informatizzazione a cura di B. Durante

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foto ex archivio privato M. De Apollonia







[Nella narrazione dell'anno 1564, in merito all'assalto dei Barbareschi a Taggia, nella sua Cronaca, il Padre Calvi scrive:]
"Poiché questo anno fu denso di sventure per il nostro convento a causa dell'arrivo dei pirati, ho stimato opportuno narrare quanto ho spesso sentito raccontare da mio padre Sebastiano Calvo che era presente a quell'epoca e combattè (io ero ancora un bambino) e ho inserito qui brevemente anche quanto raccontavano altri uomini degni di fede. Le cose dunque andarono cosi .
Tre nefandi uomini meditavano l'estrema rovina delle nostre terre e con l'aiuto di altri malvagi convinsero Luzzalino capo delle galee africane di venire, con il maggior numero possibile di navi, a depredare le nostre popolazioni, che secondo loro erano molto ricche, indifese, di facile conquista. Quel rinnegato diede loro ascolto e radunato un gran numero di Arabi con circa 20 galee e l' aiuto di eretici francesi, approdò più volte a questi mari con grande paura dei nostri abitanti.
diressero verso il nostro convento che i monaci fuggendo avevano lasciato aperto. Subito i Turchi non osarono entrare pensando che vi fosse un tranello; dopo aver atteso un po' tentarono di entrare dalla parte del giardino e ruppero l'inferriata. Alla fine entrarono nel nostro convento e portarono via tutti i letti, lenzuola e tovaglie, sia di lana, sia di lino. Non il secchio e le conche perché il terziario fra Antonio li aveva gettati nella cisterna. Portarono via il pane, il vino, la farina e tutti i commestibili.
Dalla biblioteca rubarono la Somma di S. Tomaso; rovinarono alcuni codici di libri di leggi, altri ii portarono via: da ciò si capisce che insieme ai Maomettani che non conoscevano quei libri c'erano anche dei Francesi assai dotti, che compirono quelle malefatte. Non salirono sul campanile perché di là non portarono via nulla.
Dalla chiesa invece rapirono ciò che ritennero utile, cioè i libri corali che, come ho già detto, ora sono a Tolone; lasciarono l'Antifonario dell'Avvento perché allora non era ancora finito ed era sulle tribune del coro. Rubarono tutte le campanelle, fracassarono gli altari, anche quello dei santi martiri Lorenzo, Sebastiano e Stefano, costruito in laterizi, ma dorato e finemente decorato; bruciarono il pulpito; rovinarono con la scure un crocifisso nella faccia, petto e mani, come si può ancora vedere sebbene sia stato riparato. Ruppero e asportarono le canne dell'organo fabbricato da poco; spaccarono il tabernacolo costruito in bianchissimo e lucidissimo marmo; come pure con pari empietà le pile per l'acqua bendetta, fatte con il medesimo marmo, e le lapidi dove erano ricordati Andrea de Bonifaciis per la cappella di S. Vincenzo, di Luca Roggero per la cappella di S. Maria Maddalena delle quali lapidi ricordo di aver visto i frammenti.
Si scagliarono anche contro l'altare del SS. Rosario che era circondato da colonne di marmo bianco, e le ruppero con la solita furia, e le ridussero a pezzi. Ritornata la calma tutto fu riparato dai frati e con le elemosine; qualcosa subito, altre cose non molto tempo dopo.
Uccisero anche un maiale e lo collocarono in mezzo alla chiesa, come un cadavere umano, in derisione delle cerimonie religiose.
Il doge e i governatori della nostra repubblica avvertivano che il pericolo era grandissimo quando la potente flotta si faceva vedere. Il podestà e gli Anziani e le autorità diedero ordine che le cose più belle e preziose della nostra chiesa fossero trasferite in città per non essere facile preda dei nemici; come anche le scale e il legname che poteva essere utile ai nemici per l'assalto alla città.
