INDICE ALFABETICO-TEMATICO
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A-UN ROMANZIERE GENOVESE ED UN SUO LIBRO: LA "GRANDEZZA DELLA REPUBBLICA NEL '600"
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1-IL ROMANZIERE: BERNARDO MORANDO
2-IL ROMANZO: "DELLA ROSALINDA
3-IL ROMANZO E LA SUA TRAMA
4-NEL ROMANZO L'ESALTAZIONE DI "GENOVA MERCANTILE E MARINARA"
5-SCONTRI DI PENSIERO ECONOMICO: DIFFERENZA FRA "NEGOZIAZIONE" E "MERCATURA" (I "GRANDI LIGURI" QUALI "NEGOZIATORI" E NON QUALI "MERCANTI")
6-SPLENDORE DI GENOVA E DEL DOMINIO LIGURE NELLE PAGINE DEL ROMANZO
7-SPLENDORE DI GENOVA MONUMENTALE: LE "GRANDI MURA NUOVE"
8-SPLENDORE MORALE DEI GENOVESI E DEI LIGURI
9-SPUNTI DEL DIBATTITO POLITICO-ECONOMICO GENOVESE TRA "GIOVANI" E "VECCHI"
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1-LA CONVERSIONE D'UN CALVINISTA INGLESE MATURATA A TAGGIA
2-LA CONVERSIONE D'UN CALVINISTA INGLESE VIENE SANCITA DA UN "ATTO DI FEDE" E DA UN'ABIURA" NELLA CATTEDRALE DI VENTIMIGLIA
3-UN VICARIO VENTIMIGLIESE DELL'INQUISIZIONE ORCHESTRA UN ATTO DI FEDE
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La ROSALINDA [ La Rosalinda, in Opere del Conte Bernardo
Morando, IV, Barochi, Piacenza, 1662]
del genovese BERNARDO MORANDO (Sestri Ponente 1589 - Piacenza 1656) è oggi un romanzo senza lettori e i pochi esemplari superstiti sono quasi pezzi da museo.
La sua fortuna nasce e tramonta nel '600, epoca in cui vive splendori di
effimera celebrità una tradizione romanzesca i cui prodotti, respinti dalla posteriore critica letteraria, sono ormai difficilmente reperibili, costringendo il bibliofilo ad
autentiche indagini tra i meandri di biblioteche,
scaffali, cataloghi d'antiquariato e
no [D. BIANCHI, B. Morando prosatore. B. Morando verseggiatore, in Atti dell' Accademia Ligure di Scienze e Lettere, 1959, pp. 110-22 -
E. CREMONA, Bernardo Morando, poeta lirico
drammatico e romanziere del Seicento, Piacenza, 1960 - D. CONRIERI, Il romanzo ligure dell' età barocca, in Annali di Sc. Norm. Sup. di Pisa, IV, 3, 1974, pp. 1074-88
- Romanzieri del Seicento, a. c. di M. CAPUCCI
Torino, 1974, pp. 44-48, 529-572].
L'autore è nel suo secolo, una figura letteraria e sociale di un certo
rilievo. Di origini mercantili si trasferisce a Piacenza nel 1612 per
sbrigare alcuni oneri commerciali
della famiglia; il soggiorno diviene
col tempo stabile residenza nella
città che, con Parma, costituisce il
ducato dei Farnese.
l meriti mercantili, politici e soprattutto letterari lo
rendono gradito ai duchi Odoardo
(1622-1646) e Ranuccio II (1646-1694)
che lo gratificano nel '49 dell'ascrizione alla nobiltà locale, investendolo nel 1652 del feudo di Montechiaro.
La Rosalinda non è l'unico suo lavoro ma è certamente il più
noto e, per alcuni versi, quello che meglio riflette la collocazione ideologica dell'autore. Il racconto, tra instancabili digressioni moralistiche, narra le peripezie di due giovani cattolici, Rosalinda figlia di Sinibaldo, mercante genovese trapiantatosi a Londra, e Lealdo, che fuggono dall'lnghilterra antipapista dove, dopo il sovvertimento delle istituzioni religiose, si sta concretizzando anche
quello dei valori etico-sociali attraverso la condanna legale del re Carlo I.
