Sede di un FONDO ROMANO, forse ancora della gente Aurinia: presenta reperti fittili d'epoca romana, dal I al IV sec. d.C., sparsi su una superficie di più di 5000 m.q.
Un autore del XVII secolo, tanto discusso ma comunque noto al suo tempo quanto oggi misconosciuto, è Antonino Merello Mora, poliedrico esperimentatore di esercitazioni letterarie seppur sopravvissuto all'oblio soltanto per una sua contrastata partecipazione ai dibattiti sulla speculazione linguistica.
Addirittura il suo nome è stato causa di incomprensioni biografiche e di conseguenza biblioteconomiche.
Finalmente ai primi del '900 ne L'Accademia della Fucina di Messina (1639 - 1678) nei suoi rapporti con la storia della cultura in Sicilia (Catania, 1903, p.230) G. Nigido Dionisi menziona un "Merello Mora Antonino, pittore messinese...oratore, poeta e ricercatore delle più antiche notizie della letteratura patria...vivente ancora nel 1667".
Molto tempo dopo Maurizio Vitale collega questo personaggio con gli inesistenti autori del Discorso che fa la lingua Volgare dove si vede il suo nascimento essere siciliano tali Antonino Merello e Pio Mora. ( 1 )
Gli errori dei tipografi (in particolare il vezzo spagnoleggiante della "e" in luogo della "y" intercalata fra i componenti del doppio cognome) hanno spesso indotto a pensare, anche per la celere dispersione del letterato dal panorama letterario italiano, che non si tratti, come nella realtà, di un singolo individuo, tale Antonino Merello (o Mirello) Mora ma di due persone, distinte seppur dai connotati indecifrabili (ad accrescere le incertezze vale la considerazione che nel '600 la forma "Merello" stenta a stabilizzarsi definitivamente, oscillando fra questo esito, in auge tra gli stampatori antichi, e l'omologo "Mirello", oggi invece preferito dagli studiosi ed editori critici nelle loro citazioni).
Scorrendo il catalogo della sua monumentale biblioteca, di cui peraltro con ben poca originalità ne riprende specularmente il nome(2), si nota però che Angelico Aprosio già nel 1672-1673 ha idee ben chiare sul personaggio in questione, col quale, in modi di cui si è purtroppo persa traccia, risulta senza dubbio in rapporto e corrispondenza.
La notazione aprosiana, dapprima sottovolutata anche per gli effetti dell'ostracismo illuministico e romantico dei critici-eruditi barocchi, viene finalmente recuperata dal Vitale che, con pazienza ma anche grazie alle indicazione da essa fornitegli, si trova finalmente in grado di ricostruire le competenze sostanziali della fisionomia linguistica e letteraria di Antonino Mirello Mora: in questo modo, secondo l'uso corrente delle citazioni biblioteconomiche e bibliografiche, proporrò da ora l'onomastica dell' erudito messinese, anche per evitare alcuni possibili fraintendimenti tanto nelle opportune interconnessioni fra citazioni del personaggio quanto nell'uso dei supporti informatici, italiani e non.
Il Vitale delinea compiutamente le meditazioni linguistiche del Mirello Mora, pubblicandone quindi, con l'opportuno commento, i Discorsi della lingua volgare (3).
Per conseguenza, come spesso accade nel panorama critico letterario, la riscoperta di Maurizio Vitale accende un effimero seppur utile interesse sul personaggio.
Claudio Marazzini, concentrando in un giudizio forse non opportunatamente motivato né approfondito, il prodotto linguistico del Mirello Mora, che egli recupera dal moderno contributo di M. Vitale, finisce per congedarne la portata intellettuale e la cifra polemica entro una confutazione abbastanza epidermica, quale modestissimo risultato di "una confusa tesi sull'origine siciliana del volgare" (4).
Qualche considerazione più esaustiva si riscontra invece nel volume L'Italiano nelle regioni (5) a cura di F. Bruni.
Dalla lettura del passo relativo al dibattito culturale sulla lingua che coimplica il Mirello Mora si evince il graduale scompaginarsi nel secondo Seicento della reazione antitoscana del sicilianismo linguistico che, ormai lontanissimo dalla postazione in certo modo autocratica dell'umanista C.M. Arezzo, va ripiegando su ogni fronte innanzi all'affermazione decisa della sempre meglio recepita norma toscana.
Questa "rassegnazione" degli autori isolani a scrivere in toscano si esprime però per strati e livelli distinti, di modo che, diversamente, vi partecipano tanto il "moderato" Giovanni Ventimiglia (6) quanto l'"estremista" Antonino Mirello Mora (7).
Parlando della Biblioteca Aprosiana come il luogo dell'Accademia sublimata dal fondatore al limite degli incontri e dei confronti eruditi tra le più diverse e lontane personalità letterarie si va oggi sempre più scoprendo una qualità eccezionale di Angelico Aprosio, tra cui una proprietà per certi aspetti maniacale di investigare nel Parnaso letterario, italiano e non, sin al punto di sviscerare una sequenza straordinaria di dati culturali tuttora, in buona parte, non adeguatamente soppesati.
In particolare la capacità aprosiana di far interagire, restandone un punto di riferimento, autori di ogni provenienza ed estrazione ne costituisce, forse, la suprema grandezza sì che, nella mai sufficientemente analizzata silloge de La Biblioteca Aprosiana del 1673 (come nella sua parte rimasta inedita ed in altre opere ancora) si trovano citazioni, notizie, riferimenti bio-bibliografici, addirittura ampie sequenze di opere ritenute perse d'altri autori e che invece, se prese nella doverosa considerazione, eviterebbero tuttora una considerevole dispersione di intelligenze costrette a "navigare" nel gran mare di una ricerca biblioteconomica mai agevole.
L'operato intellettuale dell'erudito intemelio, utilissimo per un sempre più corposo inquadramento storico-documentario del barocco italiano, è stato in verità alquanto dimensionato dalla sua tardiva, certo faziosa ma neppur sempre compresa, partecipazione al dibattito sull'arte del Marino (8).
Relegato mediamente dalla critica come uno stanco epigono del marinismo ortodosso l'Aprosio ha subito così una condanna totalizzante, al punto che, parallelamente alle sue elocubrazioni filomariniste senza dubbio datate, ha finito per essere rimossa anche buona parte del suo vasto lavoro di ricercatore bibliofilo, autore di opere che, per quanto appesantite spesso da un periodare prolisso, custodiscono notizie documentarie di rilevante rarità ed assoluto pregio scientifico.
Letterariamente è ben nota la simpatia, anzi la venerazione aprosiana per il napoletano Giovambattista Marino ma, per esempio in merito alle acquisizioni ed alle postulazioni su tanti altri autori meridionali: è invece meno noto che l'Aprosio, vivendo costantemente l'impossibile sogno di visitare il Sud d'Italia (9) e di esperimentare indirettamente la temperie culturale che in esso si alimenta (p. 179), ricorre, per intelligente compensazione, all'espediente intellettuale della corrispondenza erudita e degli scambi culturali con moltissime personalità di area napoletana, siciliana e comunque di formazione ideologico-erudita meridionaleggiante.
L'Aprosio, nell'ambito di reiterati contatti culturali con l'Accademismo meridionale ed in ambiente napoletano merita una menzione peculiare il rapporto aprosiano intrattenuto col patrizio ANTONIO MUSCETTOLA la cui bio-bibliografia ed i cui rapporti col bibliografo intemelio son qui direttamente ripresi dal repertorio La Biblioteca Aprosiana... (pp.468-483).
Particolari contatti l'Aprosio ha quindi con il messinese Placido Reina (o Rejna) e soprattutto con Giovanni Ventimiglia, patrizio siciliano teso, come storiografo della propria casata, a dimostrare che la "nobilissima prosapia di Ventimiglia di Sicilia" (cioé i conti di Ventimiglia e i marchesi di Gerace) discendano dai conti della Città ligure.
In verità Giovanni Ventimiglia è parimenti in contatto con lo storiografo intemelio Girolamo Lanteri, in qualche maniera all'epoca ricercatore ufficiale della storia remota intemelia, e su tale argomento, a fronte di una certa indifferenza aprosiana, sarà poi soprattutto Domenico Antonio Gandolfo, il successore di Angelico alla direzione della Biblioteca, che raccoglierà utile materiale in un suo lavoro su questi variegati contatti culturali (10).
Il nobile siciliano, col passare del tempo e in forza di scambi epistolari sempre più approfonditi, giunge gradito all'Aprosio, più che quale storico come mecenate erudito e punto fermo della sua rete di scambi culturali verso l'estremo meridione italiano.
Ne fa fede il capitolo dell'inedito Scudo di Rinaldo (parte II), dove a Giovanni Ventimiglia viene dedicato il Capitolo XI, dal titolo "Se nel conversare con donna povera vi sia maggior pericolo d'inciampare che in conversando con Donna ricca", e dove si legge a prolusione:
"Al Signor Giovanni Ventimiglia.
Mentre un giorno tutto ansioso, e non senza tempo d'esser ferito dal pestifero contagio [la peste del 1656-7 a Genova], il quale ha poco meno che desolato l'emporio Regio delle onde Liguistiche, me n'andava passeggiando per Banchi [principale piazza commerciale della Repubblica], m'incontrai per buona sorte nel nostro dottissimo Daniele Spinola, e da esso intesi qualmente nel bel principio, che si scuoprì il male in Roma, imbarcatasi in Livorno verso Sicilia, se ne fusse tornata in Messina a ripatriare. Io [p. 338] ne lodai il Signore: che per altro haverei temuto non fusse seguito di essa come del virtuosissimo HERRICO e d ' altri amici. Iddio ha voluto preservarla per lassare a posteri la vera idea d'un buon cittadino, mentre anco dopo il corso di CCC anni, che li suoi ascendenti partirono di qua per ricevere ne la fertil Sicania eccelsi honori, non viene punto scemato il suo affetto verso questa distrutta Città, potendo dire ciascuno de' suoi cittadini: Fuimus Troes.
Spero nondimeno di vederla risorta [Ventimiglia] nelli suoi eruditissimi fogli, risorgendo novella Fenice a più bella vita, che non poté ricevere da suoi edificatori primieri; mentre non perdonando a spesa non lassa di far rivolgere sossopra gli Archivi per disotterrare le più nascoste memorie.
Anch'io una fiata mi ero invogliato di adornare cotesta Sparta: ma tirata da altre cure son stato astretto a mutar pensiero, non lassando di sollecitare il nostro concittadino Domino Gieronimo Lanteri, il quale dato principio alla Topografia di essa, quale a luogo e tempo sarà veduta da Vostra Signoria, la quale in questo mentre si compiacerà dare un'occhiata a queste poche osservationi, che io faccio intorno al conversar con le Donne, o siano di conditione povere, o ricche ..." [339].
Il discorso giunge emblematico: nel suo sforzo di concentrare alla Biblioteca i più svariati stimoli eruditi, Aprosio lusinga gli interessi storici del Ventimiglia sull'omonima città ma demanda al Lanteri, che pure non stima particolarmente, il compito di informare il nobile siciliano su quelle questioni di storia locale che in verità disdegna a fronte di ben più estese argomentazioni intellettuali.
Così, gentilmente come sempre, propone ben presto all'interlocutore un dialogo decisamente più barocco e capriccioso sul tema della donna "povera e quindi tentatrice perché ambiziosa".
Se ne deduce che Aprosio reputa Giovanni Ventimiglia, anche per gli effetti di una certa fama, un accettabile interlocutore il quale, alla maniera che si evince anche dall'enunciato aprosiano, per i suoi poliedrici contatti culturali ha più volte dovuto sottrarre le proprie attenzioni alla storia di Ventimiglia.
Più che la palese dimestichezza col nobile erudito genovese Daniele Spinola, valgono i riferimenti a Scipione Errico, che fu tra i massimi sostenitori del Marino con la sua apologia dell'Adone nell'antistiglianeo Occhiale appannato, amico e corrispondente dell'Aprosio, originario di Messina ed al pari di Giovanni Ventimiglia, benché su altri livelli, studioso di problemi linguistici ne Le Rivolte del Parnaso del 1626, di impronta avversa alle scelte del Vocabolario della Crusca.
Dal repertorio della Biblioteca Aprosiana si evince che tra gli interessi di Giovanni Ventimiglia risiedono anche le indagini linguistiche, soprattutto in ambito siciliano, che poi stanno alla base di alcune sue raccolte antologiche come le vicende dei Poeti Bucolici e dei Poeti Siciliani in cui si individua quella scelta regionalistica, cui si è fatto cenno, che si qualifica per via d'una pur meditata esaltazione degli autori isolani.
In un primo tempo questa posizione gli ha causato evidentemente qualche obiezione e non solo dai seguaci della tradizione toscaneggiante: in particolare, stando all'Aprosio, Giovanni Ventimiglia subisce attacchi di un certo rilievo proprio da Antonino Mirello Mora, messinese, certo non in nome della tradizione toscana ma in dipendenza del suo estremismo linguistico.
Sempre dal ragionato catalogo aprosiano apprendiamo che "Antonio Merello e Mora Messinese, lo Sterile Accademico Abbarbicato" ha mosso vari appunti all'attività linguistica di Giovanni Ventimiglia.
In un tempo successivo il Mora ritira però le accuse, forse per non crearsi nemici anche in patria e tra gli stessi sostenitori della linea siciliana provvedendo ad "emandar l'opera non buona" con La Fama Oratrice del medesimo per la Morte di D. Giovanni Ventimiglia, Cavaliere della Stella, dei Conti di Ventimiglia (Messina, nella Stamparia di Paolo Bisagni, 1665)(11).
L'Aprosio, verisimilmente per questo lavoro encomiastico verso il vecchio amico e corrispondente, riesamina, non senza spargere criptiche stille del suo veleno erudito (vedi qui la nota 16), l'atteggiamento critico contro il "Merello e Mora" da lui precedentemente definito, riferendosi all' antica disputa col Ventimiglia, "... un Mirello, cioé a dire un Margutte contro un Morgante, un Pigmeo contro un Gigante".
Infatti, nonostante la carenza di prove su contatti epistolari, l'Aprosio non solo finisce per assimilare nella sua Biblioteca diverse opere dell'erudito messinese, cosa comunque possibile prescindendo da qualsiasi rapporto più o meno diretto col personaggio in questione, ma addirittura (probabilmente ricambiato con identica partigianeria) cerca di ingraziarselo e di coinvolgerlo nella sua vasta operazione di recupero nell'Aprosiana dei più diversi esperimenti culturali ed accademici facendone un efficiente sostituto dello stesso defunto Giovanni Ventimiglia.
Di ANTONINO MIRELLO MORA, nella Biblioteca intemelia si conservano l'Arcadio Liberato, Poema Heroico del Signor Antonino Merello e Mora, Con gli Argomenti del Conte Lissauro all'lllustrissimo e Reverendissimo Monsignor D. Giovanni Antonio Capobianco, Vescovo di Siracusa e del Consiglio di Sua Maestà, in Bologna, presso Giovanni Battista Ferroni, 1660: data la sua estrema rarità il POEMA è qui di seguito PROPOSTO INTEGRALMENTE NELL'EDIZIONE ORIGINALE.
Come era d'uso per motivare l'ingresso dei libri all'Aprosiana, sul fronte si legge ancora bene la scritta, a mano e coeva, "dono dell'Autore", testimonianza ulteriore di un singolo letterato e del pubblico riconoscimento di Antonino Mirello Mora quale "amico e fautore dell'Aprosiana" (12).
Dal medesimo autore l'erudito bibliotecario intemelio riceve quindi opere scritte posteriormente all'Arcadio Liberato: come la Vita di Guido delle Colonne Messinese, (in Venetia, appresso il Guerigli, 1665), la Vita di Tomaso Caloria Messinese (ibidem, 1666), la Vita di Monsignor Antonio Viperani Vescovo di Giovenazzo Messinese (ibidem, 1667), la Risposta di Antonino Mirello e Mora ad una lettera di Don Diego De Mora Regio Castellano nella Città di Milazzo (in Cosenza, per G.B. Moio e G.B. Rossi, 1663), la Risposta di Antonino Mirello e Mora ad una seconda lettera di Don Diego De Mora Regio Castellano nella Città di Milazzo (in Napoli, per Salvatore Novello, 1664), la Il Rimanente della Risposta di Antonino Mirello e Mora alla seconda lettera di Don Diego De Mora Regio Castellano nella Città di Milazzo (in Napoli, per Salvatore Novello, 1664), la La Fama Oratrice Di Antonino Mirello e Mora per la Morte di D. Giovanni Vintimiglia Cavalier della Stella De Conti di Vintimiglia (in Messina, per Paulo Bisagni, 1665).