In molti luoghi [annota ancora nella sua Cronaca il Padre Calvi trattando dell'assalto dei Barbareschi a Taggia] furono collocate le sentinelle e fu fatto tutto il possibile per la difesa della città. Il 10 giugno quella potente flotta si presentò ai nostri, e nella località detta l'Arma, dove è quasi un porto, sbarcarono sulla spiaggia un grosso gruppo di loro armati, in località dove non potevano essere visti dai nostri e dove stettero nascosti. Le galee invece finsero di navigare verso l'alto mare e di allontanarsi. Invece al mattino del giorno 11 comparvero di nuovo e sbarcarono altri uomini in località La Ciappa, i quali si riunirono a quelli lasciati nella notte nei nascondigli. Tutti insieme diressero verso il nostro convento che i monaci fuggendo avevano lasciato aperto. Subito i Turchi non osarono entrare pensando che vi fosse un tranello; dopo aver atteso un po' tentarono di entrare dalla parte del giardino e ruppero l'inferriata. Alla fine entrarono nel nostro convento e portarono via tutti i letti, lenzuola e tovaglie, sia di lana, sia di lino. Non il secchio e le conche perché il terziario fra Antonio li aveva gettati nella cisterna. Portarono via il pane, il vino, la farina e tutti i commestibili.
Dalla biblioteca rubarono la Somma di S. Tomaso; rovinarono alcuni codici di libri di leggi, altri ii portarono via: da ciò si capisce che insieme ai Maomettani che non conoscevano quei libri c'erano anche dei Francesi assai dotti, che compirono quelle malefatte. Non salirono sul campanile perché di là non portarono via nulla.
Dalla chiesa invece rapirono ciò che ritennero utile, cioè i libri corali che, come ho già detto, ora sono a Tolone; lasciarono l'Antifonario dell'Avvento perché allora non era ancora finito ed era sulle tribune del coro. Rubarono tutte le campanelle, fracassarono gli altari, anche quello dei santi martiri Lorenzo, Sebastiano e Stefano, costruito in laterizi, ma dorato e finemente decorato; bruciarono il pulpito; rovinarono con la scure un crocifisso nella faccia, petto e mani, come si può ancora vedere sebbene sia stato riparato. Ruppero e asportarono le canne dell'organo fabbricato da poco; spaccarono il tabernacolo costruito in bianchissimo e lucidissimo marmo; come pure con pari empietà le pile per l'acqua bendetta, fatte con il medesimo marmo, e le lapidi dove erano ricordati Andrea de Bonifaciis per la cappella di S. Vincenzo, di Luca Roggero per la cappella di S. Maria Maddalena delle quali lapidi ricordo di aver visto i frammenti.
Si scagliarono anche contro l'altare del SS. Rosario che era circondato da colonne di marmo bianco, e le ruppero con la solita furia, e le ridussero a pezzi. Ritornata la calma tutto fu riparato dai frati e con le elemosine; qualcosa subito, altre cose non molto tempo dopo.
Uccisero anche un maiale e lo collocarono in mezzo alla chiesa, come un cadavere umano, in derisione delle cerimonie religiose.
Che dire poi degli oggetti lasciati dai frati in chiesa o in sacrestia per l'uso quotidiano? Non lasciarono assolutamente nulla: rubarono le cose a loro utili, ruppero, calpestarono, annientarono le inutili.
Della rovina di questa povera casa (cioè del convento di S. Domenico) ho detto abbastanza. Ora parliamo della città.
I nemici si piazzarono nelle località dette La Croce, il Chiazzo e Fascia Longa dilagando dappertutto come cavallette. Con frecce e schioppi di cui erano bene armati e pratici tentarono cacciar via i nostri dalle mura e dai bastioni. Ad un certo Antonio Oliverio, figlio di Ludovico, uomo di alta statura, portaron via dal capo il berretto rosso con una freccia. Dalla fortezza presso il nostro convento, con grandinata di frecce e colpi di schioppo quasi cacciaron via i nostri soldati, tirando dal monte superiore in altezza a quel vicino bastione.
Allora il nobile Pietro Curio, capitano di quel bastione corse subito ai ripari: comandò di sistemare nei punti più elevati dei materassi di lana, dentro i quali si conficcarono le palle senza danno dei nostri soldati.