L'urto colle brutture di una storia alterata dalle violenze umane porta i due giovani, dopo innumerevoli avventure, separazioni e ricongiungimenti, a rifiutare il disordine morale di un mondo che non comprendono ed a cercare la quiete delI'animo nella pace dei silenzi claustrali.
Indubbiamente il cattolicesimo e il connotatore primario delI'opera, ma non sotto la specie di un fideismo dinamico, di matrice controriformista, che presuppone autentiche crociate contro l'idra protestante.
Di tale religione il Morando recupera piuttosto la funzione consolatrice, la capacità cioè di portare un'anima sgomenta, attraverso una lenta meditazione, alla quiete spirituale o, nei casi estremi, a quella felicità tutta interiore ed individuale che offre la vita del convento.
Ma è soprattutto assente nel romanzo lo spagnolesco ribrezzo di casta, non
raro tra gli intellettuali del tempo, per il mondo operoso dell'alta e media borghesia; anzi, secondo il Morando, la sublimazione sociale consiste in una nobiltà che sappia mantenersi vitale attraverso attività commerciali di vasta portata.
In un dialogo tra il barone Crisauro ed il conte Edemondo l'autore codifica
la condizione esistenziale dei Genovesi come teorici di attività commerciali planetarie sui parametri del concetto di Negoziazione che ben distingue da quello, spesso confuso col primo, dalla Mercatura.
Quest'ultima è arte bassa in quanto viene esercitata
da chi compra nella sua patria quelle merci ch'ivi ritrova, con disegno di rivenderle a maggior prezzo, il che ridonda solamente in beneficio particolare, senza utile alcuno
anzi molte volte con assai danno del pubblico.
La prima è al contrario arte nobilissima in quanto chi la esercita, commerciando con ogni angolo del mondo, arricchisce le città e i popoli, dà lavoro a cantieri e
e porti, veicola cultura e religione ma soprattutto svolge una funzione mirabile poiché "unisce le più distanti Provincie e tramandando all'una parte del Mondo ciò che all'altra è
soverchio, si rende, con vicendevole beneficio, benemerito al Mondo tutto".
Una nobiltà dalle connotazioni alto borghesi è quindi per il Morando l'unica vera nobiltà, allusivamente contrapposta nel romanzo alla "fumosa e mal nodrita Nobiltà" che, priva di potere economico, I'autore stesso vede illanguidirsi nel mondo,
astratto dalla storia, della corte dei Farnese.
Questo peculiare status sociale di Negoziante aggiunge l'autore viene esercitato da nobilissimi personaggi in Genova... senza scapito della piu fina Nobiltà e senza esclusione dal governo".
La città di Genova è l'autentico nodo del romanzo; tutto si muove ad essa,
ogni situazione la presuppone nella sua inalterabilità in quanto solo in essa si può realizzare l'ideale esistenziale dei personaggi, che è poi la coscienza stessa del Morando.
La Repubblica è l'oasi di pace in cui
l'animo tormentato si rasserena, è il
simbolo monumentale della libertà
oltre che dell'ordine sociale e religioso, e la testimonianza dei successi di una classe dirigente che ha reso grande la città attraverso
l'esercizio della .Negoziazione.
Lo
stesso viaggio dei protagonisti verso Genova si snoda attraverso località che costituiscono tappe storiche per i traffici della Repubblica:
Inghilterra, Portogallo, Spagna,
Majorca, Sicilia, Candia, Rodi, Costantinopoli, Africa settentrionale.
La
geografia del romanzo è morale; il
territorio della Repubblica è infatti il
luogo ideale in cui tutti i valori si ricompongono nel loro ordine naturale.
Solo dopo una visita alle
chiese di Genova il calvinista
Edemondo (nel romanzo) trova la forza di meditare
criticamente sulle sue scelte religiose.
Edemondo, dopo
un naufragio sul lido di TAGGIA,
viene soccorso dal buon frate cappuccino Egidio che lo cura, senza prevenzioni, nel fisico e nello spirito,
portandolo ad una conversione, la cui apoteosi si concretizza nella Cattedrale di Ventimiglia
e quindi sempre in territorio genovese.
