo e Teti nei successivi momenti (l'innamoramento, il matrimonio, il banchetto nuziale con il canto delle Parche sulla futura gloria e sulla immatura morte di Achille), è inserita una lunga digressione. Partendo dalla descrizione di una coperta ricamata, dono di nozze, il poeta si sofferma sulla figura di Arianna e dà voce al dolore dell'eroina abbandonata da Teseo. Agli appassionati accenti di Arianna in preda alla disperazione sono così accostati il piacevole racconto del mito e il rimpianto per l'età degli eroi, tanto innocente e perfetta. Scritto mentre ancora era cocente il dolore per la morte del fratello, il componimento 66, dedicato ad Ortalo, è una ripresa della Chioma callimachea, di cui ci sono pervenuti solo pochi versi. Il paragone non può dunque essere compiutamente delineato, pure se con chiarezza si intende subito che quella di Catullo non è una traduzione, ma una originale rielaborazione. La chioma, che parla in prima persona, è quella offerta in voto agli dei (e poi sacrificata) da Berenice, moglie di Tolomeo III, in cambio della salvezza dello sposo in partenza per la guerra. Il nobile esempio di amore coniugale trova toni ora intensi, ora lievi e il dramma della lontananza degli sposi è così garbatamente attenuato e arricchito da preziose allusioni storiche, mitologiche, astronomiche. Il componimento 68, dedicato a Manlio (o Allio), fonde più temi insieme col mito: l'amicizia, il dolore, l'amore. Catullo esprime gratitudine per l'amico; ricorda i primi incontri con Lesbia, i suoi tradimenti e allo stesso tempo piange la morte del fratello, avvenuta lì dove anche Protesilao morì, strappato alla sposa Laodamia da una sorte crudele. L'accostamento continuo dell'elemento biografico a quello mitico è una novità per la letteratura latina, che poi avrà grande sviluppo in epoche successive (si pensi a Properzio). in "NOVA 2006 - UTET" · La fortuna. Le tracce di una profonda influenza di Catullo sulla poesia di tutti i tempi sono numerose e facilmente individuabili. Già Virgilio, Orazio, Ovidio, Marziale lo citano spesso, ne riecheggiano ritmi metrici, espressioni linguistiche; Quintiliano, Apuleio ricordano come famosi alcuni suoi versi. Catullo non fu mai letto nelle scuole e così la sua opera, non più studiata da molti, scivolò lentamente nell'ombra (fin dai tempi di Gellio, p. es., il testo del componimento 27 era corrotto) e di essa rimasero solo esigui frammenti dovuti alle citazioni di grammatici, lessicografi, antiquari (C. è citato ancora da Isidoro nelle Etymologiae) . È nel sec. X che si ha notizia di una rinnovata lettura diretta dell'opera di Catullo : infatti risale a tale secolo un codice (il Veronese) oggi perduto, in cui il vescovo di Verona Raterio diceva di leggere Catullo, mai letto prima. Da questo manoscritto derivano i tre codici catulliani migliori che noi possediamo: l'Oxoniensis Canonicianus class Latinus 30; il Parisinus Latinus 14137; il Vaticanus Ottobonianus Latinus 1829, tutti del sec. XIV. Ad essi bisogna aggiungere il codex Thuaneus (Parisinus Latinus 8071) del sec. IX, contenente una antologia di poesia latina in cui compare il componimento 62. L'immagine di un Catullo innamorato impulsivo e sfortunato, autore di componimenti freschi e spontanei è quella che più si è rafforzata col passar dei secoli, quella che l'ha consacrato quale modello di poesia soggettiva e intimista, quasi facendo dimenticare la sapiente tecnica e la raffinata arte compositiva (la doctrina, insomma), che pure traspaiono da ogni singolo verso. [MARIA SILVANA CELENTANO "NOVA 2006 - UTET"]



Fibula è il nome latino per fibbia o spilla. I primi ritrovamenti archeologici di fibule risalgono all'età del bronzo. Si diffusero presto in tutta l'area mediterranea e da qui a tutti i territori conosciuti. Veniva utilizzata per fermare i vestiti alla vita o sulle spalle. L'uso della fibula decadde verso il VI sec. a.C.. Ne sono state ritrovate in materiali diversi: bronzo e ferro ed anche in metalli preziosi, decorate con gemme. Anche le dimensioni erano diverse, difficilmente superavano i 20 cm, ma ne sono state ritrovate alcune che misurano 50 cm. Le più antiche sono molto semplici: una spilla (ardiglione) forata che viene unita al vestito con un filo. Successivamente il filo divenne metallico. Nella vera fibula il filo metallico forma un pezzo unico con la spilla. Vi furono diversi tipi di fibula, differenziate dalla forma che assumevano: fibula ad arco di violino, la più arcaica - fibula ad arco semplice - fibula ad arco a gomito - fibula a larga staffa - fibula a balestra. Queste fibule assursero ad arte minore quando cominciarono ad essere decorate, prima con disegni geometrici e quindi con figure plastiche.



Silio Italico, Tiberio Cazio: Poeta epico latino del sec. I d. C. Il nome completo ci è stato tramandato da un'iscrizione, mentre le principali notizie ci vengono fornite da un'epistola di Plinio il Giovane (III 7) sulla sua morte; poche cose apprendiamo da altre fonti, quali Marziale e Tacito. Nacque verso il 25 non sappiamo dove, ma probabilmente in una zona dell'Italia centrale. Non è il caso infatti di ricollegare il soprannome Italicus alla città spagnola di Italica: se fosse stato spagnolo, Marziale, che era nato in Spagna, parlando di lui, suo amico e protettore, avrebbe fatto cenno della loro comune patria. D'altra parte Plinio il Giovane attesta che quando Traiano, originario di Italica, venne imperatore a Roma, il poeta rimase nel suo ritiro in Campania: il che non si sarebbe verificato se il diplomatico Silio Italico avesse avuto la possibilità di fare omaggio a un suo concittadino. Il fatto che nell'ultima parte della vita amò restarsene in Campania lascia supporre ch'egli sia nato in quei luoghi, mentre l'insistenza nel poema sulle popolazioni dell'Italia centrale fa pensare con più probabilità a Italica, nome provvisorio dato alla città peligna di Corfinio quando fu fatta capitale dai confederati della guerra italica. Sono in molti infine a dubitare che il Ti. Cazio Asconio Silio Italico di un'iscrizione greca sia il nostro poeta, anche per l'origine padovana di quel personaggio. In gioventù esercitò la professione di avvocato, ma dice Plinio che sotto Nerone fece il mestiere del delatore, riuscendo a essere console nel 68; il successivo comportamento leale e il dignitoso proconsolato in Asia riuscirono a cancellare in parte questa macchia. Ricchissimo e raffinato, comperò numerose ville, persino quella tuscolana di Cicerone e il podere nolano di Virgilio. Ritiratosi dalla vita pubblica, passò il tempo nello studio, a comporre versi e a conversare con gli amici. Ebbe un culto particolare per Virgilio, di cui soleva celebrare il genetliaco in Campania. Educato nella dottrina stoica, adottò una forma di suicidio che non sarebbe stata dimenticata facilmente: affetto da un male inguaribile, si lasciò morire di fame nel 101 d. C. Frutto dell' attività letteraria di Silio Italico è un lungo poema epico in 17 libri, intitolato Punica ( Le Puniche), a cui attese sino alla morte senza aver potuto dare una seconda mano all'ultima parte, che appare abbozzata. Per questo motivo si è pensato che avesse intenzione di comporre un diciottesimo libro, per uguagliare il numero dei libri enniani e strutturare il poema in tre esadi. Vi sono narrate le vicende della seconda guerra punica, dall'assedio di Sagunto alla vittoria romana di Zama (219-202 a. C.), alla maniera dell'epica tradizionale che, trattando argomenti storici, li circondava con la luce della leggenda. La storia arcaica si prestava di più a questo tipo di trattamento poetico, e Silio Italico operava una sorta di marcia indietro rispetto alle innovazioni compiute dal contemporaneo Lucano, che aveva cantato argomenti «moderni». Fonte principale è la terza deca di Livio, mentre il modello stilistico viene offerto da Virgilio, sia nell'ispirazione generale, sia nella ripresa linguistica ed espressiva. I Punica sono, per questo verso, un tentativo di conciliare il poema storico di tipo lucaneo col poema storico-mitologico di tipo virgiliano: l'avvio è dato dalla profezia di Didone, la quale muore compiacendosi che dalle proprie ceneri sorgerà un vendicatore e che sarà eterno l'odio fra la propria stirpe e quella di Enea. Alla base della guerra c'è una tragedia d'amore, oltre alla tradizionale rivalità fra Giunone e Venere, che parteggiano l'una per i cartaginesi, l'altra