Accadde anche che un turco mentre cercava di abbattere la croce di legno piantata sulla strada che conduce al nostro convento, fu ucciso da una palla sparatagli con un fucile dalla rocca inferiore, presso il fiume. La stessa cosa successe nella rocca superiore; infatti quando un nostro combattente, detto Battolo Roggero, figlio di Nicola, vide un turco che con grandi colpi tentava di spaccare le porte della torre che è in Fascia Longa (anticamente chiamata dei Bosio) egli con un suo archibugio che aveva una canna lunga sette palmi, lo colpì e lo getto a terra giù dalla scala; e difatti poi trovarono il muro sporco di sangue, soprattutto dove era caduto dopo la ferita.
I nostri dunque con armi da fuoco sparate dalle fortezze dette del Convento, della Biscia, dalla rocca superiore e dalle mura fecero sì che i nemici, dopo circa sei o sette ore di combattimento, ritornassero alle loro galee. Essi persero in morti e feriti molto di più di quanto avevano guadagnato nella depredazione del nostro convento.
Molti dei loro infatti morirono sebbene abbiano portato via i loro cadaveri e li abbiano sepolti in luoghi segreti. Del nostri solo uno fu ferito ad una gamba, trafitto da una freccia, mentre, troppo curioso di vedere i Mori, si era scoperto, offrendosi alla vista dei nemici. Fu ferito ma guarì.
Dopo la loro partenza furono trovate molte macchie di sangue in particolar modo sul muro del nostro oliveto dove un nemico stava seduto e poteva esser visto dalla vicina rocca; di là Vincenzo Cappone figlio di Domenico, detto Stanga, lo buttò giù; là si trovò il muro sporco di sangue e il suolo inzuppato.
Vi è una casa di campagna, nel luogo detto Colletto, ora con vigna posseduta da Giovanni Battista Reghezza figlio di Lorenzo, nella quale i nostri trovarono gran quantità di scudi e stracci sporchi di sangue: i nostri pensarono che i Turchi avessero là trasportato e medicato i feriti.
I Mori dunque scrutarono da lontano ma attentamente il ripido monte, la valle profonda, e le mura ben fortificate e rinunziarono a tentare la scalata sebbene avessero portato molte scale per l'espugnazione della città".

[Continuando nella narrazione dell'anno 1564, in merito all'assalto dei Barbareschi nella sua Cronaca il Padre Calvi offre importanti considerazioni non soltanto sullo schieramento dei difensori di Taggia (tra cui dimentica solo Raffaello da Cremona, capitano mandato da Genova per sottolineare i cui meriti gli Anziani del Comune di Taggia gli rilasciarono una "Lettera lodevole di congedo", tuttora custodita all'Archivio di Stato di Genova in "Sala Senarega", n. 472) ma contestualmente anche sulla CINTA MURARIA e sul SISTEMA DI FORTIFICAZIONI a disposizione di questi stessi combattenti]:
" Prima di terminare il racconto di questa battaglia stimo opportuno riferire i nomi di coloro che con incoraggiamenti, consigli, e con le armi hanno difeso la patria.
Avrei voluto ricordare tutti, affinché di tutti restasse un doveroso ricordo ma chiedo scusa se ho tralasciato qualcuno; ho però ricercato con cura e come meglio ho potuto di indagare su tutto affinché non si perdesse la memoria di sì grandi uomini.
Per primo l'illustrissimo Giovan Battista Aneto, cittadino di Genova, podestà di questa città, a nome del Senato genovese.
Tra i sacerdoti secolari ricordiamo: il canonico Marco Bergonzo, il canonico Giovanni Arnaldo, i reverendi Michele Pastorello, Bernardo Gandolfo, Nicola Rocca Bigliera curato, Bernardo Gastaldo, Guglielmo della Volta, Bernardo Barla, Vincenzo della Volta e Francesco Martino.
