Il vallo già simbolo della grandezza di Roma fu alla fine abbandonato e nulla vieta di immaginare che dopo tante conquiste e tanta gloria in esso si siano intrecciate storie diverse e senza gloria se non una gloria che conserva le tracce di un'umanità dolente e senza retorica, delle sue miserie ed anche della sua disperata grandezza: Le formiche s'avventano contro il vallo o ciò che ne resta, Sento la buccina suonare, ma pare a tutti noi Siamo oramai gli ultimi guardiani di città di marmo Le formiche s'ingigantiscono, a migliaia, e s'arrestano poi I demoni, dagli occhi dipinti e sanguigni son vicini, Uno, grosso, dai rossi sporchi capelli irsuti, Dal grosso, senza avviso alcuno, s'eleva un urlo, Uno a cento saremo: una legione, o meno forse Egli si volge, misuratamente lento e quasi solenne: Sento la paura sciogliersi per tutto il corpo, compagna Non posso mostrare la mia viltà, debbo ingannare Come suo uso solleva il gladio pompeiano: che sognava Rimango fermo contro il povero, inutile raggio Rimane l'ordine ma con la disciplina sta la disperazione Lui mi sorride, pensa ch'io abbia salvato su un'oneraria, Le formiche divenute selvaggi unti d'ocra e feroci, Fra un istante sarò larva inutile nelle rovine del vallo, CLICCA PER UNA SEQUENZA DI ALTRE POESIE DI VARIO TEMA ED EPOCA CLICCA PER TORNARE ALL'INIZIO DELLA SEQUENZA DELLE POESIE CLICCA QUI PER RITORNARE ALLA HOME PAGE TEMATICA DI "CULTURABAROCCA"
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AL VALLO, UNA STORIA COME TANTE, ANCORA UNA VOLTA DI UN ALTRO CRISTO E DEL SUO NOVELLO GIUDA
Sciamano ora quali api multicolori, procedono a frotte:
Sembrano poi vermi, iridescenti sotto le transenne;
Come termiti divorano ogni cosa, tutto all'intorno
E vibrano, tinte di terra mai vista dagli agrimensori.
Un rumore cupo, di morte annunciata e greve.
Nel vento freddo, dalle nostre fila si sperde sordo
Il brandire ritmato di scudi, lance ed umboni:
Le baliste son tese sotto la pioggia, come gli uomini!
Senza abitanti, di fori deserti, di terme prive d'acqua,
Di teatri già in rovina ove soltanto tardano i duumviri
Meno vili e presso le fornaci stan le più vecchie puttane:
Un dio impotente sovrasta sacelli che furon gloriosi!
Di colpo, a guisa di fil rozze e sporche di melma,
E d'immondizia, da cui paion ruggire non uomini ma belve:
Idemoni ora gridano al vento, alla piogga, a noi tutti
Servi stanchi dell'Impero che muore, verso l'oblio.
Coprono l'umida radura senza paesaggio, sotto un cielo
Divenuto d'acciaio, s'accovacciano, si grattano, a dileggiarci,
In pose oscene ch'alcun dignitoso pittore giammai
Ardirebbe proporre nemmeno per l'insula più rozza.
S'avanza tra zolle e fango: alla fine pianta un'asta,
Ché da tutti ben si veda: e sull'asta la testa del
Grasso proconsole che da mesi or sono vantava
Il ritorno all'ombra dolente d'un qualche Cesare!
Diverso, d'una lingua rozza e barbara, che ignoriamo.
Ma che ci è ostile: nulla di buono prevede l'alba
Che occhieggia tra i rami secchi d'alberi malati,
Che dovrebbero proteggerci i fianchi ed i veliti.
Dell'ultima stancata legione: contro popoli
Convenuti da tramontana e pure dall'oriente
Fetido: per nulla impauriti dalle aquile e nemmeno
Più sbarrati dal vallo che inutile degrada e rovina!
- Mio capitano, guida e padre, ed anche Re,
Se mai un Re potesse ancora ergersi contro Cesare:
Ora vedo gli occhi grigi e stanchi, ancora più grigi
E tristi che mi salutano come quando bimbo giocavo.
D'un attimo mai pensato: quegli occhi ch' orgogliosi
Seguirono i miei trastulli e che furon sempre ragione
Di saldezza, a me solo indicano la via terrifica del dubbio:
Ora vorrei chiamarlo e sentire la voce che tutto risolveva!
Per ingannarmi: ma è la fine -presaga è l'ora- e lui, ignorandomi,
S'aggiusta il mantello e piega il consunto cimiero verso tutti:
E vedo, tra il metallo, i segni dei Picti e d'altre genti ancora:
I colpi parati nelle battaglie, nelle ultime vittorie e in queste sconfitte.
Donarmi. E' il segno, son dietro, subito dietro di lui:
Gli ufficiali, anche se pavidi muoiono senza fuggire, ancora
San dare l'esempio ai rozzi coscritti che male intendono,
La lingua di Roma: ragazzi di terre povere e selvatiche!
Del poco sole, che c'illuse d'un impossibile trionfo.
Un nitrito tradisce la cavalleria, nascosta fra immondi
Roveti, aggrovigliati su macerie dimenticate che furon ville.
Astati e triari mal coprono gli arcieri: nel nulla i dardi volano.
Triste compagna di noi, ultimo pasto delle formiche giganti
Che, domani, festeggeranno sui nostri corpi un regno nuovo,
Di Barbari, per cui le città son misteri e bordelli da evitare,
Fatte di marmi votati a lascivie ora ignorate ma un giorno ambite!
per Roma, il suo giusto bottino, quello che mi diede,
Come sempre fidandosi, per mia madre: mai saprà
Che lo svendetti in una taverna per l'illusione d'una fuga
In Gallia: vivendo non avrà tempo per sprezzarmi il giusto!
Non meno d'orsi d'anfiteatro ci sovrastano, ormai:
Ho la daga grondante di sangue: ma lo raggiungerò
Presto nella melma ove giace ora, cogli occhi grigi
chiusi per sempre: e mi vergognerò nei secoli a venire!
E glorioso servitore di Roma per un giorno solo:
Ma basterà questo dì finito nel coraggio, per una vita?
Mi aspetta?, capirà? o pur vacuo fantasma dovrò nutrirmi di vergogna,
Senza mai potermi sedere alla sua mensa, puranco nell'Averno?