per i romani. Ma da Virgilio derivano altri elementi: la suddivisione fra i combattenti dei favori divini, la discesa di Scipione (emulo di Enea) agli inferi, la vergine guerriera Asbyte (copia di Camilla), i giochi funebri, l'omaggio ai Flavi (pari a quello ad Augusto), la descrizione dello scudo di Annibale, rassegne di combattenti, sogni premonitori, apparizioni, profezie degli dei. Eppure c'è il palese tentativo di superare il modello, quando l'autore sembra riconnettersi a Ennio, nei cui Annali il ruolo di protagonista era giocato non da un solo personaggio ma da tutto il popolo romano, e addirittura a Omero, quando descrive le battaglie fra le divinità. Un reale superamento di Virgilio è dato dalla tendenza a rappresentare quadri macabri e orripilanti; ma l'imitazione resta ugualmente troppo forte ed esteriore, limitandosi all'adozione pedestre di espedienti che invece in Virgilio conservano una poetica vitalità. Del tutto formale è la pedissequa imitazione della lingua, dei pensieri e delle immagini, per il fatto che Silio Italico non ha nulla di personale da dire e mette insieme Omero, Ennio e Virgilio, ricucendoli, nella trama della narrazione liviana, con artifici dettati dalle scuole di retorica. La grande poesia epica sembrava del tutto tramontata, mentre la poesia latina si avviava verso la decadenza. L'opera di Silio Italico non poteva interessare neppure i contemporanei, perché, a differenza di quella di Lucano, mancava di passione politica e comunque restava opera di un letterato amante della poesia: un'opera di abile versificazione che quasi mai esprime la commozione dell'autore; gli esametri riescono a esprimere il decoro dell'arte, ma non rendono l'animo perturbato nella narrazione. Solo Marziale, che aveva interesse ad adularlo, poteva predire l'immortalità dell'opera. Dopo la menzione particolareggiata di Plinio il Giovane, che rilevava come egli scrivesse con più cura che ispirazione poetica, e i pochi accenni in Tacito, Silio Italico venne quasi dimenticato; dopo l'accenno in Sidonio Apollinare (sec. V) ci fu l'oblio per tutto il Medioevo: Petrarca nell'Africa mostra ancora di non conoscerlo. Bisogna arrivare a Poggio Bracciolini che nel 1417 riscopre l'opera in Germania, per poter parlare di una mediocre fortuna soprattutto nei secc. XVII e XVIII. Oggi la critica è propensa a studiare l'opera di Silio Italico come documento letterario di compromesso fra la storia e la leggenda, un'epopea con numerosi spunti eruditi. È da escludere peraltro la paternità della cosiddetta Ilias Latina (Iliade latina), un riassunto dell'Iliade in un migliaio circa di esametri dattilici che traducono il gusto retorico dell'epoca; nota nel Medioevo col titolo di Homerus Latinus oppure Pindarus Thebanus, questa curiosa epitome, che quasi nulla ha di personale, deve essere stata composta per la scuola, in epoca neroniana, forse da un Bebio Italico, ma è stata attribuita a Silio Italico sulla base dell'acrostico Italices, ridotto a Italicus, con la correzione della parola iniziale del settimo verso. [SERGIO INGALLINA in "NOVA - UTET - 2006"]



Claudiano, Claudio: Celebrato poeta di corte tra la fine del sec. IV d. C. e l'inizio del V, nacque verso il 370 in Egitto, probabilmente ad Alessandria, dove ricevette un'educazione greca sia di lingua sia di pensiero. Le sue prime prove letterarie furono scritte in greco e incominciò a scrivere in latino, lingua che apprese dallo studio degli autori classici, verso il 395, quando giunse a Roma, dove mise la sua arte a servizio dei potenti, dopo che ebbe stretto relazioni con personaggi altolocati dell'epoca, sino ad entrare in familiarità con l'imperatore Onorio e, in particolare, col suo potente ministro e tutore, il vandalo Stilicone. L'incontro con Stilicone segnò un momento importante ed una svolta decisiva per l'attività di Claudiano ; da allora, infatti, ogni sua produzione poetica fu intimamente connessa con la politica e la fortuna di Stilicone. È probabile che Claudiano abbia condiviso anche la tragica sorte del suo protettore quando cadde vittima dei suoi nemici (408): è un fatto che dopo il 404 non abbiamo alcuna testimonianza dell'attività poetica di Claudiano, probabilmente cessata con la sua sparizione fisica. La fama e gli onori di cui aveva goduto come poeta di corte sono attestati dalla statua che gli imperatori Arcadio e Onorio gli dedicarono, su proposta del senato, nel Foro Traiano, con un'iscrizione latina, dove si fa cenno alle cariche pubbliche ottenute («chiarissimo tribuno e notario»), seguita da un'iscrizione greca che suona così: «In un solo luogo il genio di Virgilio e la musa d'Omero, Claudiano, Roma e i Re posero». Possiamo considerare Claudiano l'ultimo dei poeti pagani, col suo attaccamento alla grandezza di Roma e della sua missione, con l'ammirazione per i suoi eroi del passato e per quelli presenti, come Stilicone, col suo vivo senso della natura, dove fonde i motivi idillici e paesistici già presenti nella tarda poesia latina; di contro, pur nella perfezione formale, la sua poesia lascia un senso di irrimediabile vuoto spirituale, di senescenza, di un mondo che volge al suo tramonto irrimediabilmente. In una corte cristiana, Claudiano fu pagano: a Christi nomine alienus lo definisce sant'Agostino, paganus pervicacissimus Paolo Orosio; è quindi probabile che debbano considerarsi spurie alcune sue poesie greche e latine di argomento cristiano. La fortuna di Claudiano durò nei secoli e la sua poesia fu conosciuta ed utilizzata da Boccaccio, da Petrarca, da Poliziano, da Ariosto, da Tasso. La produzione di Claudiano si può dividere, per chiarezza, in: poesia encomiastica, invettive, poesia epica, poesia mitologica. Le poesie encomiastiche sono prevalentemente costituite da panegirici. Il primo panegirico è in onore di Probino e Olibrio, due giovinetti della famiglia degli Anici, designati consoli alla fine del 394 ed entrati in carica il 3-I-395; scritto in esametri, fu letto in senato ed ottenne gran successo. Dello stesso anno è il panegirico per Onorio (De Tertio consulatu Honorii Augusti) , che, assai giovane, era divenuto, dopo la morte del padre Teodosio, imperatore della parte occidentale dell'impero, e che, il 3-I-396, era diventato console per la terza volta: il panegirico fu letto alla presenza dell'imperatore, a Milano, dove Claudiano s'era recato al seguito di Stilicone. Scriverà, poi, nel 397, il panegirico per il quarto consolato di Onorio e, nel 403, quello per il sesto consolato. Del 398 è il panegirico per il consolato di Manlio Teodoro e, sempre nello stesso anno, l'epitalamio per le nozze di Maria, figlia di Stilicone, con Onorio (Epithalamium de nuptiis Honorii et Mariae) , matrimonio cantato anche nei Fescennina de nuptiis Honorii, in vari metri (anapestici, anacreontici, alcaici, asclepiadei). In tre libri compose (399-403) il panegirico per il consolato del suo protettore Stilicone (De consulatu Stilichonis) . Esaltò poi, verso la fine della sua attività poetica, la colta ed intelligente Serena, figlia naturale di Teodosio e moglie di Stilicone, in due composizioni incomplete, la Laus Serenae e l'Epistula ad Serenam. Due sono le invettive: una contro Rufino, l'altra contro Eutropio. Mentre nel 395 Claudiano era impegnato nella composizione del panegirico per Onorio, giunse a Milano la notizia dell'assassinio da parte delle truppe di Arcadio, fratello di Onorio e imperatore della parte orientale, del prefetto del pretorio Rufino che, acerrimo nemico di Stilicone, aveva costantemente avversato la sua politica mirante all'unificazione dell'impero d'Occidente e d'Oriente, praticamente scissi dopo la morte di Teodosio. In tale occasione va collocata l'invettiva In Rufinum, in due libri, letta nel gennaio del 396 alla presenza della corte imperiale: è assai violenta e il poeta presenta Rufino come colui che aveva minacciato la sicurezza e l'integrità dell'impero, promuovendo le invasioni dei goti; sostiene inoltre il diritto di Stilicone di estendere, nella sua qualità di tutore dei figli di Teodosio, Arcadio e Onorio, il suo potere anche nella parte orientale dell'impero. Ma anche il nuovo consigliere di Arcadio, l'eunuco Eutropio, che aveva preso parte al complotto contro Rufino, sosterrà la politica separatista tra Occidente e Oriente e sarà anch'egli ostile a Stilicone. Contro di lui Claudiano scriverà un'altra invettiva in due libri (In Eutropium).