Tra i chierici: Andrea Ferrario, Pietro Ardizone, Giovanni Anfosso, Antonio Vivaldo, i quali tutti poi divennero sacerdoti; e Giovanni Anfosso che ancora vive.
Del nostro convento: reverendo padre priore Ludovico de Revello del marchesato di Saluzzo, Serafino Trencherio di Dolcedo vicepriore, Pietro Curio lettore, Marco da Briga scrittore di libri corali, Gerolamo da Garessio, Domenico Sappia di Sanremo, Benedetto Panizza di Badalucco lettore del convento, Gerolamo di Riva di Taggia, Clemente Rosso, Vincenzo da Triora. Chierici e novizi: Giacomo da Dolcedo, Giovanni Pelizia, Vincenzo Roggero, Domenico Curlo e Giovanni Battista Arnaldo.
Conversi e terziarii: Costante e Dionisio da Triora, Giacomo e Filippo conversi, e Antonio tutti e tre da Badalucco, Tommaso Ardizone terziario.
Questi sono i nomi di coloro che ho potuto raccogliere: se ritroverò qualche altro degno di essere ricordato lo aggiungerò affinché nessuno sia privato dell'onore dovuto.
I più importanti laici e aiutanti per consiglio e mezzi furono i seguenti: illustrissimo Battista Aneto podestà genovese; gli Anziani Vincenzo Ardizone dottore in medicina, Cosma Fiormaggio dottore in medicina, Gregorio Ardizone dottore in medicina, Giovan Battista Curlo fu Pietro dottore in legge, Sebastiano Pastorello dottore in legge, Giovanni Antonio Madio dottore in legge, Francesco Novaro dottore in legge, capitano Giuliano Vivaldo fu Enrico, comandante del presidio della piazza, Vincenzo Bergonzio collega del citato Giuliano; Giovanni Ardizone fu Benedetto, Fabiano Asdente fu Domenico, Michele Visconte, Giovanni Ardizone fu Tommaso, Benedetto Littardo, Nicola Gastaldo, i fratelli Vincenzo e Ludovico Vivaldo, Vincenzo, Francesco e Bonifacio Pasqua, Vincenzo Arnaldo, Francesco Arnaldo, Vincenzo e Francesco Reghezza, Nicola Calvo fu Angelo, Sebastiano Oddo, Vincenzo Cappone, Bartolomeo Baccino droghiere, Benedetto Ardizone.
I Capitani e i combattenti e gli altri inservienti (a guardia delle FORTIFICAZIONI DI TAGGIA parzialmente leggibili in questa STAMPA) furono: Antonio Lombardo, Pietro Curlo, comandante del BASTIONE che è proprio vicino al nostro convento, Antonio Cappello comandante della FORTEZZA presso la via della Biscia, Benedetto Priore comandante presso la fortezza superiore vicino alla sua casa, il capitano Antonio Berruto che comandava la fortezza chiamata della Beata Vergine dove è il convento dei Padri Cappuccini, Pietro Giovanni Rosso notaio comandante della FORTEZZA DELLA SS. TRINITA' vicino a casa sua della quale era vicario Domenico Reghezza detto il Mozzo, che è ancora vivo, Benedetto Anfosso Formica comandante della ROCCA detta Al Gombo, Benedetto Violetta combattente alla ROCCA dove termina l'acquedotto distrutto verso i mulini, Francesco Bianco combattente alla FORTEZZA detta Calegaria presso il fiume.
I comandanti e custodi delle PORTE: alla PORTA DELL'ORSO v'era il comandante Antonio Arnaldo fu Bartolomeo, con lui suo fratello Pietro Giovanni, Battista Brizio fu Pietro, Francesco Pastorello, Onorato Novaro, Giovanni Calvo.
Alla PORTA DEL PRETORIO: Vincenzo Bianco e suo fratello Bartolomeo, Pietrino Pasqua, Francesco Revello, Giovanni Revello, Vincenzo Visconte. Alla PORTA INFERIORE DI S. LUCIA: Ludovico Pastorello chirurgo, Giovanni Vivaldo, Paolo Vivaldo, i fratelli Battista e Giacomo Vivaldo solitamente detti Fornerii.