Nel VI cap. del romanzo, nel corso della dolororsa convalescenza di Edemondo e quando ormai il calvinista inglese ha maturato la scelta di una riconversione alla fede cattolica-romana si legge:"...Queste ed altre sì fatte cose, con somiglianti e più efficaci parole [poco prima il Morando ha trascritto una serie di esempi di pura spiritualità cattolica fatti pronunciare dal padre Egidio] corroborò il padre Egidio con tali ragioni, autorità ed esempi, che ne rimase Edemondo persuaso del tutto, ed uscito dall'intricato labirinto di mille dubbi, aprì gli occhi, con la Grazia Divina, al chiaro lume della verità della fede, risuolutissimo di abiurare gli errori dell'eresia e ricovrarsi nel grembo amico e sicuro della Chiesa Romana. E per dare il primo saggio di questa generosa risoluzione, dopo fatti i convenevoli preparamenti, procurò con una generale Confessione d'ogni sua colpa scancellare le macchie della passata sua vita.
Con giubilo inesplicabile trionfò il P.Egidio della vittoria, premio della quale era un'anima, ch'assai più vale d'un regno, e fu il trionfo un devotissimo rendimento di grazie, unitamente con gli altri Padri, alla divina bontà d'acquisto così pregiabile
Per l'esecuzione del proponimento del convertito Edemondo si discorse tra quei divoti religiosi [di Taggia] del luogo, del tempo e del modo.
Il luogo (per la CONVERSIONE) fu destinato nella Cattedrale di Ventimiglia, città indi poco discosta, il tempo, torto che Edemondo fosse in termine per consiglio del medico di licenziarsi dal letto, il che speravasi fra pochi giorni: e il modo con quella maggiore solennità che per loro possibile fosse.
Volle il P. Egidio prender egli stesso di ciò l'assunto. Licenziatosi pertanto con teneri abbracciamenti dal figliolo nuovamente da lui con lo spirito generato, e raccomandato a quei padri particolarmente alla continua assistenza del P. Raffaele, andò a prendere quanto era d'uopo. Si trasferì a REZZO luogo non molto quindi lontano ove trovavasi come in proprio suo Feudo il Marchese Nicolò suo fratello: ivi da Genova egli poco prima s'era ridotto, per ischermirsi dagli estivi colpi, in quel luogo che situato sopra di un colle può godere i freschi fiati di Zefiro lusinghiero, anche sotto noiosi latrati di Sirio ardente. Informatolo del successo [la conversione di Edemondo] lo pregò ad onorare quella funzione [un ATTO DI FEDE ed un'ABIURA] con la sua presenza, non solo, ma insieme con la sua liberalità, onde più splendida e più solenne ne apparisse. Quel Signore, che alle nobilissime prerogative del sangue accoppiava la nobiltà e la generosità dell'animo, più promise di ciò che fosse richiesto e più mantenne che non promise. Si trasferirono ambidue Vintimiglia, ed ivi concertato il tutto col Vescovo di quell'antica città, prelato, e per pietà di costumi e per grandezza di meriti, degno d'eterni encomi, fecero apparare superbamente la Chiesa, preparare solenne musica e disporre molte altre cose, a rendere più ragguardevole fa festa.
Fu forse favorevole che si trovasse allora in quella città, ch'è sua patria, il Padre Angelico Aprosi, accademico eruditissimo, predicatore insigne, scrittore di libri famosi, soggetto per eccellenza di dottrina, per soavità di costumi, e per cento altri titoli, uno dei più ragguardevoli di cui si vanti oggidì la nobilissima religione agostiniana, il quale agli inviti del Padre Egidio accettò di buona voglia il carico di accompagnare con una sua predica adattata al soggetto la solennità di quel giorno.....
E finalmente quel giorno giunse; il Morando ne scrive al cap.VII del romanzo:
":...L'accompagnarono (Edemondo ormai guarito) alla città di Ventimiglia, ove il medesimo Padre Egidio col fratello
e con altri Signori lietamente l'accolse. La mattina, che all'arrivo di lui
successe, riempitasi di spettatori la Cattedra [per CATTEDRALE], e tapezzata di finissimi arazzi e risonante di musicali concerti, il conte Edemondo, prostrato sopra un
tappeto a terra, davanti il Vescovo, ABIURO' con alta e chiara voce tutti gli errori di Calvino e recitato poi il simbolo degli Apostoli e la parafrasi
sopra di quello di Atanasio Santo fece solenne profession della fede.