Due sono i poemi epici di Claudiano. Il primo risale al 398 ed esalta la vittoria di Stilicone sul comes d'Africa Gildone, che si era ribellato contro l'imperatore d'Occidente, anche per sobillazione da parte dell'impero orientale (in realtà il vero artefice della vittoria fu Mascezel, fratello di Gildone, fatto assassinare per gelosia da Stilicone; il De bello Gildonico doveva essere composto di due libri, ma Claudiano, per i motivi sopraddetti, prudentemente non scrisse, o forse soppresse, il secondo libro). L'altro poema epico-storico è il De bello Gothico (o Pollentino) , risalente al 402, che celebra la vittoria di Stilicone su Alarico a Pollenzo. I goti di Alarico furono nuovamente sconfitti a Verona, sempre nel 402, ma dopo la stesura del poemetto. Stilicone è cantato come un eroe che ha compiuto azioni superiori a quelle mitiche di Giasone e a quelle storiche di Curio, Fabio Massimo e Mario, tutte a gloria di Roma che durerà quanto il mondo e che sembra ora risorgere da quella vecchiezza che sembrava averla rattrappita.
Tra i poemi mitologici abbiamo frammenti (77 esametri) di una Gigantomachia scritta in lingua greca, forse opera giovanile, ma sulla cui paternità la discussione è tuttora aperta; abbiamo un frammento più lungo (127 esametri) di una Gigantomachia in latino, di scarso valore poetico, che non presenta corrispondenze con la Gigantomachia in lingua greca.
L'opera mitologica più significativa e di maggior pregio estetico di Claudiano è certamente il De raptu Proserpinae (Il ratto di Proserpina), in tre libri, composto fra il 395 e il 398.
Ha come sfondo naturale la terra di Sicilia e vi si narra del rapimento di Proserpina ad opera del dio degli Inferi, Plutone, la disperata ricerca da parte della madre Cerere, che dà origine ai misteri eleusini. Claudiano dovette ispirarsi a un episodio delle Metamorfosi (V, 362, ss.) di Ovidio, ma arricchisce il tema ovidiano di variazioni e di digressioni, intessendo una pittoresca serie di episodi e di descrizioni, soprattutto di spettacoli naturali, come la descrizione della campagna resa feconda da Zefiro e la fiorita distesa dei prati di Enna, ricca di colori smaglianti. Tranne i già ricordati Fescennina, i carmi di Claudiano di cui s'è parlato sono in esametri, ma abbiamo ancora una serie di carmina minora (epistole, idilli, epigrammi), composti per lo più in distici elegiaci. Tra gli altri: De piis fratribus, Ad Gennadium, De sene Veronensi, Deprecatio ad Hadrianum, Epithalamium Palladii et Celerinae (Palladio era un funzionario di corte), Aponus, Phoenix (dove tratta il mito della Fenice, l'immortale uccello favoloso degli egiziani), Nilus, De torpedine, In Iacobum, ecc. [AGOSTINO PASTORINO in "NOVA 2006 - UTET"]



Teocrito: Poeta greco (Siracusa,prima del 300 a. C. - probabilmente Cos,dopo il 260 a. C.), fondatore della poesia bucolica. Le poche date sicure (o quasi) della sua vita sono: 275-274, composizione dell'inno (o encomio) a Gerone, allora signore di Siracusa; 274-270, soggiorno a Cos, isola dell'Egeo; 270, composizione dell'encomio a Tolomeo II Filadelfo ad Alessandria, cui segue, forse fino al 260, un soggiorno nella stessa città; dopo il 260, secondo soggiorno a Cos. La morte avvenne dopo questa data, in anno incerto. Il codice più completo delle opere di Teocrito (sec. XV o XVI) contiene 30 componimenti, che la tradizione (non riferibile a Teocrito, ma attestata per la prima volta negli scolii) chiama Idilli. Ogni componimento porta il suo titolo, che tuttavia, quasi sicuramente, è opera dell'editore antico, non del poeta. 25 epigrammi sono attribuiti a Teocrito, conservati nell'Antologia Palatina ; un papiro fornisce i resti di un idillio XXXI ; si aggiunga un frammento di un componimento intitolato Berenice (la madre di Tolomeo II Filadelfo), pervenuto fino a noi attraverso Ateneo, e la Zampogna, un carme figurato, nel quale con la variazione della lunghezza dei versi è rappresentata la figura dell'oggetto indicato dal titolo. Sicuramente autentici sono gli idilli dal I al VII, dal X al XVIII, il XXII, il XXIV e quelli dal XXVIII al XXXI ; gli epigrammi dal XVII al XXII ; il XXVI idillio è di dubbia autenticità. Gli altri componimenti sono ritenuti spuri. Solo nell'età di Silla (morto nel 78 a. C.) il grammatico Artemidoro di Tarso pubblicò una raccolta delle opere di Teocrito ; suo figlio, Teone, vissuto nei tempi di Augusto, fece un'edizione fondamentale con commento. In questa edizione Virgilio lesse gli Idilli. In base agli argomenti e alla maniera si possono ripartire gli idilli in 5 gruppi, sebbene talune caratteristiche siano comuni a più gruppi o non corrispondano alla denominazione tradizionale: 8 idilli pastorali, 3 idilli urbani o mimi, 4 epilli, 3 componimenti ispirati all'amore per i ragazzi, 2 encomi e un carme di accompagnamento.
· Idilli pastorali.
Nell'idillio I (Tirsi) il protagonista canta, pregato da un capraio, la morte, per amore, di Dafni: questi è il bovaro siciliano, il personaggio mitico del mondo bucolico del paese dove si leva l'Etna e dove scorrono l'Anapo e l'Aci (Sicilia orientale); il bovaro, bello e abile nel canto, che si proclamava più forte di Eros, muore piegato da Eros e da Afrodite. Al principio dell'idillio il capraio offre a Tirsi una coppa di legno cesellata come compenso per il canto; si inserisce allora nell'idillio, secondo una tecnica alessandrina (ma derivata da Omero), la descrizione della scena scolpita sulle pareti e sul fondo interno della coppa: caratteristica della descrizione è il realismo vivace e pittoresco del particolare. L'idillio III è una canzone d'amore: il personaggio recitante, un pastore, dopo avere affidato le sue capre a Titiro, che le conduca al pascolo e alla fonte, invoca Amarillide, che lo ha lasciato. Un amore non corrisposto, come nel I ; ma qui esso è il tema fondamentale; la morte è solo accennata, e nella forma di suicidio; è comunque, come per Dafni, morte per amore. Il IV (I pastori) è una conversazione tra due pastori, Batto e Coridone; essi si scambiano notizie, pettegolezzi, maldicenze, commenti su altri pastori, sulla loro vita, le loro bestie, i loro amori e dolori; intanto le bestie pascolano, e talvolta rosicchiano i germogli degli olivi; i pastori gridano per allontanarle; uno di loro, scalzo, si punge un piede con una spina; l'altro gliela toglie. L'idillio V rappresenta un alterco tra il capraio Comata e il pastore Lacone; il primo accusa il secondo del furto di una pelliccia (indumento caratteristico dei pastori), il secondo accusa il primo del furto di una zampogna. La scena si svolge a Sibari in vicinanza del fiume Crati, nella Calabria ionica. Dopo le prime battute d'accusa, i due si sfidano a una gara di canto, mettendo per posta l'uno un agnello, l'altro un caprone. Nel canto alterno si allineano con bella disinvoltura, accanto a discorsi osceni e ingiuriosi, rapide e vivaci descrizioni di paesaggio e di personaggi. Un taglialegna, Morsone, viene concordemente scelto come giudice della gara; egli alla fine assegna la vittoria a Comata. Il VI introduce a cantare in una gara Dameta e il bovaro Dafni. Il tempo è l'estate; l'ora il mezzogiorno. Dafni canta di Galatea, che cimenta Polifemo intento a suonare; Dameta continua nella descrizione della scena, cantando in persona di Polifemo, che annuncia la sua intenzione di ingelosire con l'indifferenza Galatea. Alla fine Dameta dona la sua zampogna a Dafni, questi a Dameta il suo flauto. L'idillio VII è menzionato comunemente con il titolo Talisie, che sono le feste della piena estate, della stagione delle primizie dei raccolti: il poeta, in persona di Simichida, racconta di una sua passeggiata nell'isola di Cos in un luogo chiamato Deò, dove, nei poderi di due ricchi e nobili fratelli, si celebravano appunto le Talisie. Per via Simichida incontra il capraio Licida; entrambi sanno cantare; Simichida dichiara, tuttavia, di non credere d'essere superiore a Sicelide (Asclepiade di Samo) né a Fileta (di Cos), a confronto dei quali egli si giudica come una rana di fronte ai grilli. Approva Licida, e in forma di conferma enuncia uno dei principi fondamentali della poetica alessandrina (callimachea): l'avversione al grandioso, e l'interpretazione della ricerca del sublime come sforzo di enfatizzazione. Nel seguito Licida e Simichida cantano alternandosi d'amore; infine, andato via Licida, Simichida e i suoi amici si rallegrano della festa e del vino vecchio che viene offerto. L'idillio X (I mietitori) è un dialogo assai vivace, ricco di locuzioni popolari, condotto secondo il gusto ellenistico della maniera realistica (la imitatio vitae, o realismo del particolare), tra i due mietitori Milone e Buceo. Quest'ultimo è innamorato di una fanciulla; l'amore gli impedisce di mietere con l'abilità e la regolarità consueta. Milone lo convince a cantare: sfogherà l'amore e intanto lavorerà; al canto di Buceo risponde egli stesso recitando versi di un altro contadino, Litierse. In questo idillio, come nel IV e nel V, la forma dialogica e il realismo popolaresco mostrano bene che tra i precedenti letterari di Teocrito vi è il mimo. L'idillio XI introduce Polifemo, il Ciclope pastore, innamorato non corrisposto di Galatea, a cantare della bellezza della ninfa, dell'amore che egli le porta, del dolore che prova; ma anche del rimedio («Troverai certo un'altra Galatea anche più bella»); e del resto ottimo rimedio all'amore già è il canto.