Alla PORTA SUPERIORE DI S. LUCIA:: comandante Michele Priore, Sebastiano Calvo mio padre, Francesco e Giovanni e Vincenzo Pastorello, Paolo Roggero e suo fratello Antonio figli di Nicola.
Alla PORTA DI BARBARASA: presso la fontana: Vincenzo Roggero e altri della sua famiglia.
Alla PORTA BEATA VERGINE IN CANNETO: Pietro Brizio, Bartolomeo Martino, Vincenzo Crespo, Vincenzo Vivaldo, Giovanni Rosso, Lorenzo Lancia, Alberto Sasso.
Alla PORTA CHE CONDUCE A CASTELLARO: Battista Reghezza, Vincenzo Reghezza e Costantino suo fratello, Antonio Calegario, Battista Vivaldo Madala, Giovanni Anfosso detto il Manzo.
Alla PORTA CALLEGARIA presso il flume vi era comandante Lazzaro Callegari e suo fratello Pietro Luigi, Gerolamo Revello, Vincenzo Revello Bacciola, i fratelli Galeotto e Antonio Bosio, e molti altri che erano vicini alla propria casa.
Nella PIAZZA GRANDEa l comando di dodici caporali vi erano trecento soldati pronti a tutti i casi; e affinché il loro ricordo non scompaia ho deciso di ricordare qui i nomi di coloro che ho potuto rintracciare per non privarli dell'onore che meritano soprattutto percheého constatato che furono tutti uomini illustri e degni di ogni onore; Vincenzo Tirocco signifero, Benedetto Orengo e Giacomo Pignasco tamburino, Luigi Marino con i suoi figli Pietro e Giovanni, Domenico Cappono detto Stanga e i suoi figli Battista e Vincenzo, Vincenzo Revello con i suoi figli Tabiasco e Sebastiano, Battista Baccino, Pietro Giovanni Orengo droghiere, Antonio Colombino, Francesco Oggerio Muto, Sebastiano Reghezza con i suoi quattro figli Bartolomeo, Battista, Giacomo e Pietro, Giovan Luigi Oliverio con i suoi figli Giovanni, Antonio, Vincenzo e Bernardo, Antonio Rolando stagnino, Antonio Rolando notaio, Battistino Vivaldo detto Giacheto, Antonio Bertarello con suo figlio Giovanni, Antonio e Lazzaro Bertarello fratelli, Pietro Giovanni Bertarello, Bonifacio Anfosso arciere, con suo figlio Antonio che ancora vive, entrambi di piccola statura ma di forte animo, Domenico Cappone lanaiolo, Vincenzo Anfosso Casella con i suoi figli Giovanni, Battista, Angelo e Ludovico, Simone Reghezza detto Oste, Giovanni Reghezza detto il Mozzo con i figli Domenico e Giacomo; Antonio, Filippo, Domenico, Giorgio e Nicola Boero, Vincenzo Cagnazio, Vincenzo Anfosso, con i suoi figli Lorenzo, Teramo e Bartolomeo, Giovanni Arnaldo fu Vincenzo, Giacomo Bilio e Giuliano suo fratello, Andrea Luca e Giacomo Vivaldo Malizia, Antonio, Francesco, Vincenzo Costanzo Della Volta, Bartolomeo, Bacino, Ludovico Ferraro, Gregorio, Bartolomeo figli, Andrea, Nicola e Giacomo de Ferrari, Vincenzo Garino, Vincenzo Tardivo, Giorgio Tardivo, Vincenzo Ardizone con tre figli, Pietro Ardizone, Battista, Giacomo Bertono, Giovanni e molti degli Anfosso.
Della devastazione del convento fu informato il reverendo padre provinciale il quale fece trasferire altrove i novizi; li accompagno il rev. p. Clemente Rosso.
Tutto il popolo specialmente i nobili e i più ricchi, dolenti per tante disgrazie, provvidero alle angustie dei frati.