Indi ergendosi in piedi, con atto magnanimo e risoluto, pose la destra sul
pomo della sua spada e giurò di mantenere e col ferro e col sangue, se
d'uopo fosse, la verità infallibile della Fede, sotto l'obbedienza di Santa
Chiesa Romana. Ciò finito si sentì risonare a piena musica il Rendimento delle grazie secondato dall'applauso e dal giubilo dei Circostanti, ma
piu dagli affetti del Convertito.
Indi il Padre Angelico Aprosio con Elegantissima orazione, esaltando la Fede, abbattendo l'eresia e lodando il candidato suggellò quella nobilissima azione... [pare quasi scontato che nel romanzo di Bernardo Morando l'erudito Aprosio sanzioni con un'orazione l'abiura da tenersi nella chiesa cattedrale della città: non per fervore inquisitoriale ma per leggere i libri proibiti dall'INDICE: il frate, dopo il suo rientro in Ventimiglia (1648), fece a lungo pressione presso il S. Uffizio, il Sacro Palazzo ed il potente Cardinali Capizucchi, Maestro del Palazzo, onde ottenere la carica di Vicario dell'Inquisizione nella Diocesi di Ventimiglia. Non è dato sapere in quale preciso momento Aprosio abbia lasciato l'incarico che non dovette gradire -lettera di Michele Pio Rossi del 30-IX-1662 in Biblioteca Universitaria di Genova, fondo Aprosio, "lettere dei corrispondenti"- per l'onere che comportava: forse per l'obbligo, spiacevole al suo animo, di investigare davvero su soggetti reali, con la necessità di vagliare delazioni e denunce oltre che di espletare certe procedure e non, come forse sperato, con la molto più tranquillizzante facoltà di solo leggere, recensire, criticare e segnalare opere ed autori (alcune sue riflessioni di ordine inquisitoriale si trovano comunque all'Aprosiana nel volume, appunto d' argomento inquisitoriale, Quarto Sinodo Istoriale di P. Brizio, Alba, s.t., 1672, p.126, 146, 152)].
Ed è ancora un cittadino di Genova (che comunque vien preso ad ESEMPIO DELLA PIETA' RELIGIOSA E DELLA FEDE DEI GENOVESI di nome Aurelio... ricco assai
dei beni di fortuna e non meno ricco
di quei dell'animo che, con religioso zelo ed umana pietà, accoglie a
Loano il povero Lealdo, ferito dopo
uno scontro navale coi Barbareschi.
Ma è soprattutto in Genova che Rosalinda, finalmente salva dalle persecuzioni, ritrova la serenità e matura la scelta del convento.
L'amore del Morando per Genova
traspare continuamente e le pagine
che dedica alla città sono piene
di ammirazione; anche
quando si volge al presente l'autore
scarta dalla medietà e si
fa trasportare dall'entusiasmo,
formulando un disegno idilliaco e
metastorico ma sicuramente affascinante proprio per quel tanto di
fazioso ed allusivo che egli spruzza
qua e là con compiaciuta e patriottica partigianeria.
La narrazione è collocata nel IV libro o capitolo e si
presenta come una sorta di viaggio
turistico attraverso la città del buon
conte Edemondo, coraggioso difensore dei protagonisti:
"Ora con dominio più ristretto, ma
gloriosa non meno, stende dal fiume Varo alla Macra i confini che formano il Ligustico Regno. Regno cotanto unito che abbracciando sette
città e grandissimo numero di castella e di terre e d'abitazioni, che si
dan mano l'una con l'altra, sembra
una sola città continuata e lunga
duecento miglia; sì popolato che
può armare quando il bisogno richieda settantamila e più combattenti, sì bellicoso che già fu corte
magnanima ad aguzzar il valor dei
Romani ed ora a propugnacolo invitto
alla fronte d'ltalia contro le invasioni dei Barbari.