Nel contesto di ricerche reiterate, anche per il tramite di collaboratori e ultimamente di investigazioni informatiche, non ho ricontrato, tranne che nel fondo antico della Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia (colloc. S. 4, 58), alcun altro esemplare dell'Arcadio Liberato (13).
Si tratta di un volume in ventiquattresimo (cm. 13,5 x 7,5) in buono stato di conservazione (inventariato con il numero seriale 3982) e numerato progressivamente per 139 pagine.
Come già scritto ne risulta tipografo in Bologna, nel 1660, Gio. Battista Ferroni: anche investigando su questo personaggio, fra i vari titoli attribuiti ai suoi torchi e variamente reperibili presso disparate biblioteche italiane e non, nulla ho trovato (nemmeno una qualche insignificante comunicazione pubblicitaria o comunque bibliografica) che ne possa mettere l'operato in relazione ad Antonino (o Antonio) Mirello Mora e all'Arcadio Liberato.
In questo rarissimo libro risultano preposte al testo del poema (che inizia da p. 13) la dedicatoria (pp. 3 - 4) a "Monsignor D. Giovanni Antonio Capobianco vescovo di Siracusa e del Conseglio di Sua Maestà" e l'"Allegoria del Poema" (pp. 5 - 9) del "Marchese Barnabà Iacinto Merello Cavalier di S. Giacomo e Matro Razionale per Sua Cattolica Maestà nell'Isola di Sicilia".
Segue poi (pp.11 - 12) una sorta di captatio benevolentiae in cui l'estensore (forse l'autore in maschera ma più probabilmente un suo simpatizzante o parziale, sotto il titolo de "L'Accademico Incerto") si sforza di riscattare l'opera del Mirello Mora dall'avversione dei detrattori, dimostrandone sia l'efficienza linguistica, coerente all'ortodossia della tradizione, quanto la sintonia con le norme basilari del regolismo aristotelico, contestualmente mirando a sottolineare l'uso limitato delle licenze poetiche e in particolare di termini giudicati impropri al corretto poema, anche eroico od epico, proprio della cultura controriformista. In particolare nel breve scritto rivolto ai lettori si fa rimarcare quanto poche volte l'autore ricorra all'utilizzazione di lemmi come "Fato, Nume, Destino, Deità e simili" notoriamente sgraditi ai revisori del Santo Uffizio e ai membri dell'Indice dei Libri Proibiti: qualche volta, ammette l'indecifrabile scrivente, siffatti termini possono comparire fra i versi del poema ma si tratta di inserzioni non dettate dalla malizia né segnate dai difetti dell'abuso, piuttosto sono innocenti conseguenze, alquanto casuali, della "Lubricità della penna [e della] velocità dell'intelletto".
Colpisce comunque, in questo breve scritto, che, per elogiare l'autore e rafforzarne la fama, si citino soltanto le sue opere poetiche "Rime Amorose, Capricci Poetici, Nettuno componimento drammatico, Odi Pindariche") e pochi scritti storico eruditi ("Glorie di Messina, Vita di Padre Antonio Hermo da Lucerna"): sarà mia impressione, ma l'assoluta mancanza di titoli connessi a quella attività di linguista, campanilisticamente seguace della linea siciliana, pare quasi voluta, forse per stemperare vieppiù la discutibile nomea del Mora, quale intransigente settario, che sta alla radice dei dissapori con Giovanni Ventimiglia e, più estesamente, delle critiche o, peggio ancora, della stizzosa indifferenza manifestata nei suoi confronti dall'aristocratico ambiente accademico italiano, prioritariamente toscaneggiante.
Il poema, come scritto, risulta dimensionato e sufficientemente proporzionato entro i collaudati automatismi della tradizione e del regolismo aristotelico.
A voler precisare ancora, la cifra di quest'opera del Mirello Mora è ufficialmente (vedi ancora e soprattutto il contenuto di pp. 5 - 12)quella del poema eroico od epico conforme ai canoni classici e da contrapporre tanto all'Orlando Furioso (ed a molti poemi cavallereschi editi nel primo Cinquecento) quanto alle arguzie, senza fondamento storico e capricciosamente irriguardose di ogni regolismo, che discendono nel '600 italiano dal monumentale esperimento dell'Adone di G.B. Marino.
Per la via di interferenze affatto mascherate, il modello apparente dell'Arcadio Liberato è semmai quel poderoso fallimento di poema eroico che, oltre un secolo prima, il vicentino Gian Giorgio Trissino realizzò nei 27 libri di endecassillabi sciolti de La Italia liberata da' Gothi (14).
Per quanto di mole considerevolmente minore l'Arcadio Liberato (15) ha in comune col mastodontico poema del Trissino il rispetto evidente sia delle regole di Aristotele (unità d'azione, materia storica ecc.) sia dell'epica omerica (per esempio nei cataloghi di navi od eroi quanto nell'intrecciarsi fra azioni umane e interventi divini adattati alla sfera umana: nell'Italia liberata il "Correttor del Cielo, la Vergine, gli angeli Palladio, Venerio, Nettunio, Gradivo" ecc., nell'Arcadio il "Sovrano Fattore", le "Celesti Rote", l'"arcangelo Michele" che scompaginano le forze diaboliche al servizio dei nemici di giustizia e fede = canto V).
Anche se non con precisione e minuterie identiche a quelle del poeta vicentino anche nell'Arcadio Liberato si riscontra da parte dell'autore un tentativo particolarmente oculato di descrizione dei particolari guerreschi, delle fogge, persino dell'architettura militare e non: fenomeni estetico-espressivi alquanto discutibili che anche in siffatta circostanza fanno tornare alla mente l'essenza di quel celebre giudizio negativo, dall'acre "sapore" d'un epitaffio fors'anche esasperato, espresso da Benedetto Croce sull'Italia liberata da' Gothi dimensionata a poema di "un omerismo e un realismo da burla, e che quasi si direbbe fatto per burla se pur troppo non fosse sul serio".
L'assenza di dati chiari e soprattutto utili impedisce di leggere compiutamente questa esteriore adesione del Mirello Mora ad un prodotto letterario, come quello del Trissino, già datato e ufficialmente relegato nel campo sterile dei pur poderosi fallimenti letterari.
Leggendo l'"Allegoria del Poema" e quindi la sua presentazione ("a chi legge") dell'"Accademico Incerto" si recupera tuttavia, per quanto vaga, l'idea di un collegamento, ancor più ideologico e programmatico che culturale, tra l'Arcadio Liberato e il poema del Trissino: si intravede appunto la comune volontà di realizzare un poema di respiro classico da contrapporre ai dominanti gusti plebei verso le maniere romanzesche, bizzarre o capricciose dei poemi via via affermatisi, nel gusto e nel plauso correnti, dall'Ariosto in poi.
Questo recupero, che senza dubbio sa molto di aristocratica archeoletteratura, a mio avviso interagisce però in modo non casuale con un'ulteriore affinità elettiva non espressa apertamente nell'Arcadio ma sottintesa attraverso la decifrazione di alcuni testimoni, narrativi, formali e culturali, che vanno quasi a costruire una sorta di ponte intellettuale tra il Trissino ed il Mirello Mora.
Senza tornare in maniera doviziosa su vecchie polemiche, verisimilmente date per scontate e conosciute, ma limitandosi ad un accenno quasi informale e comunque generico, il Mora sembra infatti tentare di coniugare, in qualche maniera implicitamente giustificandolo, il suo discusso estremismo linguistico antitoscano per la via erudita e assolutamente barocca di quei capricci metaforici e retorici che, nella sostanza quanto nel programma, il suo poema intende eludere.
Alla maniera che è al suo tempo tipica di tanti critici, compreso senza dubbio l'Aprosio, il Mora si collega quindi, in modo argutamente affettato, ad un principio di autorità, ancora abbastanza energico ed efficiente da sostenere la sua postazione culturale e gli eventuali conseguenti funambolismi.
L'autorità di cui si avvale -nonostante gli espliciti cenni al rispetto dello Stagirita e dei suoi canoni (che espressamente riguardano però il poema)- è sottintesa nella parte metodologica (se così si vogliono intendere i tre interventi introduttivi che analizzano contestualmente l'intera produzione del Mora) ove, senza fare espressa menzione del Trissino, l'autore siciliano connette la sua attività letteraria ad esperienze culturali comunque vicinissime a quelle dell'erudito di Vicenza e in particolare agli ancora vigorosi assiomi retorici e linguistici di questi, specialmente sul contributo rilevante, per il fiorire della letteratura italiana, procurato da esperienze formate fuori di Toscana, partendo dall'ambiente siciliano per giungere alle moderne acquisizioni culturali e linguistiche di ambito settentrionale e meridionale: quasi che il Mora, con tale manieristica elocubrazione intellettuale e sillogistica, intenda guidare il fruitore delle sue opere all'assioma che il patrocinio teorico di opzioni linguistiche alternative al toscano, come non lo inibì a Gian Giorgio Trissino nel '500, così neppure impedisce ora a lui, autore barocco, di realizzare un poema compiutamente in linea, anche linguistica, sia con la tradizione classica che con la regolistica aristotelica.
Il Mirello Mora, che non possiede comunque l'energia culturale del Trissino, proprio nel poema, ad onta delle postulazioni più o meno esplicite, dimostra le stesse ambiguità e la sostanziale confusione che ne caratterizzano i lavori linguistici.
Per la limitatezza propria di ogni erudito che si elegge forzatamente a poeta ma ancor più per quei sostanziali cedimenti nella coerenza critica di cui fornisce prova pure negli scritti teorici, il Mora non riesce a conservare un legame inscindibile, per quanto magari monotono o monocorde, né con la linea metodologica del poema del Trissino né con gli assunti di quella stessa tradizione eroica di cui si vuole fare paladino: per esempio non si libera affatto della potente tradizione ariostesca (ad es. dal lato formale e tecnico non usa come il Trissino l'endecasillabo sciolto ma semmai l'ottava dell'Ariosto e, sulla direttrice dei contenuti, finisce per replicare episodi che addirittura lo riportano al Boiardo e da questi ancora all'Ariosto, come nell'emergenza di "Moscovita", nel canto III, indubbio alter ego dell'"Angelica" dell'Orlando Furioso).
Ed ancor più sorprendentemente, nel fondamentale canto VII, il poeta messinese riproduce una sorta di "giardino del piacere" che senza dubbio deriva, ancora una volta tanto sotto il profilo della forma che dei contenuti, dall'iridescente ambiente edenico in cui G. B.Marino ambienta in Cipro la passione di Venere per il bellissimo Adone: qui la dea iniziando il giovane amante ai prodigi della sensualità ne prepara involontariamente la dissoluzione fisica, nell'Arcadio Liberato la fascinosa concubina Rosastra travolgendo nel ludibrio dei sensi il tiranno Costanzo, senza personale ambiguità ma per le stesse debolezze insite nella donna bella, ambiziosa e dominante, ne allestisce la catastrofica rovina, morale in prima istanza e di conseguenza umana e fisica.
L'apparato stilematico e il supporto retorico dell'Arcadio Liberato, nonostante le premesse, più o meno apertamente espresse, non segue quindi una costante metodologia, formale e contenutistica ma oscilla piuttosto fra diverse esperienze letterarie, talora giustapposte senza nemmeno una qualche cesura che ne deframmenti eventuali contrasti tematici e contraddizioni formali: per esempio l'autore, talora artificiosamente austero nei momenti oratori e moralistici, regredisce subitamente nell'esplosività, più formale che sostanziale, di susseguenti episodi descrittivi, specie di ordine guerresco, oppure solleva al meglio il suo registro quando, proprio in antitesi alla caratura di poeta epico che vuole imporsi, libera la propria creatività nel campo poetico in cui meglio sa destreggiarsi, quello idilliaco.
L'Arcadio Liberato a ben vedere ha molti aspetti deteriori propri del centone, quel tipo di realizzazione meccanica e certo poco ispirata in cui ogni scelta stilistica o tematica finisce, di volta in volta, per essere contraddetta da altre soluzioni dipendenti dal variegato ma non autonomo bagaglio culturale cui l'erudito, fattosi poeta, finisce spesso per agganciarsi anche inconsapevolmente.
Già Angelico Aprosio -cosa mediamente sfuggita- coglie nell'opera del Mora questo limite congenito, questo succedersi di chiaroscuri sì che ne critica il lavoro -pur appellandosi alla sua consueta, ironica e criptica garbatezza- come alterno per qualità e fruibilità (16).
Tutto questo lo si riscontra parimenti attraverso l'analisi testuale del poema che si propone qui di seguito, canto per canto.
Eppure, dell'Arcadio Liberato, recuperando in positivo quanto ha scritto l'Aprosio, non tutto è da buttare: sono per esempio da apprezzare alcune sarcine poetiche di matrice idillica ed alcune, pur brevi ma pensose meditazioni, specie sulla vacuità della vita e della fortuna.
Certamente non si tratta di un poema riuscito e tantomeno di un poema eroico nonostante i programmi, l'accorato richiamo ad Ennio ed ai poemi classici (p.5): l'analisi dell'opera in definitiva ingabbia il Mirello Mora come uomo e letterato inevitabilmente connesso alla cultura, accademica e non, sostanzialmente moraleggiante e controriformista, del secondo '600.
Eppure qualche altra cosa, non solo le riflessioni meditabonde o le ambientazioni idilliche, può ancora essere recuperata sotto il profilo della qualità e di una certa onestà intellettuale.
Per esempio nell'opera si scopre, seppur nei modi formali del tardo marinismo ed ancor più dell'oratoria sacra, una certa caratura moraleggiante non sempre ovvia né tantomeno decettiva ed in cui soprattutto l' antifemminismo del '600, pur se scandito tramite un processo gnoseologico non esente da contraddizioni, viene recuperato in linea con una sua problematizzazione severa quanto drammaticamente concreta, senza dubbio assai lontana da certe erratiche smargiassate antidonnesche tipiche sia dell'Aprosio più greve come di vari suoi corrispondenti ed amici (17): una problematizzazione che se da un lato sublima l' asettica figura dell'uomo di stato e di guerra, insensibile ad ogni vaghezza, dal lato opposto, senza dare sempre qualsivoglia responsabilità alla femminea civetteria, deprime l'immagine di ogni maschio socialmente rilevante che, cedendo alle passioni carnali, mette in discussione il suo stesso diritto morale, e forse anche naturale, di essere uomo dominante entro un sistema sociale agguerritamente e in fondo stupidamente misogino.
L'ARCADIO/ LIBERATO/ POEMA HEROICO/ del Signor ANTONINO MERELLO/ E MORA/ Con gli Argomenti del Conte Lissauro/ All'illustriss. e Reverendiss./ MONSIGNOR/ D. GIO. ANTONIO/ CAPOBIANCO/ Vescovo di Siracusa e del conseglio di Sua Maestà/ [impronta tipografica]/ IN BOLOGNA/ Presso Gio. Battista Ferroni 1660/ con licenza dei superiori/ ["Dono dell'Autore" aggiunto a mano]
[Data la rarità dell'opera e la congiuntura d'esser prodotto di un linguista di posizione avversa al toscano si riproduce il testo nella sua totale genuinità, senza apporre variazioni o modernizzazione onde offrire agli specialisti di linguistica qualche saggio testuale genuino, esente da interventi moderni correttivi, da poter analizzare]
CANTO I
Stanze 1 - 4:
Contengono il proemio con la dedicatoria: l'influenza dell'Ariosto è qui evidente nonostante il rifiuto programmatico di stendere un poema cavalleresco (si individua anche qualche tipico stilema marinista ortodossa: tra cui l'equazione poeta="tromba della fama", espressione peraltro molto cara all'Aprosio che conia per sé l'appellativo di "Tromba dell'altrui glorie"=conservatore e divulgatore delle glorie e quindi della fama dei suoi amici letterati). Nel proemio che sembra opportuno qui riportare integralmente il poeta motiva il senso del suo lavoro cui non è affatto estraneo il recupero campanilistico , contro l'oblio per la dispersione di parecchi dati storiografici, di un'impresa mitica dei Messinesi, classicamente nominati anche Mamertini (così la città siciliana ora è nominata Messina ora, alla greca, Zancle/ Zancla). Questi, intervenuti militarmente contro i ribelli che avevano deposto l'imperatore d'Oriente Arcadio, con la loro vittoria avrebbero riequilibrato, a guisa di strumento divino, il senso di una storia bizantina e secolare che, come ormai universalmente è accettato, costituisce l'interfase irrinunciabile di una transizione epocale fra mondo classico e moderna Europa centro-meridionale (18):
ARCADIO oppresso, e'l MAMERTIN valore
Che cinto d'arme lo ripose al Regno,
Le contese di Venere, e d'Amore
E'l vinto orgoglio del Tartareo sdegno;
Gli attentati fallaci, e'l rio furore
D'un traditor depresso a cantar' vegno,
E la fama, che poco hoggi rimbomba
Spero eternar con risonante Tromba
O de l'alta Maggion Menti canore,
Il cui soave suono, e dolce canto
Apprendono quà giù le Aonie suore;
Che tra i ciechi mortai godono il vanto;
Voi porgete al mio stil grato favore,
Voi reggete l'Ingegno; e siasi intanto
Con l'eterna armonia di vostra Cetra,
Ch'io mi possa inalzar, cantando, a l'Etra.