· Idilli urbani (mimi).
L'idillio II (Le incantatrici) è la cronaca, recitata in prima persona, degli incantesimi operati da una donna abbandonata, ormai da 12 giorni, dall'amante. Le invocazioni sono rivolte alla Luna, Selene in cielo, Ecate sotto terra; alla Luna Simeta, la donna, racconta come nacque, crebbe e morì l'amore, come Delfi l'ha lasciata. Le operazioni magiche e gli oggetti impiegati vengono menzionati e descritti con precisione. La ricerca degli elementi atti a una descrizione realistica tocca qui un terreno notevolmente ricco e significativo. Nell'idillio XIV (L'amore di Cinisca) in un dialogo vivace, dove si inserisce il racconto, altrettanto vivace, di una scena di gelosia, Eschine dichiara di volersi arruolare come soldato mercenario, per dimenticare i tradimenti dell'amata. Tionico gli consiglia di militare al servizio di Tolomeo (II Filadelfo) e lo esorta ad andare in Egitto. Tolomeo, dice, è uomo generoso, affabile, di gradevole comportamento. L'idillio XV (Le Siracusane), che pare o un mimiambo di Eroda o una scena di commedia, rappresenta ad Alessandria due donne, di livello sociale «piccolo borghese», che partono da casa, dove una delle due lascia il bambino con la servetta, e nella calca di una gran folla si recano al palazzo reale, dove la regina Arsinoe fa celebrare la festa di Adone; ivi ascoltano un inno cantato per il dio da una cantante (l'inno è inserito nel testo). L'idillio (si tratta in realtà di un vero e proprio mimo) è tra i più belli di Teocrito, per la brillante rappresentazione dei tipi, non senza un filo di parodia sul fondo di un decoroso realismo. · Epilli.
Gli idilli XIII, XVIII, XXII e XXIV vengono volentieri definiti epilli, per il tema, che consiste in un mito o parte di un mito appartenente alla tradizione epica. Così il XIII (Ila), nel quale è narrato il mito di Ila, giovanetto amato da Eracle, che, in una sosta del viaggio che porta sulla nave Argo gli eroi guidati da Giasone nella Colchide alla ricerca del vello d'oro, andato per acqua viene rapito dalle ninfe della fonte, innamorate della sua bellezza. Il XVIII (L'epitalamio di Elena) rimanda a un genere lirico impiegato da Saffo, e alla poetessa di Lesbo è legato per la delicatezza dei sentimenti; elemento ellenistico è l'inserimento dell'aition (la storia dell'origine) del talamo di Elena, oggetto di onore a Sparta per opera delle fanciulle. I Dioscuri (XXII) hanno forma di inno; il componimento consta di una prima parte, dove è descritta la vittoria nel pugilato di Polluce su Amico, re dei bebrici, e di una seconda parte, dove è raccontata la lotta di Castore con Linceo. Il XXIV (Eracle bambino) è mutilo della parte finale, della quale alcuni frammenti suggeriscono che l'idillio avesse, come il XXII, forma di inno. Il piccolo Eracle è rappresentato mentre, ancora in culla, strozza con le mani i serpenti inviati da Era per ucciderlo. Il tono non è epico, ma «borghese» e callimacheo.
· Epigrammi.
I 6 epigrammi quasi sicuramente autentici sono dedicati a poeti famosi: Anacreonte, Epicarmo, Ipponatte, Archiloco, Pisandro, salvo il XX, dedicato a una donna, Clita, dal piccolo Medeo, che essa allevò. Si tratta in tutti i casi di epigrammi sepolcrali; la varietà del metro va messa in rapporto con il genere della poesia praticata dal poeta cui i versi sono dedicati.
· Altri componimenti. I due encomi (XVI di Gerone, e XVII di Tolomeo) cercano di conciliare misura e finezza con il tono elevato richiesto dal genere; e Teocrito vi dimostra di saper rifare il modo narrativo degli inni omerici nello stile della nuova cultura letteraria. Tipico esempio della grazia artistica e del sentimento letterario della nuova età è il carme d'accompagnamento per il dono di una Conocchia (XXVIII) inviata alla moglie dell'amico Nicia, medico di Mileto. Tre componimenti sono ispirati all'amore per i fanciulli: il XII manifesta la gioia per il ritorno dell'amato; il XXIX e il XXX esprimono ansia e dolore per la freddezza e la volubilità del ragazzo.
· La lingua e la poetica.
Nella maggior parte degli idilli Teocrito impiega una lingua con forte coloritura dorica; in ionico è composto il XII ; in eolico gli idilli XXVIII, XXIX, XXX. Non mancano, dove il genere del componimento lo richieda, elementi epici; i Dioscuri è interamente scritto in lingua epica, esente da dorismi. T. applica compiutamente i principi della poetica alessandrina (callimachea), forse più per una propria esigenza culturale, che per studiata adesione alla scuola e alla tendenza. Brevità dei componimenti, tenuità degli argomenti, tono dimesso e non eloquente: questi i caratteri generali, che definiscono molto bene la partecipazione di Teocrito alla poetica dei tempi nuovi. Tuttavia Teocrito si scosta da Callimaco nell'attribuire poca o nessuna importanza alla presenza dell'erudizione e della dottrina, non solo nei componimenti bucolici (dove erudizione e dottrina avrebbero costituito una grossa incoerenza con situazioni e personaggi), ma anche (ciò che è notevole) negli epilli. Dottrina, erudizione, ricercatezza letteraria si trovano invece negli encomi. Tra gli idilli pastorali appare non privo di elementi colti ed eruditi il VII (Talisie) : del resto esso intende rievocare gli anni dello studio a Cos con poeti e letterati celebri, e insieme indicare l'adesione di Teocrito alla poetica nuova. Se si confronta la rappresentazione della vita e del mondo dei pastori, offerta da Virgilio nelle Bucoliche, con quella degli idilli pastorali di Teocrito, si osserva che all'idealizzazione virgiliana del paese d'Arcadia corrisponde una presenza di maggior peso negli idilli di Teocrito degli elementi realistici, che si traduce non solo nel colorito linguistico, ma nei sentimenti sui quali la rappresentazione pone l'accento, così come, anche, nelle strutture descrittive: il dialogo, p. es., che rinvia al mimo (Sòfrone). Deriva di lì l'importanza della rappresentazione del quotidiano, che finisce con l'aprire all'arte perfino l'area popolare dell'esercizio della magia. Sebbene, certo volutamente e consapevolmente, dottrina ed erudizione siano quasi del tutto assenti negli idilli, i componimenti di Teocrito sono frutto di un attento, raffinato e lungo lavoro: vale a dire la dottrina, l'erudizione, la lettura dei poeti, la finezza della sensibilità, tutto questo ha concorso alla creazione degli idilli, contribuendo al conseguimento di quello stile così semplice, limpido, dolce. La maestria di Teocrito appare notevole nell'uso degli artifici metrici, diretti a dare al verso la forma idonea al tema, alla situazione, al personaggio. [ADRIANO PENNACINI in "NOVA - UTET - 2006"]



Drusiano dal Leone: Romanzo cavalleresco fa parte del ciclo di Buovo d'Antona. Tratto dal romanzo di Chrestien de Troyes, "Le chevalier au lion", rammodernato, rimaneggiato e reso più adatto al gusto italiano. Vedi: Brunet, Jacques Charles, Manuel du libraire et de l`amateur de livres.
Drusiano dal Leone, Drusian dal Leone, el qual tratta delle battaglie da poi la morte di paladini. Et de molte & infinite battaglie scriuendo di amore, & di molte cose bellissime. Nouamente ristampato, In Milano : per Valerio & Hieronimo fratelli da Meda, [non prima del 1550] (In Milano : per Valerio & Hieronimo fratelli da Meda).