Frattanto il p. priore Lodovico Revello esortava in ogni modo i Tabiesi a edificare un FORTE che servisse a tenere lontani i barbari. Molto fu discusso su tale argomento, ma egli un giorno presa una croce si portò processionalmente coi frati nella regione detta Arma e scelto un luogo posto sopra la grotta, dov'è l'oratorio della SS. Annunziata, cominciò a portare sulle spalle dalla vicina spiaggia i sassi per la costruzione della rocca. L'esempio fu imitato da tutti, uomini e donne, senza distinzione di classe, e quel fortino fu mandato a compimento, come ancor oggi lo vediamo per nostra tranquillità.
Tra gli abitanti di Bussana e quei di Taggia sorse per tal fatto una lite, perché quelli dicevano che il fortilizio era costruito sul loro territorio; ma il serenissimo Senato giudicò che questa fortezza si doveva fare in quel luogo, che era il più opportuno sia perché posto sopra un promontorio e protetto da numerose scogliere, sia perché impediva ai pirati di fare approdare le loro triremi nel sottostante luogo che e quasi un porto naturale. Solo deliberò che avuto riguardo alle ragioni del popolo di Bussana, questo doveva pagare la quarta parte della spesa della costruzione.
Scavando per la nuova fortezza si trovò nelle fondamenta di antiche rovine la seguente iscrizione scolpita su bianco marmo reso però rossiccio per il contatto della terra:
All'eterna vittoria dell'invitto Glove Ottimo e Massimo;
Marco Valerio Caminate, restauratore del castello.
Autoicus
.
Questa lapide fu posta sopra la porta del nuovo fortino insieme a un'altra, alquanto maggiore di dimensioni, del seguente tenore: I Tabiesi oppressi da frequenti incursioni dei Turchi, per avere, se stessi e i posteri, una sede più sicura, costruirono questa fortezza dedicata alla SS. Annunziata, e vi aggiunsero una lapide molto antica, il 25 marzo del 1565.




Sulla CINTA MURARIA è importante il lavoro di U. Martini (L'acropoli e le mura di Taggia in "Rivista Ingauna e Intemelia", VI, 1951, n.3-4, pp.60 sgg.) ma le osservazioni più dirette sono quelle di Padre Calvi nella sua seicentesca Cronaca qui proposta nella traduzione di Nilo Calvini:
"Circa nel 1540 i Tabiesi, atterriti per le incursioni dei Barbari (Barbareschi), pensarono di fortificare con mura la propria città e cominciarono dalla parte più esposta a pericolo, quella esposta verso mare, presso il Borgo Ratto, dove ancor oggi si dice Porta dell' Orso, su cui è dipinta l'immagine di Maria Vergine, con il Figlio in braccio, quale protettrice della città.
Da una parte e dall'altra vi sono le insegne della Serenissima Repubblica di Genova e della stessa città di Taggia e in mezzo un piccolo stemma con un'aquila bianca con le lettere P.C.M. che significano: Paolo Cicada di Monteleone, il quale, quando vennero fatte queste cose, era podestà di Taggia ed esse furono messe in suo onore e memoria.
E così a poco a poco, lavorando per molti anni, i Tabiesi estesero le mura fino al torrente chiamato Besanzone che discende dalla fortezza dove è la cittadella, fino in basso nella zona detta
al Gombo. Nella località chiamata Barbarasa, vicino al fonte detto il Roglio costruirono una porta, una seconda non lontano dalla chiesa di S. Sebastiano e la terza Al Gombo presso il fiume dov'è l'uscita alle zone di pianura, verso il ponte e Castellaro; e così rimase per molti anni.
Gli abitanti però della zona di S. Dalmazzo e quelli più sotto dove si dice
Le Fascie, vicino alla chiesa della SS. Trinità, protestarono e quasi fecero una ribellione perché volevano che fosse cinta di mura anche quella parte di città che è circa un terzo dell'abitato; anche il Senato ("di Genova") così ordinò e allora anche quella parte fu fortificata come si vede ancor oggi: e tutta la CERCHIA fu completata verso il 1563; perciò dobbiamo ringraziare tutti per questo grandioso lavoro benefico...