Glorioso Giovanni in pace e in armi,
Degno degl'ostri, e tre corone ancora,
Il cui gran Nome in dotte carte, e marmi
Impresso, Fama ambitiosa honora,
Porgete grato orecchio à rozzi carmi,
Fate la roca mia Tromba sonora;
E mentr'arde di sdegno il fero Marte,
Sien protette da voi queste mie Carte.
Di Zancla lunge le memorie andate;
I pregi, ed il valore al Mondo noto.
De' Mamertini Eroi l'opre pregiate
Contro quai non potrà l'ira di Cloto,
Le glorie dall'Oblio quasi rinate
A voi consacro ò Mecenate in voto:
Forse il tempo verrà quando per voi
Farà la penna mia gli sforzi suoi?
Stanze 5 - 6:
Sono necessarie alla postulazione storica. I discendenti di Teodosio il grande, Onorio e Arcadio reggono ormai l'impero diviso in Occidente ed Oriente. Arcadio, imperatore di Bisanzio e quindi di Oriente, guerreggia spesso, per sedare rivolte suscitate dalle invasioni germaniche ed arabe oltre che per arginare l'instabilità interna dell'impero. Per partecipare ad una di queste imprese lascia infine al [generale?] Costanzo la difesa della capitale.
Stanze 7 - 11:
Costanzo aspira però a rovesciare Arcadio per farsi imperatore in sua vece. Trama, prima, nell'ombra e poi più scopertamente quando riesce a congiungere genti ribelli e condottieri nemici o traditori.
Stanze 12 - 21:
Costanzo elegge dapprima Catillo, ambizioso generale della Mesia superiore, a comandante supremo dell'armata. A questo episodio, secondo la radicata costumanza dei poemi epici, segue un catalogo dettagliato delle genti e dei condottieri ostili ad Arcadio: Pallante [stanza 13: di cui sono descritte, minuziosamente ma in malo modo sotto il profilo storico-cronologico, le armi oltre che l'umana e feroce natura], Florindo [stanza 14: l'effeminato, cui si attribuisce, sulla base di certe convinzione e delle indicazioni di alcuni trattati inquisitoriali di fine '500 e primi '600, il potere stregonesco di seduzione e fascinazione cioè di paralizzare con la bellezza e con lo sguardo i propri avversari], Birone [stanza 15: comandante degli Arabi barbaro d'aspetto e di costumi], Solimano di Morea [stanza 16, gran capitano dei Circassi e dei Mori], Manfredo [stanza 17: già governatore di Tebe ed ora a capo di una nutrita schiera di contadini ribelli], Terlano [stanza 18: che si vanta discendente di Achille ostentando smisurata ferocia], Oraldo [stanza 19: principe vichingo (?) a guida di cinquemila suoi fedelissimi miliziani], Astoldo [stanza 20: già valoroso condottiero al servizio di Arcadio, datosi ora al tradimento per le lusinghe del denaro e dei ricchi bottini di guerra].
Stanze 22 - 26:
Contengono l'orazione di Catillo all'armata disposta in campo. Senza far cenni a Costanzo l'usurpatore [che quasi pare non esistere per in componenti dell'armata ribelle, figura lontanissima, estranea quanto Arcadio, già "reclusa" fra gli splendori della corte bizantina] Catillo attacca immediatamente il buon nome di Arcadio definendolo tiranno. Egli invita i suoi seguaci a impossessarsi dell'Oriente, che sarebbe loro per schiatta, a scapito di un imperatore feroce figlio di un barbaro. Succedono colorite esortazioni, ambiguamente in bilico fra le proposte di fare guerra in nome della gloria o, più meschinamente, per il ricco bottino da spartire.
Stanze 27 -29:
L'armata ascende sulle navi di una flotta di cui nulla finora si è detto [tra i limiti del Mora è, come altrove si vedrà, il fenomeno di far comparire personaggi, battaglie, città, regioni ecc. all'improvviso senza alcuna preparazione per il lettore]. Ammiraglio ne è Assarico che conduce l'armata in un viaggio bizzarro che prova le incompetenze del poeta, e comunque delle sue presunte fonti storiche, sui possibili itinerari orientali. Tragitti pedestri, fluviali e marittimi si intrecciano confusamente mentre i ribelli si impegnano allo spasimo onde far prede e saccheggiare le città conquistate nei vasti territori del Ponto Eusino, della Moldavia e della Valacchia. Un po' anacronisticamente solo alla fine o quasi dell'impresa si apprende il procedere dell'armata navale che partita dalla Bulgaria (!) ha, sostanzialmente, quale meta la città fortificata di Tessalonica, il II porto dell'impero, ove Arcadio ha posto da tempo la sua base.
Stanze 30 - 36:
E' introdotta la figura di una guerriera ribelle, Rosalba, che per quanto bellissima e desiderata, disprezzando la storica debolezza e mansuetudine del proprio sesso, si è fatta cavaliere, ben mascherata entro una pesante armatura, col falso nome d'Oronte. L'episodio non è affatto sgradevole, anzi giunge poeticamente mossa ed efficace la sequenza [stanza 36] in cui l'aspirante eroina emula nei gesti, vittoriosi quanto fantastici, i duelli sognati contro larve di cavalieri nemici, perenne simbolo dell'aborrito maschilismo.
La cifra di questo personaggio importante [è uno fra i pochi più volte riproposti in sequenze narrative anche piuttosto lontane fra loro] è comunque morale e controriformista.
In Rosalba il poeta condensa un aspetto di quella istituzionale posizione antidonnesca cui egli appartiene per cultura e rango.
La guerriera ribelle, per quanto sia ripresa figurativamente da esempi intellettuali persino sublimi (si pensi all'ariostesca Brandimarte od alla sconvolgente Clorinda del Tasso!) nell'Arcadio Liberato è piuttosto il simbolo negativo di quel tipo di creatura femminile (in aperta crescita nel XVII secolo, soprattutto con l'espandersi della cultura e l'affermazione delle discusse donne letterate) che sotto le pulsioni di un carattere umorale, come scrive lo stesso Mora, finisce per agire contro il sistema sociale cui indissolubilmente appartiene e che, in questo caso ancora simbolicamente, attraverso una morte oscura e senza compianti, vede condannata la sua personalissima quanto vana rivolta avverso le leggi del vivere umano, tanto divine che naturali.
Stanze 37 - 43:
Arcadio, venuto a conoscenza, in Tessalonica, del tradimento di Costanzo e del sopraggiungere dell'armata nemica, si appresta con i suoi generali a rintuzzarne l'assalto ed a riprendere le redini dell'impero cedute, con colpevole faciloneria, all'infido Costanzo.
CANTO II
Stanze 1 - 9:
Continua il consiglio di guerra di Arcadio che, contro il parere di un paladino, virilmente rifiuta di rintanarsi nelle retrovie dell'esercito per non esporre, pur piegandosi alle esigenze della ragion di stato [vago cenno di avversione all'ideologia epocale del tacitismo fallace di pieno XVII secolo], la stessa traballante dinastia alla possibile perdita in guerra del suo signore, ancora privo di legittima discendenza. L'unanime decisione presa dal consiglio è poi quella di evitare alchimie strategiche sì da uscire in campo aperto contro i ribelli, abbandonando il formidabile ma umiliante riparo delle mura di Tessalonica [ed anche qui si intravede una postazione eroica che, magari con un eccesso di retorica, si giustappone ad una certa cultura storica del XVII secolo propensa ad ogni tatticismo politico e guerresco che possa garantire il risultato massimo con il minimo dispendio di energie e rischi].
Stanze 10 - 12:
Vi si snoda il II catalogo delle forze in campo, quelle rimaste fedeli al legittimo imperatore. La marcia dell'esercito è aperta dal valoroso Artemio, generale della cavalleria, cui seguono il duce Anastasio, a capo di quattromila forti guerrieri, lo stesso Arcadio con la guardia imperiale e quindi, a custodia della retroguardia, Tedaldo condottiero della guarnigione tessalonicense.
Stanze 13 - 18:
Vi si sviluppa l'orazione guerresca di Arcadio, sostanziata in definitiva, secondo una consueta matrice religiosa, sullo scontro tra le forze del bene, le sue naturalmente, e gli eserciti ribelli, eretti con qualche forzatura cromatica ad ipostasi terrena del male metafisico e quindi di Satana stesso.
Stanza 19:
In maniera tanto estemporanea quanto approssimativa la stanza avverte che gli eserciti sono ormai schierati fronte a fronte sì che l'eco delle parole di Arcadio serpeggia anche tra le fila dei nemici.
Stanze 20 - 22:
Catillo, per ribattere ad Arcadio, esorta i suoi in forza di un linguaggio fin troppo ricercato, esageratamente rutilante per l'interlacciarsi di iperboli e metafore: la breve concione, sotto il profilo concettuale, non ha spessore e in definitiva si coagula pedestremente nell'equazione già proposta, e senza alcuna vera esplicazione storico-documentaria, di Arcadio = barbaro tiranno.
Stanze 23 - 28:
Vi si descrive con barocca iridescenza, ma senza autentica vocazione panica ed epica, il fulcro della battaglia. La descrizione dello scontro, sia sotto il profilo dei duelli individuali che dell'urto compatto fra le opposte falangi, sostanzialmente si innerva lungo la direttrice metaforica di eserciti e guerrieri figurativamente equiparati a leoni in fiera lotta.
Stanze 29 - 34:
Introdotta da un nuovo meccanismo di ordine metaforico (il confuso mescolarsi dei combattenti e la crescente confusione della lotta, per il reciproco scompaginarsi delle schiere, viene ora piuttosto suggerito dalla figura decisamente catastrofica di uno scontro procelloso tra opposte forze della natura) si evolve la sarcina che prepara e quindi sviluppa compiutamente il progressivo ma inarrestabile trionfo di Catillo, e quindi dei ribelli: l'organizzazione scenografica è sostenuta abbastanza correttamente da un climax che risulta competente anche per certe risultanze patetiche che riesce a sviluppare.
Stanze 35 - 38:
Contengono, con sufficiente effetto anche cromatico, una focalizzazione su Arcadio, eroico tanto nel combattere quanto nel sostenere i suoi, ormai in rotta. Dopo l'enfasi -quasi necessaria- della chiusa di stanza 37 (con cui si sancisce la vittoria totale dei ribelli) il poeta, altrove ancora piuttosto rudimentale nel sottolineare emozionalità e cifra psicologica dei singoli protagonisti, propone un discreto recupero dell'umanità di Arcadio che, eminentemente, concentra attorno ad un dolente ma non rassegnato appello all'aiuto divino.
Stanze 39 - 43:
Il meccanismo poetico condensa qui su Catillo la sua energia rappresentativa. Si struttura di conseguenza una piramide di supponenza che va dall'esplicitato disprezzo per Arcadio (colpevolmente lasciato però libero di rifugiarsi coi suoi in Tessalonica) ad un vero e proprio delirio di onnipotenza. Metafore ed iperboli, a servizio d'enfatizzazioni tracciate sulla linea obsoleta dei confronti mitologici, mal celano tuttavia come l'autore intenda soprattutto sviluppare (particolarmente nel breve quanto velenoso proclama di Catillo [stanza 42] laddove il registro poetico si inarca con eccessi formali e concettuali di autoesaltazione, quasi che il ribelle abbia conquistato, cosa non vera, la formidabile base di Tessalonica, ponendo quindi fine al potere e all'esistenza di Arcadio) il tema tutto moralistico della vita fugace ed effimera quanto i brevi trionfi (come quello di Catillo, che ha già in nuce l'essenza della putrefazione) che talora ingannevolmente concede.
CANTO III
Stanze 1 - 4:
Contengono il primo affronto all'enfatico protagonismo di Catillo, le cui iniziali illusioni subito si sbriciolano contro le mura della possente Tessalonica che rendono manifestamente inutile l'assedio delle forze ribelli. Varie figure retoriche guidano il lettore a leggere la rabbia impotente di Catillo che, desistendo finalmente dal vano assedio, vilmente si propone di conquistare Tessalonica per via di fame e sete, bloccandone i rifornimenti marittimi e terrestri.
Stanza 5:
Arcadio, cui il poeta ha definitivamente sottratto ogni residuo umorale della pregressa ridondanza guerresca, si abbandona ancora alla preghiera, sperando, con atteggiamento molto umano e sincero, in qualche miracolo, magari in un prodigio impensabile o quantomeno in un monstruum: cioè l'affermazione di quello scarto dalla norma o meglio ancora di quella bizzarra e positiva eccezionalità, tanto celebrata dal costume letterario barocco, che può alterare o modificare i rapporti, contingenti o convenzionali.
Stanze 6 - 37:
L'eccezionalità, in maniera quasi tipica del prodigio, cioè del monstruum classicheggiante se non dell'aretalogia pagana propria dei poemi epici, sorprendentemente si sostanzia con l'ingresso, ma il poeta quasi cerca di renderlo subitanea apparizione, di una bellissima tessalonicense di nome Moscovita che si offre ad Arcadio quale ambasciatrice presso Catillo. Apertamente la donna espone all'imperatore il suo progetto, quello di ammansire con la sua celebre bellezza l'ira dei nemici confondendone i pareri finora unanimi. Il Mirello Mora ha certo presente l'analoga opzione dell'Angelica dell'Orlando Furioso, strumento sensuale di maghi, demoni e mori onde spandere, con stregonesca seduzione, aperta discordia fra i paladini di Carlo Magno.
L'unica differenza concettuale sta (oltre che nell'impasto tematico e nella distanza abissale di portata estetica) nel fatto che Moscovita si propone qui alla stregua di ancella del bene e della giustizia. Giunta nel campo nemico, produce comunque gli stessi effetti di Angelica: i soldati ammutoliscono davanti a simile splendore, i cavalieri impazzano rischiando scontri aperti in singolar tenzone e ponendosi variamente contro Catillo, il duce che, unico, pare insensibile al fascino sensuale del bello e che tuttavia deve farsi vittima delle umane passioni, concedendo la tregua dapprima negata, visto il disordine morale dei suoi generali, più disposti ormai ad inseguire le illusioni del piacere amoroso che a rispettare gli obblighi dell'obbedienza marziale.
Moscovita è in apparenza l'anti-Angelica, vale a dire la negazione del fascino femminile rinascimentale che soltanto confonde e può, se mal usato, generare quel caos intellettuale e morale che è sempre presunzione di adescamenti demoniaci. La bellissima femmina di Tessalonica potrebbe avere quindi una sua cifra angelica, seppur dimensionata in senso barocco su scala epocale di valori assolutamente cristiani, quale icona positiva di una bellezza terrena che, sapientemente usata avverso i malvagi, dissipa le forze e serve il bene.
Ma, come l'Aprosio, anche Antonino Mirello Mora, pur attratto dagli estri della sensualità, in quanto figlio o figliastro di Inquisizione e Controriforma si arresta sulla soglia di un gioiellino concettuale che avrebbe potuto nobilitare, attraverso un'inconsueta per quanto arguta celebrazione della bellezza femminile, il suo modesto poema eroico.
Ed invece, abbandonando il personaggio di Moscovita (una volta che la donna, ritornata da Arcadio in Tessalonica, comunica il successo della sua impresa ed il conseguimento dell'agognata tregua) il Mirello Mora, con improvvisa sterzata concettuale, ritorna pienamente alle costumanze della morale antidonnesca cui appartiene. Per quanto usata a fin di bene la bellezza sensuale, nel suo sistema di pensiero fortemente condizionato da quell'estensione dei dettami controriformistici che in materia femminile fece S. Carlo Borromeo, è larva sempre in bilico tra cielo ed abissi infernali: e così il poeta siciliano, forse intimorito da certe sue postulazioni in materia e peraltro timoroso -come quasi tutti peraltro, alla sua epoca!- di una loro negativa influenza sulla sua condizione di uomo e letterato, non si concede alcuna provocazione veramente arguta o quantomeno degna del miglior Marino.
Moscovita, tornando alle sue stanze, si scorge infatti in uno specchio e si innamora di di quel suo aspetto che, immodestamente e quindi colpevolmente, ha goduto sentir esaltare da altrui lodi(19).