Drusiano dal Leone, Drusian dal Leone, el quale tratta della battaglie dapoi la morte di paladini. Et de molte & infinite battaglie scriuendo di amore, & di molte cose bellissime, (Stampato in Venetia : per Bartholameo detto l'Imperatore, & Francesco suo genero, 1555).
Drusiano dal Leone, Drusian dal Leone nel quale si tratta delle battaglie dopo la morte de' paladini. Di nuouo con le sue dichiarationi, & figure stampato, & ricorretto, (In Venetia : appresso Domenico Imberti, 1600).
Drusiano dal Leone, Drusian dal Leone nel quale si tratta delle battaglie dopo la morte de' paladini. Nuouamente ristampato con le dichiarationi alli suoi canti, et ornato di varie figure, [155.] (In Venetia : appresso Santo [Guerrino]).
Drusiano dal Leone, Drusian dal Leone nello qual si tratta delle battaglie doppo la morte de li paladini. Nouamente con le sue dechiarationi stampato, & corretto, (Stampato in Venetia : per Vicenzo de Viano, 1576).
Drusiano dal Leone, Drusian dal Lion el qualtracta dele bataglie dapoi la morte di Paladini et de molte et infinite bataglie scrivando [!] damore ..., (Stampato in Milano : per Rocho et fratello da Valle dicti li Ruspini ad instantia de miser Nicolo da Gorgonzola, 1521 adi xiij de Marzo).
Drusiano dal Leone, Drusian dal Lion elqual tratta dele bataglie dapoi la morte di paladini & de molte & infinite battaglie scriuando damor et di molte cose bellissime &c...., (Impresso in Venetia : per Io. Baptista Sessa, 1504 a di X mazo).
Drusiano dal Leone, Drusiano dal Leon el quale tratta de le battaglie dopo la morte de paladini. Nouamente con le sue dechiarationi. Stampato, & corretto., (Stampato in Vinegia : per Alessandro de Viano, 1562).
Drusiano dal Leone, Incomencia il libro de Drusiano dal Lion. Et tratta in questo primo canto come Gallerano & Organtino pagani poseno lasedio a Roma & a Parise da poi la morte di paladini & come Polisena dala zoiosa gua , (Impresso in Milano : per Gotardo da Ponto : ad instantia de domino Io. Iacobo & fratello da Legnano, 1516 adi XX de Nouember).
Drusiano dal Leone, Incomincia il libro de Drusian dal Leone & tratta in questo primo canto come Gallerano & Organtino poseno lasedio a Roma & a Parise da poi la morte di paladini. Et come Polisena dala zoiosa guarda and , (Impresso in Venetia : per Melchior Sessa e Piero Rauani compagni, 1516 a dì XXIII Nouembrio).



Durante, Pietro Notizie: Notaio, letterato nato a Gualdo Tadino (PG) presumibilmente intorno al 1450, morto verso il 1510. Nome su edizioni: Pier Durante da Gualdo; Pietro Durante da Gualdo. Vedi Dizionario biografico degli italiani = Durante, Pietro, Durante, Piero, Durante da Gualdo, Durante da Gualda, Pietro, Durante, Pierre).
La città di Gualdo Tadino
umbra città prima, romana poi, ha una storia ricca, fu teatro della famosa battaglia di "Tagina" (552), durante la quale il generale bizantino Narsete sconfisse l'esercito di Totila, decidendo il conflitto gotico-bizantino: altrettanto interessante il fatto che abbia dato i natali all'illustre botanico Castore Durante.
Durante, Pietro, Libro d'arme, e d'amore chiamato Leandra figliuola del gran Soldano di Babilonia. La qual per amore si precipito giu di vn'alta torre. Nel qual si narra li gran fatti d - Venetia: Conzatti, Zaccaria, 1669 (IT\ICCU\BVEE\036409)
Durante, Pietro, Libro d'arme e d'amore chiamato Leandra : figliuola del Gran Soldano di Babiloni la quale per amore si precipito giu da un alta torre : nel quale si narra li gran fatti - In Lucca (IT\ICCU\SBL\0478807)
Durante, Pietro, Libro d'arme, et d'amore chiamato Leandra nel quale se tratta delle battaglie, & gran fatti delli baroni di Francia ... Composto par maestro Pier Durante da Gualdo i- Viani, Alessandro (IT\ICCU\RMLE\030336)
Durante, Pietro, Libro d'arme & d'amore chiamato Leandra. Nella quale se tratta delle battaglie & gran fatti delli Baroni di Francia & principalmente di Orlando e di Rinaldo, - ... Stampato in Venetia: Imperatore, Bartolomeo & Imperatore, Francesco (IT\ICCU\UBOE\016209)

















































Di ascendenza culturale omerica [si legge in"Esoterismo - on line": La misteriosa erba moly di A. C.] la straordinaria erba moli o erba moly è oggetto di dibattiti ancora ai tempi di Aprosio e Gandolfo: all'interno del Theatrum Sympatheticum, opera tanto ambita da Aprosio e tuttora nella sua "Libraria", dal GOCLENIUS, tra gli altri, è studiata in merito all' UNGUENTO ARMARIO e citata più volte, come si può leggere in questo primo passo ed in questa altra sequenza narrativa questo altro.
Alle origini di queste riflessioni sta quel passo di Omero in cui si narra che mentre Odisseo procedeva imprudentemente verso la casa di Circe, che aveva già trasformato in porci alcuni suoi compagni, gli apparve Ermes dicendogli: "Ecco, va' nelle case di Circe con questo benefico farmaco, che il giorno mortale può allontanare dal tuo capo. Ti svelerò tutte le astuzie funeste di Circe. Farà per te una bevanda, getterà nel cibo veleni, ma neppure così ti potrà stregare: lo impedirà il benefico farmaco che ti darò, e ti svelerò ogni cosa".
Dopo avergli spiegato come avrebbe dovuto comportarsi, "... mi porse il farmaco, dalla terra strappandolo e me ne mostrò la natura. Nero era nella radice e il fiore simile al latte. Gli dei lo chiamano moly e per gli uomini mortali è duro strapparlo: gli dei però possono tutto" [Omero, Odissea, X, 302-306].
Ispirandosi all'Odissea un epigramma dell'Antologia palatina interpretava l'episodio come un'allegoria dell'uomo diviso fra le due sfere -del celeste e del terrestre: "Lontana da me, tu caverna tenebrosa di Circe: son nato da progenie celeste, ed è per me vergogna le ghiande mangiare come un bruto! ... Concedermi il Nume voglia del moly, il fiore che scaccia i cattivi pensieri"[Antologia Palatina XV, 12].
Qui Odisseo simboleggia l'uomo eterno, posto fra il chiarore celestialmente luminoso di Ermes e le tenebrose seduzioni di Circe [La narrazione omerica riflette una tarda immagine di Circe, quella imposta dalla civiltà patriarcale achea alla precedente tradizione matriarcale. In realtà Circe, come capii Apollonio nelle Argonautiche, è una sciamana che getta gli uomini che le si abbandonano in transes totemiche. Fiaba del Sole, incarna la sapienza che separa il durevole dal transitorio. Quanto a Odisseo, di là dall'interpretazione omerica, egli pretende da Circe una iniziazione ierogamica che gli consenta di affrontare successivamente la discesa agli inferi. Cfr. a questo proposito E. Zolla, Verità segrete esposte con evidenza, Venezia 1990, pp. 131 - 143. Ma nel contesto omerico dobbiamo attenerci all'interpretazione che ne dà il poema omerico per capire la funzione simbolica dell'erba moly].
La salvezza verrà dalla pianta che, donata dal messaggero degli dei, gli scaccerà "i cattivi pensieri": pianta dalla radice nera e dal fiore bianco, che è nello stesso tempo simbolo sensibile di quanto avviene nell'anima. "Grazie al potere che è in quest'ultimo" scrive Hugo Ralmer "1'uorno si svincola dalle potenze tenebrose nelle quali egli sa che anche la sua radice è immersa: egli è una progenie celeste che col suo fiore, il suo 10 spirituale, si dischiude verso l'alto, bianco come latte e puro. Ma (e questo è l'elemento determinante nella simbolica del mito) ciò gli è possibile solo in quanto egli riceve soccorso da Dio, in quanto gli viene incontro il potere errante di Ermes" [H. Ralmer, Miti greci nell'interpretazione cristiana Bologna 1980, pp. 205-207].