Al Regno della Liguria, ch'ella domina in terra, s'aggiunge il mare quel
della Corsica, isola, che allontanandosi da Genova verso il Porto
di Venere sessanta miglia ne circonda di
giro più di trecento. Richiude questa nel seno cinque città e moltissime altre popolazioni a segno tale che da questo solo Regno può
estrarre a suo pro la Repubblica ben
. altri ventimila feroci e valorosi soldati.
Stende fra terra i termini al suo dominio di là dai giochi dall'Appennino e dilata nel Mondo i confini al
suo nome di là dal termine dell'oblio
doviziosa d'oro, d'armi e di genti,
Madre ed altrice d'Eroi non men di
prima e signora assoluta di due floridi Regni.
Ma il più bel Regno ch'ella possiede è la sua libertà sostenuta con
tanta rettitudine e prudenza, con tal
pietà e valore, che in vano han tentato più volte con machine infernali
alcuni dei suoi concittadini, fattisi
suoi ribelli non che inimici aperti, di
scuoterla, d'abbatterla, di concul-
carla, posciachè sempre e dalle insidie interne e dagli insulti stranieri
con evidentissimo patrocinio fu preservata e garantita dal Cielo.
Onde
ora in mezzo delle tempeste, tra
quali ondeggia fluttuante l'Europa,
ella mantiensi quieta e fiorida,
quanto mai fosse, col corpo della
dovizia colmo in tra le braccia e con
gli ulivi della Pace verdeggianti alle
tempie.
Tutte queste ed altre più distinte informazioni gli amici Inglesi, informati appieno di Genova, ove già da
molti anni erano abitatori, andavano a Conte Edemondo giornalmente
partecipando.
Lo condussero a vedere le Nuove
Mura della città, che possono adeguare le più gran moli e più antiche
di Roma. Mura così ampie ch'abbraccian in fra terra diece miglia di
giro, cosi artificiose che passando
su per la schiena di monti alpestri
possono servir dilizia a i corsieri
ove prima servian di balza alle fere,
forti e munite così che si rendono
inaccessibili quasi a gli augelli per
aria, non ch'ai nemici per terra, e
fabbricate con tale facilità e prestezza che non sarebbe credibile, se
fabbricate non fossero a giorni nostri e alla nostra veduta.
Osservò poi il nuovo Molo, che già
nell'entrare in Porto avea veduto.
Stupì quanto intese esser opera di
pochissimi anni quella gran machina, che altre volte sarebbe stata
fabbricata di più di un secolo: quella
machina, che fondata su la rena e
fabbricata nell'acqua, è però così
stabile e forte che mette freno all'ire
più orgogliose del mare e impone
legge alle furie più impetuose dei
venti.
Lo condussero a vedere quelle nuove strade formate da numero innumerabile di palagi. Ouei palagi che
sembrano tante Reggie, ove i marmi che gli adornan di fuori, tolgon
il pregio a quei di Paro, ove negli
arazzi che di dentro li vestono, cadono all'opra le sete e gli ori, e ove
le suppellettili preziose e i gran vasi
d'oro e d'argento possono adeguarsi a gran tesori.
Ammirò Edemondo
sì gran dovizia e gli parve che fossero le miniere dell'India traslate in
Genova.
Lo guidarono altresì nelle chiese
principali ed osservò non tanto la
superbia incomparabile dei marmi,
delle pitture e degli ori quanto la frequenza numerosa del popolo, il
concorso nobile dei cittadini, la pietà
esemplarissima delle donne, la qualità incredibile che intese farsi delle
elemosine, la purità dell'ecclesiastico
culto e la maestà degli uffici divini.
Di tutto ciò rimase sì edificato, che
cominciò in se stesso a credere più
altamente della cattolica romana fede e concepir qualche seme d'inclinazione a ridurvisi in grembo.
Da poi che gli ebbero fato goder le
vedute della città, vollero partecipargli quelle ancor delle ville, se ville
possono dirsi quelle a cui cedono
di superbia, d'abitazioni e di numero d'abiatori molte città.