Come un novello Narciso si perde alla fine dentro di sé, in una contemplazione assoluta quanto sterile che la aliena dall'essere donna: finisce quindi, ormai impazzita d'amore per il proprio io fisico, con l'iniziare una vita senza significato nelle camere del palazzo regio, divenuto labirinto dorato ove imprigionare la sua inguaribile domenza.
Il Mora, da cui forse in occasione di questo episodio il lettore potrebbe attendersi qualche soluzione narrativa non ovvia, cade invece proprio nell'abusato delle ovvietà e demotiva la pur relativa originalità delle riflessioni, innescate proprio per la peculiarità dell'episodio, specialmente quando, in chiusa dello stesso [stanze 35 - 37], propone il breve e peraltro comune messaggio moralistico secondo cui la donna bella non solo è fragile come il suo fascino ma, in ultima analisi, è declassabile ad oggetto esteticamente raffinato che esiste in funzione delle esigenze dell'ambito famigliare e istituzionale cui appartiene (20).
Per questo apparato di pensiero la donna bella non è infatti icona assiologica, custodita da leggi inalterabili, ma risulta semmai frutto di un giudizio umano transeunte: così, facendo un passo indietro rispetto alla direttrice del percorso marinista che ha pure intrapreso in merito alle potenzialità sociali e decisionali della femmina fascinosa, il Mora finisce per negare alla donna, naturalmente ad ogni donna e non solo a quelle belle, la capacità tutta maschile, certo strutturata su parametri assolutamente epocali di valutazione, del sapersi gestire in senso critico senza cedere alle pulsioni di sensi che (secondo la tradizione medica nel suo tempo prevalente, quella degli "umori") più facilmente sono soggetti ai condizionamenti sia di stimoli fisici (malattie di vario genere ma anche emotività e tensione psicosomatica) che di interferenze, per così dire, d'ordine metafisico (all'estremo delle considerazioni in auge, leggi pure: condizionamenti e/o adescamenti diabolici).
Stanze 38 - 40:
Coimplicano gli effetti positivi del trionfo umano di Moscovita, la donna che, simultaneamente, trionfa ed è vittima in ragione della sua bellezza. Arcadio, già totalmente dimentico della pazzerella che pure l'ha salvato, disperde gran parte della dimensione umana via via acquisita nello sviluppo del poema. Presto ridiventa uomo di stato, freddamente occupato ad inviare messaggeri per ottenere aiuto, soprattutto dal fratello Onorio imperatore d'Occidente. Privo di notizie recenti non sa che Roma è desolata da varie epidemie mentre Onorio, più che mandare aiuti, deve preoccuparsi di combattere i Goti invasori.
CANTO IV
Stanze 1 - 10:
Seguendo la tradizione rinascimentale di un impasto retorico che il tardo barocco ha recuperato e talora appesantito, la "Fama" di Arcadio, quasi prigioniero in Tessalonica circondata dai ribelli, come personificata rimbomba attraverso le regioni del mondo conosciuto, restando ovunque inascoltata tranne che a Messina, il cui reggitore Metrodoro pone al Senato locale l'angoscioso suo dilemma: se intervenire a salvamento dell'imperatore d'Oriente o lasciare inascoltate le sue accorate invocazioni per non sguarnire di forze la città di Messina da tempo in lotta coi feroci arabi Agareni.
Stanze 11 - 13:
Tra le incertezze del supremo consesso messinese si leva allora la voce ferma del cavaliere Filimarte che, rammentando il valore degli avi Mamertini e la fierezza attuale di compagni ed alleati, induce il Senato a ratificare l'intervento militare richiesto da Arcadio. Moralmente sollevato da tale retorica orazione, Metrodoro, con la ruvidità espressiva dell'autore che ben raramente bada all'introspezione psicologica, in maniera repentina diviene audace, persino baldanzoso e senza esitare (anzi, senza neppure interpellare il supremo consiglio, come vorrebbero le costumanze politiche della democrazia antica) affida allo stesso Filimarte il comando supremo delle operazioni in Oriente.
Stanze 13 - 16:
Filimarte viene prontamente descritto come l'anti-Catillo per eccellenza, quale il perfetto eroe cristiano, cui il Mirello Mora, che (come assodato) risente più di quanto voglia far credere della matrice moralistica postridentina, nemmeno attribuisce tentazioni sensuali od almeno quelle pulsioni adolescenziali e non che, in ultima analisi, hanno conferito nerbo alle più belle figure degli eroi letterari, tanto dell'epica antica quanto dei moderni poemi cavallereschi.
Filimarte sembra già un vincitore alla prima sua apparizione e per questo pare algido, stucchevole, sin spiacevole visto il rigetto impietoso dell'amore che la conterranea Dina gli ostenta.
Il Mirello Mora, alla stanza 15, tira in ballo persino il "Soglio Celeste" e la sanzione divina come massime giustificazioni di questo personaggio che irrompe sulla scena in tutta la sua santificata arroganza, quasi sia mai stato uomo di carne ma semmai predestinato missionario in armi, tragicamente estraneo alla vita vera, che pure gli fluttua accanto con tutte le sue contraddizioni, e per conseguenza destinato ad ergersi, oltre la soglia del plausibile, sin ad acquisire la maschera delirante dell'innocente carnefice.
Stanze 17 - 27:
Dopo un'ulteriore invocazione del poeta alle Muse (dietro cui però si intravedono facilmente le Sante Donne del Calvario) succede un terzo catalogo di guerrieri: quello degli eroi che compongono l'armata di Messina, quasi disposti in rassegna sul porto cittadino prima dell'imbarco.
Sotto il comando di Filimarte avanzano quindi Metrodoro cui segue il "prode" Asturgo il quale a sua volta precede Deliso, l'eroe infelice, che contrasta con Filimarte per l'aspetto dimesso dovuto alla schiavitù d'un amore malvolentieri abbandonato per quell'impresa. Il fulcro dell'esercito, di quattromila formidabili messinesi, obbedisce al "gran Belisario", mentre il duce Barsella guida i suoi cinquemila soldati di cavalleria. Contro ogni verisimiglianza storica il Mora conclude la descrizione dell'armata messinese introducendo un'indefinibile schera di cavalieri erranti. Dopo questa pur fugace concessione a figure proprie del tardo poema cavalleresco, il poeta elenca quindi gli alleati di Messina: Alete "eroe del Popolo Regino" a capo di cinquemila valorosi che già sgominarono i Goti e Polarco a guida delle forti schiere di Trapani.
Stanze 28 - 29:
Contengono l'esortazione di Filimarte alle truppe schierate: le abbondanti iperboli hanno la funzione di sublimare la nobiltà dell'eroismo siciliano e calabrese deprimendo invece al ruolo di briganti e usurpatori i nemici. Dato questo stato di cose, nell'ottica consequenziale del poema, pare implicito l'appoggio divino che Filimarte, a differenza di Arcadio, neppure invoca ma dà sempre per scontato.
Stanze 30 - 46:
La notte plumbea e senza stelle rallenta la partenza e concede a Dina, perdutamente innamorata di Filimarte, il tempo per unirsi all'armata, ben nascosta entro virile armatura. Nella descrizione del suo tormento amoroso (che sembra giusto qui proporre al moderno lettore) il poeta, pur sfruttando stilemi tradizionali, sfoggia una certa abilità formale e soprattutto un qualche sincero coinvolgimento emotivo. Spicca comunque, sempre sulla solida linea ideologica della tradizione morale e culturale della Controriforma, il biasimo del dio Amore [stanze 43 - 44], il nume falsamente ritenuto invitto ed invincibile e che, invece, nell'ecumene cristiano-cattolica nulla davvero può contro gli eroi ligi al dovere ed alla giusta gloria che, primieramente, deriva dal rispetto della Fede:
"L'oscura notte il varco lor trattiene
Mentre niega di stelle aureo splendore,
Del futuro partire il grido viene
A Dina amante, (ed è'l Messaggio Amore)
Sol da la speme astretta il braccio tiene
Al ferir, per provar doppio dolore
Spera, tenta, sospira, hor ride, hor geme,
E sempre al suo sperar vana è la speme.
Ma non s'avvede incauta in tal follia,
Che l'ogetto in mirar vigore acquista,
E con fiamme più l'ange (ahi pena ria)
L'arciero parto di vezzosa vista.
S'avvede, e per pagar la dogli impia
Sprezza quasi la morte, e non s'attrista,
Camaleonte soffre à tal tormento
In sorso amaro l'assaggiarsi il vento.
Quel trà bruno candor di vago viso
Cor' impiaga, alme fura al dolce affetto,
E fa car l'offese, essend'assiso
Amor, ch'in quel rigor versa diletto:
Ma cotanta beltà di Paradiso,
Ch'ell'ha nel chiar'oscuro del su' aspetto
L'ammaggiora la pena, e più la sface,
Ch'Amor a lei drizzò tutta la face.
Ride l'April fra quelle fosche gote
E vi scherzan ogn'hor gigli, e viole,
Di che s'adornan le stellanti rote,
E s'indora, e s'ingemma il capo il Sole,
Cupido le saette à cotal core
Spesso affinar, spesso aguzzar si suole,
Con cui temprate al foco de' bei lumi
Saettando ferisce huomini, e numi.
Di cotal belle luminose bende
Trasse per dimostrar, ch'egli non vede,
Il maestro d'inganni, e pur risplende
Il suo sguardo, ove doppio il lume riede;
Così i cori distrugge, e l'alme accende
L'Argo bendato in lusingar mercede,
E chi vita gli dà, rende schernita,
Amante la fa indegna, e mal gradita.
Hà negli occhi, e nel volto, e notte, e giorno,
Hor forma Occaso, hor'apre un'Oriente,
D'onde il Padre de' lumi avvien, ch'adorno
Splenda, e mostri de l'or chioma più ardente.
Poscia col carro accelera il ritorno
Dal nero stesso, e lucido Occidente,
Tal, che discopre in portentoso caso
Ne l'istesso confin l'Orto e l'Occaso.
De le pupille lampeggianti, oh, come
col pianto ella offuscò l'almo sereno,
Le guancie lacerò, strappò le chiome,
La vestre ancora, e si percosse il seno;
Del bell'idolo suo chiamando il nome
Rallentò di vergogna il nobil freno,
Che parve tramandar l'anima fida,
Fuor del petto per rabbia, e pianti, e strida.
Dimessa, e singhiozzante al fin dicea,
Ove ne vai, crudel, sovra de l'onde?
Per farti scherzo à sorte pazza, e rea,
Et incontrar voragini profonde?
Non sai la possa, tu, de l'onda Egéa,
Che tutto con disordine confonde?
Né stimi il tuo valor, ch'Amore atterra,
E contro pace, ohimè movi la guerra?
O d'aure erranti, zeffiro cortese,
Deh, ferma il corso à le fugaci vele,
Acciò lasci il crdel l'infauste imprese,
E mè non sola ad assaggiare il fiele.
Contumace homicida in far'offese
Baldanzoso ne và lungi il crudele,
Anzi, a mio danno, Amor gli aurati strali
Gli dà per remi, e sarte, e vele l'ali.
Se pur desìo di guerra a me ti toglie
Allettato di speme (ohimè) fallace,
Vieni al Campo del sen, che le tue voglie
Sazie farò trà guerra, armata in pace.
E se ambisci crudel barbare spoglie,
Senza contese, io te ne fò capace,
A che ten fuggi tra volubil'onde,
E me lasci morir tra queste sponde?
La vezzosa d'Amore dolce tenzone
Lasci, per seguitar barbaro lido,
E di sdegno crudel ti fai campione
Con gli Eserciti in guerra, ed a mé infido?
Oh, se pugnassi in dilettoso agone
Saresti à la mia fè costante, e fido,
Ma tu vuoi, lungi d'amoroso impaccio
Provar di morte irrevocabil laccio.
La possanza d'Amore, anco, e di Marte
Egualmente conosco in tal cimento,
E di stragge, e ruina àparte, à parte
Non che d'odio, e d'amor l'aspro tromento;
Se ben tù, mi conosci, ò Filimarte.
E pur mi lasci à sostener lo stento,
Deh, verso Dina, ch'è di pianto herede
Cupido volgi, o garzon crudo il piede.
Quante, hà vinto il mio viso alme guerriere
Col fulminar di sue nere pupille,
E quanti han rotto le mie ciglia arciere
Cor di sasso, son pochi a dir, che mille:
E pur non ponno le tue voglie altiere
Arder del mio Vesuvio à le scintille,
Ahi, che forza d'Amore hoggi non giova,
Che ben veggio al mio mal chiara la prova.
Che giova dunque Amor la tua possanza,
Che il forte Dio ti vanti al Cieco Mondo?
In che 'l tuo impero ogn'altr'imperio avanza
Di Giove in Cielo, e di Plutone al fondo?
Troppo folle se' tù con la speranza
Prole de l'ozio, inutil germe immondo,
Chi si gloria d'haverti hor superato
Col valor del mio cor sarà domato.
Che ti giova esser lince, alto, e possente
Duce di sciocca gente empia, e profana?
Se'l tuo valor contro gli Heroi val niente,
Che ben schermiscon tua saetta vana;
Và ne l'eErebo oscuro, ivi dolente
Applica al pianto la tua vista insana,
Se di larve, e chimere hai tu l'impero,
Lasciar domar a me l'empio guerriero.
Ciò detto, acconcia il crine, e nulla cura,
E mentisce col nome anco il vestire,
E ne le squadre cerca sua ventura,
E brama, chi la fugge ella seguire,
Tal rimedio ritrova à l'aspra arsura,
E languente rintraccia il suo languire,
Vuole seguir la semplice il suo core
Mentre a guerra d'Amor, chi siegue more".
Stanze 47 - 49:
Per descrivere la partenza dell'armata navale ed il suo procedere impetuoso, fra i marosi e nel cuore dei venti, il poeta utilizza con adeguata misura alcune metafore ed altre figure retoriche estrapolate dalla tradizione barocca, senza però, fortunatamente, eccedere in certi stucchevoli capricci deteriori, propri del marinismo ortodosso in merito ad altre descrizioni di questo identico registro poetico-narrativo.
CANTO V
Stanze 1 - 21:
Pare giusto proporre a chi legge queste stanze le quali, in maniera discretamente mossa, sviluppano la sequenza poetica che comporta, in parallelo o quasi con lo scontro fisico delle armate terrene, un confronto metafisico tra le schiere celesti, che naturalmente fiancheggiano gli eroi messinesi, cioè i buoni, e gli eserciti infernali i quali, covando la vendetta per la sconfitta originaria, aspirano al riscatto con questa nuova guerra, troppo fidandosi del valore di Catillo.
In linea generale, il sistema retorico dell'intervento di energie malefiche a sostegno dei cattivi percorre tanto la letteratura agiografica quanto la sua prosecuzione artistica in seno soprattutto alla poetica ciclica e cavalleresca. Il Mirello Mora sotto il profilo tematico e contenutistico non offre quindi alcunché di veramente nuovo, tuttavia la cifra stilistica, pur strutturata su modulazioni espressive comuni nel tardo barocco, si supera rispetto ad altre situazioni, di analoga timbrica oratoria, innestate nel poema. La declamazione del Maligno, forse inconsapevolmente estrapolata da qualche solido esempio di oratoria sacra controriformista, ha un suo pur piccolo fascino, genuinamente emozionale e neppur privo di qualche efficace tensione panica, che in forma varia emerge, forse oltre le aspirazioni stesse dell'autore, da un impianto stilematico di natura esclusivamente né retorica né teologica.
L'andamento retorico e teologico, semmai, diventa greve mimesi d' oratoria sacra minore, d'oratoria di consumo -tanto per comprendere- e certo priva degli impulsi cromatici e quindi artistici propri di quella di un Segneri o d'un Panigarola, dalla stanza 18 donde, poveramente, s'estrinseca l'intervento divino, formalmente sorretto dall'uso dei codici più ovvii e banali tanto della parenesi che dell'agiografia. Il Mirello Mora che, magari inconsapevolmente, nella descrizione delle forze infernali si è sbizzarrito concedendo incolpevole licenza al suo estro personale od alle sue letture, in questo caso perde ogni genuinità, ingabbiato nei conformismi quasi liturgici e letterariamente ben codificati dell'oratoria sacra che, mediamente, si illanguidisce e perde energia stilistica a fronte di ogni descrizione che comporti estatiche rappresntazioni del "Soglio Celeste" e delle sue proficue emanazioni in terra:
Et intanto sorgea col biondo crine
L'Alba, Nuntia del Dì da l'Oriente,
Che versando su i fior le fresche brine
Precorre co' bei raggi il Sol nascente;
Tra lo spumoso Mar prende confine
Mentre a l'opre risveglia ogni vivente
Abbandonando l'oziose piume
Per la virtù del già sorgente lume.