La misteriosa pianta ha suscitato nei botanici una tale curiosità che ne è nata una piccola biblioteca di studi antichi e moderni con diverse interpretazioni. La prima risale a Teofrasto secondo il quale il moly crescerebbe realmente sul monte greco Cillene e presso il fiume Peneo, nei luoghi tradizionalmente consacrati al cultodi Ermes. La sua radice sarebbe a forma di cipolla e le foglie simili a quelle della scilla marittima (Urginea inaritinia), una pianta mediterranea che ha un grosso bulbo pesante circa due chili, da cui sorge lo scapo alto un metro e fornito di fiori bianchi in grappolo: un'agliacca dunque. In epoca moderna Linneo chiamò invece Afflum moly un tipo di porro.
L'interpretazione agliacca dell'erba moly parrebbe suffragata dalla comune credenza che queste piante garantirebbero da ogni maleficio. L'aglio in particolare sarebbe talmente potente da provocare malesseri gravissimi alle streghe e ai vampiri che si avvicinano, tant'è vero che in sanscrito è detto "uccisore di mostri". Una invocazione antijettatoria napoletana dice: "Agli e favagli fattura che non quagli./ Corne e bicorne/ capa 'alice e capa d'aglio". Per questo motivo si consigliava di portarlo sotto la camicia nella notte di San Giovanni, insieme con altre erbe come l'iperico, la ruta o l'artemisia, per difendersi dalle streghe che passavano numerosissime per il cielo recandosi al gran sabba annuale.
Plinio Seniore, nella sua Storia Naturale ribadisce in definitiva queste postulazioni scrivendo in libro XXV, 26 - 28: "L' ERBA PIU' FAMOSA DI TUTTE, IN BASE ALLA TESTIMONIANZA DI OMERO, E' QUELLA CHE, SECONDO LUI, GLI DEI CHIAMANO MOLI: EGLI NE ATTRIBUISCE LA SCOPERTA A MERCURIO E LA SPIEGAZIONE DELL'USO CONTRO I PEGGIORI AVVELENAMENTI. DICONO CHE OGGI CRESCA NEI PRESSI DEL FENEO E SUL CILLENE, IN ARCADIA; E PARE SIA QUEL TIPO DESCRITTO DA OMERO, CON LA RADICE ARROTONDATA E NERA, GROSSA COME UNA CIPOLLA, E CON LE FOGLIE DELLA SCILLA; SI ESTRAE PERO' SENZA DIFFICOLTA'. GLI AUTORI GRECI HANNO DISEGNATO IL SUO FIORE DI COLORE GIALLO, MENTRE SECONDO OMERO ERA BIANCO. HO TROVATO, TRA I MEDICI ESPERTI D'ERBE, UNO IL QUALE SOSTIENE CHE ESSA NASCE ANCHE IN ITALIA, E CHE LUI ME LA POTEVA PORTARE DALLA CAMPANIA NEL GIRO DI QUALCHE GIORNO, DOPO AVERLA RACCOLTA IN ZONE SASSOSE E DISAGIATE; LA RADICE SAREBBE LUNGA 30 PIEDI, E NEPPURE NELLA SUA INTEREZZA MA STRAPPATA".
A questa tradizione si oppone però quella che considera le aliacee contrarie alla fioritura spirituale. I faraoni e i sacerdoti egizi se ne astenevano stimandole sgradite agli dei celesti, ma le somministravano agli schiavi che costruivano piramidi per preservarli da infezioni. I taoisti a loro volta sostengono, non diversamente dai bramini, che l'aglio nutre i demoni del corpo e perciò se ne astengono. Lo Yoga Prapidika lo considera infine uno degli alimenti da cui ci si deve astenere se ci si avvia sulla strada dello yoga. Si tratta di un'antica tradizione che già si ritrova nella religione prebuddhistica bón, oggi diffusa soprattutto nel Tibet orientale. Nel trattato gZl-brjid si ammonisce: "Accidia, oscurità e languore, insensibilità e attaccamenti passionali ne provengono. Si somiglia allora al gattaccio in foia, i voti si trascurano, i sacramenti s'infrangono... Contaminati dall'agliaceo peccaminoso si soffre nella fangaia, nell'inferno della putredine. Contaminati dall'agliaceo dannoso si soffre nel lago di pus e di sangue. Contaminati dall'agliaceo debilitante malattie sciagurate compaiono nel corpo"[Vedi: E. Zolla ne Le meraviglie della natura, Milano 1975, p.72].
Non diversamente Elémire Zolla scrive nel nostro secolo: "Che si varcasse un grado ulteriore nel percorso discendente del Kali Ybiga o ciclo della Distruttrice, attorno alla metà di questo secolo, fu chiaro allorquando andò smarrita la nozione, netta dianzi nella buona società, data per scontata nelle battute di Shakespeare, che almeno l'aglio fosse sconveniente e increscioso. In verità sono piante, le agliacee, soffuse di crudo zolfo, ottundono le facoltà sensitive e turbano il raccoglimento spirituale. Suscitano pertanto oggidì nelle anime deliberatamente rudi un amore che giunge al proselitismo, quasi costoro temessero di incontrare chi, non per capriccio del gusto, ne aborra"[Ibidem].
Un altro gruppo di botanici sostiene che l'erba moly sia la ruta [vedi qui l'interpretazione di Amato Lusitano] basandosi su Dioscoride Pedanio che scriveva: "Quella pianta viene chiamata ruta montana e anche, in Cappadocia e Galazia, nioly. Altri la chiamano harmala, i Siri besasa, i Cappadoci moly".' Non erano, le sue, notizie di seconda mano perché Dioscoride proveniva proprio da quella zona. "Quindi moly è parola cappadoce" scrive Hugo Ralmer. "E v'è di più: la ruta montana significata con questo nome è per i Saqi persiani abitanti in Cappadocia il surrogato dello hom che avevano in patria e che era anch'esso un'erba magica.
Plutarco continua a chiamarla moly: nella lingua sira questo moly si denomina besasa. In aramaico la denominazione della ruta montana suonava besas, e nella tradizione sira di Galeno, che attinge da Dioscoride, basaso.
Secondo Dioscoride la ruta montana ha una radice nera e fiori bianchi e perciò corrisponde perfettamente all'erba di cui parla Omero.
In una interpolazione che si legge nello Pseudo Apuleio ed è tratta da Dioscoride, si dice: "Dai Cappadoci essa viene detta moly, da altri arniala, dai Sri besasa". Nel VI secolo dopo Cristo il cosiddetto Dioscoride Longobardo riferisce: "Un'altra specie di ruta alligna in Macedonia e nella Galazia dell'Asia Minore, e gli abitanti la denominano moly. La sua radice consiste in una radice maestra da cui si dipartono molte radici minori e che butta un fiore bianco" [De materia medica, III. 46].
Fra le erbe cacciadiavoli usate nella notte di San Giovanni, essa ha una funzione importantissima, pari all'aglio e all'artemisia, tant'è vero che fu chiamata nel Rinascimento Herba de fuga demonis. Già Aristotele ne raccomandava l'uso contro gli spiriti e gli incantesimi. Nel Medioevo si ponevano corone di ruta sulle tombe per allontanare gli spiriti maligni e, fino al secolo scorso, la piantina serviva anche nelle pratiche esorcistiche. Questa sua funzione potrebbe essere stata ispirata dalla forma vagamente a croce dei petali.
Negli Abruzzi la si considerava un amuleto contro le streghe: se ne cucivano delle foglie, preferibilmente quelle su cui una farfalla aveva depositato le uova, in un borsellino che si portava celato sul seno. La si consigliava anche contro il malocchio, come credevano le donne del popolo in Toscana.
Fin dall'antichità veniva prescritta per curare veleni e morsi dei serpenti: lo testimonia anche un emblema rinascimentale, riportato dall'iconologo Cesare Ripa, "Difesa contro i nemici malefici e venefici" dove una donnola porta in bocca un ramo di ruta? L'iconologo la utilizza anche per un altro emblema, "Bontà", raffigurata come una donna ben vestita d'oro, con una ,ghirlanda di ruta e con gli occhi rivolti al cielo, mentre tiene in braccio un pellicano con i suoi figliolini presso un verde arboscello in riva al fiume. La bontà è bella, spiega platonicamente, perché la si conosce dalla bellezza. E' vestita d'oro perché l'oro è l'ottimo fra i metalli o meglio, come aggiungiamo noi, perché è simbolo dell'essere supremo, del Buono per eccellenza. L'albero rammenta le parole di Davide nel primo salmo dove si dice che l'uomo che segue la legge di Dio è simile a un albero piantato sullariva di un limpido ruscello. Quanto al piriti maligni.... Ha ancora proprietà di sminuir l'amor venereo, il che ci manifesta che la vera bontà lascia da banda tutti gli interessi e l'amor proprio il quale solo sconcerta e guasta tutta l'armonia di quest'organo che suona con l'armonia di tutte le virtù".
