cultura barocca
Inf. e testo a c. di B. E. Durante Vivere nella paura di pirati, banditi e guerre ma scoprirsi inutilmente asserragliati contro la Morte Nera in ville guardate da Scavezzi

Dal punto di vista letterario (tenendo anche conto del terrificante effetto emotivo avuto su tutti dal reiterarsi di Epidemie di Morte Nera o Peste Bubbonica) quanto in
questo passo delle sue opere scrive sulla condizione umana del suo tempo, sulla sua fragilità e di quanto sia effimera la vita sia dei "grandi" quanto degli "umili" oramai contro antiche e inique credenze
con indubbia quanto sentita partecipazione Pier Francesco Minozzi (che in fondo anche ad Aprosio -il quale ben l'aveva recepita facendola sua specie dei ai tempi delle grande peste a Genova del 1656-'57 -aveva segnalato l'importanza di quella cronachistica "del grande quanto dello spicciolo che riguardava il breve passaggio dell'uomo sulla terra" e di cui una letteratura minore e in gran parte dispersa dagli Acta Diurna Populi Romani ai primi "Fogli Volanti e Ragguagli della loro epoca" andava attirando curiosità crescenti) ha risentito di parametri estesi che corrono, ma è solo un esempio, dal Battista fin allo scherzo lugubre quanto mordace del Giudici che paragona la vita umana alla vacuità e insignificanza dell' "aria di un petto": spesso si dimensiona in effetti questa angoscia della fine terrena a personaggi carismatici e si antepone tra tanti Papa Alessandro VII mentore di Maria Cristina ex Regina di Svezia ma per quanto il Pontefice partecipasse di questo stato d'animo epocale al punto di tenere una bara nella propria camera il suo non era comportamento eccezionale al segno che qual memento mori cioè della morte inevitabile si teneva da più persone un cranio, specie di personaggi illustri, sul proprio scrittoio, destino che toccò al grande Cartesio.
Aprosio partecipa parimenti di questo globale incupimento della vita e in ciò è emblematica una lettera-capitolo dello Scudo di Rinaldo II laddove (scrivendo ad Ippolito Marracci il Capitolo VI trattante Sull'uso di nominare i morti a tavola condannata dal corrente "Galateo" e -cosa da Angelico ampiamente riprovata- anche dai Religiosi) "il Ventimiglia" rammenta invece come l'usanza di parlare spesso della morte e di tenerne una di Lei testimonianza sempre in vista ascenda a tempi lontani e di maggior fede = visto egli scrive che gli huomini dopo una breve passeggiata nel mondo hanno da abbandonarlo con tutto ciò che in esso si rimira: costumanza quella del memento mori che l'erudito frate ventimigliese s'onora sia ancora rispettata dai "suoi" Agostiniani Scalzi e dai Carmelitani di S. Teresa.
Aprosio stesso partecipa di questa condizione emozionale e lo fa più volte da moralista nemmeno lesinando di rimproverare apertamente i predicatori anche se da uomo risulta sinceramente toccato dagli eventi come quando per esempio lascia intendere quanto sia importante lasciar memoria scritta di se stessi cosa che però contestualmente gli fa nemmeno tanto occultamente invidiare quanti avendo un figlio possono contare su di lui per procrastinarsi nel tempo, sia nella carne che nelle opere = cosa che per i Superiori sarebbe parsa se divulgata conferma del suo spirito di "Poeta" come di lui si diceva ma nel senso di frate bizzarro, imprevedibile ed abbastanza restio a certe regolistiche ma che ce lo rende uomo in maniera piena tanto nella grandezza che nella debolezza e che proprio per questo quasi commuove come
quando in una lettera al Magliabechi parla del suo successore alla biblioteca Domenico Antonio Gandolfo quale di un figlio
E forse , come spesso gli accade, magari anche per questa sua varietà di atteggiamenti figlia d'un animo irrequieto e mai veramente domato di rimpetto a queste tematiche su vita e morte Aprosio pare contorcersi e destreggiarsi anche angosciosamente senza mai però approdare ad una postazione definitiva, in qualche modo sempre sospeso tra spirito e carne, sì da parer ambiguamente oscillare seppur con indubbia emotività tra ansia di moralismo religioso e rinvigorimento della fede da un lato quanto tra voglia se non ambizione di lasciar di se stesso ricordo imperituro in terra = al segno addirittura (per cercare idealmente di sfuggire all'oblio della morte) di ricorrerere in fine ad espedienti quasi di alchimia letteraria e figurativa la cui chiave di volta risiede come pressoché tutto del suo agire nella funzione eternatrice della sua biblioteca (in qualche modo organizzata e gestita dalla lotta contro l'oblio e qual "tromba" e salvaguardia della cultura, sua ed altrui) simboleggiata nel suo ritratto di cui è possibile una lettura filosofica e in quel
nec mors
che pare un urlo contro i furti del tempo ma che si rivale anche se non soprattutto urlo, invocazione e speranza di giammai, nemmeno da morto stare
"lontano da quei suoi libri, da quel suo materiale culturale ed antiquario che raccolse a prezzo di sacrifici enormi e che fu in definitiva il suo amore supremo sulla terra"



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