Ricamò co' suoi raggi il cieco Mondo
La lampada del Ciel, diurna luce,
Fugando i sogni, e ogn'altra larva al fondo
De le cimiere grotte il chiaro Duce;
Coronato di lumi il crin suo biondo
La Natura alimenta, ed ei produce,
Fior, fronde, piante, e gli animali ancora,
E le genne, e i metalli, e'l tutto indora.
La frode al fin di Stige à la maggione
Passò insiem con l'invidia, e con l'inganno,
E raccontò con l'horrido sermone
Ogni successo all'Infernal Tiranno:
Come di Zancla i legni à la tenzone
Contra Costanzo in oriente vanno.
Al cui racconto il Reggitor d'Averno
Sorpreso di timor scosse l'Inferno.
Al greve ribombare i negri Numi
Corsero tutti di diverse forme,
Trasformati à lor'uso, a lor costumi,
Chi'n Idra verde, e ch'in Drago biforme;
Chi fatt'Argo raggira i cento lumi,
E chimere, ed Arpie vennero a torme,
E fer corteggio a lor sovrano Duce
Esule eterno de l'eterna luce.
Siede il superbo Rè quasi ad un Monte
Sovra Trono di fiamme, ed ha corona
Di foco, e scettro, e nel'oscura fronte
Ha la vendetta, ch'ad ognor lo sprona:
Qual'iterando in rauca voce l'onte
Etna si fè, che par, che mugge, e tuona,
E da l'arsiccia bocca il negro fiato
Articolò tutto tra sè sdegnato.
Olà ministri, che l'istessa sorte
Meco seguiste, e'l danno ahi non scorgete,
Ecco il Popol Zancleo di noi men forte
Varca Nettun con triplicato abete,
Per dar a' nostri fidi, e stragge, e morte
Spianando i nostri Templli? e non temete!
Ahi non haverem più nò d'Arabi fumi
Il culto, e resterem sprezzati Numi.
Sù l'Empireo pugnammo, e'l nostro ardire
Ben fu notato in quell'aspra battaglia,
Ne meno audaci fomentammo l'ire
Quando spugnar voléam l'alta muraglia,
E se tanto valor venne à perire
In tal conflitto, nova forza vaglia,
Se perdenti Noi fummo il Ciel non rise
Fè le perdite sue se noi conquise.
Forse estinta è fra Noi la gran possanza?
Forse vi pone il fren prisca sciagura?
Benchè ad onta vi sia tal rimembranza,
Se ci vinse il Fattor, vinciam fattura.
Atterriamla sù via, mentre s'avanza
a nostro danno, e'l nostro ardir non cura,
Adoprate fedel l'antica spada,
Acciò tal frutto il Mamertin non goda.
Già giò rimase à Voi l'altro valore,
Che mostraste, pugnado in su le stelle,
Non è estinto nò nò tra quest'horrore,
Non saran mai le nostre forze ancelle,
Spaventi unqua non tema un forte tore,
Di nembi armato, e'l braccio, e di procelle,
Andiamne, al Mar, e ogn'un crollando l'onda
L'Alta Armata Zanclea ne' flutti asconda.
E voi di Dite suppotenti Numi
Ecco il tempo eccitarvi à la vendetta,
Contro chi? contro noi par, che presumi,
E presume, ed ardisce, e l'arme affretta,
L'acque di stagni, e di più fonti, e fiumi
Giungiamo a l'onde, già che'l mar ci aspetta,
Sommergiamo colà l'infausta prole,
Che le nostr'arme rintozzar ci vuole.
Ecco ad un punto nuvoloso, e negro
Il Ciel s'abbassa a battagliar con l'onde,
E minaccian con braccio irato, e fiero
L'esterminio di Zancla in gonfie sponde;
A morte sfida, e chiama ogni guerriero
Pluton sua gran fierezza in mare asconde,
E'l Ciel manda adirato, e tuoni, e lampi
A conturbare i bei cerulei campi.
Indi crescendo l'onde, e le procelle
Onda ad onda accavalla il Mar sdegnoso,
E minaccia naufragio anco a le stelle
Con sua marea nettun spinge orgoglioso
L'onde a spegner del Ciel l'alte facelle;
Assalendo i fedel fiero, e cruccioso
Le navi abbatte, e le ripone a l'ime
sue parti algose, e i picciol legni opprime.
Esce in Campo à la pugna il Mar col grido,
Triton la tromba sua gonfia trà l'onda,
I flutti quai destrier corrono al lido
Spronati di voragini profonde;
E'l Dio dell'acque horribilmente un strido
Mandando al cielo il Regno suo confonde,
Per far palese a l'Auge, che succede
De le salite il precipitio herede.
Mà non han possa già l'onte de l'acque
Bagnar punto di tema il Mamertino,
Che coraggiso farlo al Ciel sì piacque,
L'ire per sostener del mar ferino;
Pur non resta incontrar, se un tempo giacque
Preda fatal d'insolito Destino,
Ne la congiura di Pluton sommerso
L'un, e l'altro riman nel flutto immerso.
Euro vien poi dal Regno de l'Aurora,
Che da' fiati volanti inspira un grido,
Favonio da l'Occaso, esce pur fuora
Per le vele squarciar del legno fido,
E da la fredda Scithia Borea ancora
Lascia l'algente e solitario nido
Sconvolgendo l'Egeo rompe le vele,
Hor fà, ch'il legno appaia, hor che si cele.
Ed Eolo in un volante alza i destrieri,
E comanda Aquilon fiero, e sdegnato,
Vicenda algente Borea i soffi altieri
ancora Noto l'importun suo fiato.
Voglio, dice, ch'armati i miei guerrieri
Disordin l'acque, a stile insusitato,
E rimanga l'Armata absorta in acque,
E ciò detto soffiando, il crudo tacque.
A tal decreto i venti in groppa uniti
Sciolser di Theti il liquefatto argento,
Poscia adunando eserciti infiniti
Accreber spuma à spuma in tal cimento;
Ma rimaser percossi, e in un scherniti
Pluto co' suoi raddoppia il suo tormento,
L'aspra man morde, e la forcuta coda
Per gran rabbia, e dolor per morder snoda.
Il sovrano Fattore, Duce del Mondo
Vide il tutto sortir da l'alte cime,
De l'opre de la terra, e del profondo
Quanto l'oscura Bolgia asconde à l'ime,
Ove non giunse mai raggio fecondo.
Fissò lo sguardo dal balcon sublime,
E Satanno mirò, che l'atre grotte
Lasciate, quasi havea le Navi rotte.
Pronte al suo cenno le celesti Rote,
Ubbidiente à la potenze eterne,
Con lo stuol del le stelle erranti, e immote
Pendono da sue voglie alte, e superne.
Contra sua possa niuna possa puote,
E invan sospinge le sue furie Averno,
Poi che, Pluton, che fu la sù abbattuto
Al Regno del dolor si diè in tributo.
Racchiude ogni possanza in frà se stesso
Iddio del tutto produttor'eterno
Unico in trè persone, uguale ad esso,
Ch'in un sostien l'universale governo,
Manda Michele, il suo Celeste Messo
Che rinserrò Lucifero in Averno,
Qual'a l'acque rendè placida calma
De' Mamertini ad affettar la palma.
Mentre cede del Mar l'aspra tempesta,
Il Popol fido da grazie al Signore,
E l'acqua lieta ond'era pria molesta
Ubbidisce al voler del suo Fattore,
Eolo, che spirava aura funesta,
Guida i fidi ov'agogna il loro core,
Così al Mondo vicenda il ben'e'l male,
Che qual rapido stral dispiega l'ale".
Stanza 22:
Vi si descrive il fausto sopraggiungere dell'armata messinese che, sotto la protezione dell'arcangelo Michele, solca un mare tornato tranquillo e si trova di fronte la flotta del ribelle Assarico.
Stanze 23 - 42:
La narrazione della battaglia, cui il poeta arriva con la solita colpevole frettolosità rispetto a quanto prima narrato, è anticipata dalle orazioni guerresche dei condottieri in lizza. Per primo parla ai suoi Filimarte e quindi gli succede Assarico. Toni vigorosi e cristiani per il primo, una concione rabbiosa in bocca al secondo: tecnicamente non si percepisce nulla di nuovo nella poetica del Mora. Con modulazioni autonome egli organizza comunque discorsi vecchi e generiche quanto abusate esortazioni alla gloria.
L'intensità espressiva aumenta invece nella descrizione della battaglia, nonostante, come detto, lo spirito del poeta messinese non sia affatto epico: v'è comunque da rammentare che la letteratura storica e poetica gli offre qui una miniera quasi inesauribile di esempi cui attingere. Mentre il trionfo del buono, cioè di Filimarte detto ora "aquila del Ciel", è abbastanza scipito, risultano infatti di un qualche coinvolgimento emozionale le stanze 34 - 36 dedicate alla sconfitta d'Assarico che mai si rassegna e lotta da titano fino alla morte, contro la viltà dei suoi, presto in rotta aperta, prima ancora che contro l'invincibile nemico.
CANTO VI
Si potrebbe definire il canto integralmente dedicato all'unica vera digressione, o se vogliamo favola seconda, del poema. Vi si tratta in effetti il dramma di Dina, l'innamorata infelice di Filimarte, già apparsa nel canto IV, aggregatasi sotto le mentite spoglie di cavaliere all'armata messinese col solo fine di seguire il destino del suo amato.
Secondo l'"Allegoria" del canto, tracciata come detto dal marchese Barbabà Giacinto Merello (o Mirello), la cifra di questa digressione sarebbe esclusivamente morale e per la precisione sviluppata come una speculazione etica sugli effetti, spesso contrari alle buone intenzioni , di "Speranza" ed "Ambizione".
Dina, inseguendo la fragile direttrice di un'impossibile speranza d'amore resta invece disillusa da disparati eventi, fino all'inganno estremo, di prestare fede a voci volgari e ritenere Filimarte ucciso per mano d'Oronte.
Oronte, a sua volta, altri non è che la guerriera ribelle Rosalba, la donna che ha alterato gli equilibri cercando la gloria maschile per una sua vana ambizione.
Rosalba rimarrà presto vittima dell'amore vendicativo di Dina, destinata comunque egualmente a perire per le ferite subite nello stesso duello.
Secondo l'"Allegoria" di Barnabà Giacinto Mirello, quindi, la morale estrapolabile dalla favola sarebbe quella che, senza il retto giudizio, sia il troppo sperare che l'abuso di ambizione possono parimenti condurre alla rovina.
Si tratta senza dubbio di un'interpretazione allegorica alquanto cattolica e controriformista, forse addirittura strutturata sulla linea di una certa prudenza di introspezione sia in campo gnoseologico che più estesamente filosofico.
A ben leggere gli episodi di Rosalba (canto I, stanze 30 - 36), di Moscovita (canto III, stanze 6 - 37), questo stesso canto VI e poi ancora il canto VII, che descrive la degenerazione morale e quindi fisica oltre che intellettuale di Costanzo, il supremo ribelle che si rovina cedendo alla sensualità peccaminosa della concubina Rosastra, cui stoltamente giunge ad affidare le sorti di Bisanzio e dell'usurpato impero, è però possibile progettare un più ampio disegno che coniuga tra loro tutte queste drammatiche vicende per poi assorbirle e giustificarle moralmente nel contesto del canto finale, l'VIII.
La cifra globale del poema o quantomeno una delle sue assi portanti è senza dubbio controriformista e neppur tanto indifferente alle restrizioni intellettuali e morali ulteriormente apportate da S. Carlo Borromeo tanto alla ritualità che alla socialità cattolica: fra le più significative postulazioni del Borromeo non a caso è infatti da ascrivere quella condanna antirinascimentale della libertà donnesca e dell'amore cercato oltre i sacri vincoli del matrimonio che si estrinsecò variamente, sublimandosi in una delle sue più innovative realizzazioni, vale a dire la stretta regolamentazione del rapporto tra donna in atto penitente, eppure sempre tentatrice in potenza, e uomo di fede entro lo spazio angusto, ma assolutamente garante dell'anonimato, del moderno confessionale, lo strumento architettonico giudicato essenziale per frenare l'insorgenza di rapporti libidinosi addirittura nell'ambito di sacrestie e chiese.
Per quanto il Mirello Mora si compiaccia, alla stregua dell'Aprosio come di tanti altri eruditi e moralisti di ambiente marinista e barocco, dei funambolismi espressivi resi possibili da ogni poetica variazione sul tema della bellezza femminile, la matrice religiosa e ideologica cui appartiene lo induce volentieri ad una identificazione, spesso mediata ma a volte quasi sfrontata (vedi il caso di Rosastra nel canto VII), dell'amore non tanto con il sentimento ma soprattutto con la sensualità, sensualità che a sua volta trova il referente naturale nella donna, anche quella onesta, come di fatto è la sventurata Dina.
L'Amore per lui è sostanzialmente ipostasi della passione carnale, quindi un demone pagano che trionfa sempre sui deboli (come appunto Dina), sui vanagloriosi (quale è l'usurpatore Costanzo) quanto sui forti (come Rosastra) ma può confondere anche chi lo nega non per scelta morale o ideologica (ad esempio per farsi religioso) ma per condizionamento emotivo al pari di Rosalba che, facendosi uomo dal lato comportamentale e oltretutto svendendosi in maniera anomala come uomo-guerriero, cerca vanamente di celare la debolezza delle pulsioni umorali femminili in un evidente schema di ambiguità sessuale.
Nonostante la riflessione allegorica di Barnabà Giacinto Mirello (o Merello) nella sua semplicità conservi una certa pregnanza l'impressione fondamentale che si evince da questo VI canto, in attenta collazione con varie sarcine analoghe d'altri canti, è una sorta di predicatoria poetica avverso l'amore libidinoso e comunque tutte le debolezze che l'amore può scatenare in qualsiasi individuo, prescindendo dal sesso.
Come si vedrà, la conclusione del poema, che sembra all'inizio e per buona parte apoteosi di Arcadio e della virtù dei messinesi, comporta piuttosto la sublimazione di Filimarte, l'uomo di ferro, insensibile a ogni debolezza per le priorità dei suoi compiti, incapace, lui solo fra tutti, persino di piangere la morte crudele di Dina: così mutatis mutandis, procedendo ben oltre l'antiquaria cronologia in cui l'opera è ambientata, Filimarte finisce per acquisire i connotati del principe ideale della Controriforma cattolica.
Indenne alle lusinghe del contingente ed esclusivamente motivato dalle esigenze del suo ruolo addirittura patriarcale in senso strattamente biblico, Filimarte diviene l'icona utopica di quell'uomo ideale che i teologi della Controriforma, in cooperazione con i teorici di un certo revisionismo sociale e politico, propongono più volte ed a vari livelli naturalmente (dall'idea assoluta del "principe ideale" sin al particolare domestico dell'"ideale padre di famiglia"), finendo tuttavia con l'esorcizzare in più circostanze, per una sorta di spietata legge delle contrapposizioni, ibridi umani in cui la schiavitù alle convenzioni ed ai compromessi maschera invece ipocritamente, e in malo modo, un'irrinunciabile attrazione per certe inquietanti e morbose curiosità dell'attrazione erotica.
Stanze 1 -4:
Le stanze vanno a costituire un idillio: il sorgere del sole sentenzia il trionfo della luce sulle forze oscure dissipate dall'intervento divino.
Stanze 5 - 7:
Dina, imbarcatasi su una nave destinata a naufragare, si salva e raggiunge con una scialuppa la costa, fermandosi sfinita presso uno scoglio. Qui si riposa ma, assalita dalla stanchezza, presto si addormenta venendo però assalita da incubi paurosi che le preannunziano la fine violenta di Filimarte: i sussulti del sonno agitato da tanta angoscia svegliano la donna che resta però come inebetita e indifesa.
Stanze 8 - 11:
Una santa donna, un'eremita (che ha per certi aspetti i caratteri della santa donna tardo medievale, figura di femmina religiosa che sceglie la segregazione nella circoscritta ma pia dimensione della casa) giunge all'improvviso su un battello come un vero e proprio deus ex machina. Ella soccorre prontamente la povera fanciulla conducendola nella sua non lontana capanna: qui la ristora e quindi, appena la sventurata ha ripreso un poco di energie, le chiede di confidarle le sue sventure. Dina narra allora la sua origine, il motivo della sua venuta e afferma, ancora una volta, di esser vittima di Cupido che l'ha condotta fin qui all'inseguimento di un amore che le provoca solo infelicità.