Vi è però chi, ispirandosi a una definizione degli scolii omerici ("Moly è una quintessenza di pianta, il cui nome proviene dal potere di rendere innocui i veleni")[Scholia Graeca in Homeri Odysseum (Dindorf, II, p.467)], sostiene che sia una pianta favolosa, una comune espressione poetica usata per indicare un antidoto. Sicché il modo migliore per capirne la "natura" sarebbe quello mitico-simbolico, già adottato dalla filosofia stoica, come testimonia Apollonio il Sofista: "Cleante, il filosofo, diceva che il moly significa allegoricamente il Logos dal quale vengono mitigati i bassi istinti e le passioni" [Cleante, fr.526 (von Amim, Stoicorm veterum fragmenta, 1, 118)]: logos che nella filosofia stoica si doveva intendere come la legge di vita dell'uomo razionale. Lo conferma anche l'autore degli scolii all'Odissea: "Essendo un saggio, Odisseo ricevette il moly, che significa il perfettissimo Logos, per il cui aiuto coli non soggiacque a passione alcuna".
Con il tardo platonismo l'interpretazione protoilluministica dello stoicismo venne ribaltata alla luce della concezione per la quale Ermes non era più la personificazione della ragione, ma l'ambasciatore di Dio, e l'erba moly un dono divino: la quale altro non era se non la paidéia, l'educazione interiore dell'uomo tesa a liberare le sue potenzialità di luce dalle tenebre della passionalità terrena. Ermes psicopompo, che concedeva l'erba moly, conosceva la strada e concedeva la forza spirituale poiché era il Logos.
Grazie a questa interpretazione i cristiani poterono recepire allegoricamente i versi omerici sull'erba moly nella loro riflessione teologica, tant'è vero che Giustino paragonava Ermes Logos a Gesù-Logos dei cristiani: "Quanto alla nostra credenza che egli nascesse da Dio, Logos di Dio, essa è comune con la vostra di Ermes, detto da voi Logos annunciatore da parte di Dio".
Da quel momento le interpretazioni allegoriche proliferarono fino alla più recente che vede il moly come il simbolo dello stesso uomo, dell'eterno Odisseo: "l'eterno Odisseo" scrive ancora Hugo Raliner "sta fra Elios risplendente e Foscura caverna. Nel suo proprio intimo infuria la battaglia fra il nero sangue del gigante e la luminosa natura solare. E lui medesimo il moly dalla nera radice e dal fiore bianco. Ma egli viene soccorso, salvato, elevato nella luce soltanto se la radice rigogliosa viene liberata con uno strappo deciso dalla madre terra. E' un'arte divina che solo Ermes può insegnare".


















































Amatus : Lusitanus fu pseudonimo di João Rodriguez de, medico israelita, professore di anatomia a Ferrara, nato a Castel Branco (Portogallo) nel 1511 e morto a Salonicco nel 1568 : nelle edizioni citato quale: Amatus Lusitanus; Ioannes Rodericus.
Importante, tra altre opere, fu questa interpretazione di Dioscoride in cui Amatus Lusitanus oltre a trattare di piante curative (ma anche di animali e minerali) trascrive in varie lingue antiche e moderne l'etimologia usata per ogni singolo "nome di pianta, animale, minerale" ed elenca criticamente non solo le qualità curative, vere o presunte (mirando a vanificare con un certo metodo radicate convinzioni] ma disserta pure con perizia su tipologia e proprietà alimentari:
Amati Lusitani ... In Dioscoridis Anarzabei de medica materia libros quinque enarrationes eruditissimae. Quibus etiam tum simplicium medicamentorum nomenclaturae Gracae, Latinae, Italicae, Hispanicae, Germanicae, & Gallicae proponuntur tum errores aliorum omnium, qui ad hanc usque diem de hac materia scripserunt, improbantur. Cum rerum ac vocum memorabilium indice locupletissimo, Pubblicazione: Venetijs : ex officina Iordani Zilleti, 1557 (Venetiis : ex officina Iordani Zilleti, 1557) - [12], 514, [30] p. ; 4° - Cors. ; gr. ; rom - Iniziali xil. - Segn.: +6a-z4A-2Y4 - Impronta - deo- pet, e-sa sude (3) 1557 (A) - Marca editoriale: Stella cometa con altre stelle piu piccole tra le punte. Motto: Inter omnes di cui esistono, secondo l'SBN, esemplari in Biblioteca municipale Antonio Panizzi - Reggio Emilia Biblioteca universitaria - Pavia - Biblioteca comunale Augusta - Perugia - Biblioteca Estense Universitaria - Modena - Biblioteca civica Giovanni Canna - Casale Monferrato - Censimento delle edizioni del 16. sec. nelle biblioteche dell'Emilia-Romagna - CE - Biblioteca comunale - Piazza Armerina - EN - Biblioteca nazionale centrale - Firenze - Biblioteca nazionale Braidense - Milano - Biblioteca Oliveriana - Pesaro - Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II - Roma - Biblioteca Casanatense - Roma - Biblioteca civica Gambalunga - Rimini - SI - Biblioteca dell'Accademia di medicina - Torino.
L'opera di Amatus Lusitanus è qui assai utile per interpretare la specificità di varie piante officinali di cui si sono attraverso i secoli modificati i nomi come: Usnea - silfio - erba moly - camedafne - celidonia - dafnoide - maratrum, - meu - titimalo - latiri - calamintha - calamenthum - seseli [erron. e volg. = sesseli/sessali] - "barba di bosco" - dauco - pentafilon - berbena - solatro maniaco = solatrum furiosum - bdellio (resina gommosa ottenuta dal Balsamodendron africanum, usata per impiastri e cerotti medicati) - olibanum - cicuta - mandragora - aconito
Nel suo enciclopedico lavoro Amatus Lusitanus giunge però assai utile anche per l'inquadramento di quelle sostanze non vegetali che variamente rivestono un ruolo importante nella composizione di balsami, unguenti ed altri prodotti officinali dell'erboristeria; ricordiamo qui dalla sua opera:
Allume
- Cadmia - Ponfolige - Spodio ("Lana filosofica" = ossido di zinco) - Antispodio - bitume - Rame combusto - Fior di rame - Lamina/scaglia di rame - Stomoma = Lamina/scaglia di ferro - Verderame - Scoria di ferro - Ruggine di ferro - Lavatura di piombo - Cottura di piombo - Scoria di piombo - Pietra di piombo - Antimonio - Stibium - Molybdaena artificialis (Galena) - Molybdaena fossilis seu naturalis - Scaglia d'argento - Litargìrio - Cerussa - biacca - Chrysocolla - borace (borato idrossido di piombo) - Pietra armena - Lapislazzuli (lazurite) - Vetriolo (romano) - pece nera - "pece delle navi" - petrolio
Nel II libro del suo enciclopedico lavoro Amatus Lusitanus analizza pure "animali" e prodotti del mondo animale che variamente rivestono un ruolo importante nella composizione di balsami, unguenti ed altri prodotti officinali dell'erboristeria: riccio di mare - riccio di terra - cavalluccio di mare - porpora - mitile - mitili - tellinae - conchiglie di mare - onix blatta = conchiglia - chiocciole - lumache - lumache di mare - granchi di fiume - scorpione - scorpione di mare - " dragone di mare " - scolopendra - torpedine - vipera - spoglia delle serpi = muta - lepre di mare (pesce velenoso secondo Plinio) - lepre di terra - de pastinaca pisce - seppia - triglia - ippopotamo (usato in medicina "testicolo di ippopotamo") - castoro - donnola - rana - <storione - smaris = piccolo pesce marino di cattiva qualità - menola = sardella, piccolo pesce marino che salato nella romanità serviva da companatico per la povera gente - gobius = piccolo pesce marino - tonno - garum - brodo di pesce - cimice - cimici - millepiedi - piattola - piattole - "polmone marino" = "mollusco, sorta di medusa" -"polmoni di vari animali" = discussioni varie sui poteri terapeutici o non dei polmoni di diversi animali - "fegato di vari animali" = discussioni varie sui poteri terapeutici o non del fegato di diversi animali - "verga del cervo" = discussioni varie sui poteri terapeutici o non (anche come contravveleno) dei genitali del cervo e della "lacrima di cervo" o pietra belzahartica - unghie di animali - "porri delle gambe dei cavalli" = per Galeno giovevoli contro i morsi di tutte le fiere - "cuoio di scarpe usate" = supposta ma discutibile sua valenza contro i serpenti - "gallo - gallina" = supposta valenza terapeutica di loro carni in combinazione con piante officinali - "uovo - uova di gallina" = valenza in combinazione o non con piante officinali - cicala - cicale - locusta - locuste - ossifraga - frosone = sorte di aquila - "allodola col ciuffo" - rondine = la