Vide San
Pier d'Arena e Cornigliano da Ponente; Albaro e Marassi da Levante
e tante altre deliziosissime ville in
ogni parte d'intorno che, gareggiando l'una con l'altra, gareggiano tutte insieme con gli Orti favolosi delle Esperidi e portano un certo che di
sembianza del Paradiso Terrestre.
Ammirò la sontuosità dei palagi, le
Galerie ornatissime di famose
pitture e di statue. Vagheggiò con meraviglia l'amenità dei giardini, I'ampiezza dei laghi, i giuochi delle fontane, l'artificio delle uccelliere, i boschi amenissimi di cipressi e di
lauri, la fragranza degli aranci e dei cedri in copia tale che se ne formano
selve non che spalliere,
la perpetuità dei fiori che, a dispetto del Verno,
formano in molti di quei luoghi una
continua Primavera, I'esquisitezza
dei frutti così vari e tanti che, precorrendo e seguitando la consueta
stagione e spuntando l'uno quando
lìaltro matura, formano un'Autunno
perpetuo.
Così dan quivi e palagi e
piante e fiori e frutti a vedere ed a
toccar con mano in effetto quelle
magiche meraviglie, che dei Giardini d'Armida favolosamente descrisse quel gran Poeta [Torquato Tasso].
Vide in ristretto
ed ammirò Edemondo in quei luogi
quanto di vago, di giocondo e
d'ameno può nell'ldea l'umano desiderio formarsi di villerecce delizie".
Queste pagine non sono però solo
il risultato di un nostalgico
amore; esse risentono anche di ulteriori interferenze.
La scrittura del
Morando implica infatti delle
meditazioni connesse sia a precisi codici ed istituti letterari che alla Weltanschauung storica dell'autore.
L'ideologia che guida la Rosalinda risulta organizzata secondo un sistema di valori riconducibile ad una
particolare visione filosofico-politica della serie storica cui appartiene
il letterato genovese. Dalle sequenze narrative esaminate si possono enuciare alcuni concetti chiave, sublimati a livello di assiomi: nobiltà delle grandi operazioni commerciali, tranquillità, unità e
compattezza del territorio repubblicano, potenza e libertà dello Stato, suo splendore architettonico e monumentalità delle opere pubbliche.
A ben guardare l'IDEA POLITICA DELLA MODERNA REPUBBLICA DI GENOVA cui allude il Morando, comporta la ripresa del programma politico di rinnovamento portato avanti in Genova
da un gruppo di aristocratici innovatori, i GIOVANI, e così riassunto dal
loro capo carismatico Anton Giulio
Brignole Sale: "vincere le aperte invasioni di Regii eserciti, troncare i
capi congiunti d'interne vipere, provar i cittadini tanto liberali in dar il
loro per formar diademi di muraglie invitte alla libertà... difendere possessi antichi, assumere dignita nuove".
La sfortunata guerra del 1625
contro i franco-piemontesi, il graduale abbandono dal '27 dell'alleanza spagnuola, la congiura di G.C.Vachero del '28 pongono la Repubblica nella necessità di trovare una
nuova linea politico-economica e di difendere una difficile neutralità.
Contro i .Vecchi, la parte aristocratica meno propensa a rinnovare, i
Giovani, intraprendono una battaglia propagandistica volta a ridare
credibilità alle istituzioni dello Stato, anche attraverso la realizzazione
di grandi opere pubbliche. In particolare l'invito a superare i vieti particolarismi equivale al tentativo di organizzare uno Stato compatto e pacifico, diretto da una classe dirigente capace di opporsi, con mezzi e
fermezza, alle violenze dei potentati
europei [C. COSTANTINI, La Repubblica di Genova
nell'età moderna, in Storia d'Italia, Torino
1978,IX, pp. 265-295 (G.B. VENEROSO, Genio Ligure risvegliato, Peri, Genova, 1650)].
II richiamo antiquario alla
ripresa dell'attività mercantile e marinaresca, trascurata in seguito ai
vantaggiosi legami con la Spagna, è egualmente un proclama di emancipazione da ogni pericolosa tentazione per ulteriori parassitismi economici; secondo il Brignole Sale, "ora
che quei nuovi modi di ricchezza
son venuti meno, non rimane che
..richiamare l'antica professione la
seconda volta, mentre son tornati
quei bisogni che c'indussero la primiera ad esercitarla".