Stanze 12 -14:
L'eremita, dopo aver consolato Dina riferendole che Filimarte è salvo con tutta l'armata, mostra alla giovane l'autentica dimensione edenica di quel suo rifugio, ove la pace dell'animo si intreccia con una bellezza naturale incontaminata che rimanda a splendori ultraterreni. Il messaggio letterario di superficie a livello connotativo si amplifica e coimplica, divenendo più che una postulazione dell'idillio classico una proposizione tipicamente controriformista e quindi soprattutto morale di quella mimesi cristiana dell'Eden che, nella propaganda della fede, è costituita dalla vita claustrale. Il moto liturgico e monastico dell'episodio è infatti sotteso su una traccia di segnali che alludono al meccanismo devozionale, caritatevole e quindi confessionale della suora che soccorre la giovane donna perdutasi fra le lusinghe della vita secolare e cui, finalmente, propone di raggiungere la pace dell'animo rifugiandosi entro il cerchio mistico del convento (opposizione scontata al cerchio magico od estremizzazione diabolica e stregonesca delle vita mondana) il cui centro ideale è poi il giardino del chiostro, esemplificazione di simbiosi tra natura e operosità umana illuminata dalla provvidenza (e contestualmente antitesi del giardino del piacere, il luogo architettonico sempre più in auge presso i palazzi dei potenti, l'ambiente riparato da occhi poco discreti, l'oasi di disinibizione in cui perdersi è quasi una costante per molte fanciulle)
Stanze 15 - 18:
La descrizione da parte dell'eremita di un poeta che poco lontano vive, senza ambire a glorie terrene, un rapporto ontologico con l'universo di per sè potrebbe sembrare consequenziale al tema, appena affrontato, del luogo pio che favorisce sia la pietà cristiana che l'onesta creatività artistica. Urta però, a ben leggere, l'intrusione ruvida di una vena polemica in apparenza generalizzante e metastorica ma che, dopo una rapida decrittazione, risulta all'opposto ben storicizzata e malamente mascherata sì da essere decifrabile senza troppi problemi.
Nel solitario e buon poeta è infatti costruito l'archetipo abbastanza improbabile del poeta incompreso, che vive beato lontano dalle falsità della vita mondana. Il tutto, fuori delle banali astrazioni favolistiche, appare presto un ingiustificato rimando al contingente del Mirello Mora, quasi eletto ad ipostasi del poeta osteggiato per il suo andare avverso la corrente dominante ed alla moda (per un confronto si può leggere anche il brano proemiale alla pp. 11 - 12).
Stanze 19 - 20:
Fortunatamente l'autore dimensiona la precedente digressione polemica entro uno spazio contenuto sì da non perdere di vista l'argomento di questa sua favola seconda. Dina interrompe però l'orazione consolatoria dell'eremita nel contesto di queste due stanze abbastanza vivaci sotto il profilo stilistico e sentimentale. In maniera coerente ed efficacemente concisa l'autore sottrae la donna, infelicemente innamorata, a qualsiasi banale o moralistica soluzione dissuasoria. Mostrando persino qualche proprietà di introspezione psicologica il Mirello Mora fa anzi pronunciare a Dina una frase emblematica quasi un suggello al dramma inevitabile, quanto pressoché universale, della passione amorosa: "...donna, ah taci, ch'il mio core/ Màl può fuggire coi tuoi dettami Amore./ Non è d'human voler l'esser amante/ Chi scacciar vuol l'Amor, sforz' il Destino".
Stanze 21 -23:
Commossa o forse impotente a fronte del drammatico destino della fanciulla, la santa donna le indica, come richiestole, la via per Tessalonica onde raggiungere Filimarte: procura un cavallo e persino la splendida armatura lasciatale in pegno o dono da un cavaliere da lei già ospitato. Il complimentoso commiato fra le donne e la nuova immagine di Dina, fin troppo sveltamente trasformatasi da fanciulla tormentata in ardita guerriera, costituiscono, come l'intiero organismo stilistico e tematico di questa microsequenza, una stonatura, cioè uno di quei deprimenti svolazzi pseudopindarici cui il poeta messinese s'appiglia in più di una circostanza, vista l'endemica sua incapacità a sviluppare il discorso in modo poeticamente armonioso entro le intersezioni ovviamente necessarie onde garantire un continuum strutturale, logico e consequenziale fra epsodio declinante e nuovo procedimento tematico - narrativo.
Stanze 24 - 30:
Le stanze, un po' oscuramente, introducono chi legge a visualizzare la battaglia in atto sotto le mura di Tessalonica. Rosalba, la ribelle negatrice del suo sesso, domina in qualche modo la scena ma, come già riscontrato, al Mirello Mora manca un'autentica vocazione epica. Senza plagiare i grandi ne percorre comunque tutti i più celebri episodi guerreschi (si sente per esempio l'influsso della "Clorinda" del Tasso) ma li elabora comunque a gran fatica e con scarsa originalità. La vittoria in singolar tenzone di Rosalba sul messinese Asturgo è descritta con evidente stanchezza intellettuale e la conclusione del duello (coi combattenti, l'una trionfante e l'altro gravemente ferito, che si riparano nei reciproci padiglioni) è priva di qualsiasi novità: in queste stanze si rielaborano quasi tutti i modelli della tradizione ma senza slancio, forse senza nemmeno più credere, come in precedenza, alla propria autonomia di poeta epico od eroico.
Stanze 31 -37:
Dina compare all'improvviso, come un artificioso deus ex machina ed al modo scenograficamente meccanico cui il Mora spesso si attiene. Vedendo sconforto nel campo di Filimarte e prestando fede alle prime, confuse voci, la donna crede che il ferito a morte sia il suo amato, non Asturgo. Come una furia, spinta dal desiderio di vendetta, si reca al campo nemico e sfida il vincitore del duello, ignorando che sotto il nome d'Oronte si cela l'umorale Rosalba che, a sua volta, non può pensare che quell'audace cavaliere sia una fragile donna. Senza pretendere qui il pathos che il Mirello Mora, per indole poetica, non sa generalmente creare, ci si aspetterebbe perlomeno la descrizione di un combattimento iridescente, prolungato nel tempo e in cui (alla maniera mascheratamente erotica della Grillaia aprosiana se non proprio -il che sarebbe davvero pretendere troppo- nei modi deliziosamente erotici del Tasso) attacchi, ripiegamenti, allacciamenti di membra in tensione potrebbero esorcizzare una fascinosa metafora di rapporto sessuale, qui spendibile in modo ancora più eccitante che nella tradizione (per esempio nella Gerusalemme Liberata lo scontro 'eterosessuale' fra Tancredi e Clorinda) per l'ambiguità che sottende lo lotta, sempre appassionante per i lettori, fra due donne, che, anche quando son coperte di armi e ferro, mal celano, per la fluidità o l'armonia naturalmente insita nelle movenze, i segreti delle loro grazie nascoste ed offrono sempre una qualche idea di piccante sensualità.
Invece, accennando solo alle perniciose passioni terrene delle due fanciulle, l'ambizione e l'amore, il poeta chiude l'atteso fracasso della pugna in una manciata di parole, facendo pariteticamente, al primo scontro, crollare a terra moribonde le deludenti eroine.
Di conseguenza il tessuto narrativo risulta poverissimo e smunto, certo privo di ogni epicità: lo stesso autore offre l'impressione d'esserne consapevole e in definitiva suggerisce l'idea che, dopo aver costruito una montagna con tutta quella pregressa ridondanza guerresca, la sua vigoria poetica, all'atto del duello, volutamente partorisce appena un topolino onde non vanificare la portata del conseguente discorso moralistico.
Forse per questo, liberatosi con la subitanea morte delle contendenti dal periglioso impaccio di qualche involontaria trasgressione poetica (magari indugiando troppo su armature distrutte che lasciano intravedere eccitanti particolari anatomici) il Mora ricuce con fretta ogni speculazione guerresca nell'assioma, a questo punto abbastanza prevedibile, che la bellezza femminile, capace di sedurre ed incantare se ostentata, appena decade col tempo od è velata per qualche contingenza nulla può a salvaguardia di un sesso nato per le cure dei figli e della casa, non certo per le gesta clamorose, guerresche e non: ragionamento indiscutibile sotto il profilo della morale controriformista ma certo deludente dal lato poetico, tenendo soprattutto conto delle folgoranti possibilità descrittive fornite dall'idea rivoluzionaria di una lotta finalmente fisica, e non solo intellettuale o cortigiana, fra due femmine parimenti accalorate dalla passione.
Stanze 38 - 43:
Rosalba svanisce colpevolmente dalla penna del Mora ma il suo è un destino in fondo già annunciato nei canti precedenti: è l'oblio che accompagna sempre chi sfida le leggi della natura e del sistema sociale di cui fa parte.
Il poeta si occupa invece delle esequie della compianta Dina (ma stupisce che non accenni, perlomeno, alla sorpresa dei messinesi -e soprattutto di Filimarte!- nello scoprire, entro la pesante armatura, il corpo della bellissima donna, ritenuta ben al sicuro nella lontana Zancle).
La descrizione di feretro, onoranze, esequie (compresa la liturgia funebre) risulta pomposa ma ancora una volta priva di brillantezza.
A chiosa del tragico evento Filimarte come massimo duce esorta i compagni a non versare più lacrime ma semmai ad onorare l'indole guerriera di Dina. Ad ulteriore prova del suo animo, ignaro di passioni amorose e imprigionato nell'archetipo del sublime persecutore degli infedeli, l'eroe si china quindi a "scrivere" (!) sulla tomba di Dina la seguente frase [stanza 43]:"...qui giace il semprevivo fiore/ De l'animoso ardir, che chiara tromba/ Sarà qua giù del feminil valore./ Vergine bella, cui virtù rimbomba/ Fin dove ha vita e Febo more./ Peregrin qui ti ferma e con l'inchino/ L'onore onora...".
Il che, a ben guardare, sembra la beffa più atroce per la povera Dina, recatasi in guerra per amore, morta sempre per amore di Filimarte e da questi, finalmente, presa in considerazione per ricompensarla non di affettuoso compianto, come ci si aspetterebbe, ma d'una commemorazione degna quasi solo di guerrieri antichi, esclusivamente anelanti a quella gloria militare contro cui proprio Dina ha tanta avversione (ed a prescindere dagli influssi manieristici o dalla ripresa d'una modulazione petrarchesca, è indubbia qui l'interferenza contenutistica ed espressiva addirittura del greco Simonide, nel ricordo del suo celebre epitaffio per i Lacedemoni caduti alle Termopili!).
CANTO VII
Nel canto prende corpo la seconda digressione del poema: si tratta però solo relativamente di una favola seconda in quanto la narrazione ha economia basilare nel progresso della storia principale o favola prima. Vi si tratta infatti la degenerazione morale e quindi l'anticipata fine dell'usurpatore Costanzo il quale muore, pur continuando a vivere, tra le braccia della concubina Rosastra, figura nuova che simboleggia il potere di condizionamento esercitato, sugli uomini in generale e comunque sui potenti di animo fragile, dalle grazie sensuali della donnesca ambizione di potere.
Il canto è strutturato sulla matrice di una consolidata tradizione poetica che, solo per restare ad esempi eclatanti, si estende dall'episodio di Armida e Rinaldo nella Gerusalemme Liberata al monumentale e metaforico "Giardino del Piacere" dell'Adone ove Venere, cioè la donna bella e sensuale, inizia alle esperienze molteplici del godimento l'amante adolescente, anticipandone senza volere la corruzione tanto spirituale che fisica.
Una vasta processione di immagini poetiche interattive, che esorcizzano interscambi assolutamente barocchi fra parole, suoni, immagini ed architetture, ambienta gli amori lussuriosi di Costanzo e Rosastra nelle geometrie del palazzo imperiale di Bisanzio e quindi nelle alchimie del suo splendido giardino.
Questa è la sede vera della passione che travolge il tiranno: Rosastra sa usare bene l'ambiente in cui si muove da perfetta cortigiana, ne fa anzi uno spazio rigorosamente delineato che all'apparenza costituisce il rifugio paradisiaco ma che in effetti deve catturare la coscienza dell'usurpatore nella gabbia straniante delle magie sensuali.
Non si può qui negare al Mirello Mora una variabile di introspezione ed una disanima polemica che giunge nuova.
Assodata, come detto la sua posizione antidonnesca, è tuttavia fuor di dubbio che l'autore, accostandosi per certi versi più al Tasso che alla poetica misogina secentesca, in primo luogo struttura qui argutamente una condanna morale e sociale non tanto della donna in generale quanto della concubina ambiziosa, della cortigiana che con le sue grazie ben vendute piega l'uomo di potere verso soluzioni per lei vantaggiose ma causa di rovina tanto per le istituzioni che per le private fortune.
In questa intuizione, peraltro non esente da fondatezza storico-documentaria, il Mora, condannando in seconda istanza le maschili debolezze, solleva una polemica non capziosa e comunque discretamente sostanziata sulle intrusioni di donne belle e assetate di potere nella vita delle corti, quindi nella politica di ogni epoca, non soltanto della sua.
Scorrendo con attenzione il tessuto poetico organizzato dal Mirello Mora, a parte l'emergenza facilmente percepibile che il suo registro migliore è quello idillico ed amoroso, si individuano alcuni nuclei tematici che permettono di decifrare questa sua pur mascherata polemica avverso le donne che usano bellezza e sesso per assimilare grandi privilegi.
I nuclei si scoprono con evidenza ogni volta che compare sulla scena, sempre diversamente degenerato, l'usurpatore Costanzo.
Rosastra in fondo è solo l'icona, data per scontata, della cortigiana ambiziosa e, per quanto vibrante di tensioni pittoriche e sonore, il giardino imperiale è solo l'ambientazione casuale di una fra tante altre possibili cornici di caccia per siffatto genere di donne: dalle antichissime corti pagane ai dilettevoli labirinti estetici dei palazzi signorili rinascimentali, a quelle sublimazioni edeniche e dilettevoli che sono e saranno i giardini delle corti moderne, e di cui, poco più tardi Versailles costituirà l'esempio estremo, sin ancora agli spazi esclusivi dell'oggi, spesso racchiusi entro ambienti tanto rigorosamente governati dalla tutela, anche arrogante, del privato quanto astratti dalla positiva variabilità dell'esistenza.
E Costanzo è il maschio, potente per ancestrali costumanze del patriarcato, via via ridotto ad inebetita mansuetudine.
Alla stanza 2 si legge di lui:"...mentre Rosastra a quel sue luci porge/ Sprezza la Monarchia, solo in lei spera/ Dolci imperii goder e non s'accorge/ Esser difetto il letto e quei vivaci/ Giri d'occhi saette e tosco i baci...".
Poco oltre alla stanza 4 il dio Cupido, formidabile anche sui potenti se privi di saviezza,: "...di Costanzo rimette ogni arroganza,/ Giù tanto il calca quanto in alto spera/ Poiché a Rosastra soggettato dona/ Con la vita lo scettro e la corona".
Qui non importano granché gli effluvi erotici entro cui, nello splendente giardino, i due amanti consumano la loro passione erotica.
Importa assai di più quanto succede da stanza 5 a stanza 10 laddove il poeta descrive con argutezza, derivata forse da erudizione se non addirittura da diretta cognizione, l'arte cortigianesca del sedurre un potente col labirintico inganno femminile dei vezzi contrastanti e delle ritrosie che lasciano intendere un cedimento prossimo nel tempo ma comunque sempre da 'pagare'.
Il risultato finale di questo meccanismo sofisticato di seduzione è quindi ben concentrato nelle stanze finali, la 33 e la 34: "Tutto gode Costanzo e nulla cura/ Di Scettro, di Corona e Maestade/ Rosastra prezza, ogn'altro ben trascura./ E non cerca imperare altre contrade,/ Cieco non vede che'l suo nome oscura/ Involto al senso, pien di vanitade/ Che per cibar quel folle suo pensiero/ L'infame affama il nome e pur l'Impero/ Così spende la vita in molle stile/ Fra l'ozio involto e stima alta fortuna/ L'imperar sozzamente e darsi il vile/ Di Donna in braccio, a trastullarsi in cuna...".
In questa chiusa, certo pregna di sviluppi linguistici discutibili, si condensa comunque l'assunto polemico sviluppato dal poeta. L'usurpatore, che fu capace di ribellarsi al valoroso Arcadio, è ormai un inetto, ai piedi della concubina ambiziosa, è addirittura ben altro uomo dal guerriero che fu, un indegno oramai che non si riscatterà neppure nella morte quando, inseguito da Filimarte per il palazzo regio di Bisanzio, tremebondo, altro non saprà fare che suicidarsi gettandosi da un'alta torre [Canto VIII, stanza 58].