cenere di rondine sarebbe assai giovevole nella cura delle angine - rondine = la cenere di rondine sarebbe assai giovevole nella cura delle angine - avorio = polverizzato e mescolato nel vino, tra le varie qualità curative, avrebbe quella di contrastare i disturbi gastro-intestinale e di agevolare la fecondazione delle donne - piede di porco/suino - "corno di cervo" = polverizzato in bevanda acquosa, miscelato con piante officinali, sarebbe giovevole contro i vermi dei bambini e le complicanze febbrose - bruco - bruchi - cantaride - cantaridi = discussioni varie su proprietà terapeutiche (dall'insetto si estrae la cantaridina, farmaco vescicante) - "bupresti" - bruchi dei pini - salamandra = l'autore si cura di sfatare la leggenda che possa vivere nel fuoco - ragno - ragni = l'autore sfata molte leggende sul ragno ritenendo però efficiente la proprietà emostatica ed antiemorragica della sua tela - lucertola - lucertole = l'autore descrive le varietà di lucertole e cita in medicina oftalmica un collirio contenente sterco di lucertola da molti ritenuto giovevole per affezioni oculari - tarantola - tarantole - coccodrillo - lombrichi: se ne ricaverebbe un olio giovevole per dolori muscolari - toporagno - topo: l'autore precisa che nessuno gli ha mai riconosciuto proprietà medicamentose ma che il topo campestre da alcuni è ritenuto una vera leccornia in tavola - latte: l'autore sottolinea i pregi dei vari tipi di latte = in particolare celebra il "latte di asina" giovevole per gli hectici o affetti da "febbri continue" - topo: l'autore precisa che nessuno gli ha mai riconosciuto proprietà medicamentose ma che il topo campestre da alcuni è ritenuto una vera leccornia in tavola - siero di latte - "latte acetoso" - formaggio - burro = indicato come ricostituinte e da usare in vari tipi di linimenti - lana - oesypum = untume della lana di pecora non lavata da cui si ricavava un unguento cosmetico usato dalle donne romane - caglio = ritenuto giovevole, bevuto in miscuglio con aceto, contro il mal caduco od epilessia - sevo = usato, in varie combinazioni officinali nella lenizione di forme tumorali e soprattutto nella sedazione di dolori - "midolla di ossa animali" = dotate di proprietà emollienti e assunte nel cibo utili a provocare, quando necessario, il vomito - fiele di animali = in composizione officinale utile come vermifugo - bevuto nel vino risulterebbe vantaggioso contro le calcolosi - assunto per via nasale gioverebbe contro le fistole lacrimali ed il mal caduco - sangue: in particolare l'autore dibatte la storica questione dei pregi del sangue, se bevuto sangue di umani giovani possano ringiovanire i vecchi e se effettivamente delle "vecchiette dette streghe" si nutrano di sangue di infanti - sterco di animali: l'autore riporta le postulazioni di Galeno per cui lo sterco di cane disciolto in latte bollito curerebbe l'angina ed arresterebbe la dissenteria - l'autore raccomanda poi, nel caso venga ucciso un lupo, di conservarne le interiora con le feci, il tutto ridotto in polvere e somministrato per bevanda sarebbe utilissimo contro le coliche - seguono ulteriori osservazioni sull'uso medicamentoso delle feci di altri animali ancora - urina: l'autore cita l'uso moderno di somministrare urina per via di clisterii - riporta, assieme ad altri usi, anche il consiglio di Galeno di servirsene terapeuticamente, specie fra le popolazioni agresti, contro le ulcerazioni delle dita dei piedi - miele: l'autore dopo aver parlato del "miele buono" e di quello "velenoso" ed ancora delle proprietà terapeutiche si sofferma sulla recente introduzione su grande scala commerciale dello saccarum [classic. succharon] non ignoto ai classici [cita in particolare Varrone] ma pochissimo usato: ora invece proveniente sia dalle Indie Orientali che dalle Occidentali, massimamente dalla "nuova terra Brasilio" - cera: l'autore ne elenca gli usi in medicina - pròpoli: L'autore parla poi del "pròpoli": il pròpoli è una sostanza resinosa che le api raccolgono dalle gemme e dalla corteccia delle piante. Si tratta quindi di una sostanza di origine prettamente vegetale anche se le api, dopo il raccolto, la elaborano con l’aggiunta di cera, polline ed enzimi prodotti dalle api stesse. Il colore può variare moltissimo nelle tonalità del giallo, del rosso, del marrone e del nero. L’odore è fortemente aromatico. Il nome pròpoli, che può essere utilizzato sia al maschile (il pròpoli) che femminile (la pròpoli), deriva dal greco propole: pro (davanti) e polis (città) ovvero “davanti alla città”. La parola, in senso figurato, assume il significato di difensore della città. Il termine è stato usato da Plinio il vecchio nella sua Naturalis historia e da Aristotele. Le api, infatti, lo utilizzano per difendere la loro città (l’alveare) dai pericoli che possono minacciarla: le malattie, i predatori. Il pròpoli ha proprietà: antibiotiche (batteriostatiche e battericide) - anti-infiammatorie - antimicotiche - antiossidanti e anti-irracidenti - antivirali - anestetiche - cicatrizzanti - antisettiche - immunostimolanti - vasoprotettive - antitumorali - La proprietà di maggiore rilievo consiste nell’avere tutte le proprietà sopra indicate concentrate tutte insieme in un unico prodotto di origine naturale. Esistono diverse teorie sull’origine del pròpoli. La più accreditata attualmente è quella formulata da Rosch che ha osservato le api raccogliere le resine dagli alberi con le mandibole per poi elaborale con le zampe anteriori, mediane e posteriori fino a condurle nella borsa pollinica di quest’ultimo paio di zampe. La teoria che ipotizza un’origine del pròpoli interna all’alveare è meno accreditata in quanto non è stata ancora dimostrata. È impossibile definire una composizione esatta ed universalmente valida del pròpoli in quanto estremamente variabile a seconda della vegetazione di origine, della stagione e di molti altri fattori. Nel corso di numerosi studi su propoli di varia origine sono stati identificati più di 150 diversi composti biochimici ed altri ne vengono scoperti ancora oggi. Per semplificare possiamo suddividere i principali componenti in cinque grandi gruppi: resine (45-55%), cera e acidi grassi (25-35%), oli essenziali e sostanze volatili (10%), polline (5%) composti organici e minerali (5%) Entrando in dettaglio tra le componenti di maggiore interesse possiamo citare: Minerali: Mg, Ca, I, K, Na, Cu, Zn, Mn e Fe. - Vitamine: B1 (tiamina), B2 (riboflavina), B6 (piridossina) C (acido ascorbico) e E (tocoferolo). - Enzimi: succinato deidrogenasi, glucosio 6-fosfatase, acido fosfatase. - Acidi: acido caffeico feniletilestere (CAPE) contenuto nelle resine e nei composti organici, fenolo, adenosintrifosfato (ATP) - Derivati dell’acido benzoico: acido gentisico, acido salicilico, acido protocatechico, acido-3-ossibenzoico, acido-4-ossibenzoico, acido gallico, acido-4-metossibenzoico - Derivati dell'acido cinnamico: acido caffeico, acido ferulico, acido isoferulico, acido idrocaffeico, acido p-cumarico, acido o-cumarico, acido m-cumarico - Cumarine: cumarina, esculetina, scopoletina - Alcoli: alcol benzilico, alcol cinnamilico, alcol feniletilico, alcol pentenilico, alcol 3,5-dimedossibenzilico - Aldeidi: vanillina, isovanillina, aldeide cinnamica - Flavonoidi - flavoni: 5-idross-7,4’-dimetossiflavone, acacetina, apigenina-dimetiletere 7,4’, crisina, pectolinarigenina, tettocrisina flavonoli: 3,5-diidrossi-7,4’-dimetossiflavone, betuletolo, ermanina, galangina, isalpinina, isoramnetina, kaempferide, kaempferolo, quercetin-3,3’-dimetiletere, quercetina, ramnazina, ramnetina, ramnocitrina - flavanoni: 5-idrossi-7,4’-dimetossiflavanone, isosakuranetina, pinocembrina, pinostrobina, sakuranetina - diidroflavonoli: pinobaksina, pinobanksina-3-acetato - Terpeni: sono contenuti nelle resine e negli oli essenziali e conferiscono il caratteristico odore al propoli - Idrocarburi: cariofillene, a-guaiene, ß-selinene - Alcoli sesquiterpenici: ß-eudesmolo, guaiolo - Amminoacidi - Acidi grassi -Chetoni - Varie: steroli, polisaccaridi, lattoni. [l'approfondimento sul pròpoli deriva da "WIKIPEDIA, ENCICLOPEDIA ON LINE - SOTTO VOCE"]