Il centro di questo dibattito politico è, in Genova, l'Accademia degli Addormentati
che, grazie ai legami con altri nuclei
culturali quali l'Accademia veneziana degli Incogniti, veicola nel mondo degli intellettuali italiani le idee dei Giovani. sotto forma di libelli.
II Morando, a stretto contatto con gli Incogniti, non ha evidentemente
difficoltà a fruire di tali documenti; date le origini mercantili egli fa proprie con entusiasmo quelle ipotesi di lavoro e le trasferisce nel romanzo.
Anzi, valendosi delle peculiarità delI'istituto letterario di cui dispone e
dell'effetto di straniamento proprio
della funzione poetica del linguaggio, egli dà alla teoria politica una
sistemazione pratica all'interno del romanzo ed offre al lettore lo spettacolo smagliante di una Repubblica
nuova in cui è restaurata la concordia socio-economica e la forza
politica si esprime esteticamente
attraverso la serenità del paesaggio e l'emblematicità
di una monumentale architettura
pubblica e privata.
Sotto questa prospettiva di indagine il dialogo del libro II, sulla Mercatura di due sorti.., tra il barone Crisauro ed il conte Edemondo diviene esemplare e si rivela, a livello connotativo, come la riproduzione di un
dibattito possibile in Genova tra un Vecchio, ottuso difensore di superati previlegi, ed un Giovane teso a convincerlo dell'unica coscienza
esistenziale (quella del commercio su vasta scala) che possiede le latenti energie di rifare grande la Repubblica.
Nel romanzo la condanna morale di Crisauro, il perfido pretendente di Rosalinda che aspira più
alle ricchezze del padre che alle bellezze della figlia,
è la condanna di quella nobiltà illanguidita
ed economicamente impotente che,
per conservarsi un ruolo di fittizia
dignità, non esita a piegarsi ad ogni
sorta di ripieghi e di riprovevoli
espedienti .
Le MURA (in ogni epoca sorvegliate dalle truppe della Repubblica) cui allude il Morando nella Rosalinda sono un ampliamento e potenziamento del circuito murario di cui parlano gli Statuti criminali del 1556 al CAPITOLO 90 .
Le MURA CINQUECENTESCHE son indicate in una carta di A. Lefréry, Disegno della nobilissima città di Genova (1581, "Romae, Claudi Ducheti formis"): nela carta si riconoscono alcuni punti chiave del potente sistema difensivo genovese come il Castellazzo, La Bastia di Parado, Le Forche.
Per i pericoli di un'aggressione dall'oltregiogo vennero istituite la NUOVE GRANDI MURA DEL '600 sotto la direzione tecnica di G.B. Baliani e
A. De Mari. L'originario progetto del '26
fu ampliato dal 1630; la nuova cinta era colossale e presupponeva, in casi di assedio, da dieci a tredicimila difensori. Secondo le fonti
ufficiali furono erette a baluardo della cattolicissima Repubblica contro l'eretico Gustavo Adolfo, in realtà dovevano tutelarla dai
nemici piu vicini e pericolosi: i Savoia.
Vi è però chi avanza la fondata ipotesi che valessero
da protezione dei cittadini contro possibili
sollevazioni degli abitanti della montagna di
Fascia e delle valli del Polcevera e del Bisagno.
Scrive G.A. Ansaldi: "sotto
pretesto di diffendere e cuoprire la città contro gli attacchi dei nemici, ma in effetti per impedire che li popoli delle valli vicine non si
sollevassero come piu volte han fatto.. "(cfr.
G.A. ANSALDI, Verità esaminata a favor del
popolo ecc., s.l., 1628, Orazione dimostrativa
e persuasiva ecc., Cfr. A.S.C.G., m.s. 58, Delle
forze di Genova, c.153).
Comunque le mura, l'acquedotto e il molo nuovo, come tutte le
opere pubbliche e private del tempo, sono il
simbolo monumentale di un nuovo corso politico volto a ridare lustro allo Stato, anche attraverso le grandi iniziative urbanistiche ed
architettoniche.