E tutto ciò egli vergognosamente farà in antitesi proprio con Rosastra che, non volendo perdere il regno conquistato in forza delle sue grazie [canto VIII, stanza 44], s'affida ad una schiera di bellissime amazzoni che incarica di sedurre i messinesi ormai vincitori [canto VIII, stanze 45 - 50] e che alla fine, caduta questa fragile illusione, ha almeno il coraggio o la rabbia di affrontare, mascherata da cavaliere, il forte Filimarte, restandone facilmente uccisa.
La costruzione poetica del Mora non è certo senza pecche neppure in questa sua barocca postulazione dei potenti avviliti dalla seduzione femminile. Ma la narrazione ha un suo fascino storico, diventa quasi una denuncia e non tanto dell'essere donna o donnaccia ma dell'essere donna che raggiunge il potere con le armi scorrette della sensualitatà estremizzata.
Verrebbe da dire che questo del Mirello Mora non è poi un gran contributo alla confutazione della misoginia: le donne come potrebbero in qualche modo governare o contare davvero qualcosa se non ricorrendo a siffatte loro arti!
Eppure, rispetto a certe volgarità epocali su cui si è già scritto, per cui la donna è primieramente una voragine di libidine senza pensamenti critici, il Mora un passetto avanti di sicuro lo fa.
Almeno, al pari o forse ancor più della femmina che si prostituisce ai fini del potere, colpevole schiava d'ambizione certo ma senza dubbio intelligente o furba calcolatrice, senza nemmeno troppi ricorsi dell'autore all'artificio retorico della dissimulazione, è proprio l'uomo di potere che qui, invece, si fa ridicolo al mondo per la palesata debolezza spirituale e morale del suo sesso posto di fronte ad una bellezza tentatrice.
E tenendo conto dei molteplici casi in circolazione nel '600 -alquanto celebre fra gli eruditi il rimbambimento di Pietro Michiel a causa d'una bella concubina - non si può disconoscere al Mirello Mora una sana dose di coraggio nell'intaccare quell'universo maschilista, soprattutto aristocratico ed alto-borghese, che, per quanto non determinante al pari di Inquisizione od Indice dei Libri Proibiti, può sempre apportare ben gravi ambasce a quei pubblici, poco importa se poetici, detrattori che ardiscano violarne qualche squallida "segretezza" sessuale rendendola di pubblico dominio (21).
CANTO VIII
Per quanto possa sembra strano, questo canto, il più esteso del poema e soprattutto quello conclusivo, non abbisogna di particolari considerazioni critiche.
In fondo, come si è visto, tutti, o quasi, i canti precedenti lo hanno presupposto quale un'irrinunciabile conclusione od ancor meglio alla stregua d'una inevitabile morale della favola: nel corso delle diverse analisi, anzi, è stato addirittura necessario, in più d'un caso, collegare certe postulazioni con le risoluzioni concentrate appunto nel canto finale dell'Arcadio Liberato.
In siffatta conclusione del poema, mentre vengono scanditi alcuni principi variamente elaborati a priori dal Mora (la vacuità dell'amore terreno, l'eccellenza della religione cristiano-cattolica, l'ineluttabile distinzione storica e morale dei ruoli fra donna ed uomo ecc.), vi si ribadisce l'icona di Filimarte, il condottiero messinese simbolo di ogni ideale uomo di potere che, immune quanto indifferente alle miserie (ma anche alle grandezze!) della vita di tutti i giorni, realizza il suo aristocratico "programma di gloria e di fede".
Quando scrive di Filimarte -e in fondo lo si è già sottolineato- in effetti lo stesso poeta non pare esaltarsi, dà semmai l'impressione di sentirlo, già lui stesso, uno stereotipo abbastanza forzato: eppure, prescindendo da queste considerazioni, il Mora non abdica mai a quel sostanziale monolito che è Filimarte, perché proprio Filimarte è lo stereotipo funzionale a tutto il sistema moralistico del poema, la figura ideale, per quanto storicamente ed emozionalmente improponibile, su cui giammai possono abbattersi gli strali di possibili detrattori.
Filimarte è in ultima analisi l'uomo che, fuggendo le limitazioni terrene, ha liberato Arcadio e ridata unità all'ecumene cristiana, è il generale prodigo che lascia il bottino della vittoria sui ribelli ai propri uomini, è il condottiero che neppure si esalta per le pubbliche ovazioni ma [stanza 69] "approdato" in Messina, che di tanta fama ha illustrato nel mondo, "...in piedi sorto/ Gli onori accoglie e più l'onor rincalza/ E genuflesso a terra in atto pio/ Rende con umiltà le grazie a Dio".
Quest'uomo grande, forte, intentabile, religioso quanto prodigo è per molti aspetti un uomo improponibile ma, nonostante la sua sostanziale irrealtà, costituisce il personaggio che giustifica tutto l'Arcadio Liberato, comprese le digressioni erotiche, non escluse le citazioni mitologiche meno infrequenti del preventivato: con un simile eroe che sorregge il poema intero, nessun ufficio inquisitoriale potrà mai negare al Mirello Mora l'imprimatur e, con questo, il lodevole giudizio di avere creato, coniugando i principi poetici del delectare e del prodesse, il 'perfetto eroe della Controriforma o quanto meno di una certa e comunque vasta interpretazione, rigidamente moraleggiante, della Controriforma'.
A leggere la menzionata "Allegoria del Poema" di Barnabà Giacinto Mirello (o Merello), Filimarte risulta programmaticamente, oltre ogni dubbio, il solo eroe positivo a tutto tondo del poema, il solo autenticamente degno di ispirare ogni comportamento, civile e religioso, tanto dell'onesto cittadino quanto del giusto principe.
Che poi Filimarte non piaccia è un altro discorso ancora, su cui pure mi sono soffermato: in maniera funzionale alla sopravvivenza del poema, dove il poeta può comunque permettersi di rassegnare e magari sottolineare l'artistica grandezza di certe meschinità umane, Filimarte è quindi, soprattutto, il cattolicissimo ed enfatizzato lasciapassare, agli occhi di revisori e censori ecclesiastici, di ogni scelta tematica e poetica dell'autore.
Certo spicca, per esempio, assai più la figura del ribelle Catillo che "sprezza" la resa, che nella battaglia di Tessalonica "qual barbara fiera a la battaglia s'avventa" contro l'esercito di Filimarte per farne strage: Catillo attrae certamente di più, di qualsiasi epoca sia il lettore di questo poema, e figurativamente a suo modo trionfa sull'eccelso rivale anche quando, nella mischia furibonda, si scontra con Filimarte e benché battuto, atterrato e sanguinante, continua ad alimentare la sua titanica ira, senza cedimenti o paura, bestemmiando Dio e l'impero, fin al momento stesso in cui il pio quanto algido rivale lo colpisce definitivamente a morte.
E in tale graduatoria di preferenze umorali, assieme a Catillo, sopravanzano Filimarte, nei gusti d'ogni lettore, anche Dina o Rosalba come pure Rosastra e persino Costanzo, così tormentato dalle serpi morali del tradimento e della cupidigia: addirittura Arcadio, via via personaggio sempre più smunto e privo di vigore, ha slanci d'umana debolezza che possono intenerire.
I "supereroi", per usare non impropriamente un neologismo fumettistico, sono spesso fastidiosi, meno coloriti e frequentemente meno simpatici dei loro folkloristici nemici.
Ma i "superereroi" di ogni epoca, dall'antiquato e controriformista Filimarte per giungere, attraversando le letterature e le Muse dei tempi nuovissimi, sino al monotono "Batman", l'uomo pipistrello, che distrugge il fascinoso ma destabilizzante criminale detto "il Pinguino", sono, per gli autori che devono produrre come per il sistema sociale che di quelle produzioni si avvantaggia giustificando il suo esistere, i garanti contro ogni aggressione ideologica: e, del resto, come dimenticare, negli anni più gelidi della "guerra fredda", il "supereroe" dei buoni sentimenti statunitensi, quel "Topolino" di Walt Disney il cui successo dipese proprio dalla continue contrapposizione fumettistiche, con le conseguenti sue vittorie, a "Gambadilegno" la perfida icona del presunto imperialismo sovietico?
Ogni epoca in fondo ha le sue "Controriforme", a volte basta leggere oltre le postulazioni accademiche della retorica per scoprire parallelismi tanto sorpendenti quanto efficaci: in ogni tempo qualsiasi sistema socio-economico egeminizzante, attraverso la pubblicistica di cui dispone e quindi su scale informative estremamente varie, si avvale di qualche icona umana da proporre come perfetto esempio dell'individuo che lo simboleggia e che è comunque da imitare o seguire proprio per garantire la conservazione del regime in atto.
I risultati sono magari altalenanti, l'efficacia non è sempre la stessa: certamente i Media attuali possono fare dell'eroe buono, per il sistema cui appartiene e che lo ha prodotto, qualcosa di infinitamente più efficace dei tanti Filimarte proposti da tanti autori oggi dimenticati assieme ai loro poveri libri ma la sostanza del discorso è identica.
Filimarte è e sarà per sempre l'"eroe senza cedimenti o dubbi", l'anti Rinaldo del Tasso se vogliamo, e poco importa se sarà personaggio piccolo, da dimenticare e poi magari riscoprire: egli costituirà per l'eternità il messaggio di un certo tipo di società (con tutte le implicazioni culturali e religiose) che si difende anche tramite la sublimazione letteraria, artistica o spettacolare di "campioni", anche forzosamente imposti, ma comunque sempre "eroicamente e magari ottusamente difensori del suo stesso esistere".
Che poi il Mirello Mora rinunci nel poema a sviluppare altre tematiche, che colpevolmente si fermi sulla soglia di un erotismo ambiguo ma potenzialmente coinvolgente o che esprima, senza giusti approfondimenti, una sua curiosa eppur pungente rivisitazione dell'antifemminismo in voga nel tempo è altra cosa, su cui ho già scritto: al Mora appartengono le intuizioni, le occasioni perdute, forse le tribolate aspirazioni a un modo diverso di vivere ma mancano parimenti il coraggio e la vis per sviluppare quelle stesse intuizioni.
E per questo forse, forse soprattutto per questo, nonostante alcuni suoi spunti mai veramente analizzati ma degni quantomeno di attenzione, il poeta è caduto presto, con la sua opera, nel dimenticatoio: per la mediocrità sì, ma per una mediocrità che in gran parte deriva dalla mancata qualità morale sia di cogliere le occasioni che si debbono afferrare per tempo quanto di soffrire, come altri, la diversità di alcune proprie opinioni esposte, contro ogni interessata o bigotta dissuasione, a fronte del sistema sociale di appartenenza.
E...in definitiva -fenomeno assolutamente vero che ci suggerisce il disorganico atteggiamento ideologico del Mirello Mora ma di cui ancor più forse partecipano con l'Aprosio tanti altri letterati coevi più o meno famosi- "...il coraggio, uno non se lo può dare!", tanto per usare una celebre espressione del manzoniano e seicentesco Don Abbondio nel XXV capitolo de I Promessi Sposi: ed è fuor di dubbio che nel fumoso ed a volte feroce XVII secolo per esprimere un'opinione fuori posto, che magari può comportare l'esilio sociale, il bando dall'accademismo ufficiale, addirittura la morte letteraria se non addirittura la persecuzione giuridica e fisica, il coraggio non deve certo mancare, quel particolare coraggio a tutela della propria autonomia critica che -e peraltro nemmeno è una gran colpa- mediamente manca agli eruditi del seicento, ridotti dalle contingenze di storia e politica a ritagliarsi spazi sempre più angusti e traballanti entro l'architettura spesso morlamente tortuosa dell'unica esistenza passabile per un letterato di medio valore, quella servilmente convenzionale offerta dalle Accademie, a patto di accettarne supinamente tutte le interazioni di convenzionalità religiosa e sociale che ne garantiscono dapprima l'istituzione e poi ne consentono una mai facile esistenza (22).
NOTE
1 - M. VITALE, La questione della lingua, Palermo, Palumbo, 1978, p. 792, nota 1.
2 - [A. APROSIO], La Biblioteca Aprosiana. Passatempo autunnale di Cornelio Aspasio Antivigilmi, tra i Vagabondi di Tabbia detto l’Aggirato, Conte Palatino..., Bologna, per li Manolessi, 1673, pp. 430 - 432.
3 - A. MIRELLO MORA, Discorsi della lingua volgare, a cura di M. Vitale, Palermo, Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani,: ora in M. VITALE, La Veneranda Favella, Napoli, Morano, 1988: al commento di tale autore peraltro si rimanda il lettore per le scarne informazioni bio-bibliografiche non proposte in questo mio lavoro.
4 - C. MARAZZINI, Le teorie in Storia della lingua italiana. 1. I luoghi della codificazione, Torino, Einaudi, 1993, p.262 e nota 35.
5 - L'italiano nelle regioni - lingua nazionale e identità regionali, a cura di F. Bruni, Torino, UTET, 1992, p.819.
6 - G. VENTIMIGLIA, Il primo discorso intorno al primato linguistico e poetico dei Siciliani, a cura di G. Cusimano, in "Bollettino del Centro di Studi Filogici e Linguistici Siciliani", 1986, 15, pp. 331 - 372.
7 - A. M. MIRELLO MORA, Discorsi della lingua volgare..., cit.
8 - B. DURANTE - A. MASSARA, La Biblioteca Aprosiana, Cavallermaggiore, Gribaudo, 1994. La pubblicazione bilingue (italo - francese) è forse il testo più completo (anche per l'apparato bibliografico) e facilmente reperibile al fine di percorrere la fasi salienti della vita e dell'attività letteraria di Ludovico Angelico Aprosio.
9 - [A. APROSIO], La Biblioteca Aprosiana..., cit., p. 179.
10 - B. DURANTE, Angelico Aprosio il "Ventimiglia": le "carte parlanti d'erudite librarie", in "Quaderno dell'Aprosiana", N.S., I (1993), pp. 67 - 68. Nel vasto numero unico è in parte pubblicato il già inedito Scudo di Rinaldo II il cui manoscritto originale, pronto per la stampa, giace nel "fondo Aprosio" della Biblioteca Universitaria di Genova: il capitolo XI dell'opera, originariamente dedicato a Giovanni Ventimiglia, custodisce molte osservazioni sui rapporti intercorsi fra questo, l'Aprosio ed altri eruditi intemeli tra cui lo storiografo G. Lanteri.
11 - A. APROSIO, La Biblioteca Aprosiana..., cit., p. 430.
12 - Ibidem, p.XXX.
13 - A dimostrazione della dispersione delle opere di questo autore ho individuato soltanto presso la Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II di Roma 1 esemplare de Il Nettuno componimento drammatico di Antonino Mirello, e Mora Accademico Fucinante edito in Messina per i tipi di Giacomo Mattei nel 1657 [operetta di 62 [6] pagine del formato in 12°].
14 - G. G. TRISSINO, La Italia liberata da' Gothi, Roma 1547 e Venezia 1548: questa I edizione ebbe pubblicati a Roma i primi 9 canti ed a Venezia i restanti 18.
15 - Il poema del Mirello Mora risulta composto di 8 canti, per un totale di 358 ottave, corrispondenti a 2664 versi. I canti presentano il seguente numero di ottave: canto I (43 ottave), II (43), III (40), IV (49), V (42), VI (43), VII (34), VIII (64).
16 - Come erudito di indubbie qualità Aprosio ha il genio, peraltro non comune, di saper negare affermando. Per qualche sua comodità intellettuale egli ha risolto nel 1673 i contrasti col Mirello Mora -come detto sorti in quanto detrattore del suo Giovanni Ventimiglia- e lo sta senza dubbio 'usando' (è proprio il caso di dirlo) come suo referente, dalla Sicilia e non. Costui peraltro gli procura libri gratis e, essendo un bibliotecario onesto oltre che di grande spessore, Angelico non si esime certo dall'elencarlo tra i benefattori della sua "Libraria": A. APROSIO, La Biblioteca Aprosiana..., cit., p. XXX. Eppure, come ho scoperto -con una certa suggestione, anche- leggendo più volte le opere edite e non d'Aprosio, sostanzialmente, ancora nel 1673 e nonostante l'ufficiale avvicinamento, Angelico parla in maschera del Mirello Mora: cela cioè letterariamente la sua sostanziale avversione per il letterato messinese, usa abilmente l'ingannevole arma dell'affettazione ma, a ben leggere, continua a presentarlo quale un "Pigmeo", come quell'autore insignificante, che aveva sprezzantemente trattato nel suo passato di critico.
Questo non si nota tanto dai riferimenti ai contrasti intellettuali tra Giovanni Ventimiglia e Antonino Mirello Mora: qui si legge solo il falso obbiettivo, la ragione pregressa ma ormai apparentemente datata e superata di quell'avversione aprosiana per il nano, quindi il Mora, che osò contestare il gigante (sic!), cioè Giovanni Ventimiglia (Ibidem, p.431).
Questa di p. 431 vuol apparire solo apatistica menzione di un giudizio di qualità che è caduto in prescrizione: ma che comunque pesa sul Mora, e in modo ben poco apatistico, come un macigno!
E' invece proprio quando, per la prima volta, ci presenta nel suo repertorio bibliografico (Ibidem, p.430) il Mora, che l'Aprosio, certo in modo erudito, lo aggredisce con una pesantezza la quale fa pensare come il frate sia refrattario (cosa peraltro storicamente appurata), nella realtà e contro i pregi del buon critico, a rivedere certi suoi giudizi: ed è questo uno dei suoi gravi limiti strutturali, il non sapersi ravvedere o correggere.
Aprosio, forse anche condizionato da sudditanza culturale verso i toscaneggianti notoriamente ostili al Mirello Mora, appunto scrive "Antonino Merello Mora lo Sterile Accademico Abbarbicato. In questo luogo hor viemmi di quello scrisse Plinio nell'Ep. 5 del Lib. 3, pag..., favellando del Zio. Dicere etiam solebat: nullum esse librum tam malum qui qui non aliqua parte prodesset".
Aprosio vuol far credere di citare a braccio, quasi non abbia a disposizione un'edizione di Plinio il Giovane (sic!): e questo suo è un artificio letterario, egli vuol far credere che la peculiarità del giudizio, il quale gli torna alla mente senza la solita meticolosa preparazione logica, dipende proprio dal fatto che fra i tanti autori di cui scrive, ha scritto e scriverà proprio il Mora, con le sue opere, riesce ad evocarla. La traduzione è senza dubbio una sferzata sul Mirello Mora del 1673:"...era solito dire [Plinio il vecchio] che in definitiva non esiste nessun libro così brutto o malvagio da non poter essere utile almeno in qualche sua parte". E sarà un caso ma subito di seguito, tra tante altre possibili opere, Aprosio menzione proprio l'Arcadio Liberato: penso proprio che chiunque abbia letto o tuttora legga con una certa attenzione e conoscenza degli antefatti sia facilmente in grado di trarre le sue conclusioni sulle convinzioni effettive del criptico Aprosio a riguardo del letterato messinese (resta comunque aperto un grande interrogativo: sarebbe interessante apprendere le eventuali reazioni, del Mora -che sciocco certo non era- come dei suoi amici o simpatizzanti. Ma questo dipende dalla casualità delle ricerche e dall'aiuto di qualche ricercatore magari più fortunato o più capace di chi scrive queste note!).
17 - Per quanto controllata quando deve esser data alle stampe o comunque esplicitata alla pubblica ragione (anche per rispetto formale dell'abito religioso indossato) la misoginia di Aprosio è indiscutibile e non di rado cade nella volgarità, specie nelle opere moralistiche ed a forte tasso ironico e satirico. Che le donne per lui siano sempre poca cosa a fronte degli uomini lo si legge un po' ovunque nelle sue opere. "Che cosa siano le donne. Un mazzo di carte" detta, in maniera emblematica e quasi programmatica, il capitolo XXXVII dell'edita La Grillaia. Curiosità erudite di Scipio Glareano, Accademico Incognito, Geniale, Apatista e Ansioso, Conte Palatino..., Napoli, per Novello de Bonis, 1668. Mediamente la donna, i suoi tanti vizi (soprattutto sensuali) e le sue scarse virtù pubbliche informano tutta l'opera di Scipio Glareano (che è uno dei molteplici pseudonimi usati da Aprosio per pubblicare le sue opere): vedi anche B. DURANTE, Le buone ragioni della morale (la vanità, il vizio, la donna-femmina nell'opera di A. Aprosio) in L'Aprosiana di Ventimiglia, una biblioteca pubblica del seicento, a cura di Serena Leone Vatta, Ventimiglia, 1981, pp. 39 - 54.
Bisogna altresì rammentare che il pensiero più genuinamente antidonnesco del frate rimase inedito per le difficoltà riscontrate nel superare la censura ecclesiastica. Dal manoscritto E.II.35 della Biblioteca Universitaria di Genova, ove si conserva il testo della primitiva Grillaia peraltro già allestita per la stampa, Antonietta Ida Fontana, con la riconosciuta lucidità critica e filologica, ha quindi estrapolato 4 grilli (o capitoli), sveltamente espurgati dall'edizione del 1668 per una licenziosità pesante, che si riscontra nei titoli stessi: "Se sia più libidinoso il maschile o'l sesso donnesco" (grillo 18), "Se dalle vergini o dalle vedove gli abbracciamenti virili vengano ambiti" (grillo 19), "Se alcuno ascritto nel ruolo degli Agami inciampasse (il che Dio non voglia) in qualche errore intorno il sesto precetto del Decalogo, qual rimedio per ovviare a gli scandali, e per salvare la reputazione" (grillo 27), "Del nome Becco o Cornuto, che si suole attribuire a coloro che hanno le mogli adultere, del rimedio per non esserlo" (grillo 30): A. I. FONTANA, Il P. Aprosio e la morale del '600, note in margine a 4 grilli inediti in "Quaderno dell'Aprosiana", V. S., I (1984), pp. 9 - 39. Nonostante qualche meditata ed acuta indulgenza della Fontana (ibidem, p. 14) la postazione intellettuale dell'Aprosio non manca di travalicare il lecito gusto dell'erudizione trasgressiva, scadendo globalmente in una dimensione tematica pregna di volgarità. Nel grillo 18, tra fumose e dotte citazioni, molto latino e parecchi esempi recuperati (con una maniera affettatamente scherzosa ma che può in effetti solo intristire) da tanta letteratura inquisitoriale, peraltro già superata in senso sia ideologico che giuridico nel tardo '600, si giunge al limite d'affermare che parecchie donne son tanto libidinose da farsi streghe onde potersi congiungere carnalmente nei Sabba coi demoni, notoriamente dotati di un membro virile più grande di quello dei semplici mortali e soprattutto biforcuto, in grado quindi di procurare a siffatte cattive femmine un godimento impensabile. Certo anche queste, nel meccanismo satireggiante aprosiano, sono postulazioni che derivano da acquisizioni erudite, certo altri letterati oltrepassarono, e con decisione, questa soglia del decoro ma bisogna pur dire che il frate intemelio, non poi tanto lontano dal Brusoni e dai veneziani Incogniti, tutto sommato detiene una visione complessa e distorta della sensualità e soprattutto della sessualità femminile. Contestualmente è invece da riconoscere che il Mora, per quanto provenga da un orizzonte culturale decisamente maschilista e nonostante qui esprima i connotati della sua postazione non con lo strumento lubrico della satira ma tramite il mezzo necessariamente più pensoso del poema epico, più volte suggerisce l'idea di accostarsi con maggiore riguardo e pudore, ma anche senza ipocrisia, al difficile universo della sessualità: per esempio, pur avendone il destro (canto VII), visto che la concubina Rosastra proprio con la sua sensualità rovina l'usurpatore Costanzo, il poeta [che avrebbe potuto costruire un programma poetico, pesantemente colorito, avverso questa concubina letteraria e in grado di coinvolgere tutte le donne di cattivi costumi in una voragine di pesantissime condanne poetiche, soltanto commisurate ai reati della sensualità colpevolmente gestita) cero sottolinea il dramma implicito nell'abuso dei sensi e le colpe lussuriose di Rosastra (che non reputa comunque inferiori a quelle di Costanzo) ma verso la fine del poema (canto VIII) riconosce proprio a Rosastra una certa qual grandezza, soprattutto una dignità che ben travalica le meschinerie di tanti uomini cortigiani intorno a lei, che corre decisa ad affrontare il proprio fato mortale, dediti solo a fughe vergognose innanzi ai vincitori.
18 - L'accanito sicilianismo linguistico del Mirello Mora non trova sostanzialmente riscontro nel poema. Nelle stanze del proemio è semmai proposto un tecupero archeoletterario di un'impresa dei messinesi a favore dell'imperatore d'Oriente Arcadio che l'autore intende riscattare dall'oblio, rivendicando il possesso di nozioni invero misconosciute e forse prodotte nell'operetta sua, al momento introvabile, Glorie di Messina. I testi ufficiali e di provata serietà, partendo dalla Decadenza e caduta dell'Impero romano del Gibbon (edizione italiana del 1968 per gli editori Avanzini e Torraca, V, pp. 79 - 114), in vero nulla dicono su questi supposti eventi che sarebbero accaduti durante il discusso regno di Arcadio, figura storicamente alquanto diversa in senso negativo da quella proposta dal Mora nel suo poema.
19 - Aprosio non poteva restare insensibile a questa sequenza poetica e tematica del Mora. L'erudito frate intemelio dedicò infatti molto spazio al tema dell'uso (che la sua morale consentiva) e a quello dell'abuso (ritenuto riprovevole) degli "Specchi": ne redasse un ampio capitolo nella parte II, a lungo rimasta inedita, dello Scudo di Rinaldo (capitolo I, dedicato all'astrologo ed astronomo genovese Tomaso Oderico: il manoscritto è custodito nella Biblioteca Universitaria di Genova, "fonfo Aprosio - MS.E.II.37). Buona parte dell'inedito capitolo, con le relative integrazioni critiche e coi collegamenti alla sfera del morale e del metafisico, si può leggere ora in B. DURANTE, Angelico Aprosio il "Ventimiglia": le "carte parlanti d'erudite librarie", in "Quaderno dell'Aprosiana - Nuova Serie", I, 1993, pp. 51 - 53 e pp. 92 - 103.
20 - Nell'età intermedia la scienza medica ufficiale nacque quando l'ordine dei medici si riunì in corporazione: grazie al lavoro degli umanisti era stata recuperata una certa parte del pensiero medico dell'antichità, una parte che per un lato rimandava al pensiero di Aristotile ma che comunque aveva presenti i lavori di altri scienziati, medici ed eruditi tra cui Pedanio Dioscoride, Sammonico (le cui ricette in particolare furono trasmesse attraverso i secoli), Galeno, Celso e Plinio Seniore (il cui pensiero terapeutico, insieme a quello di Dioscoride, influenzò profondamente la stesura di Bestiari ed Erbari.
La malattia era codificata su canoni rigidi, tramite l' immagine pieno/vuoto che faceva trasparire altri doppi: secco/umido, dentro/fuori, uomo/donna.
La marginalità era lo status sia delle donne che degli umili (rapportabili biologicamente al sistema ghiandolare, il più periferico, con maggiori possibiltà di contrarre una malattia), la centralità costituiva lo status dell'uomo specie se di alta condizione (immaginato come il cuore e gli organi più interni ritenuti meno esposti ai contagi temutissimi dal XIV sec.). Secondo questo schema le donne rientravano nella categoria dei deboli e dei diversi: la malattia era un assedio agli organi principali e la putredine degli umori si manifestava con la febbre prodotta dal loro bollire intorno al cuore. Solo M. Ficino, contro la medicina ufficiale, propose di attrarre il male alle estremità, facendo scendere il veleno in piaghe aperte dal cerusico o chirurgo. Nel Medioevo e in contesto popolare il termine medico indicava spesso quelle buone donne che si trasmettevano, di madre in figlia, ricette che rendevano la medicina naturale un affare praticato fra mura domestiche. Queste sapienti, più diffuse nei villaggi che in città, godevano di popolarità, come ostetriche, guaritrici e consigliere. Erano depositarie del sapere popolare, conoscevano le proprietà delle erbe, calcolavano gli influssi della luna su piante, animali, ed uomini: anticipando in qualche modo la scienza freudiana, interpretavano i sogni. Le terapie proposte non erano in sintonia con la medicina scientifica né coll'erboristeria ufficiale: talora v'era collisione fra una ricetta popolare che consigliava di far mangiare all'ubriaco una mela cruda al mattino, bevendo insieme un bicchiere d'acqua, ed il principio medico che faceva consumare cibi amari ed aspri sì da attenuare l'effetto del vino. Nel rimedio contro il vaiolo si ricorreva alla ricetta dalla medicina empirica di avvolgere il corpo del malato in pelle d'animale scuoiato di fresco; secondo la medicina scientifica del '500 si ponevano le parti malate a contatto con pelli di animali, meglio se cuccioli, squartati di fresco, per sanare in dermatologia i tessuti corrosi da lebbra o erisipela. Vedi: B: DRANTE - F. ZARA, Figliastri di Dio - "a coda d'una bestia tratto", Ventimiglia - Pinerolo, CooperS, 1996, sotto voci "medici - medicina".
21 - [A. APROSIO], La Biblioteca Aprosiana...,cit., pp.158 - 159: vi si riporta un aneddoto che collega Aprosio con il riscatto religioso e morale di un potente pubblicamente avvilito da una passione sensuale alquanto discussa. I paragoni con la vicenda di Costanzo annichilitosi per amore di Rosaura sono forse eccessivi ma non esenti da qualche connessione umorale. Aprosio "...dovendo un anno (1643) andare a predicar nella Pieve di Cadoro, trovandosi ivi Castellano il suo Pietro Michiele, ebbe fortuna di guadagnarlo, cavandolo dalle mani del Diavolo, nelle quali si ritrovava per il concubinato di quella che nelle sue poesia chiama Donna, il cui nome vero era Apollonia, ferrarese di nascita, allevata nella propria casa, per lo spazio di XII anni e più, unendogli egli medesimo nel Castello di Cadoro alla presenza del Pievano, che con altro servì da testimonio, col sacramento del matrimonio...Questo matrimonio fu fatto con la maggior segretezza del mondo; con tutto ciò le Donne, Madre e Figliola, che per molti anni l'avevano sospirato, non si puotero astenere di darne qualche sentore. Che però mentre il Ventimiglia giù per lo fiume Piave se ne calava alle basse, da donne, che indi pur s'eran partite, non mancò di sentirsi dare più d'una benedizione". Aprosio citerà ancora in alcune lettere, seppur con la solita prudenza, questa sua duplice impresa: quella di aver salvato dal peccato, ma anche dal pubblico dileggio, il nobile Pietro Michiel (il celebre marinista autore dell'Arte degli Amanti) e di aver 'redento' una concubina, quel tipo di donna da lui solitamente assimilata a forze demoniache. Non è certo impossibile intravedere qui le citate consonanze con il fantastico episodio del Mora: per vie diverse i due letterati (ma il Mora con maggior ralismo e senza tirare scopertamente in ballo il diavolo) affrontano del resto un tema, di crescente rilevanza sociale nel '600, quello della sempre maggiore dipendenza morale di uomini relativamente anziani e potenti da giovani donne di bassi natali ma certamente più furbe di loro: atteggiamento di vita destinato a diventare una costante comica un secolo dopo, nell'opera del Goldoni, ma che, fuori del teatro, sarà anche causa di tanti contrasti e della rovina o permutazione di parecchi aviti patrimoni, di sicuro per l'iniziativa di belle avventuriere ma anche con l'indubbio contributo di uomini maturi e vanitosi quanto creduloni e sciocchi.
22 - G. BENZONI, Un'ancora di salvezza per l'intellettuale del seicento in Il gran secolo di Angelico Aprosio, [a cura di S. Leone Vatta], Sanremo, 1981, pp. 135 - 148. Mancano dati in merito ma, scorrendo le ultime opere del Mirello Mora, si nota un suo distacco dalla tradizione editoriale meridionale ed un inserimento dapprima in quella bolognese e poi soprattutto in quella di ambito veneziano. Non è certo da escludere che, anche per essere pienamente accettato nel contesto di una tradizione linguistica prevalentemente toscaneggiante e soprattutto permeata da una formidabile esperienza accademica, il Mora finisca programmaticamente per imporre una decelerazione ai suoi slanci campanilistici (in campo linguistico - letterario) e ideologici onde assuefarsi prudentemente a certe norme comportamentali proprie, per esempio, di quegli accademici veneziani degli Incogniti di cui, con molti altri importanti personaggi, l'Aprosio è un convinto partigiano: la pubblicazione a Venezia di quasi tutte le ultime opere del Mora pare realmente espressione di questo ipotizzato approccio culturale ed è fuor di dubbio che, pur essendosi sciolta l'Accademia degli Incogniti nel 1660, il suo fascino, la fruttuosa produzione ideologica e letteraria, la fiorente arte tipografica che ne fu alimentata, lo stesso carisma degli aderenti sopravvissuti continuano a rappresentare una potente calamita intellettuale per quei letterati che, come sembra voglia fare il Mora (e come certo fa l'Aprosio, assolutamente legato a tale ambito erudito) aspirano, magari anche solo verso la conclusione della loro attività, ad un saldo riconoscimento extraregionale.